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Gli elementi del trattamento - istituti penitenziari rieducazione




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Gli elementi del trattamento - istituti penitenziari rieducazione


La letteratura costituitasi attorno al concetto di trattamento, che ne ha fatto il punto di partenza di ogni ipotesi rieducativa, ha risentito in modo massiccio del contesto storico, culturale, sociale e politico della fase realizzativa dei testi normativi.

Fino al 1975 la materia del trattamento penitenziario e dell'Organizzazione degli Istituti di Prevenzione e di Pena, era disciplinata dal regolamento del 18 giugno 1931 e dal profilo retributivo della pena che accentuava l'aspetto custodialistico della detenzione, mitigato appena dal ricorso allo strumento del lavoro, concepito però come ulteriore sacrificio ai fini dell'emenda.

In questo contesto il trattamento assumeva due differenti significati, ambedue rispondenti a concezioni diverse da quella attuale:

un primo significato era limitato ad indicare che cosa dovesse essere fornito ai detenuti per la soddisfazione di bisogni di manutenzione e di cura (si parlava dunque di trattamento alimentare e di trattamento degli infermi);

un secondo significato, più ampio, indicava il regime di vita instaurato negli istituti. In questa prospettiva, il libro III del predetto Regolamento raggruppava numerose "Norme comuni e generali sul trattamento dei detenuti negli stabilimenti carcerari" in cui solo occasionalmente affiorava un'accezione del termine trattamento che anticipava in qualche modo l'attuale, particolarmente dove il codice penale segna la necessità che il regime carcerario consenta la rigenerazione del condannato.

Con la riforma del '75, il trattamento viene inteso soprattutto come l'insieme degli interventi rieducativi necessari al reinserimento sociale dei detenuti e degli internati.

L'art. 1 O.P. testimonia che "il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona (.). Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti".

Nel nostro attuale ordinamento, la legge penitenziaria prevede, fra le prescrizioni concernenti l'umanizzazione della vita carceraria, quelle che stabiliscono le caratteristiche tecniche degli edifici penitenziari, riguardo ai locali di soggiorno e di pernottamento (art. 6) e a quelli in cui si svolgono attività in comune (art. 5). Inoltre sono dettate precise disposizioni concernenti la qualità di vita dei singoli detenuti: in materia di vestiario e di corredo (art. 7), di igiene personale (art. 8), di alimentazione (art. 9), di permanenza all'aria aperta (art. 10), di accesso ai servizi sanitari (art. 11) e di attrezzature per le attività di trattamento (art. 12).

Sia per il tipo di linguaggio impiegato, dal quale deriva una serie di non equivoci obblighi di fare in capo all'Amministrazione, sia per i contenuti delle corrispondenti disposizioni, spesso assai puntuali nel definire anche in dettaglio la fisionomia delle strutture previste per lo svolgimento dell'attività penitenziaria, nonché il livello qualitativo delle prestazioni e dei servizi assicurati ai detenuti, ci si potrebbe aspettare già oggi molto di più di quanto in concreto non offra la quotidiana realtà[1]. E' questo il campo dove si manifesta in modo più evidente la mancanza di mezzi e di strutture che ha finora costretto le innovazioni "su un piano di astratto nominalismo" .

La legge del '75 provvede alla salvaguardia della popolazione detenuta, regolata dall'art. 14 bis (regime di sorveglianza particolare) e dall'art. 41 bis (sospensione totale o parziale delle regole di trattamento in relazione a situazioni di emergenza): nei casi in cui un detenuto vada a minare la sicurezza dell'istituto o rappresenti un pericolo per l'ordine pubblico, viene sottoposto ad un regime differenziato di maggior rigore ma che comunque non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Tale principio trova concreta estendibilità in due articoli del c.p., disciplinanti il rinvio obbligatorio e discrezionale dell'esecuzione penale evitando la pena detentiva alle donne incinte, madri di infante di età inferiore ad 1 anno, persone affette da AIDS conclamata ed ai c.d. malati terminali (art. 146) e permettono al Tribunale di Sorveglianza di valutare l'eventuale rinvio dell'esecuzione di una pena detentiva su una persona affetta da una grave infermità fisica e su madre di prole di età inferiore ai 3 anni (art. 147).

Attraverso l'irrogazione della pena, la Costituzione non impone solo di punire chi delinque per far rispettare il senso di giustizia, ma tende anche alla rieducazione.

Le misure di sicurezza detentive, infatti, rappresentano l'impegno che l'autorità statuale si assume nei confronti della collettività, un impegno che si concretizza nel trattamento rieducativo, demandato ad organi specializzati aventi specifiche competenze, quali gli educatori (art. 82 O.P.) ed i professionisti esperti (art. 80 O.P.) i cui interventi si svolgono sotto la responsabilità del direttore dell'istituto.

Gli elementi del trattamento si dividono in intramurali ed extramurali: al primo appartengono l'istruzione, le attività culturali, ricreative e sportive, la libertà religiosa ed il lavoro interno all'istituto; al secondo appartengono le misure alternative alla detenzione (per le quali si rimanda al capitolo III), i permessi premio e le licenze ed il lavoro all'esterno ai sensi dell'art. 21 O.P.

La liberazione anticipata, la remissione del debito ed il regime disciplinare sono degli istituti che si concretizzano sia durante la permanenza in carcere che nel percorso di reinserimento nel territorio.


1 L'istruzione


L'impegno del legislatore di attuare, anche nell'ambito penitenziario, il diritto all'istruzione che l'art. 34 Cost. vuole assicurare a tutti i cittadini, si esprime nell'art. 19 O.P., dove si dispone che la formazione culturale e professionale è curata mediante l'organizzazione dei corsi della scuola dell'obbligo. Possono inoltre essere istituite scuole d'istruzione secondaria di secondo grado ed è agevolato il compimento degli studi universitari[3].

Anche i critici più severi della riforma hanno ammesso "l'intenso e dignitoso sforzo" [4] del legislatore in questa materia al fine di superare in concreto la presunzione che il riadattamento sociale passi inevitabilmente attraverso la pratica coatta dell'istruzione. "Questa concezione, assoluta e fideistica, aveva radice nella considerazione del comportamento criminale come determinato dallo stato di in cultura ed ignoranza. La correlazione tra l'analfabetismo e delinquenza induceva a ritenere verificato l'assunto. Non sorgeva in passato alcun sospetto che ignoranza e delinquenza non fossero in rapporto causa-effetto, ma ambedue collegate a situazioni di deprivazione familiare e sociale".

Quindi l'istruzione scolastica in istituto, non più obbligatoria come sanciva il Regolamento del '31, è solo un momento di un impegno più articolato di interventi finalizzati al sostegno ed alla promozione degli interessi umani, culturali e professionali dei reclusi. In questo senso la legge è ricca di spunti fecondi: si favoriscono negli istituti "le attività culturali ", alla cui organizzazione partecipano anche i detenuti (art. 27 O.P.); si concede la semilibertà a chi voglia partecipare ad attività istruttive (art. 48 O.P.); si autorizzano i detenuti a tenere presso di sé quotidiani, periodici e libri in libera vendita e ad avvalersi di altri mezzi di informazione (art. 18, 6° co, O.P.); si stimola e favorisce la preparazione professionale anche dopo la dimissione dal carcere (art. 75 O.P.); si prevede la collaborazione dell'Ente regione (art. 40 reg. esec. O.P.), del Ministero della Pubblica Istruzione e delle Università; si dispone la corresponsione di sussidi a coloro che frequentano i corsi di addestramento professionale e di istruzione secondaria, nonché premi e rimborsi per altre situazioni di bisogno (art. 43 reg. esec. O.P.).

Tale normativa è, nel complesso, realmente innovativa ed avanzata: ciò che si lamenta è la carenza delle strutture, gli ostacoli burocratici e le difficoltà economiche che si oppongono alla sua attuazione pratica.


2 Le attività culturali, ricreative e sportive


Esse rappresentano non solo occasioni di intrattenimento, ma di crescita di esperienze che hanno consentito di tessere rapporti e promuovere la conoscenza del carcere sottoforma di risorsa e luogo di produzione.[6]

L'attività fisica e sportiva condotta ai passeggi, al campo, in palestra, essenziale per il benessere psico-fisico della persona, diventa anch'essa occasione di incontro e crescita quando affiancata da percorsi guidati.

Le attività di carattere culturale e ricreativo, pensate sempre in duplice chiave interno/esterno, rappresentano quegli ulteriori tasselli che possono contribuire ad una ridefinizione del senso del proprio essere all'interno di una collettività e riducono o attenuano il senso di separatezza.[7]

3 La libertà religiosa


L'art. 26, 1° co., O.P. dispone che "i detenuti e gli internati hanno la libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto". Questa affermazione di libertà religiosa, assieme al divieto di discriminazioni enunciato nell'art. 1, 2° co., O.P. ("il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazione in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose"), dimostra la volontà del legislatore di adeguarsi anche in questa materia al dettato costituzionale ed in particolare agli analoghi principi espressi negli artt. 3 e 19 Cost.

Rispetto al Regolamento del '31 (r.d. 18 giugno 1931, n. 787) si nota quindi il superamento della concezione religiosa in chiave confessionale insieme alla revisione critica dell'opinione (risalente a Lombroso) che individuava fra i fattori eziologici della criminalità la mancanza di religiosità e di conseguenza poneva "gli apprendimenti di cognizioni e abitudini religiose come rimedio a livello causale" [8].

Nello spirito della riforma la religione ha sempre rilievo, in quanto rientra fra gli elementi del trattamento ma ha perso il carattere impositivo attribuitole dal Regolamento abrogato che stabiliva l'obbligo di partecipare alle funzioni del culto cattolico e sanzionava il contegno irriverente con severe misure disciplinari.

La riforma, assieme al riconoscimento del diritto di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto, ne garantisce anche il concreto esercizio: infatti viene assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico, ed assicura ai non cattolici la presenza dei ministri dei rispettivi culti i quali, secondo quanto disposto dall'art. 67, ultimo co., O.P., possono accedere agli istituti con l'autorizzazione del direttore.


4 I permessi


La disciplina dei permessi è inserita nell'ambito delle modalità del trattamento. Tale istituto che nell'impostazione legislativa del 1975 rappresentava uno dei principali strumenti del trattamento rieducativo, subì un radicale ridimensionamento ad opera della l. 20 luglio 1977, n. 450. Secondo l'originaria formulazione dell'art. 30 O.P., al Magistrato di Sorveglianza era attribuita una larga discrezionalità nella gestione dei permessi, concedibili ai condannati, oltrechè "nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente", anche per "gravi ed accertati motivi". In seguito alle polemiche sorte per l'uso a volte troppo disinvolto dell'istituto, il legislatore adottò una disciplina molto più rigorosa e restrittiva, stabilendo che i permessi potevano essere concessi ai condannati e agli internati solo "nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente" e "eccezionalmente, per eventi familiari di particolare gravità".

Sotto il profilo procedurale, la decisione sul provvedimento, che deve essere motivato, è preceduta da una sorta di istruttoria preliminare sulla sussistenza dei motivi addotti ed è reclamabile da parte del Pubblico Ministero e dell'interessato presso la sezione di sorveglianza.

In materia di permessi la l. Gozzini ha introdotto una delle più discusse fra le sue innovazioni: i permessi premio di cui all'art. 30 ter O.P.

Ai condannati che abbiano tenuto regolare condotta e che non risultino di particolare pericolosità sociale, il Magistrato di Sorveglianza, sentito il parere del direttore dell'istituto, può concedere permessi premio per complessivi quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione, frazionabili in periodi non superiori a quindici giorni, per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. Il beneficio è ammesso in ogni momento per i condannati a pena detentiva non superiore ai tre anni; dopo l'espiazione di un quarto di pena o di metà pena per i condannati a pena maggiore ma comunque non oltre i dieci anni.

Presupposto per la concessione del beneficio è che il condannato non sia persona socialmente pericolosa ed abbia tenuto regolare condotta, come specificato nell'ultimo co. dell'art. 30 ter.

I permessi premiali possono essere concessi solo ai condannati e non anche agli internati ed agli imputati come prevede invece il su citato art. 30 O.P.

L'istituto in esame partecipa più alla natura delle licenze che non a quella dei permessi di cui all'art. 30, perché ispirato da una logica retributiva rapportata al comportamento dell'interessato, mentre i permessi ex art. 30 sono stabiliti per fronteggiare eventi eccezionali, prodottisi al di fuori della vita penitenziaria, e sono diretti a tutte le categorie giuridiche esistenti nella popolazione carceraria, senza filtri valutativi del tipo di condotta tenuta.

Il beneficio di cui sopra ha destato perplessità e polemiche soprattutto perché l'indicazione normativa è assai elastica: essa, infatti, non fa riferimento ad effettivi risultati positivi ottenuti con il trattamento finalizzato alla rieducazione, ma ad una generica correttezza nel comportamento personale ed al senso di responsabilità, lasciando, quindi, il più ampio margine alla discrezionalità dell'operatore. A ciò si aggiunga l'allarme suscitato nell'opinione pubblica da alcuni clamorosi casi di mancati rientri o peggio di delitti commessi da detenuti in permesso premio.


5 Le licenze


La legge di riforma ha esteso ai condannati semiliberi la possibilità di ottenere le licenze, che il Regolamento del '31 già prevedeva, ma solo per gli internati. Dispone l'art. 52, 1° co., che "al condannato ammesso al regime di semilibertà possono essere concesse a titolo di premio una o più licenze di durata non superiore nel complesso a quarantacinque giorni all'anno", frazionabili in più periodi, a decorrere dalla data d'inizio del regime di semilibertà.

Scopo dell'istituto è di permettere un più naturale mantenimento dei rapporti familiari ed affettivi e, se concesse più frequentemente in prossimità della dimissione, a preparare il soggetto ad acquistare progressivamente la necessaria capacità di autonomia per gestire la sua vita sociale.

La proposta di concessione della licenza è rimessa alla competenza del consiglio di disciplina ma il beneficio può anche essere concesso su richiesta dell'interessato o d'ufficio dal Magistrato si Sorveglianza.

Durante la licenza il condannato è sottoposto al regime della liberà vigilata ed è tenuto ad osservare determinate prescrizioni imposte dall'art. 93 reg. esec. O.P.; in caso di trasgressione agli obblighi la licenza, ed eventualmente anche la semilibertà, può essere revocata. Al condannato che, allo scadere della licenza o dopo la revoca di essa, non rientra in istituto si applicano le disposizioni di cui all'art. 51 O.P..

La legge 663/1986 ha introdotto, in materia, un nuovo articolo, il 53 bis, il quale dispone che il tempo trascorso dal detenuto o dall'internato in permesso o in licenza è computato ad ogni effetto giuridico nella durata delle misure restrittive della libertà personale.

L'istituto, in generale, ha valore premiale, ma non può essere assimilato alle ricompense (art. 71 reg. esec. O.P.) che si atteggiano come concessioni correlate a condotte specifiche, in quanto si ricollega al diverso presupposto di un comportamento positivo, protratto nel tempo, che realizza una manifestazione globale di progresso nel trattamento e di maturazione della personalità.


6 Il lavoro


Durante l'età classica, sulla base di un concetto di pena come sanzione espiatoria e vendicativa, sono andati costituendosi i più importanti modelli di carcerazione punitiva, improntati essenzialmente su tre grandi principi:

  • la durata della pena era commisurata alla condotta del prigioniero
  • il tempo era strettamente scandito da obblighi, divieti e sorveglianza continua
  • il lavoro era obbligatorio, collettivo e retribuito

L'obbligatorietà del lavoro, dunque, rientrava nel meccanismo dell'incessante e ininterrotta disciplina che caratterizzava i sistemi sanzionatori dell'epoca.

Attraverso il lavoro, considerato la provvidenza dei popoli moderni, si tentava di trasformare il detenuto violento, agitato e irriflessivo in un elemento in grado di giocare il suo ruolo con perfetta regolarità.

La valorizzazione del lavoro, posto dalla Costituzione a fondamento dello Stato come dovere sociale, postula la rivalutazione umanistica dell'uomo e del suo operare nel mondo.

Rinascimento e Riforma sono all'origine di due valutazioni sul lavoro che percorreranno, poi, tutto il pensiero moderno. Una esalta la creatività del lavoro, al quale è riconosciuto un valore intrinseco; l'altra considera il lavoro come castigo e strumento di riscatto.

L'800 vede il trionfo del lavoro umano: da umile nozione subordinata nel sistema dei concetti morali, il lavoro si spinge sempre più su nella gerarchia dei concetti filosofici, sempre più grandeggia d'importanza e di significato, sempre più subordina a sé le altre immagini e divora quelli rivali per, finalmente, assurgere alla dignità di parola chiave di tutta una visione del mondo e della vita.

Il significato etico e sociale riconosciuto, oggi, al lavoro, si muove su un piano di eclettico pragmatismo, costituendosi come uno dei cardini del sistema trattamentale, molla e motore essenziale del processo di risocializzazione.

L'etimologia del termine, rintracciabile nel labor latino, corrisponde all'immagine della pena, della sofferenza, della fatica.

Il lavoro viene letto sì come lo strumento mediante il quale il soggetto può pensare ad una personale realizzazione, ma va letto anche il senso recondito, e a volte mistificato, del valore implicito della sfida o della risposta ad una sfida che il reo accetta di affrontare, mettendosi in gioco ogni giorno sempre di più.

Lavoro obbligatorio, quindi, come accompagnamento necessario per consentire il raggiungimento di un equilibrio interiore; per accompagnare la persona in espiazione di pena durante il percorso di risocializzazione e reinserimento nella realtà vigente.

Quando si dice che la pena deve proporsi di risocializzare chi la subisce, si corrisponde ad un criterio di umanità che fissa la soglia minima di una convivenza civile, ma mira anche ad un interesse della società.

Per tale ragione i riformatori hanno sempre incluso, nella predisposizione di programmi d'intervento, il lavoro come agente di trasformazione detentivo e base per la retribuzione e la redenzione personale.

La legge di riforma dell'O.P. del '75, frutto di un lungo e tormentato dibattito dottrinario e parlamentare, si ispira ai principi espressi dalla Costituzione in relazione alla funzione rieducativa della pena, al recupero sociale del deviante, all'umanizzazione del trattamento ed al riconoscimento ed alla tutela dei diritti soggettivi dei detenuti, come conferma l'esplicito richiamo dell'art. 1 O.P. agli artt. 3 e 27, 2° e 3° comma, Cost.

La delicatezza della materia e le sue implicazioni sociali hanno indotto il legislatore a regolare con legge ordinaria il settore, precedentemente disciplinato con disposizioni esclusivamente regolamentari.

Da più parti si è sottolineato che la portata innovativa della legge di riforma si sostanzia soprattutto nel riconoscimento del recluso come titolare di precisi diritti ed interessi nei confronti dell'Amministrazione penitenziaria, rovesciando la tradizionale concezione dei rapporti tra detenuto e Amministrazione. Il regolamento previgente (Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n.787), infatti, forniva una serie di precetti il cui destinatario era l'Amministrazione, cui veniva riservata in via esclusiva (salvo i limitati poteri d'intervento del Giudice di Sorveglianza) ogni attribuzione e prerogativa nei confronti dei detenuti.

La posizione espressa dal codice Rocco sull'essenza e sulla funzione della pena, intesa sotto il profilo della retribuzione, si risolveva nell'accentuazione dell'aspetto custodialistico della detenzione, mitigato appena dal ricorso allo strumento del lavoro, concepito però come ulteriore sacrificio ai fini dell'emenda.

Attorno al concetto di trattamento si è costituita una vastissima letteratura che ne ha fatto punto di partenza di ogni ipotesi rieducativa, arricchendo di contenuti la formula usata dalla Costituzione.

La legge di riforma intende il termine trattamento riferendosi all'insieme degli interventi rieducativi necessari per il reinserimento sociale delle persone detenute.

Nello spirito della riforma penitenziaria il lavoro rappresenta una modalità del trattamento (art. 15 O.P.): rispetto alla concezione tradizionale, che considerava il lavoro come un peso aggiuntivo a quello derivante dalla privazione della libertà e quindi come ulteriore sofferenza ai fini dell'espiazione, la prospettiva è decisamente cambiata.

La normativa in materia di lavoro si ispira ai precetti costituzionali che assicurano il lavoro al condannato ai fini del trattamento rieducativo.

Nel raggio dell' attività trattamentale si profila l'ammissibilità al lavoro all'esterno ai sensi dell'art. 21 O.P. come attività risocializzante in grado di conferire dignità e speranza e che può concretarsi in una nuova cultura dell'accoglienza.

L'art. 21 O.P. non si sostituisce alla pena, che mantiene il suo carattere garantista e ineliminabile nel sistema giuridico, ma si profila come una modalità alternativa all'esecuzione penale.

Un servizio di pubblica utilità che consente alla persona detenuta di iniziare a piccoli passi il graduale cammino per rientrare a pieno titolo nella società.

Il precedente regolamento al di là delle misure di sicurezza detentive, non prevedeva alcuna forma di lavoro extramurario.

La legge 663/1986 ha ritoccato la materia del lavoro penitenziario con una serie di disposizioni finalizzate all'ulteriore valorizzazione e potenziamento di questo fondamentale elemento del trattamento.

La novella dell' '86 ha apportato, all'art. 6, due innovazioni di grande rilevanza. Innanzi tutto il lavoro all'esterno non è più circoscritto alle imprese agricole ed industriali ma è ammissibile senza alcuna limitazione. In secondo luogo il provvedimento con il quale il condannato viene ammesso al lavoro extramurario è sottoposto all'approvazione del Magistrato di Sorveglianza che ne condiziona l'esecutività.

A questi incentivi legislativi faceva riscontro, però, la scarsa attuazione della disciplina nella realtà concreta dell'istituzione: i soggetti detenuti ricoprivano posti di lavoro creati dalle singole direzioni all'interno degli istituti, riproponendo un modello assistenziale del tutto antinomico rispetto alla funzione attribuita dalla legge al lavoro.

L'incremento del lavoro all'esterno, previsto nell'art. 21 O.P., è reputato uno strumento idoneo al fine di contribuire all'attuazione, nella realtà carceraria, dei principi formulati nella legge di riforma.

Il lavoro rappresenta, oggi, uno strumento che, usato in modo proficuo e coscienzioso, fornisce gli elementi essenziali per la trasformazione, la risocializzazione ed il miglioramento delle persone recluse.


7 La liberazione anticipata


Per l'art. 54 O.P. "al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione può essere concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una riduzione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena inflitta". Secondo l'opinione dominante l'istituto ha efficacia di strumento rieducativo e di mezzo di trattamento penitenziario essendo diretto a suscitare adesione e partecipazione dei condannati all'azione di rieducazione. Nonostante sia inserita nel campo dedicato alle misure alternative, la liberazione anticipata ha natura più premiale che alternativa, in quanto manca di afflittività e di supervision e si risolve in sostanza nella remissione di una parte della pena detentiva, quale momento del trattamento progressivo[9].

La competenza in materia di riduzione di pena per la liberazione anticipata appartiene al Tribunale di Sorveglianza.

L'art. 18 l. n. 663/1986, modificando il 1° ed il 4° co. Dell'art. 54 O.P. ha apportato modifiche anche in materia di liberazione anticipata, ampliando la portata della misura. In primo luogo le riduzioni di pena semestrali sono passate dai venti giorni stabiliti in precedenza agli attuali quarantacinque: questo aumento ha suscitato notevoli perplessità in quanto comporta un ulteriore affievolimento della portata intimidativa della pena, comprimendo forse la ineliminabile funzione di prevenzione generale della pena.

In secondo luogo il beneficio prima facoltativo a giudizio della sezione di sorveglianza è ora obbligatorio e costituisce un vero e proprio diritto soggettivo del reo. Ed infine esso è concesso anche ai condannati all'ergastolo i quali, di conseguenza, possono essere ammessi alla liberazione condizionale dopo l'espiazione di ventisei anni, parte dei quali in semilibertà.

Sempre nell'ambito della nuova formulazione, si stabilisce all'art. 54, 1° co., O.P. che, ai fini delle riduzioni di pena, "è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare". Il 4° co. del predetto articolo dispone che le detrazioni di pena non incidono più solo sul tempo richiesto per l'ammissione alla liberazione condizionale, ma riducono anche i periodi necessari per la concessione dei permessi premio e della semilibertà: in sostanza la parte di pena detratta ai sensi dell'art. 54, 1° co., viene considerata come effettivamente scontata, rendendo così applicabili gli altri benefici concessi dalla legge penitenziaria.

Vigente la l. 354/1975, uno dei problemi di più difficile soluzione riguardava il criterio da seguire nella valutazione della partecipazione del condannato all'opera di rieducazione: si trattava in sostanza di stabilire se detta valutazione dovesse essere fatta globalmente, con conseguente accoglimento totale o rigetto del beneficio in relazione alla risultante dei singoli comportamenti nei vari semestri, oppure se potesse essere frazionata di semestre in semestre, così da dar luogo all'accoglimento o al rigetto per ciascun semestre, in dipendenza del comportamento positivo o negativo ogni volta riscontrato nel soggetto.[10]

Tale problema è stato affrontato dalla legge Gozzini che ha scelto di privilegiare la concezione c.d. "atomistica" o "frazionata" secondo la quale il comportamento del reo va valutato semestre per semestre: la riduzione di pena, quindi, potrà operare per uno o più semestri e non per altri.

La concessione del beneficio è condizionata all'accertamento dell'effettiva partecipazione del condannato all'opera di rieducazione con particolare riferimento all'impegno dimostrato nel trarre profitto dalle opportunità offerte nel corso del trattamento, all'atteggiamento manifestato nei confronti degli operatori penitenziari ed alla qualità dei rapporti intrattenuti con i compagni e con i familiari.


8 La remissione del debito


L'art. 56, 1° co., O.P. così come modificato dall'art. 19 l. 663/1986, dispone che il debito per le spese del procedimento e di mantenimento è rimesso nei confronti dei condannati e degli internati che versino in disagiate condizioni economiche e che abbiano tenuto regolare condotta. L'istituto è stato introdotto dalla legge di riforma per evitare il ripetersi di situazioni in passato frequenti, quando "l'esazione dalle spese, richiesta a persone per lo più indigenti, che cercavano di reinserirsi nella società, produceva spesso contraccolpi dannosi sui loro propositi" [11] .

La remissione del debito rientra nella competenza del Magistrato di Sorveglianza, può essere richiesta fino a che non risulti conclusa la procedura per il recupero delle spese ed è applicabile quando al soggetto che la richiede sia mancata, in tutto o in parte, la possibilità di guadagno attraverso il lavoro durante l'esecuzione oppure quando l'ammontare del debito risulti eccedente rispetto alla sua capacità di assolvimento attraverso il lavoro.

Condizione ulteriore per la concessione del beneficio è che il condannato abbia tenuto, durante l'esecuzione, regolare condotta, abbia cioè manifestato, così specifica l'art. 30 ter, "durante la detenzione costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative e culturali".

E' stato rilevato che la misura in esame evidenzia la cattiva coscienza del legislatore che già di partenza sa di non poter raggiungere l'obiettivo vero dell'offerta di un valido lavoro a tutti i condannati che permetterebbe di "immettere il recluso nel più elementare e costruttivo degli schemi della vita associata, quello per cui un soggetto ha il diritto di lavorare e il dovere di mantenersi con i frutti del lavoro" [12]. Ma se questa critica è superabile considerando che il beneficio costituisce pur sempre un indispensabile aiuto nel momento decisivo del reinserimento costruttivo del condannato nella società, non può non rilevarsi l'ingiustificata esclusione del provvedimento nei confronti di coloro che abbiano scontato completamente la pena in custodia preventiva, per i quali permane in ogni caso l'obbligo di pagare le spese del procedimento ed anche quelle di mantenimento in stato di custodia preventiva.


9 Il regime disciplinare


Il regime disciplinare delineato nella legge di riforma è attuato in modo da stimolare il senso di responsabilità e la capacità di autocontrollo (art. 36 O.P.): "le sanzioni disciplinari debbono concorrere all'opera di trattamento" e quindi "non devono essere viste tanto in funzione repressiva quanto come stimoli per i soggetti ad assumere un atteggiamento critico nei confronti del loro comportamento" [14].

Le sanzioni previste possono essere suddivise in:

richiamo (è la sanzione più leggera)

ammonizione

esclusione dalle attività ricreative e sportive fino ad un massimo di dieci giorni

isolamento durante la permanenza all'aria aperta per non più di dieci giorni

esclusione dalle attività in comune fino ad un massimo di quindici giorni

Le prime due sanzioni vengono deliberate dal direttore dell'istituto; le altre sono deliberate dal consiglio di disciplina, composto dal direttore, dal sanitario e dall'educatore. Il procedimento disciplinare comporta la contestazione dell'addebito all'accusato, che ha facoltà di esercitare personalmente il diritto di difesa: il direttore svolge accertamenti sul fatto e, se ritiene di dover pronunciare il richiamo o l'ammonizione, delibera la sanzione; se nella procedura avanti al direttore l'infrazione si appalesa più grave, il procedimento è rimesso al consiglio di disciplina.

Per quanto attiene all'individuazione delle infrazioni punibili, la legge rinvia espressamente al regolamento che, all'art. 71, prevede un tassativo elenco di comportamenti sanzionabili:

negligenza nella pulizia e nell'ordine della persona e della camera

abbandono ingiustificato del posto assegnato

volontario inadempimento di obblighi lavorativi

atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità

giochi o altre attività non consentite dal regolamento interno

simulazioni di malattia

traffico di beni di cui è consentito il possesso

possesso o traffico di oggetti non consentiti o di denaro

comunicazioni fraudolente con l'esterno o all'interno nei casi indicati nei numeri 2 e 3 del 1° co. dell'art. 33 O.P.

atti osceni o contrari alla pubblica decenza

intimidazione di compagni o sopraffazioni nei confronti dei medesimi

falsificazione di documenti provenienti dall'Amministrazione affidati alla custodia del detenuto o dell'internato

appropriazione o danneggiamento di beni dell'Amministrazione

possesso o traffico di strumenti atti ad offendere

atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o di altre persone che accedono nell'istituto per ragioni del loro ufficio o per visita

inosservanza di ordini o prescrizioni o ingiustificato ritardo nell'esecuzione di essi

ritardi ingiustificati nel rientro previsti dagli artt. 30, 30 ter, 51, 52, 53 O.P.

partecipazione a disordini o a sommosse

promozione di disordini o di sommosse

evasione

fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari e di visitatori.





GREVI V., Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario,Bologna, 1981, pag. 22 ss.

BELLOMIA, Ordinamento penitenziario, in Enc. dir,XXX, Milano, 1980, cit. pag.928 .

Il 10.12.2003 è stato sottoscritto un protocollo d'intesa tra l'Amministrazione penitenziaria e l'Università di Padova per la costituzione di un Polo Universitario presso la C.R. patavina.

FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Bologna, 1980, cit. pag. 168.

DI GENNARO-BONOMO-BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, 4^ ed., Milano, 1987, cit. pag.145.

L'istituzione penitenziaria si offre oggi come un ente pubblico in grado di erogare servizi per la collettività, grazie ai finanziamenti stanziati dagli Enti provinciali e comunali ed al coinvolgimento delle cooperative sociali che fondano i propri sforzi in una politica tesa alla riduzione del danno ed al recupero sociale. Il Centro di Documentazione Due Palazzi (di cui fanno parte il laboratorio di Rassegna Stampa e la redazione di Ristretti Orizzonti) prestano servizi per una committenza plurale sia livello provinciale che regionale, che scolastico e sociale. Inoltre, all'interno dell'istituto ed attraverso l'implementazione delle convenzioni esistenti, operano tre cooperative che hanno alle proprie dipendenze circa 40 detenuti.

Nella C.R. di Padova sono state realizzate attività a favore di alcuni gruppi di detenuti che per vari motivi (Alta Sicurezza, protetti, infermeria) non partecipano alle attività create per i detenuti comuni.

Alcune attività a favore della popolazione detenuta straniera hanno la finalità di affrontare alcune tematiche, valorizzando il contesto e la cultura di provenienza.

DI GENNARO-BONOMO-BREDA, Ordinamento penitenziario e., cit. pag. 185.

Per trattamento progressivo si intende l'anticipata cessazione dell'afflittività della sanzione detentiva irrogata in sentenza dovuta alla graduale evoluzione in senso positivo della personalità del soggetto.

PISANTI, Diritto penitenziario e misure alternative. Incontro di studio e documentazione per i magistrati, a cura del Consiglio Superiore della Magistratura, Roma,1979, pag. 182 ss.

FASSONE, La pena detentiva., cit. pag. 196.

FASSONE, La pena detentiva., cit. pag.198.

Il rilievo è di FASSONE in La pena detentiva.pag. 198 ss.

DI GENNARO-BONOMO-BREDA, Ordinamento penitenziario e., cit. pag. 218.

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