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La mediazione come processo dialettico nella complessità sociale
Il problema definitorio della mediazione richiede una precisazione terminologica essenziale. Il termine mediazione non ha, infatti, un significato univoco; si possono enucleare almeno tre concetti diversi relativi ad altrettanto diversi settori giuridico-sociali.
La mediazione può esaurirsi in una mera tecnica di intervento sociale in cui un soggetto, "un terzo neutrale tenta, mediante scambi tra le parti, di permettere a quest'ultime (.), con il suo aiuto, una soluzione al conflitto che le oppone attraverso l'incontro ed il confronto.
La mediazione può emergere nella sua funzione di modalità di soluzione dei conflitti che si interseca con il processo penale nella prospettiva più ampia della giustizia riparativa.
La mediazione può porsi come un nuovo approccio alle dinamiche sociali che consente di prescindere dalla risposta giudiziaria in relazione a taluni conflitti interpersonali o tra gruppi.
La mediazione come forma di intervento giudiziario, che si inquadra nella prospettiva della restorative justice, non ha ancora ricevuto, nel nostro ordinamento, una vera e propria definizione giuridica. L'unico dato normativo relativo alla mediazione è rappresentato dall'art. 1754 del c.c., che indica come mediatore "colui il quale mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti" che ne facciano sospettare un ruolo parziale. Questa definizione normativa, tende a ridurre fortemente l'effettiva complessità di cui la mediazione è effettivamente portatrice, declassandola ad una semplice attività di interposizione tra più soggetti.
Se manca una cornice teorica e politica dentro la quale il discorso sulla mediazione è gettato (.) siamo destinati, prima o poi, a ridurla ad una semplice e inutile modalità di soluzione dei conflitti
La cornice teorica di riferimento ipotizzabile per la mediazione è prevalentemente di tipo dialettico e rimanda al suo fondante concetto di dialettica che da sempre svolge un ruolo fondamentale nella tradizione filosofica e giuridica europea.
A partire dalla concezione aristotelica[3] per arrivare a quella hegeliana si riconosce di vitale importanza come chiave di lettura della mediazione e, più generalmente, come paradigma epistemologico per l'intero sistema giuridico.
Sartre[5] e la filosofia contemporanea, con l'abbandono del metodo dialettico, passano il testimone al pensiero negativo del '900, in cui la dialettica viene privata dello spazio e del suo ruolo epistemologico.
Spetta a Merleau-Ponty[6] il merito di aver elaborato, a metà degli anni Cinquanta, un concetto che, incompatibile con gli assunti sopra evocati, rilancia un modello di "buona dialettica", fondamentale nel processo di conoscenza fra i due soggetti (coinvolti in un qualsiasi tipo di relazione) perché "ogni termine è la propria mediazione, esistenza di un divenire (.) che produce l'altro .
La mediazione è una forma di conoscenza che consente di ridefinire i rapporti tra poli distinti, così come la conoscenza è una forma di mediazione. Tale corrispondenza biunivoca fornisce il nodo della complessità del problema epistemologico fondante la mediazione.
La mediazione può, quindi, essere sommariamente definita come un processo dialettico di attivazione della conoscenza dove il termine "dialettico" implica che la conoscenza avviene in modo dinamico, nello spazio comunicativo intersoggettivo.[8]
Questa definizione mette in luce tre aspetti essenziali della mediazione:
la mediazione è una forma di conoscenza che si basa sulla comunicazione; l'aspetto comunicativo della mediazione è stato, però, offuscato dagli aspetti economici e utilitaristici che hanno fortemente appesantito lo spessore dell'istituto. La dimensione comunicativo-relazionale si rivela fortemente importante, in quanto "se non esiste rapporto con gli altri che attraverso la parola scambiata, se, in senso ancor più lato, non esiste altro rapporto con il mondo che attraverso il linguaggio, se, in questo significato essenziale, ogni parola è una parola indirizzata, allora la comprensione del dialogue e dell'entretenir si rivela filosoficamente basilare . Da ciò deriva che la società civile richiede non solo norme rinforzate da sanzioni ma abbisogna di un'educazione all'etica della comunicazione in grado di legittimare e confermare la validità delle norme.
La mediazione si svolge in un territorio neutro; è lo spazio intersoggettivo in cui diventa possibile ridefinire il rapporto fra soggetti che si trovano in un rapporto di opposizione.
La mediazione è un'attività al contempo libera e regolata; come l'interpretazione della norma giuridica richiede il rispetto della lettera della legge e la necessità di adeguare la norma ai bisogni sociali, così la mediazione deve godere di uno spazio non troppo angusto così da soffocare ogni movimento dialettico, né troppo ampio da rendere il movimento eccessivo. La mediazione deve potersi muovere in una cornice regolativa equilibrata che le consenta, da un lato una pluridirezionalità comunicativa e, dall'altro ne impedisca una esplicazione anarchica.
La sfida a cui il diritto è oggi sottoposto, si rileva di notevole portata. Le emergenze sollevate dalla società postmoderna richiedono risposte funzionali che, la caotica e soverchiante produzione giuridica non riesce a dissolvere, con la conseguente crisi della norma giuridica quale strumento del potere e del controllo.
La debolezza ed il caotico disordine in cui fluttua lo strumento giuridico non viene ineludibilmente giustificato in una vana crisi del diritto, ma si propone quale punto di partenza per una reinterpretazione giuridica in grado di rapportarsi realisticamente con la complessità del panorama sociale a cui è chiamata ad interagire; si pone, cioè, la necessità di superare, quando necessario, la statica regolamentazione normativa per pervenire a soluzioni di più ampio respiro su cui possa confluire da più parti una quota di consenso.[10]
Rawls[11] fonda la sua corrente di pensiero sulla formazione del c.d. "overlapping consensus" (consenso neutrale) per garantire una società stabile e ben ordinata.
Si tratta, concretamente, di sostituire alla logica binaria, che porta all'esclusione di uno dei due poli del conflitto, una logica ternaria che consenta l'elaborazione di "una relazione mobile e plurima, immagine della complessità che caratterizza il collettivo del XXI secolo.
La mediazione diventa il terreno privilegiato di questa sperimentazione.
Lungi dal fare concorrenza alla giustizia, la mediazione concorrerà forse a salvare il diritto, permettendogli di conservare il suo spessore, indicando più chiaramente qual è il suo ruolo
La mediazione, infatti, all'interno del sistema giuridico, si fonda su una base di ragionevolezza che prescinde da concezioni etiche o metafisiche della giustizia.
La mediazione si avvale dell'attivazione dialettica fra le parti, che si richiama alla teoria dell'agire comunicativo di Habermas, in netta contrapposizione al sistema autopoietico e referenziale della visione luhmanniana.
Per Luhmann lo strumento giuridico non può governare la complessità sociale ma richiede una sua estrema flessibilizzazione. E' sufficiente che il sistema giuridico continui a rappresentarsi secondo una logica binaria, la logica di ciò che è permesso e di ciò che è vietato, del legale e dell'illegale.
Finchè è padrone del proprio codice e quindi della determinazione della propria identità e della propria differenza, il sistema può anche aprirsi all'esterno senza perdere la propria identità.
Habermas sottolinea lo stretto legame intercorrente fra diritto e questioni pratico-morali.
Di fronte alla complessità che caratterizza la società moderna, è difficile una diretta determinazione delle norme giuste. Habermas coglie, dunque, nel diritto, lo strumento in grado di delineare quelle procedure atte a garantire l'adozione delle norme dettate dall'ordinamento attraverso argomentazioni finalizzate ad un accordo reciproco e condiviso.
L'agire comunicativo si propone di "concordare definizioni della situazione suscettibili di consenso attraverso criteri di veridicità soggettiva, in grado di mettersi continuamente in discussione.
Affinché la parola abbia un senso e non ricada in una concezione formale dei soggetti che agiscono discorsivamente, è necessario garantire una situazione ideale di comunicazione che "affianchi alla fiducia nel confronto comunicativo, la consapevolezza che le disuguaglianze sociali hanno cause strutturali alle quali non è possibile rimediare attraverso alcuna comunicazione ideale .
Le collocazioni sistematiche della nozione di mediazione possono essere così riassunte:
la mediazione può essere catalogata come "terza via" per la giustizia penale, ponendosi come alternativa ai paradigmi retributivo ed educativo. Tale posizione implica "accettare il rischio del net widening effect . La mediazione si accorperebbe, in tal modo, all'arsenale sanzionatorio a disposizione del giudice, presentando, se non ben coordinata al sistema delle garanzie e se non sganciata dal principio di obbligatorietà dell'azione penale, un doppio rischio: la partecipazione alla mediazione, da parte dell'autore, in termini puramente utilitaristici e quindi senza alcuna accezione morale ed una partecipazione forzata da parte della vittima per non sentirsi responsabile del destino "giudiziario" del reo (ad esempio nella prassi della giustizia minorile nel caso di sospensione del processo con messa alla prova, l'esito negativo della mediazione farebbe riprendere il corso del processo, sottoponendo il minore ad una serie di conseguenze sanzionatorie. )
la mediazione può essere considerata uno strumento di depenalizzazione. Quand'anche la mediazione venga collocata nel diritto penale-amministrativo, permanendo la valorizzazione della sua dimensione deflativa, essa si imbatte nel rischio di catalogarsi come sanzione atipica, allargando il ventaglio delle alternative alla detenzione; il rischio è, dunque, quello di svilire l'istituto della mediazione, e della giustizia riparativa in genere, a mero espediente a cui ricorrere nel caso di inapplicabilità delle misure alternative.[18]
la nozione di giustizia dolce non riconduce ad una sistematica collocazione del paradigma mediatorio. La mediazione, infatti, non è una forma di giustizia poiché prescinde dalla logica binaria della giustizia tradizionale che formalizza soluzioni antinomiche (bene-male, lecito-illecito, ragione-torto,..) e cristallizza i ruoli dell'autore e della vittima [20] ; costituisce, invero, un paradigma che rientra a pieno titolo nella pragmatica della comunicazione.
L'evoluzione del paradigma imposto dalla realtà fenomenica della società complessa, condiziona, di conseguenza, le dottrine filosofico-giuridiche ad essa riferentisi: il modello dialettico hegeliano in cui reale e pensiero combaciano, si risolve in una soluzione semplificatrice di una realtà problematica.
Le conseguenze di questa rivalutazione filosofica che si riflette sul piano giuridico, non va sottesa soprattutto se si considera che ogni epoca porta con sé una teoria ben determinata del diritto.
- La prima conseguenza si identifica nella crisi del paradigma kelseniano[21]; nella società complessa di cui siamo portatori, isolare una grundnorm che si autolegittimi, sottraendosi all'arbitrarietà del diritto, risulta, oggi, un tentativo sempre più difficile da attuare.
Ricorrere al paradigma riparativo significa garantire la validità della norma penale, confermata attraverso l'inflizione sanzionatoria.
Il diritto stesso, tuttavia, è aperto al cambiamento, accompagnandosi alla volubilità delle regole di umana coesistenza. Si rende necessario un mutamento prospettico in grado di accogliere la dimensione dialettica, quarta sfaccettatura dei sistemi giuridici che caratterizzano e sono caratterizzati dalle società complesse.
- La seconda conseguenza tende a fare della mediazione il cardine del "diritto della complessità".[22]
Alla mediazione viene riservato un posto all'interno del sistema da adempiere come autonoma risposta statale alla conflittualità sociale; non viene quindi identificata come mero strumento di politica criminale o come variante in chiave di depenalizzazione.
La mediazione non rappresenta neppure "una semplice alternativa alla giustizia, ma è un fenomeno più profondo, che esprime non soltanto una ricomposizione dei rapporti fra lo Stato e la società civile in materia di gestione dei conflitti, ma anche una evoluzione delle nostre società verso una maggiore pluralità di modelli di regolamentazione sociale
Il sempre più consistente ricorso agli strumenti di mediazione ed alla giustizia riparativa può trovare giustificazione nel tentativo di risoluzione di conflitti e controversie in ambito estraneo al circuito giudiziario.
- La terza conseguenza affonda le sue origini in una riflessione filosofica sul rapporto fra etica e diritto che, attraverso l'istituto mediatorio, consente un loro raccordo. La mediazione permette alle parti un itinerario propriamente morale: confessione, riconoscimento della propria responsabilità, presentazione delle scuse, promessa di riparare il male arrecato da parte dell'autore di reato e disponibilità e volontà di concedere il perdono, accettazione della riparazione dell'offesa, volontà di riconciliazione da parte della vittima.[24]
In questo modo la mediazione riconduce la legge alla sua radice, la morale; mentre il diritto implica una risposta indiretta di colui che ha offeso (si risponde alla legge attraverso il giudice), la mediazione implica una risposta diretta all'altro (perché indirizzata, attraverso la legge, alla vittima). Tale immediatezza di rapporto è propria della morale, viceversa la "responsabilità giuridica è responsabilità per l'altro mediata dalla legge .
La mediazione è, dunque, lo strumento irrinunciabile per la gestione dei conflitti che si sviluppano nelle società moderne, nei sistemi ad alta complessità.
La centralità della mediazione sta nel fatto che essa tende alla composizione del conflitto e che, pur non ricorrendo ad alcuna forma di coercizione, può ottenere risultati significativi in termini di stabilizzazione del sistema sociale. Il reato, infatti, rappresenta una frattura dell'equilibrio del sistema, dal momento che l'azione criminosa oltrepassa la soglia dei limiti consentiti.
Il delitto, inoltre, crea, tra reo e vittima, una situazione definita, dai teorici del comportamento, "omeostatica", in cui, cioè, nessun cambiamento può essere provocato dall'interno della relazione stessa; una realtà che il diritto penale classico non è attrezzato ad affrontare, considerando il ruolo marginale assegnato al rapporto tra autore e vittima.
Ciò che conta è trovare il colpevole e commisurare una pena equa alla gravità del reato commesso, che rimane, in tal modo, un evento periferico; il movente è un elemento indefettibile solo a fini probatori. Se il diritto penale, dunque, tralascia l'alone che circonda il reato, la mediazione possiede strumenti ricchi e mirati da convogliare nel campo d'indagine fino a comprendere la genesi del reato, gli effetti provocati, la reazione collettiva di fronte al fatto criminoso, il contesto di appartenenza,..
Il centro dell'interesse si sposta dalla monade isolata artificialmente [nella nostra prospettiva, il reo] alla relazione tra le parti di un sistema più vasto [il rapporto autore-vittima]
CONCLUSIONE
La giustizia riparativa, in generale, e la mediazione, in particolare, sono due istituti ancora poco diffusi in territorio nazionale, dove vengono, per lo più, relegati ad assumere un ruolo marginale o di effettiva sperimentazione.
La documentazione letteraria si avvale ormai di notevoli contributi che consentono di auspicare che tali istituti possano rappresentare nel futuro un sistema adeguato nella gestione equa della pena, la quale corrisponde a criteri di valutazione che sono radicati nella coscienza del popolo.
"Anche la soddisfazione che l'applicazione della pena dà alla collettività contribuisce allo stesso risultato, perché evita rappresaglie collettive. E' noto, infatti, che il delitto non punito provoca simili reazioni, come dimostra il fenomeno del linciaggio che permane ancora, sia pure in forma sporadica, in qualche paese civile.
La soddisfazione, infine, data all'offeso, e alle persone indirettamente danneggiate dal reato, esplica analoga efficacia, in quanto evita, o per lo meno limita, la vendetta privata.
E' fuori dubbio, invero, che se lo Stato non provvede a punire o non punisce in modo adeguato i colpevoli di delitti, i privati si fanno giustizia con le loro mani e ne derivano altri delitti e con essi quella catena di rappresaglie individuali che, purtroppo, si lamentano dove la repressione statale è insufficiente o le popolazioni, per una ragione o per l'altra, hanno scarsa fiducia nelle autorità governative
Vengono perciò investite notevoli forze ed impegno per raffinare gli ambiti di ricerca e per allargare quelli applicativi.
Sebbene il percorso riparativo si origini in un contesto intramurario, o comunque nella fase esecutiva della pena, rientrando a pieno titolo in quel trattamento del reo previsto dall'O.P. come percorso necessariamente obbligatorio, si profila come un continuum di quella progressiva rieducazione sancita dalla Costituzione.
La staticità del tempo detentivo, in particolare, sembra poter trovare nella giustizia riparativa un suo dinamico, seppur lento, rinvigorimento.
Nel tempo inchiodato al reato e nella pena esacerbata a mera inflizione di sofferenza, è importante che la percezione di sé si sciolga dal legame con la condotta antisociale posta in essere; è importante, per l'autore di reato, sapere che il suo gesto è riparabile; è importante che il reo riconosca l'altro e gli conferisca uno spessore prima negato.
L'alternativa rappresentata dall'idea di mediazione penale non si esaurisce nella ricerca di spazi per qualche esperienza pilota, ne tanto meno nell'emersione utopica di un modello da contrapporre al diritto vigente; essa impone, piuttosto, il riconoscimento del corrente modello di giustizia tale da consentire una riprogettazione complessiva della politica criminale e delle strategie sanzionatorie.
Ipotizzare l'attivazione dell'attività di mediazione nel corso dell'esecuzione penale non significa certo mettere in discussione l'impronta trattamentale di tutto l'ordinamento penitenziario, ma eventualmente offrire uno strumento in più per portare il condannato verso una consapevolezza ed una responsabilizzazione più reale e concreta. Significa dare alla vittima un rilievo ed un riconoscimento come persona, aiutarla a rielaborare i sentimenti di disagio, di rabbia, di impotenza, se non di abbandono suscitati dal reato e farla partecipe di una eventuale azione di riparazione a suo favore.
E' un tentativo, questo, che può concretizzarsi solamente se accanto all'impegno dell'autore e alla disponibilità della vittima del reato, si mette in gioco l'intera società, ponendosi come catalizzatore di un percorso di riappacificazione, quando l'entità del reato lo consente, ed accordando a chi ha sbagliato, un'occasione di speranza.
Solo un alto senso di moralità collettiva può far superare i sentimenti di vendetta e di paura.
Il detenuto deve dedicarsi alla costruzione di una sua vita migliore, anche a rischio che il suo sforzo non sia riconosciuto.
La collettività, dall'altro lato, deve accordare una chance al reo, anche a rischio ch'egli ne abusi.
L'uno e l'altro, insomma, devono agire a rischio, a fondo perduto, mettendo in conto di non ottenere quanto ricercato, di poter fallire.
La società stessa, dunque, ha il compito di riconoscere che dietro alle sbarre ci sono delle persone e deve, su questa convinzione, impegnarsi per rimuovere le cause della devianza, aprendosi verso il carcere, cercando di non emarginare chi torna libero, ma di offrirgli il giusto sostegno perché non abbia a ricadere nell'errore, affinché il carcere non venga più considerato solo il contenitore dell'esecuzione penale.
E' questa la sfida che caratterizza il XXI° secolo: inaugurare un rapporto nuovo tra due persone adulte, perché l'uno non sia soltanto e per sempre colpevole e l'altro soltanto e per sempre vittima, senza possibilità di riscatto.
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WEITEKAMP, "Recent developments on restitution and victim-offender reconciliation in the USA and Canada: an assessment", Victim and Criminal Justice, G. Kalser, H. Kury, H.J. Albrecht Eds, Criminological Research Reports, Institute for Foreigns and International penal Law, Friburgo, vol. I, 1991.
WINKEL F.W., Responses to criminal victimisation: Evaluating the impact of a police assistance program and some social psychological characteristica, in Police Studies: The International Review of Police Development, XII, 1989.
WRIGHT, contributo presentato nell'ambito del Convegno sul tema "Quali prospettive per la mediazione? Riflessioni teoriche ed esperienze operative", Roma, 20-21 aprile 2001.
WRIGHT M., Justice for Victims and Offender, Winchester, 1996.
ZDEKAUER, L'idea di giustizia e la sua immagine nelle arti figurative, Macerata, 1909.
In Aristotele (348/383-322 a.C.) la conoscenza dialettica adempie ad alcune funzioni assai importanti: istituisce un certo ordine nel campo delle opinioni, esamina tutta una serie di problemi generali, eccedenti gli ambiti particolari nei quali è organizzata la scienza, stabilisce la verità di alcuni principi basilari attraverso la confutazione di quanti li negano e vaglia le dottrine ed i principi comunemente accettati. Cfr. MORAVIA, Sommario di storia della filosofia, Le Monnier, 1994, pag. 51.
Con Hegel (1770-1831) la dialettica assume la la triadica struttura logico-cocettuale scandita dall'enunciazione della tesi, dell'antitesi e della sintesi, quest'ultima costituente il momento conoscitivo finale. Cfr. MANCINI-MAZZOCCHI-PICINALI, Corso di filosofia, Bompiani, 1993, pag.722 ss.
Per Sartre (1905-1980) il divenire storico della società umana appare governato da una dialettica tendente a totalizzare la realtà, anche se mai in grado di completare il suo disegno. D'altronde la dialettica è tutta risolta nel multiforme agire dell'uomo. Soggetto costitutivamente dialettico, l'essere umano appare impegnato in un0opera di oggettivizzazione e di conferimento di senso governata da forme che si manifestano in tutti gli aspetti dell'esperienza.
Avverso a prese di posizione di tipo esistenzialistico, Merleau-Ponty (1908-1961) focalizza i suoi studi su matrici antropologiche assai ricche.
MERLEAU-PONTY, Interrogation et dialetique , in Le visible et l'invisible, Parigi, 1964, cit. pag. 124.
GARAPON, La demande de droit. Droit, mèdiation et service public, Informations sociales, n. 22., 1992, cit. pag. 47.
L'art. 28, comma 2, del D.P.R. 22 settembre 1998, n.448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni) dispone che durante la sospensione del processo e messa alla prova il giudice possa "impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato".
GATTI, Gli interventi giudiziari nei confronti della delinquenza minorile, in Esperienze di giustizia minorile, 1995, pag. 124 ss.
Il positivismo di Hans Kelsen (1881-1973) pone la giustizia al pari di qualsiasi altro valore o fine ultimo e non è razionalmente giustificabile; anzi, è un ideale irrazionale e quindi non può essere assunto come criterio di valutazione del diritto vigente.
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