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Nuovo Ordinamento
I. La Casa di Reclusione Femminile di Venezia
I.1. Storia: da chiostro a carcere.
I.2. Organizzazione della struttura odierna.
I.3. L'offerta formativa e l'organizzazione del tempo.
I.4. La tutela della salute fisica e mentale.
II. Il tirocinio: "Esperienze di comunicazione verbale e non verbale nell'ambito di attività espressive".
III. Conclusioni
"Esperienze di comunicazione verbale e non verbale nell'ambito di attività espressive", è il titolo del tirocinio proposto alla Casa di Reclusione Femminile di Venezia, diretta dalla dott.ssa Gabriella Straffi e con la supervisione della psicologa tutor, dott.ssa Ida de Rénoche, allo scopo di osservare, se e in quali forme, si manifesta il disagio mentale nell'ambiente penitenziario, e nel contesto in esame, in particolare, quali figure professionali se ne fanno carico e in che modo vi pongono rimedio.
L'opportunità di questa esperienza di sei mesi, come prescritto dal nuovo ordinamento della laurea triennale in psicologìa, iniziata nel giugno 2003 e conclusasi nel gennaio 2004, mi è stata data dopo un intenso periodo di contatti e proficui scambi di idee con gli operatori dell'Istituto, interessati a conoscere, in seguito, l'esito della mia crescita formativa in un contesto così impegnativo.
Effettivamente un processo di tras-formazione è iniziato già nel momento in cui ho messo piede all'interno della Casa. Doversi muovere con le dovute cautele, osservare le regole per l'ammissione all'interno, esercitarsi alla riservatezza, al rispetto del luogo e delle sue ospiti, osservando le più elementari regole di educazione e attenzione nei riguardi sia di chi deve subire la detenzione, che di chi deve assisterla e vigilarla, mi ha abituato fin da subito a riflettere più profondamente sulle caratteristiche della professione di psicologo, in generale e sulla pratica che mi preparavo a fare, in particolare.
Mi propongo ora di analizzare gli interventi pratici del tirocinio, in relazione agli interrogativi e agli obiettivi che mi ero posta, per verificare quali esiti abbiano avuto, anche alla luce degli stereotipi sulla vita in carcere presenti nell'immaginario collettivo e dei differenti problemi sollevati dal dibattito dei media.
Attingendo alle mie precedenti esperienze nel campo dello spettacolo e della comunicazione, contavo di collaborare con gli operatori per osservare l'eventuale coinvolgimento delle detenute sul piano delle arti espressive, intese come occasione di "gioco" e strumento di introspezione e autoconsapevolezza, ma anche come elemento di culturalizzazione per valorizzare le potenzialità personali, incoraggiare possibilità elaborative e tentare di alimentare il processo di interiorizzazione dei valori mediati dalla cultura.
Attraverso l'improvvisazione di suoni e gesti, la lettura e interpretazione di testi poetici, il mio lavoro insieme a quello degli altri operatori, ha cercato di seminare curiosità e interessi, nella speranza di riuscire a dare un contributo alla individuazione o alla generazione di risorse e attitudini personali, di comunicare energia positiva per stimolare le partecipanti ai corsi, a immaginarsi in una realtà giocosa e fantastica, capace di sublimare la sofferenza, di proporre l'arte come nutrimento mentale e possibile mezzo di ri-scoperta e ri-progettazione del Sé, confidando, infine, nelle attività espressive come risposta al malessere causato dalla reclusione e allo stesso tempo strumento per riuscire a esplicitarlo.
A tirocinio concluso, prendo ora in esame come sono state accolte queste proposte, quale eventuale ricaduta abbiano avuto nei ritmi quotidiani, quali sono state le relazioni instauratesi all'interno dei gruppi di lavoro e con me e quali conclusioni si possono trarre rispetto agli obiettivi iniziali.
Ma prima di analizzare concretamente la pratica di tirocinio, verrà tratteggiata brevemente la storia della struttura che, da antico convento di religiose, si è visto trasformare negli anni in istituto penitenziario, con una diversa suddivisione e riutilizzazione degli spazi destinati alle recluse e al personale, nei quali, l'organizzazione del tempo viene scandita da differenti occasioni di lavoro e formazione professionale, dalla scuola dell'obbligo e da molteplici attività ricreative, quali lo sport, il teatro, la danza, i concerti, le feste organizzate dal volontariato.
Quindi descriverò le modalità di intervento previste dal Ministero di Grazia e Giustizia, d'intesa col Sistema Sanitario Nazionale, per la tutela della salute fisica e mentale all'interno del carcere. A questo proposito particolare spazio e rilievo saranno dati alla tipologia e alle motivazioni dell'eventuale disagio mentale accusato dalle recluse, mettendolo in rapporto con le loro condizioni di vita.
Per concludere verrà ripercorsa l'evoluzione delle leggi in ambito penitenziario, dalla cosiddetta legge Gozzini che, con l'introduzione di misure alternative alla detenzione, ha apportato notevoli modificazioni alla riforma penitenziaria (alla base del vigente ordinamento) fino a considerare la situazione della legislazione odierna.
I. La Casa di Reclusione Femminile di Venezia
I.1. Storia: da chiostro a carcere.
Per conoscere l'origine della Chiesa Convento delle Convertite, che ospita oggi l'unico carcere femminile del Veneto, nell'isola della Giudecca a Venezia, si deve risalire al 12° secolo.
Scarse sono le notizie al riguardo, ma pare certo che nel 1177, il Pontefice Alessandro III, in visita a Venezia, concedesse all'Imperatore tedesco Federico I, il Barbarossa, che sua figlia Giulia venisse consacrata al Signore con altre dodici fanciulle. Sorse, allora, un monastero sotto la regola di S.Agostino e Giulia ne fu la prima badessa. Il Convento e l'Oratorio adiacente, dedicati alla penitente Santa Maria Maddalena si posero sotto la protezione spirituale di Papa Giulio III, nel 1550 e quella temporale del Senato Veneto, nel 1564, mentre il mantenimento delle monache venne affidato alla pubblica pietà.
In questi termini ne parla il Sansovino nei suoi scritti, chiamandole convertite ossia pentite:
Et pochi anni sono si fabrichò il monasterio delle Convertite, acciocché, si come le vergini, consacrate al servizio di Dio, hanno ricetto per conservarsi, così le peccatrici pentite, habbiano parimente, dove salvarsi in tutto dai peccati quivi dimorando assai gran numero di donne, tutte bellissime, (perciocché non si accettano se non quelle, che hanno somme beltà, pentendosi, non ricaggino né peccati per le forme loro, attrative degli altri desideri) si esercitassero con ordine mirabile in diversi artefici.
In seguito troviamo notizie del Convento nelle cronache della Serenissima, ai primi decenni del secolo16°, quando le pentite, che già ricamavano e lavoravano il merletto, divennero esperte e attive anche nell'arte della stampa di libri, sia per il convento che per conto di terzi, come la tipografia All'insegna della Speranza di Campo S.Maria Formosa.
Per soccorrere l'estrema povertà di queste religiose, il 31 luglio 1601, il Senato Veneto con suo decreto, nominò dodici governatori, metà patrizi e metà cittadini, divenuti poi venti, perché prestassero loro la necessaria assistenza.
Molti anni dopo, in seguito a un'epidemia di colera, scoppiata tra la popolazione tra il 1835 e il "37, il Monastero delle Convertite fu trasformato in Ospedale e così pure nel 1848, nel corso della rivolta di Venezia contro l'Austria, per curare le malattie contagiose e i feriti; tanto che il 14 luglio 1849 venne istituito un vero e proprio Ospedale Militare con ben cinquecento degenti.
La zona di S.Eufemia, dove oggi sorge la Casa di Reclusione, ospitava già ai tempi del Monastero, in un fabbricato del conciapelli Pivato, detta baracon, alcuni poveri e sfrattati e all'interno di essa, un carcere di quartiere, detto Cason, per i reati meno gravi.
Le due case di Correzione, quella Femminile e quella Maschile, chiamate anche di Forza e poi di Lavoro, sorsero nel 1856 sotto l'occupazione austriaca, nei conventi soppressi da Napoleone nel 1808: quello della Croce per gli uomini e quello delle Convertite per le donne. In quest'ultimo si trova ancora oggi una lapide in memoria dell'imperatore Francesco Giuseppe I° d'Austria, che ebbe il gran merito di far togliere alle donne la palla di ferro al piede.
Ma a distanza di quindici giorni dall'inaugurazione della Casa Femminile, avvenuta il 15 aprile 1856, con solamente quindici suore di carità e un cappellano per sorvegliare trecentoventi detenute, le carcerate furono trasferite a Innsbruck a causa della guerra e l'edificio ridivenne un carcere solo nel 1859. La prigione ha dunque circa centocinquant'anni di attività e tra le sue mura furono rinchiuse donne famose come la contessa Maria Tarnowska nel 1910 e Rina Fort, chiamata all'epoca del suo arresto, nel 1946, "il mostro di San Gregorio".
Durante l'ultima guerra l'affluenza all'interno della Casa raggiunse il record di cinquecento recluse su una capienza massima di cento.
Questo istituto penitenziario rientra, al tempo stesso, nella categoria delle Case Circondariali e di Reclusione, dove per le prime si intende quello strumento di custodia cautelare destinato: ". alla custodia degli imputati a disposizione di ogni autorità giudiziaria e sono istituite nei capoluoghi di circondario (denominazione con la quale si designa la sfera di competenza del tribunale ordinario)." 5 Mentre per le seconde si fa riferimento a istituti destinati: ". all'esecuzione della pena della reclusione. E" previsto che apposite sezioni per l'espiazione della pena della reclusione siano istituite presso le case di custodia circondariali."
I.2. Organizzazione della struttura odierna
Ma com'è la vita in questo carcere oggi? L'ex convento, a suo tempo restaurato, si presenta come un ampio spazio variamente articolato e circondato dagli edifici preposti ai differenti servizi.
In portineria è presente un nucleo di polizia penitenziaria, mentre all'interno sono stati ricavati l'ufficio matricola per l'ammissione, cioè le pratiche di accertamento e accoglienza delle "nuove giunte", come vengono chiamate in gergo carcerario, gli studi degli psicologi e dell'educatrice, l'amministrazione e la direzione. Adiacenti a questi, il comando delle agenti di polizia, la cucina e la lavanderia.
Per il passeggio, luogo destinato al tempo libero all'aperto, è a disposizione un cortile con delle panchine e qualche albero, che è grande quasi quanto la piazza di un piccolo paese.
Nella c.d. sezione si trovano le celle: grandi camere che possono contenere fino a otto posti letto e più (compresi quelli a castello) una piccola cucina, un bagno, un tavolo con le sedie e la televisione.
Oltre alla cappella per le funzioni religiose, c'è un grande spazio, destinato a palestra, che ospita tutte le iniziative sportive, ricreative e culturali proposte dalla Direzione, dal Comune e dalle associazioni di volontariato. Quindi una piccola biblioteca e un grande laboratorio di sartoria, l'angolo della parrucchiera, l'aula per le lezioni scolastiche con televisione e videoregistratore per la visione dei film e l'aula computer, dove viene redatto anche il giornale Ristretti Orizzonti a cura di alcune detenute in collaborazione con il carcere maschile di Padova "Due Palazzi", edito dall'associazione di volontariato "Il Granello di Senape".
Nell'infermeria ci sono altre grandi camere destinate agli eventuali ricoveri e lo studio medico, mentre le recluse con figli di età inferiore ai tre anni hanno a disposizione anche uno spazio destinato ad asilo nido.
Ma fiore all'occhiello di questo istituto penitenziario è un grande orto-giardino, che si affaccia sulla laguna, dove le recluse che vi lavorano, oltre che alla manutenzione del verde, si dedicano alla coltivazione e raccolta degli ortaggi.
I.3. L'offerta formativa e l'organizzazione del tempo
Le attività che scandiscono la vita della Casa sono molteplici, in applicazione al complesso normativo della legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni, indicato come Ordinamento Penitenziario (d'ora in poi, O.P.) e in particolare dell'art.16 sul Regolamento d'Istituto. Questa legge, almeno sul piano teorico, in materia di privazione della libertà, si allinea con le regole minime indicate dall'O.N.U. nel 1955 e dal Consiglio d'Europa: "Il trattamento penitenziario comprende quel complesso di norme e di attività che regolano ed assistono la privazione della libertà per l'esecuzione di una sanzione penale." L'art. 1 O.P. stabilisce che "il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali; a opinioni politiche e a credenze religiose". E ad integrazione di ciò, nell'art.1 del D.P.R. 30 giugno 2000, n.230, si legge anche:
1.Il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali. 2. Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale.
La portata del fenomeno dell'immigrazione, clandestina e non, in continuo aumento, è riscontrabile in modo macroscopico proprio nella tipologia delle persone incarcerate.
Al momento in cui scrivo la popolazione detenuta risulta così composta: circa novanta donne, con un'età media che va dai 25 ai 45 anni, delle quali 50% sono italiane, 50% straniere (per lo più extracomunitarie, soprattutto nigeriane, slave e sudamericane) mentre circa il 25% del totale sono tossicodipendenti.
Ultimamente c'è un lieve calo delle extracomunitarie per effetto del decreto di espulsione della legge Bossi-Fini e un aumento delle nomadi dell'est.
La giornata comincia alle ore 8.00, con l'apertura del blindo (così viene chiamata la porta della cella in gergo) e si conclude alle 20.00 quando viene chiuso (alle 22.00 le celle con mamme e bambini). In queste dodici ore le donne sono libere di muoversi nei vari spazi, di andare a lavorare o a scuola.
Da un lato l'offerta formativa di tipo scolastico (diciotto ore alla settimana con frequenza libera) che comprende la scuola elementare con l'insegnamento dell'italiano alle straniere, la scuola media e superiore, l'insegnamento dell'inglese e dell'informatica, dall'altro l'obbligo per alcune o la possibilità, per altre, di un lavoro remunerato, quando c'è, e di formazione professionale. E" il caso del laboratorio di sartoria, guidato da un'insegnante di una delle due cooperative sociali che collaborano con la Casa, "Il Cerchio". Qui le donne lavorano alla creazione di borse, magliette, abiti, bigiotteria con perle tipiche veneziane (oggetti che vengono poi venduti nel negozio Banco N° 10 e in mercatini occasionali) ma anche di preziosi costumi d'epoca del settecento veneziano, che sono stati in mostra, nella primavera del 2003, a Palazzo Mocenigo, il Centro Studi del Tessuto e del Costume di Venezia.
L'altra cooperativa "Rio Terà dei Pensieri" fornisce lavoro sia attraverso un laboratorio di cosmetica, guidato da un insegnante della scuola, per produrre saponette e bagni schiuma, acquistati anche dai grandi alberghi veneziani, che attraverso l'orto. Le donne che lavorano in quest'ultimo hanno il permesso, un giorno alla settimana, di vendere i prodotti coltivati alla gente del luogo, allestendo un piccolo banco proprio all'esterno del carcere.
Alcuni lavori sono fissi come, per esempio, quello di operaia specializzata in piccole riparazioni e manutenzioni, ma per la maggior parte delle altre ci sono dei veri e propri turni di lavoro: la cucina, le pulizie, l'attività di parrucchiera e di lavanderia.
Il lavoro temporaneo dura circa quindici giorni, poi segue una sospensione di settimane o mesi. Questo dipende dall'ammontare delle risorse finanziarie erogate dal Ministero di Grazia e Giustizia. Vengono privilegiate le detenute più povere, come le straniere, mentre le detenute sottoposte alle misure di sicurezza, in art.21, sono obbligate a lavorare e retribuite con la Borsa Lavoro, erogata dal Comune, attraverso il lavoro fornito dalle due cooperative sociali summenzionate. Queste cooperative, sorte nel 1997, col patrocinio di Regione, Provincia e Comune, cercano di occuparsi anche del reinserimento lavorativo delle ex detenute.
All'apertura del blindo, al mattino, viene distribuito il latte, alle 13.00 il pranzo e alle 19.00 la cena. Il passeggio all'esterno è consentito dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 16.00 (dalle 16.00 alle 18.00, d'estate).
Due volte alla settimana le detenute hanno diritto ai colloqui con i famigliari, da un'ora a tre ore, secondo il caso, per un totale di sei ore al mese. Inoltre possono ricevere quattro pacchi al mese per un totale di venti chili, effettuare una telefonata alla settimana di dieci minuti ciascuna, inoltrare e ricevere posta.
Per quanto riguarda la mercede guadagnata, l'art.145 del Codice Penale e di Procedura Penale, Titolo V - Modificazione, Applicazione ed Esecuzione della Pena, recita: "Sulla remunerazione per il lavoro prestato, alle condannate, sono prelevate: 1) le somme dovute a a titolo di risarcimento del danno; 2) le spese che lo Stato sostiene per il mantenimento del condannato; 3) le somme dovute a titolo di rimborso delle spese di procedimento."
Dallo stipendio viene ancora tolto il 3,5% per l'assicurazione sul lavoro.
La partecipazione alle attività sportive, ricreative e culturali è considerata un elemento rilevante nel quadro della rieducazione e riabilitazione delle detenute. All'art. 59 del D.P.R. 30 giugno 2000, n.230 si legge: "1. I programmi delle attività culturali, ricreative e sportive sono articolati in modo da favorire possibilità di espressioni differenziate. Tali attività devono essere organizzate in modo da favorire la partecipazione dei detenuti e internati lavoratori e studenti." Questo a integrazione di quanto già stabilito all'art.27 O.P.: "Negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo." A questo scopo vengono previste all'interno della Casa, gli interventi di vari operatori per realizzare attività di tipo espressivo e ricreativo, in parte periodicamente, in parte continuativamente.
Per tutto l'anno scolastico, due volte alla settimana, per un'ora e mezzo al pomeriggio, funziona un laboratorio di teatro-danza, guidato da un insegnante della scuola. Questo lavoro consiste in un allenamento in palestra con la musica, seguito dalla progressiva costruzione di una coreografia, finalizzata, di solito, a uno spettacolo di fine corso.
Ma anche il dipartimento delle politiche sociali del Comune di Venezia dispone degli interventi periodici con spettacoli di teatro o concerti di musica, come pure le associazioni di volontariato.
Le recluse interessate a partecipare a queste attività devono presentare una domandina alla Direzione.
Per dare maggior applicazione a quanto detto sopra, è stato anche sottoscritto, all'inizio di quest'anno, dopo il successo dello spettacolo teatrale Shooting Romeo and Juliet nel carcere di Rebibbia a Roma, un accordo di ancor più stretta collaborazione tra Il Ministero dei Beni Culturali e il Ministero di Grazia e Giustizia, per introdurre all'interno delle carceri, sempre più frequentemente, laboratori teatrali professionalizzanti: dalla recitazione, alla scenotecnica, ai costumi. Questo nell'intento di "formare" i partecipanti detenuti e di offrir loro, una volta scontata la pena, una concreta possibilità di lavoro.
I.4. La tutela della salute fisica e mentale
L'art. 11 O.P. recita: "Ogni istituto penitenziario è dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati; dispone, inoltre, dell'opera di almeno uno specialista in psichiatria."
Si specifica, in seguito, nel D.P.R. n.230/2000 che particolare attenzione va prestata alle attività di medicina preventiva, al fine di evitare lo sviluppo di forme patologiche legate anche a situazioni di inerzia e diminuzione del movimento fisico.
A Venezia il servizio è prestato sei giorni su sette, dal lunedì al sabato, per tre ore al giorno, da un Direttore Sanitario che riceve, in un'infermeria attrezzata per la degenza e le terapie infusionali, le detenute per gli accertamenti sanitari d'obbligo.
Il medico è tenuto a visitare ogni giorno le ammalate o le donne che lo richiedono e segnalare eventuali malattie contagiose (da isolare) o gravi, per prescrivere le analisi e le cure specialistiche opportune; inoltre garantire l'assistenza sanitaria anche alle gestanti e alle puerpere e verificare regolarmente se le recluse hanno il requisito di idoneità al lavoro assegnato.
Dopo l'ammissione, risiedono temporaneamente qui, per un breve periodo di adattamento, anche le "nuove giunte" prima di trovare collocazione adeguata in una cella, oppure, se si dà il caso, le donne che si trovano a vivere una situazione conflittuale con altre detenute.
Anche le tossicodipendenti possono restare in osservazione in infermeria per la cura col metadone e sono affidate ad un medico del Sert, il servizio tossicodipendenze del Sistema Sanitario Nazionale, che se ne occupa sei giorni su sette per un'ora al giorno, lavorando in stretta collaborazione col Dipartimento di salute mentale (Dsm).
Ma ci sono altri specialisti che prestano servizio di consulenza periodicamente con rapporto convenzionale, come il pediatra, l'infettivologo, l'odontoiatra e il ginecologo.
Ad integrazione di questi servizi, dalle 20.00 alle 8.00 nei giorni feriali e per ventiquattrore ore nei festivi, è a disposizione dell'Istituto, un medico di guardia; inoltre collaborano con tutto il corpo medico tre infermiere, di cui due suore, con tre turni giornalieri per un totale di diciotto ore al giorno.
Quest'ultime s'incaricano di somministrare i farmaci, tre volte al giorno, passando con un carrello nei corridoi adiacenti alle celle per distribuire le terapie prescritte dai medici, e tra queste, anche gli psicofarmaci (antidepressivi e sonniferi) soprannominati in gergo dalle recluse la terapia.
La tutela della salute mentale, invece, è affidata al Centro di salute mentale (Csm) di Venezia, come prescritto dal Progetto Obiettivo salute mentale 1999-2000: "Nel caso di sospetto di malattia psichica sono adottati senza indugio i provvedimenti del caso col rispetto delle norme concernenti l'assistenza psichiatrica e la sanità mentale", reg. 20, Art 11, l. O.P.
Una volta alla settimana, per due ore, uno psichiatra del Csm è a disposizione delle recluse all'interno della Casa. Ma le donne che dovessero presentare la necessità di cure psichiatriche urgenti, vengono trasferite dagli agenti di polizia penitenziaria direttamente al Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura dell'Ospedale Civile di Venezia.
Per tutte le patologìe accusate, inoltre, le internate e le detenute hanno la facoltà, previa richiesta alla Direzione, di ricevere, a proprie spese, nell'infermeria dell'Istituto, la consulenza medica di un professionista di fiducia.
All'interno del carcere si alternano anche tre psicologi e un'educatrice, che tengono colloqui terapeutici e stendono i pareri (andranno, poi, a comporre le relazioni di sintesi) per il Magistrato di Sorveglianza, gli insegnanti, gli assistenti sociali e i gruppi di volontariato e ancora, tutte le mattine, una suora della Congregazione delle Suore di Carità di Venezia e il Cappellano che ci va tre volte alla settimana per colloqui e funzioni religiose.
Di norma una volta al mese, la Direttrice tiene con gli operatori socio-sanitari una riunione d'équipe, che è l'espressione della multidisciplinarietà degli interventi, in cui si discutono le ipotesi di trattamento e si concordano le risposte adeguate ai problemi emergenti.
Il regolamento dell'Ordinamento Penitenziario prevede una serie di misure specifiche anche per la malattia mentale.
Nei casi in cui il disagio mentale diventi significativo e si manifesti con comportamenti disturbati, lo psichiatra ha facoltà di mandare le detenute all'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, (d'ora in poi O.P.G.) per un periodo d'osservazione di trenta giorni, al termine del quale, di solito, si rientra in carcere.
Tuttavia le recenti circolari del Ministero di Grazia e Giustizia per l'accertamento dell'infermità psichica invitano a usare questa misura solo in casi di estrema necessità e ad avvalersi preferibilmente dei servizi territoriali, come il Dsm, di cui parlerò dettagliatamente in seguito.
Di O.P.G., in Italia ce ne sono ancora sei, chiamati anche "manicomi criminali" (Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Reggio Emilia, Barcellona Pozzo di Gotto e Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, che è l'unico ad avere un reparto femminile). Questa istituzione rappresenta un'anomalìa rispetto a quanto disposto con l'approvazione della famosa legge 180, il 13 maggio 1978 (inserita poi nella legge n. 833, 23 dicembre 1978, a istituzione del Servizio Sanitario Nazionale) fortemente voluta e ottenuta da Franco Basaglia, dopo anni di lotte intese a far chiudere i manicomi in Italia.
Prima di parlare di questo Istituto, vorrei sottolineare che parlare di salute mentale in ambito penitenziario suona come una contraddizione in termini, perché la carcerazione non può che produrre sofferenza. Quello che è emerso durante il tirocinio a Venezia è che, normalmente, forme di disagio mentale compaiono successivamente alla detenzione.
Per contro, se nel disagio mentale si fanno rientrare di solito sintomi che vanno dalle alterazioni della struttura della personalità, a un comportamento alterato rispetto alla norma, fino ai sintomi psichiatrici, in questa Casa di Reclusione esso si manifesta soprattutto attraverso disturbi psicosomatici di varia entità, come per esempio la gastrite (patologìa dello stomaco, legata anche a fenomeni di carattere nervoso) o la difficoltà di digestione, (rimandando, probabilmente, quest'ultima al significato latente di difficoltà di "mandar giù la detenzione") e con episodi di depressione, in psichiatria indicata come: ". quel particolare stato d'animo comunemente definito o come tristezza o come malinconia o come abbattimento o, nei casi più gravi, come disperazione." Di cui tutte, in misura minore o maggiore, prima o poi, soffrono.
Nella fattispecie, i sintomi di questa penosissima patologìa, riscontrati a Venezia, rientrano nelle alterazioni del comportamento, come l'insonnia e l'ansia, il rallentamento psicomotorio e l'abbassamento del tono dell'umore.
Legati alla condizione della carcerazione di alcune donne, risultano essere anche i fenomeni conosciuti sotto il nome di regressione, intendendo per essa, quel tipo di adattamento, passività, ritiro dell'attenzione, riduzione del proprio coinvolgimento negli eventi che richiedono invece partecipazione, che si rischiano nelle cosiddette istituzioni totali come la caserma, il manicomio e l'istituzione carceraria:
Un'istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. 9
Questo problema è stato in parte risolto fornendo, recentemente, maggiori occasioni di lavoro, che permettono alle recluse di assumere dei ritmi di vita più regolari.
Si aggiungono a questi sintomi, per alcune, la messa in atto di meccanismi di difesa, che consistono non solo nella negazione dei reati commessi, ma anche della propria condizione di recluse, con conseguente evasione dalla realtà. Questo tipo di meccanismo di difesa è stato studiato molto bene da Anna Freud, la quale sviluppando le teorie del suo più famoso padre, nonché padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, lo ha definito come la capacità dell'Io di liberarsi di una realtà dolorosa, negandola e sostituendola con delle fantasie o parole o atti.
Inoltre, a fine pena e presunta rieducazione avvenuta, tra i vari problemi che queste donne si trovano ad affrontare (reinserimento sociale-lavorativo e recupero della sessualità e delle relazioni affettive) c'è anche la paura di "uscire", di non essere, cioè, in grado di riabituarsi ai ritmi di vita normali e di venir "stigmatizzate", segnate a vita dal marchio della detenzione.
Il problema maggiore a Venezia, sembra, comunque, essere quello legato al sovraffollamento, ancor di più dopo l'arrivo di un certo numero di detenute dal carcere lombardo di Opera, in Lombardia, recentemente svuotato per diventare sezione di massima sicurezza per i "detenuti del 41 bis"(reati di mafia).
In seguito a questa operazione, le detenute sono passate da circa settanta a circa novanta.
Questo ha significato avere degli spazi ancor più ridotti nelle celle, aumentando i problemi dovuti alla promiscuità di reati, etnie e costumi sociali (insofferenza, paura, tensione): "Quando la coabitazione forzata diventa una pena nella pena.Le conseguenze a volte sono insopportabilmente pesanti, e non tutti riescono a uscirne "indenni" mentalmente."
Inoltre ogni nuovo arrivo nelle celle, facendo rivivere alle recluse la situazione drammatica dell'arresto e dell'internamento con tutto il suo carico di dolore, comporta anche la necessità da parte loro di fornire un supporto psicologico alle ultime arrivate.
In realtà niente è separato a Venezia, oltre alle celle, tutti gli spazi sono "aperti", questo accade un po' perché la struttura dell'antico convento non consente grandi interventi di ristrutturazione edilizia e un po' perché il concetto di "apertura" viene identificato con un trattamento carcerario più umano e democratico.
Questa situazione, d'altro canto, se per alcune compensa in parte la privazione della libertà, per altre riduce la possibilità di ricostruire il proprio spazio vitale fuori e dentro di sé, a partire dalle riflessioni possibili nel silenzio della propria intimità, per studiare, leggere, ascoltarsi, per poter fare della propria cella uno spazio in cui riconoscersi, riporre le proprie cose ed essere più stimolate a partecipare alle attività che si svolgono all'esterno di essa.
La "vera vita" nelle celle comincia solo alla sera, quando vengono chiuse e si compongono equilibri personali diversi, sebbene continui il rumore di fondo della televisione, tenuta accesa in continuazione fino circa alle due di notte.
In controtendenza sembra essere la situazione di alcune extra-comunitarie per le quali, paradossalmente, la carcerazione si rivela un'opportunità. Qui, infatti, hanno la possibilità di accedere a cure mediche gratuite, imparare l'italiano e, in seguito, usufruendo della semi-libertà e dell'affidamento ai servizi sociali, ottenere un lavoro regolare e pagato sino a fine pena. Questo, tra l'altro, pare essere tutto ciò a cui aspirano se sono prive di un supporto psicologico e materiale esterno. Ma ora, con l'approvazione della legge Bossi-Fini, anche queste donne, scontata la pena, non avendo il permesso di soggiorno in regola, saranno soggette all'espulsione.
Un altro paradosso è rappresentato dal fatto che anche le italiane appartenenti alle fasce sociali più povere e sottoculturate vengono a contatto con stimoli e opportunità di studio e formazione, che se fossero stati facilmente accessibili, prima, all'esterno, probabilmente avrebbero fornito loro le difese necessarie per evitare di commettere reati.
Tutte, naturalmente, soffrono della lontananza dalle famiglie e dalle relazioni amorose e vorrebbero avere a disposizione un maggior numero di colloqui con gli operatori socio-assistenziali, in cui poter parlare "liberamente". A questo proposito, recentemente la cooperativa sociale "Il granello di senape" ha raccolto e pubblicato un libro di testimonianze, Donne in sospeso, in cui molte ristrette, come si chiamano tra loro in gergo, raccontano "pezzi" della loro storia, le difficoltà quotidiane, la corrispondenza con degli sconosciuti anch'essi detenuti, le frustrazioni e le fantasie sessuali: "Bisognerebbe parlare di più di quella pena accessoria che è il blocco delle emozioni e delle pulsioni che la detenzione provoca."
Questo libro, con la prefazione di Franca Ciampi, è stato presentato con successo, all'interno del carcere, l'otto marzo, per la festa della donna, ad un vasto pubblico di politici, giornalisti e operatori socioassistenziali.
I.5. Il quadro normativo
L'evoluzione delle leggi in materia penitenziaria va considerata, tenendo conto che queste si sono sostituite di fatto alla mancata riforma del sistema penale in Italia, riforma che tutti i paesi dell'Europa continentale hanno invece attuato, introducendo sanzioni alternative a quella carceraria e con pene molto inferiori a quelle previste dal nostro codice penale.
Le fonti normative che regolano la vita carceraria sono da ricercarsi, quindi, in ordine gerarchico, oltre che nella Costituzione della Repubblica Italiana (1° gennaio 1948) e nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (adottata a Roma il 4 novembre 1950, esecutiva nel'55, in seguito modificata a Strasburgo nel "94 e entrata in vigore in Italia nel "98), soprattutto nella legge 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
L'approvazione di questa legge, che sta alla base del vigente ordinamento penitenziario, segna l'inizio della c.d. riforma penitenziaria. Questa riconosce ai detenuti dei diritti spendibili nei confronti di un giudice, il Magistrato di Sorveglianza, con funzione di vigilanza, ma anche garante della legalità, introducendo il principio di flessibilità nell'esecuzione della pena e segnando il passaggio da un sistema fortemente repressivo che discendeva ancora dal Codice Rocco del 1930, a un sistema di retribuzione penale, ma con finalità risocializzante, come prescritto dall'art. 27 della Costituzione, per il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.
La riforma venne poi completata e modificata in modo importante dalle successive normative introdotte dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, la c.d. legge Gozzini, dal nome del senatore Mario Gozzini che l'ha sottoscritta, il quale, in attuazione al principio della flessibilità della pena, introduce dei nuovi strumenti per consentire un graduale reinserimento dei detenuti nella società.
Questi strumenti, meglio noti come "benefici" consistono in differenti misure alternative alla carcerazione: lavoro all'esterno, permessi premio, affidamento in prova al servizio sociale, affidamento in prova in casi particolari, detenzione domiciliare, semilibertà e liberazione anticipata.
Altre modificazioni la riforma penitenziaria le ha subite con le restrizioni introdotte nel 1991-92, dopo i gravi delitti di mafia di quegli anni.
Ma gli strumenti per l'attuazione concreta delle norme penitenziarie vengono definiti dal -D.P.R. 30 giugno 2000, n.230/2000, che approva il Nuovo regolamento di esecuzione alla legge 354/75, in sostituzione del precedente DPR, n.431/76.
Gerarchicamente sottoposto alle dette fonti normative, si colloca, infine, il regolamento d'istituto, previsto dall'art.16 O.P.
Una risposta significativa ai problemi di disagio mentale citati precedentemente, la danno le indicazioni e disposizioni contenute nel Progetto obiettivo salute mentale 1999-2000 (Dpr. 274/99) che ha rivoluzionato la concezione di assistenza psichiatrica, a conferma di quanto già espresso dalla legge 180.
Questo progetto nacque per regolamentare l'assistenza psichiatrica in Italia, definendo: ".gli impegni operativi e l'organizzazione idonei a realizzare le attività sanitarie e socio assistenziali, volte a perseguire la tutela della salute dei soggetti con disturbi mentali." A tal fine venne istituita una struttura organizzativa e di coordinamento, il Dipartimento di salute mentale (Dsm) con dei servizi creati apposta per garantirne i livelli standard di funzionamento.
Le indicazioni contenute nel Progetto obiettivo: ".valorizzano il principio della continuità terapeutica e dell'azione congiunta e coordinata dei servizi sociali, sanitari, di salute mentale, delle istituzioni, delle forme organizzate della comunità che operano in un territorio e delle persone che vi abitano."
Il Dsm, struttura fondante dell'organizzazione territoriale prevista dal Progetto obiettivo ha compiti terapeutici, riabilitativi e di reinserimento sociale, proprio perché scopo ultimo di quest'ultimo è quello di creare le condizioni necessarie a restituire la persona alla vita collettiva: casa, lavoro, relazioni affettive.
Tra le innumerevoli attività a cui il Dsm è chiamato, ci sono anche gli interventi per la tutela della salute mentale in ambito penitenziario, attraverso il Centro di salute mentale (Csm) una delle tre unità operative in cui esso è organizzato; le altre sono: il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) e le strutture residenziali e semiresidenziali (Sr).
E" il Csm che si occupa della presa in carico delle persone con disturbo mentale di un certo territorio, prestando, nel settore di studi considerato, visita domiciliare alle persone carcerate.
Esso è definito dal Progetto Obiettivo come: ".la sede organizzativa dell'équipe di operatori e del coordinamento degli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale, aperta almeno dodici ore al giorno."
Anche le persone con disturbo mentale che commettono un reato sono sottoposte al Codice penale: gli artt. 88 e 89 disciplinano rispettivamente l'infermità totale o parziale di mente, cioè se la capacità di intendere e volere del soggetto incriminato sia stata totalmente o parzialmente assente al momento del reato, ipotizzando uno stato patologico che influisce su volontà e intelligenza della persona.
Per verificarlo il giudice ordina una perizia psichiatrica del soggetto e in base a questa ne stabilisce l'imputabilità.
Se viene riscontrata assenza di infermità mentale, il giudizio condurrà a un normale processo e eventuale carcerazione; nel caso di infermità mentale, invece, si delineano due diversi percorsi processuali, così come dichiarati dai suddetti articoli:
II. Art. 88: "Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e volere." In questo caso c'è totale infermità di mente; il soggetto viene prosciolto, ma per la sua pericolosità sociale, inviato all'O.P.G.
III. Art. 89: "Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita." In questo caso c'è seminfermità di mente, cioè una parziale capacità di intendere e volere; il soggetto è imputabile, subisce un regolare processo e se condannato, dopo aver scontato la pena, diminuita di un terzo, può venir assegnato a una misura di sicurezza (casa di cura e custodia o O.P.G.).
Nel caso di proscioglimento per infermità mentale, art. 88, o per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, viene sempre ordinato il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo di due, cinque o dieci anni, a seconda della gravità del reato.
Da sottolineare il fatto che il vizio parziale di mente si differenzia da quello totale solo in base alla quantità, al diverso grado dell'alterazione mentale, quindi non è un'insufficienza che riguarda solo una parte della mente, ma quello che riguarda tutta la mente in modo meno grave.
La persistenza degli O.P.G. viene riconosciuta da molti addetti ai lavori come incostituzionale. E" per questa ragione che ultimamente sono state presentate in Parlamento varie proposte di legge per abolirli. Sostanzialmente esse prefigurano due percorsi di cambiamento. Uno di questi ipotizza di trasferire gradatamente gli O.P.G. all'amministrazione sanitaria di ciascuna Regione. In questo caso essi verrebbero un po' alla volta eliminati per essere sostituiti da strutture residenziali con al massimo venti posti, destinati a chi è sottoposto a misure di sicurezza e fermi restando gli artt. 88 e 89 del C.P.
Le persone, in tal modo, si troverebbero vicine alla propria realtà territoriale e al Dsm di riferimento, che dovrà prenderle in carico, una volta cessata la misura di sicurezza.
L'altro percorso propone di abrogare gli artt. 88 e 89 e di non distinguere i cittadini rei, tra quelli disturbati mentalmente e quelli sani, sottoponendo entrambi a giudizio. In questo caso essi subirebbero un regolare processo e un'eventuale condanna.
In quanto all'espiazione della pena, si tratterebbe di attivare dei programmi terapeutici e riabilitativi, a seconda del disturbo mentale riscontrato, sia all'interno del carcere, che facendo maggior ricorso alle varie misure alternative, già previste.
Così facendo questi cittadini riacquisterebbero pienamente tutti i loro diritti, compreso quello di essere condannati, assumendosi la responsabilità del loro operato nei confronti della società. Mentre un maggior impegno verrebbe delegato ai servizi per il recupero delle persone.
IV. Il tirocinio: "Esperienze di comunicazione verbale e non verbale nell'ambito di attività espressive"
La pratica di tirocinio è cominciata con una serie di incontri di socializzazione per conoscere e farmi conoscere dalle donne ospiti dell'Istituto e per spiegare il perché della mia presenza "dentro".
Già il primo giorno, la prima ora, il primo minuto a contatto con loro, è stato, sotto l'aspetto emotivo, profondamente impegnativo per il tentativo di stabilire un contatto empatico fin dall'inizio.
La tutor mi ha accompagnata al passeggio, dove molte donne stavano al sole, mi ha presentato e dato la parola. Allora ho invitate tutte quante a riunirsi attorno a me con le panchine per formare un cerchio e ho cominciato a raccontare chi ero, cosa stavo facendo e perché avevo cercato di fare pratica lì.
Mentre parlavo e spiegavo gli interventi che avrei voluto fare, le loro reazioni erano molto diverse: occhi dubbiosi, sospettosi, curiosi, ma anche sorridenti, entusiasti e speranzosi. Ho spiegato che oltre a interagire con loro per motivi di studio e per trasmettere delle competenze attraverso il gioco, ero lì per "imparare", anch'io, dai loro problemi e che le regole, per una volta, le avremmo stabilite insieme, così molte di esse hanno espresso il desiderio di collaborare e mi hanno liberamente raccontato un po' della loro storia.
Questi incontri si sono ripetuti per qualche settimana, poi ho avuto la possibilità di collaborare all'interno dei due gruppi di lavoro che si erano formati per aderire alle attività espressive proposte.
II.1. Il laboratorio di improvvisazione teatrale
Un gruppo aveva aderito a un laboratorio teatrale finalizzato alla realizzazione di un video, ispirato alla favola di Amore e Psiche, programma proposto dal Comune di Venezia, Assessorato alle politiche sociali con la collaborazione di un gruppo teatrale padovano.
In questo caso la storia di Psiche, che si prepara ad andare in sposa ad Amore, è stata usata come pretesto per improvvisare ed esprimere il proprio mondo interiore: "Puntiamo sulle emozioni di paura e desiderio che una donna si trova a provare in questa occasione." Hanno proposto gli animatori.
A questo progetto di dodici incontri, hanno partecipato circa nove detenute, per lo più straniere, poiché per la maggior parte delle altre, apparire in un video che sarebbe circolato all'esterno, avrebbe costituito un problema.
Ogni incontro, di circa due ore, aveva un tema e una scena da realizzare.
All'inizio non è stato facile per gli animatori "rompere il ghiaccio".
Le donne, soprattutto le straniere, che erano la maggioranza, faticavano a capire sia il linguaggio usato, talvolta troppo tecnico, che il senso della storia e quindi non era facile per loro trovare il coraggio di esporsi in un'improvvisazione. Poi un po' alla volta, con l'aiuto di tutti, le cose hanno cominciato a "ingranare".
Ogni intervento cominciava sempre con un riscaldamento prima fisico e poi vocale.
Le donne, ascoltata la favola mitologica, venivano invitate a improvvisare una breve scenetta sul tema proposto, utilizzando alcuni oggetti messi a disposizione: un tavolo, una sedia, una candela, un libro, una valigia, una caraffa d'acqua, un bicchiere e altri ancora. Alcune improvvisazioni si sono rivelate particolarmente divertenti e illuminanti, come quella di una ragazza, che ha riempito la valigia e ha fatto per andarsene, o come quella di Katharina, un'ex-ballerina professionista, che ha cercato, contorcendosi, di "sparire" dentro la valigia.
Particolarmente espressive si sono dimostrate le nomadi, con un talento innato per lo spettacolo, che hanno colto l'occasione, nella finzione, di parlare con i loro uomini lontani, chiedendo loro di non essere dimenticate e tradite durante la loro detenzione. Una di loro, in particolare, ci ha regalato momenti di vera commozione, sia per le sue doti di danzatrice, sia quando, recitando, si è augurata che i suoi figli, uno dei quali, in prigione con lei, abbiano un destino diverso dal suo.
Per ogni incontro veniva allestito un minimo di scenografia e illuminazione, funzionali al tema proposto. Questo comportava una certa perdita di tempo iniziale che, talvolta, penalizzava il coinvolgimento e la partecipazione del gruppo.
Per contro tutte si adoperavano con fantasìa per "trasformarsi", facendosi aiutare a realizzare dei costumi con le stoffe che avevo messo a disposizione.
Le improvvisazioni venivano poi riprese con una videocamera professionale e alla fine di ogni incontro era possibile per loro rivedersi in un monitor collegato ad essa.
Allora era molto interessante vedere le loro facce e sentire i loro commenti. In quelle due ore il carcere veniva "rimosso", la possibilità di identificarsi in altri ruoli femminili creati lì per lì, dava loro l'occasione di stemperare sofferenza, aspettative e speranze e le metteva in condizione di rivivere differenti situazioni emotive.
Si confermava il potere che la musica ha di coinvolgere, di rompere il riserbo e gli imbarazzi, di avere la meglio sulla difficoltà di capire l'italiano, perché è un linguaggio universale che tutti unisce: era emozione pura e fluida che vibrava palpabile nell'aria.
Le protagoniste assolute erano loro, con il loro mondo che voleva uscire prepotentemente, con i giochi e le loro genuine risate e poi il piacere di vedersi in video come vere attrici, veder crescere la storia a poco a poco con il loro contributo "artistico". Per una volta, sentir di "valere" proprio in virtù di quella situazione "speciale" di detenute.
C'è stata qualcuna che si è ritagliata, alle volte, uno spazio maggiore delle altre, ma in generale, tutte hanno polarizzato l'attenzione, cercando di dare un contributo personale. Alle volte le troppe spiegazioni non erano molto gradite: "Balliamo invece di parlare!" proponeva qualcuna, a un certo punto, come a dire che ogni parola è superflua quando il corpo può già dir tutto.
La storia si è trasformata, alla fine, nella loro storia. La storia di voler "uscire" da sé stesse, per comunicare con l'esterno e trasmettere la gioia e l'umanità forzatamente repressa e nascosta, è cresciuta ed è diventata uno spettacolo.
C'è da dire che oltre a questo gruppo "attivo", in palestra, c'era anche il gruppo del "pubblico" composto da un numero molto maggiore di recluse che facevano da spettatrici. Queste, dal canto loro, partecipando con suggerimenti e giudizi costruttivi, avevano la possibilità di capire le potenzialità delle persone e del mezzo espressivo teatrale e televisivo. Anche per loro immedesimarsi nei vari personaggi può aver avuto una funzione "catartica", la possibilità di rivivere delle emozioni utili sul piano elaborativo.
Così io, stando tra loro, ho avuto l'occasione di conoscerle meglio mentre entravano a poco a poco nella logica della storia e dello spettacolo, di sentire le loro impressioni, la disponibilità o la perplessità di fronte alle varie ipotesi di lavoro, la loro voglia di raccontarsi, anche se stavano al di qua dell'ideale palcoscenico creato dalle luci, uno spazio per tentare di respirare in "libertà".
In entrambi i casi, è stato utilissimo osservare le dinamiche di un gruppo nel "gruppo' delle detenute, quindi non creatosi dal nulla e per caso, come avviene per un gruppo "normale" che si iscrive a un corso o in palestra, ma partendo già da un rapporto esistente di amicizie e/o differenze e che si configura grosso modo sempre con le stesse persone che partecipano in modo attivo a tutto quello che viene proposto, reagendo alla chiusura degli spazi fisici con l'apertura di spazi mentali. Questo gruppo di lavoro, nella fattispecie, era composto da donne già abbastanza affiatate tra loro e all'interno di questo, il gruppo delle nomadi, che come si sa, costituiscono quasi una famiglia a sé stante.
Se l'essere già un gruppo che si conosce rappresenta senz'altro un limite al lavoro possibile, nel corso delle riprese, comunque, la collaborazione fra loro è stata forte, poiché tutte hanno finito per dare un contributo creativo e originale.
Alla fine, con una scena in cui le "attrici" si congedano tutte assieme dal pubblico, con calore e convinzione, il bilancio è stato positivo. Le partecipanti hanno ringraziato gli animatori, ammettendo che si erano divertite molto non solo a "uscire" dal loro ruolo di detenute, ma addirittura a sentirsi "strumenti" di spettacolo, cultura e divertimento.
Il video finito, cioè montato con immagini e musiche, verrà loro presentato successivamente.
II.2. Il laboratorio di teatro-danza
Un secondo gruppo di lavoro, composto da italiane e da straniere, aveva aderito al laboratorio di teatro-danza, arrivando anche a una dozzina di partecipanti. In questo contesto, l'osservazione veniva condotta mentre mi allenavo con loro, mettendomi sul loro stesso piano come compagna di lavoro e collaboratrice del loro insegnante scolastico. Quest'ultimo, già attivo nella danza e nello spettacolo da tempo, ha condotto il lavoro con grande carisma e competenza. L'allenamento serviva a conquistare, a poco a poco, sia la padronanza del corpo, che l'elasticità e la forma fisica, condizioni necessarie per costruire dei movimenti coreografici su musiche di varie epoche e sempre di grande intensità.
Il mio intervento, alla fine dell'allenamento, proponeva alle donne del gruppo di esprimersi con suoni o improvvisazioni vocali, partendo da uno stimolo vocale lanciato, oppure di identificarsi con un certo animale, con la voce e con il corpo. In queste occasioni, le loro prestazioni evidenziavano, a volte, un grande senso dell'umorismo, a volte, la paura di lasciarsi andare, di alzare la voce per liberare le emozioni.
In seguito, per stimolare il loro mondo interiore a esprimersi, ho diffuso un certo numero di copie di poesie di autori contemporanei e classici, tra i quali, Emily Dickinson, poetessa americana dell'800, che pur essendosi autoreclusa per venticinque anni nella propria casa a scrivere, è diventata una delle più grandi poetesse del mondo, esempio di come, anche in una condizione di segregazione, si possano conseguire risultati importanti.
L'occasione per loro di recitare questi testi e lo stimolo a scriverne dei propri, è, poi, arrivata in occasione della visita del Patriarca di Venezia, Mons. Angelo Scola, per l'Epifania.
Col collega di questo corso, col quale si era creato fin dall'inizio un clima di collaborazione e proficuo scambio di intenti, con padre Andrea e suor Gabriella, in poco tempo è stato creato un collage di rappresentazioni per dare forma a uno spettacolo. Così dopo un allestimento scenico, a dir poco miracoloso, per i pochi mezzi a disposizione e con la collaborazione preziosa della sartoria del carcere, lo spettacolo ha visto entrare in scena, prima un gruppo di figli delle recluse vestiti da angioletti, che hanno festeggiato il Patriarca, poi Rachele, una nigeriana che ha cantato un gospel, inneggiando a Gesù Salvatore con una potenza e una convinzione tali, da lasciare il vasto pubblico esterrefatto e divertito.
Lo spettacolo è andato crescendo con Katharina, che ha danzato sulle note di Officium, pezzo tratto da una raccolta di quindici brani sacri (1200-1500) in una prestigiosa registrazione del "94, frutto della collaborazione del gruppo vocale inglese "The Hilliard Ensemble" con il sassofono del norvegese Jan Garbarek; la coreografia, creata dall'insegnante del laboratorio, ha costituito uno dei momenti più commoventi dello spettacolo. Dal soffitto scendeva un lungo pannello di tulle rosso che si prolungava sulle spalle di Katharina, agganciato come un mantello. Lei si muoveva come un angelo che cerca il suo riscatto verso l'alto con movimenti ascensionali, un'ansia di salire per dissolversi nel cielo, finendo per avvolgersi nel tulle e scomparirvi veramente dentro come un bozzolo.
Futura nascita di farfalla in libertà o spazio alla bellezza pura della musica?
Poi un gruppo di donne si è disposto in ordine sparso e ha recitato alcune delle poesie precedentemente proposte, scegliendo di identificarsi in parole, fatte temporaneamente proprie, per esprimere sentimenti nascosti:
".Voglio risentirmi vento
terra
albero che cresce verso il sole
Voglio ricominciarmi
Nascere ancora."(insert nota?)
(di Anna Zannini.)
e
"Ciò che rimane
del gioco del bene e del male
nel bilancio del dopo
è pena che il vento solleva nell'aria .."
(Insert nota?)
(Di Fabia Ghenzovich.)
Altre donne avevano, nel frattempo, scritto poesie proprie: la ragazza sudamericana per cantare tutto l'amore disperato per i suoi figli lontani o la donna matura per descrivere un volto amato: "Anima mia."
Per concludere, alternando due righe a turno, Christine, Lidana e Paola si sono impegnate a teatralizzare una poesia di Pablo Neruda, (NOTA?) che è quasi un manifesto programmatico, altamente significativo nel contesto carcerario, perché recita parole come: ". Accetta la difficoltà di costruire te stesso . Impara a nascere dal dolore . e sarai libero e forte . Tu sei la parte della forza della tua vita " Un testo che, alla fine, invita a: " Non pensare mai al destino, perché il destino è: il pretesto dei falliti."(Tratta da dove?)
Grande successo e applausi di tutto il pubblico: il Patriarca (che ha voluto copia delle poesie per ricordo) e il suo seguito di religiosi, la direttrice, gli operatori sociali, il volontariato, le agenti e soprattutto loro, le recluse-spettatrici molto orgogliose delle recluse-attrici.
Oltre a tutto questo, ricorderò altre situazioni a cui ho assistito nel corso della mia collaborazione, come la festa danzante per il matrimonio in carcere di una ragazza: un momento di salute ed allegria in cui per un po' le ristrette invitate dimenticano tutto e si sentono libere di lasciarsi andare a ballare uno scatenato rock'n roll, sudate e "quasi" felici.
Ricorderò anche i figli attaccati alle gonne delle nomadi e delle africane (per fortuna durante il giorno escono dal penitenziario con le volontarie) e poi le tossicodipendenti con l'aria persa o sciupata, esauste come se avessero già vissuto tre vite in una, scavate, inaridite, prosciugate di linfa vitale fin dentro l'anima.
Tutte, però, si sono dimostrate sensibili alle attenzioni, alla gentilezza, ai sorrisi, alle manifestazioni di simpatia e solidarietà, agli incoraggiamenti a nutrirsi di progetti per un futuro possibile, in una parola, alla "normalità" con cui le si avvicinava.
E ricorderò anche qualche aneddoto divertente, come quello capitatomi durante la festa pre-natalizia, organizzata dalle volontarie del Cavallino (litorale della laguna veneziana). Una di queste, non avendomi mai visto prima all'interno della Casa, mi ha chiesto quanto mi rimanesse da scontare.
Come si è già detto, un limite dei gruppi di lavoro all'interno del carcere è costituito dal fatto che, più o meno, vi partecipano sempre le stesse persone, obbligate a vedersi tutti i giorni e a conoscersi fin troppo bene: quelle più motivate a cor-rispondere al programma di rieducazione previsto dal regolamento penitenziario. Questa condizione rischia di vanificare quel processo di socializzazione, ricco di scambi socioemozionali e influenze reciproche, che assume caratteristiche rilevanti nella vita di gruppo, dando luogo a cambiamenti e innovazioni sociali, intendendo con ciò gli elementi di stimolo e fermento sociale, con cui ogni nuovo membro potenzialmente può arricchire il gruppo che lo accoglie.
In questo senso appartenere a un gruppo, oltre a consentire l'apprendimento di abilità specifiche, permette anche "una ridefinizione della propria identità" nel senso di sperimentare:
.delle esperienze forti di socializzazione, che impongono l'interiorizzazione di modi di vedere la realtà e di routine comportamentali talmente pervasive da produrre inevitabilmente delle trasformazioni dell'identità personale e sociale dell'individuo.
Tuttavia, per quel che ho sperimentato, nel corso delle attività espressive proposte, molte donne hanno avuto l'opportunità di scoprire per la prima volta o di riavvicinarsi a mondi altrimenti lontani o inaccessibili.
Conclusioni
L'esperienza di tirocinio mi ha dato la possibilità di confrontarmi contemporaneamente con culture, razze e modelli di comunicazione molto diversi tra loro, come diverse erano le modalità di espressione della sofferenza e allo stesso tempo di constatare che buona parte delle detenute sono extra-comunitarie o tossicodipendenti e che spesso appartengono alla categoria più povera, emarginata o culturalmente sprovveduta della società, con problemi di difficoltà di comprensione dell'italiano e di sradicamento sociale.
Osservare gli effetti della privazione della libertà sul comportamento ha significato anche per me sottostare a regole e limitazioni, ascoltare le mie reazioni, riflettere su quali risorse attivare e come, nelle varie situazioni, di quali precedenti esperienze avvalermi e individuare quale poteva essere il corretto approccio di interazione nei gruppi di lavoro formatisi per le diverse attività espressive. Queste ultime si sono rivelate parte integrante di un progetto per prevenire, curare e mantenere la salute mentale, un'irrinunciabile strumento di comunicazione non solo del disagio o malessere, ma anche di quella parte di "benessere" ancora viva, in molte di loro, sebbene obbligata a restare per lo più mortificata: il bisogno di raccontarsi con le parole e con i gesti, di stare sotto i riflettori, di sentirsi protagoniste per allontanare la sofferenza, almeno nel breve tempo irreale, di un'improvvisazione teatrale.
I momenti ludici sono terapeutici, permettono di riappropriarsi di normalità ed evasione, di gioia e piacere, abbattono i pregiudizi fra etnìe e costumi sociali diversi, strumenti in grado di intaccare una realtà, altrimenti, solo penosa e punitiva.
Invece studio, lavoro e attività ricreative tutti insieme sono percorsi indispensabili, un uso del tempo gratificante e di crescita, che favorisce la presa di coscienza e la preparazione al reinserimento sociale.
Quest'ultimo, per contro, sarebbe più efficace se fosse preparato molto prima dell'uscita, non solo con le misure alternative già volute dalla legge Gozzini, ma prevedendo un robusto programma di sostegno psicologico e materiale quando le "ristrette" rientrano in società, altrimenti è assai probabile che il lavoro fatto prima, da tutti gli operatori sociali, venga vanificato o si riveli quantomeno insufficiente a evitare la recidività dei reati.
E" innegabile che superare il disagio mentale o conviverci, comporti anche la necessità di sentire riconosciuta la propria dignità e i propri diritti, di trovare o ritrovare un contatto profondo con sé stessi, di poter ricominciare a considerare prospettive future per la propria vita spezzata, in conclusione di poter dare un SENSO all'esperienza della carcerazione, cominciando a ricostruire la propria vita fin da qui, cercando di considerarla, per quanto possibile, un'occasione di riflessione e di acquisizione di strumenti spendibili in futuro nella società.
Da parte mia c'è stato il costante impegno a tentare di trasmettere, in modi diversi, la carica di fiducia, di speranza e di forza di cui mi sentivo portatrice e soprattutto un concetto "forte" e cioè che, una volta superato il trauma dell'arresto e dell'internamento, una volta esplorata da cima a fondo la propria sofferenza, è assolutamente importante non rinunciare a quel poco di libertà rimasta e fare, per quanto è possibile, di ogni giorno una piccola personale "conquista", in cui cercare di accettare questa interruzione forzata della propria vita, per conoscere e per capire, per imparare ogni giorno qualcosa di nuovo, per creare o approfondire competenze e potenzialità, in modo, poi, da poter "correre" in tutti i sensi, una volta scontata la detenzione.
Ma tutto ciò ha senso se non si arriva a un "punto di non ritorno", se si è in grado di sopportare "tutti gli aspetti" di ciò che la propria pena comporta, se non c'è la percezione che gli anni di detenzione assegnati siano sproporzionati alla pena commessa. Perché se è pur vero che lo Stato ha la responsabilità di "contenere" i cittadini che commettono reati e di ricondurli a delle regole, individuando le modalità più idonee per farlo, è anche vero che la carcerazione percepita solo in termini punitivi, difficilmente sarà rieducativa, rischiando di perpetuare unicamente il controllo sociale sulla devianza.
I suoi effetti avranno una ricaduta negativa sulla personalità e sull'effettiva possibilità di recupero e riabilitazione.
E se la carcerazione non è realmente una forma di rieducazione, esistono delle soluzioni alternative ad essa? Sicuramente molto dipende dalla scarsità di risorse investite e dalla mancanza di progetti innovativi per trasformare il carcere in una struttura differenziata, a seconda della tipologia di reato e delle diverse realtà personali.
In attesa di ciò, è importante continuare a dare una risposta di qualità al disagio mentale inevitabilmente presente e diffuso, potenziando la collaborazione e l'integrazione con l'esterno, con la società tutta (che deve farsi carico anche di chi ha sbagliato) e con i servizi territoriali presenti (Dsm, operatori penitenziari, cooperative sociali, associazioni di volontariato) affinché questi siano sempre più efficienti ed efficaci nel risolvere i problemi piccoli e grandi, quotidiani e generali, non solo durante la detenzione, ma anche dopo.
Una volta scontata la pena, la paura di rientrare nella società, la solitudine, la disoccupazione, lo stigma, potranno facilmente favorire e riproporre dei comportamenti di trasgressione e di protesta (alcool, droga, furto, prostituzione) finendo per riconfinare i soggetti più deboli in un circolo chiuso: dal carcere, al rifiuto sociale, al reato, al carcere e radicalizzare, in tal modo, un fenomeno sociale troppo costoso sul piano umano ed economico.
Se vogliamo davvero, tutti insieme, "costruire", senza pregiudizi e razzismi di sorta, dobbiamo perseguire l'integrazione e la solidarietà umana attraverso ogni occasione di reinserimento sociale.
TENDENDO LA MANO.
E come era solito ripetere Franco Basaglia, facendo sue le parole di Gramsci, mettendo: "l'ottimismo della volontà al posto del pessimismo della ragione."
. la nostra scienza parte da un dato fondamentale che è la sconfitta del tecnico tradizionale, cioè di quel tecnico che pensa che "non si può far altro che questo" e ha come ideologìa il pessimismo della ragione. Il nuovo tecnico deve avere un obiettivo ben preciso: portare avanti il suo lavoro con l'ottimismo della pratica.
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Pantaleo G. e Wicklund R.A., Prospettive multiple nella vita sociale, Padova, Decibel ed., 2001.
Piccione R., Manuale di psichiatria, Roma, Bulzoni Editore, 1995, p.398.
Speltini G.e Palmonari A., I gruppi sociali, Bologna, Il Mulino, 1998, p.85.
Zannini Anna, Caduta libera, Imperia, Centro Editoriale Imperiese, 2002, p.
CODICI
Codice Penale, Napoli, Edizioni Giuridiche Simone, 2003.
Codice Penale e di Procedura Penale, Napoli, Edizioni Simone, 2003.
I Codici Esplicati, Napoli, Edizioni Simone, 1997.
PERIODICI
"Ristretti orizzonti",n° 5 , 6 e 7, Padova, Ristretti orizzonti ed., 2003
SITI WEB
www.ristretti.it
www.ministerograziaegiustizia.it
Maria Tarnowska, 1875-1955, contessa polacca, accusata di essere la mandante di un omicidio nel 1907 in Italia.
Caterina Fort, il 30 novembre 1946 uccise a Milano, all'età di 31 anni, la moglie e i tre figli del commerciante Pippo Ricciardi, nel cui negozio lavorava come commessa e di cui era l'amante.
Franco Basaglia (1924-1980) psichiatra. A lui si deve il processo di rinnovamento iniziato negli anni sessanta, che portò alla progressiva chiusura dei manicomi e all'approvazione della legge 180 sulla riforma dell'assistenza psichiatrica, nota anche come legge Basaglia.
Erving Goffman , Asylums, Garden City, N.Y., Doubleday-Anchor,1961; trad.it. Asylums.Le istituzioni totali: I meccanismi dell'esclusione e della violenza, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, pag. 29
Amore e Psiche, favola narrata nelle Metamorfosi di Apuleio (125-180 ca) scrittore latino di Madaura (Africa).
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