La 'psicologia
proibita' della monaca di Monza
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La monaca di Monza è il
primo personaggio 'storico ' che si incontra nel romanzo: Marianna
(1575- 1650), figlia di don Martino De Leyva principe d'Ascoli e conte di Monza
e di donna Virginia Marino, novizia nel 1589 nel convento delle benedettine di
S. Margherita a Monza, che intessé una sacrilega relazione con Giovanni Paolo
Osio a partire dal 1597, arrestata nel 1607 per if atti solo in parte ricordati
dal Manzoni, condannata due anni più tardi ad essere reclusa e murata viva
nella Pia casa delle Convertite di Milano fino al 1622, quando per volontà di
Federigo Borromeo è liberata. Certamente la figura più affascinante del
romanzo: la sua cupa vicenda di violenza, amore e morte, con le relative
implicazioni psicologiche, religiose e morali, dovette suggestionare per primo
il Manzoni che dedicò alla sua storia i primi sei capitoli del secondo tomo del
Fermo e Lucia (drasticamente ridotti a due nei Promessi sposi), e sentì anche
la necessità di giustificare la narrazione per filo e per segno di fatti
'tristi e straordinari' con l'intento di serbare memoria di un caso
straordinario di ravvedimento: 'Queste cose [] quantunque essenziali al
filo del nostro racconto, noi le avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto
il racconto, se non avessimo potuto anche raccontare in progresso un tale
mutamento d'animo nella Signora, che non solo tempera e raddolcisce
l'impressione sinistra che deggiono [devono]fare i primi fatti della Signora,
ma deve creare un'impressione d'opposto genere e consolante'. La più
significativa conferma del fascino esercitato dalla monaca dannata è costituita
dall'interesse che si è mantenuto vivo nel tempo per il personaggio storico: la
prima indagine condotta da Cesare Cantù su fatti e misfatti di suor Virginia
Maria de Leyva risale al 1832 egli atti del processo a lei intentato sono stati
pubblicati nel 1985, ma già nel 1829, un mediocre letterato pisano, Giovanni
Rosini, aveva pensato bene di dedicare un ampio e fantasioso romanzo alla monaca
di Monza.Naturalmente la riduzione della storia di Gertrude è stata
interpretata in modo diverso: a chi ha visto in questo drastico taglio un atto
di autocensura, suggerito da preoccupazioni morali e religiose, si è
contrapposto, con migliori argomenti, chi l'ha interpretato come un necessario
aggiustamento strutturale nell'architettura dell'opera squilibrata
dall'inserzione di un romanzo nel romanzoL'episodio della monaca di Monza ha
inoltre rinfocolato un altro problema, quello del determinismo giansenistico
quale componente del cattolicesimo manzoniano: così Cesare De Lollis, nel 1926,
sosteneva che Gertrude è predestinata alla caduta, perché non esiste forza
umana o celeste cui possa aggrapparsi per cercar salvezza': senza l'aiuto
di una 'religione illuminata e illuminante' la donna deve infatti
affrontare 'le superstizioni del suo tempo, la tirannia della famiglia, le
predisposizioni naturali, tutte forze di prim'ordine che, combinate insieme,
non possono condurre che alla catastrofe, che i giansenisti, pur di non
rinunciare alla concezione realistica della vita, chiamano
predestinazione'. Superata la questione del giansenismo (opportunamente il
Petronio fa notare che i sostenitori del determinismo manzoniano dimenticano
come per il Manzoni 'le verità della fede e la legge morale sono
naturalmente scolpite in ogni animo che può ritrovarle in se stesso ogni volta
che voglia'), l'attenzione si è spostata sulla psicologia del personaggio
caratterizzata dal Terme peccaminoso' dell'incapacità di volere, come
suggerisce il Momigliano, e condizionata dal confíitto con il padre (Russo:
'una antagonista del padre, formata della stessa sostanza spirituale di
suo padre'). Di seguito alcune pagine sulla monaca di Monza di Salvatore
Battaglia (1904-1971) Siciliano, Salvatore Battaglia è stato allievo della
scuola fiorentina di Michele Barbi e Mario Casella, ha insegnato filologia
romanza e poi letteratura italiana presso l'Università di Napoli spaziando
nella sua attività di critico dal medioevo romanzo alla letteratura
contemporanea; ha ideato e diretto il Grande dizionario della lingua italiana
(1961 e ss ) Al Manzoni ha dedicato il saggio Il realismo dei 'Promessi
sposi' (1962) e M. e la questione della lingua (1964)Le pagine seguenti
sono tratte dalla sua opera più ambiziosa, Mitografia del personaggio (Milano,
Rizzoli, 1963), rassegna storica dei fondamentali 'modelli' nei quali
si è riconosciuta la civiltà occidentale nel suo sviluppo letterario, da Omero
ai nostri giorni, con lo scopo di indicare le 'dimore' esistenziali
sperimentate o suggerite dal pensiero e dall'invenzione artistica perché, come
scrive l'autore, 'nella nostra topografia morale tutte queste tipologie,
per quanto ciascuna d'esse risulti vincolata al suo tempo storico e al suo
clima spirituale, convivono e insieme alimentano il nostro patrimonio più
stabile e attuale, come l'asse ereditario dell'umanità'
Dal punto di vista
dell'innovazione tecnica, non c'è dubbio che coi Promessi sposi si sia
verificata per la prima volta in forma deliberata l'assunzione d'interpreti
'umili', come Renzo e Lucia, in un romanzo che voleva essere
tutt'altro che idillico o sentimentale. La loro presenza qualifica l'interna
struttura della narrazione e condiziona il clima dell'opera; ma è anche vero
che per se stessi, cioè staccati dall'ambiente morale ch'essi illuminano
inconsapevolmente, non hanno gran rilievo. La loro funzione precipua è di
bilanciare natura e religione, fiducia e rassegnazione. Entrambi valgono a
sperimentare la docilità di chi si affida per antica educazione alle vie della
provvidenza. Averli concepiti al centro del romanzo e a specchio di una più
generale sensibilità della vita, è già la più ardita riforma introdotta dal
Manzoni. E tuttavia è in altri protagonisti che l'arte dei Promessi sposi scopre
dimensioni umane inedite. Si suole ritenere che alcuni episodi dei Promessi
sposi siano ipertrofici. Eventi e personaggi, che pure entrano di diritto nella
trama del romanzo, vi si propagginano si pensa, con soverchio sviluppo, fino ad
accamparsi con una loro particolare vegetazione, compromettendo la stessa
economia narrativa. Anche il Goethe, che fu il primo ammiratore del romanzo
('l'impressione che si riceve alla lettura è tale che si passa
continuamente dalla commozione alla meraviglia'), era di questo parere:
'Si dovrebbe abbreviare per una buona parte la descrizione della guerra e
della carestia, e di due terzi quella della peste, così che resti soltanto
quello che è necessario ad intendere l'azione dei personaggi'. Le censure
di questo tipo e le rispettive rettifiche dipendono da opposte premesse
critiche, in quanto, una volta, si obbedisce al gusto per il racconto rapido
compatto unitario, fondato su un impianto essenziale e lirico, per cui ogni
digressione o dilatazione diventa sospetta, e una volta, viceversa, si accetta
il concetto del romanzo ciclico, in cui conta l'ampia scenografia
storico-sociale e la proliferante vitalità delle psicologie e dei casi di
coscienza. In effetti, Alessandro Manzoni possiede l'una e l'altra qualità: e
se, per un verso, tende al controllo e alla misura concisa, nel contempo aspira
a comporre un grande affresco per rappresentare una civiltà intera.
[]Tuttavia è vero che l'episodio della monaca di Monza è di sorprendente
ampiezza e, quel che più conta, risulta perfettamente conchiuso, come un
piccolo romanzo autonomo nel vasto corpo della narrazione. La sua storia, per
quanto s'innesti organicamente nel tessuto del romanzo e ne confermi la genesi
etico-sociale, ha nondimeno un trattamento psicologico assai distinto, che si
potrebbe definire atipico. Anzitutto appare sostanzialmente mutato il rapporto
consueto fra l'autore e il suo personaggio. Rispetto a tutti gli altri
protagonisti il Manzoni si suole porre in una condizione dialettica. Di solito
egli avverte di collaborare con la realtà, con il destino, con i segreti
disegni della Provvidenza. Ciascuno dei suoi attori è gradualmente riguadagnato
alla sfera della ragione dal fondo della biografia psicologica. È questo
processo intrinseco della coscienza che consente alla scrittura manzoniana di
accogliere una sensibilità passionale e romantica per catalizzarla nell'ordine
razionale. All'incontro, nel dipanare il groviglio morale di Gertrude lo
scrittore si sente interdetto e allarmato. Non dispone più della collaborazione
provvidenziale, né questa volta lo soccorre la costante parabola del suo
ingegno, che di solito gli fa acquistare alla responsabilità etica le zone
inconsulte o ignare dell'esperienza. Con la monaca di Monza il margine
recondito della psicologia si allarga sempre di più, e tutte le volte che lo
scrittore cerca di portarla sul piano dell'analisi e della consapevolezza,
scopre le inesplicabili ombre del suo sottofondo patologico. In tutto il
romanzo soltanto il personaggio di Gertrude ha questa dimensione d'indefinito
scandaglio. E quel geniale contemperamento della coscienza manzoniana, così
felicemente confermato dal Croce, che lo attribuiva alla prima formazione
enciclopedica e illuminista sopravvissuta nella successiva esperienza
cattolico-giansenista ('sicché in un certo senso può dirsi che egli
raccolse nel suo singolare temperamento quella doppia eredità storica'),
sembra ora come sorpreso dalla inesausta e inconciliabile irrazionalità che
dilaga per vie recondite nell'anima e nella condotta di Gertrude. La sua è una
psicologia proibita, che ispira alla coscienza dello scrittore un atteggiamento
di attrazione e insieme di ripulsa. La dimora morale in cui si aggira Gertrude
gli appare come una immensa insidia, che viene a menomare la consueta confidenza
dell'artista nel padroneggiare i propri personaggi. Il narratore non riesce a
superare la perplessità dell'uomo sano che si arrischia di sondare le regioni
malate della vita. Più che un'esitazione egli avverte la oscura minaccia del
contagio morale. Perché anche il male, non appena si anatomizza, comincia ad
ottenere un margine di giustificazione, o per lo meno beneficia delle
attenuanti che la vita e la società finiscono sempre per concedergli. L'analisi
stessa porta al realismo, vale a dire ad una disposizione comprensiva verso la
realtà e l'esperienza. Nei riguardi, ad esempio di don Rodrigo il Manzoni è
reciso, il suo giudizio è netto; ma rispetto a Gertrude egli diventa cauto, si
direbbe circospetto. Sente di maneggiare sostanze venefiche. Ne deriva un'elaborazione
stilistica d'impareggiabile delicatezza. Neanche la conversione dell'innominato
[capp. XXI-XXIV], che è il tratto più difficoltoso di tutto il romanzo, gli è
costata tanta attenzione e scrupolo. Il tratteggio ch'egli fa della monaca di
Monza è di una consapevolezza così tesa che pare debba spezzarsi ad ogni
istante. Da un rigo all'altro il Manzoni guadagna alla luce dell'espressione un
lembo di vita maledetta. Per questo la monaca di Monza è il personaggio più
moderno dei Promessi sposi. I protagonisti che la narrativa dell'Otto e
Novecento è venuta allineando nella nostra letteratura, non hanno, tutti
insieme, la profondità ermetica che possiede la creatura manzoniana, o per lo
meno nessuno di loro lascia quel segreto sgomento che comunica Gertrude. Il
Manzoni è riuscito a renderla potentissima pur lasciandola avvolta in una
insondabile segretezza. Questa duplice qualità stilistica - l'evidenza e il
mistero - costituisce il pregio inimitabile della scrittura manzoniana. Ogni
particolare che lo scrittore sollecita per chiarire la condizione morale di
Gertrude, finisce col darle un più esteso alone d'ombra. Le pagine del
'ritratto', relativamente poche, sono come una quintessenza, di cui
continuano a rimanere ignoti gli elementi che la costituiscono e che in seguito
lo scrittore penserà di sciogliere e riannodare nella più vistosa prospettiva
storica e sociale. Ma più che cause determinanti, tutte le condizioni oggettive
che lo scrittore avrà cura di analizzare, si possono considerare concomitanti
come altrettante concause. Per uno scrittore di educazione etica e religiosa
come il Manzoni, che non poteva concepire il mondo degli uomini se non
edificato sul principio della responsabilità, anche l'esistenza abietta di
Gertrude trovava le ragioni più reali, e perciò più liricamente personali,
all'interno della coscienza. E tuttavia è anche vero che per la prima volta
nella nostra letteratura il senso del male e del peccato risulta radicato nel
sangue e nel costume come in un suolo di formazione millenaria, in cui la
storia e la società sono chiamate ad una precisa corresponsabilità. In questa
prospettiva il destino della Signora di Monza si pone a massimo esponente della
struttura di tutto il romanzo. []Il ritratto della Signora [cap. IX], sembra
uno studio dal vero. Anche la cura che lo scrittore vi ha dedicata, da una
stesura all'altra, ne fa fede. Nessun altro ritratto letterario pareggia questo
della monaca di Monza. In tutti gli altri il Manzoni è preciso, meticoloso,
cauto; ma qui si sente che egli richiede alla sua mano cioè al suo linguaggio,
una resa più impegnata. Egli sa di trovarsi dinanzi a una personalità
complicata, sfuggente, ambigua, per la quale si richiede una misura diversa, un
più rigoroso controllo. Egli deve rendere un forte, potente temperamento,
minato da un'immensa debolezza; un orgoglio smisurato che si estenua nella
costrizione; una volontà indomita che cede all'istinto, alla passione; una sete
insaziata d'affetto che si dispera nell'aridità, nel rancore; una voglia di comunicare
e la coscienza di essere condannata all'interdizione, alla solitudine, al
deserto. E soprattutto, il sentimento di sapersi al di fuori d'ogni solidarietà
reale ed esclusa dalla sua stessa società, in una religione senza fede, sotto
una veste mentita, con un destino sbagliato, e soprattutto subito di
prepotenza. Lo scrittore ha voluto rendere tutto questo in una sola pagina, ha
cercato di anticipare in una concentrazione irriducibile quel che dirà di lei e
della sua infanzia e della sua adolescenza nei capitoli seguenti, condensando
tutta la sua sorte nei segni del volto, nella luce e nelle ombre degli occhi,
nel pallore dell'incarnato, nella statura, nel gesto, nel contegno negli abiti:
prima che parli, prima che si riveli alla voce. Una bellezza sfiorita, una
giovinezza disfatta, un orgoglio umiliato, una dignità malintesa, una ferocia
antica e inveterata, un'eleganza ribelle: tutte cose che convivono in un
conflitto perpetuo. Lo scrittore non si era mai trovato a dover fronteggiare un
personaggio che gli nasceva dalla fantasia caratterizzato da un'insolubile
contraddizione. Il suo disegno è di un'estrema difficoltà. È senza dubbio la
prova maggiore ch'egli abbia richiesto alla sua scrittura. Due qualità morali
egli doveva rendere alla pari: la forza e la debolezza; e bilanciare due
sensibilità opposte: il mistero e la dannazione. E così egli si riprometteva di
suscitare nel lettore attrazione e diffidenza. Ogni particolare del
'ritratto' concorre a formare la 'composizione'. Nel corso
della pagina si effettua un dramma. C'è dentro un dinamismo psicologico
infrenabile. Si noti l'alternarsi di moto e d'immobilità, di presenza e di
assenza, di partecipazione e di distrazione. Non potremo più dimenticarla in
questi tratti suggestivi, così precisi e insieme indefiniti, che obbligano a
vedere e giudicare e nello stesso tempo lasciano un margine di ombra di mistero
d'incomprensione. Gli elementi descrittivi sono tutti in pieno spicco: la
'contrazione dolorosa' della fronte, il 'rapido movimento'
delle sopracciglia, la 'fissità' dello sguardo e la sua
'investigazione superba', e subito la 'fretta' di
nascondersi, di appartarsi, e a volte la sensazione di chi cerchi
'affetto, corrispondenza, pietà'; per un verso, quel cupo dolore di
odio e di rancore, e di colpo un senso di neghittosità, quasi di stanchezza; e
all'interno quel 'travaglio d'un pensiero nascosto': una
'delicata grazia,> e una 'lenta estenuazione'; e, soprattutto
i suoi occhi e i moti delle sue labbra: 'subitanei, vivi, pieni
d'espressione e di mistero'. Questi due ultimi termini qualificano la
Signora di Monza e la grande arte del Manzoni. E ancora: quel 'certo
abbandono del portamento' in contrasto con quelle 'certe mosse
repentine, irregolari e troppo risolute', quel tanto 'di studiato o
di negletto', e quel misto indiscriminabile di 'dimenticanza' e
di 'disprezzo'. Non ci sarà facile trovare un'altra pagina come
questa in tutta la nostra narrativa moderna, capace di compendiare un
'ritratto' vivente come quello della Signora di Monza, che ci risulti
patente pur nella sua luce ermetica, si direbbe sigillata. Ci appare viva e
vitalissima, eppure è come già segnata. È lì presente, avida di vita ma è come
se già avesse vissuto e scontato la propria esperienza. Ne ha accumulata gia
tanta dentro di se, ma è come se non le appartenesse. La vita ha fatto storia
ma come al di fuori di lei, suo malgrado. Nella sua giovinezza ci sono già i
segni del disfacimento fisico e morale, della sazietà insoddisfatta, di un
atavico smarrimento dell'essere.Il Manzoni, si sa, ha simpatie e repulsioni per
i suoi personaggi. Egli stima di più il cardinale Federico Borromeo e fra
Cristoforo. Ma sono l'innominato e la monaca di Monza ch'egli
'rispetta' di più sul piano artistico. Di fronte a loro egli ha una
diversa 'ammirazione'. Negli altri, ogni volta, c'è uno sviluppo, un
progresso una conferma: così don Abbondio, don Rodrigo, Agnese, Renzo e Lucia
ecc., oppure i predetti fra Cristoforo e Federico Borromeo che sono collocati
ad un livello morale più consapevole e più elevato. E, invece, la circospetta
inchiesta che lo scrittore traccia dell'innominato e della monaca di Monza
continua ad essere accompagnata da un senso di mistero, di segretezza, di moti
reconditi. Sono personalità che via via che procedono nella vita e nell'esperienza
si esprimono con assiduo incremento ma non depongono i segni nascosti,
inconfessati, inesplicabili che continuano ad occupare la loro anima. Si ha la
precisa sensazione che nel tratteggiare il volto morale dell'innominato e della
monaca di Monza, lo scrittore si senta al cospetto di due 'fenomeni'
della psicologia umana, il cui giudizio deve essere formulato con estrema
cautela e circospezione. Entrambi stanno a testimoniare le insondabili reazioni
della nostra psiche e il loro segreto e inesplicabile rapporto con la coscienza
di Dio, con la presenza invisibile della Provvidenza. Cioè, entrambi si
integrano liricamente. Essi vivono nel romanzo con tutta compiutezza artistica,
ma rimangono come 'incompiuti'. È questo il loro fascino poetico. In
ciascuno di loro due si indovinano profondità inattingibili. Sono gli unici
attori dei Promessi sposi con cui non è possibile familiarizzare. Sono quelli
che ci affascinano di più e che noi scrutiamo più addentro degli altri; ma è
come se ci aprissero abissi di coscienza, dove non è possibile spingere lo
sguardo fino in fondo. Sono aderenti a noi e nello stesso tempo rimangono
distinti da noi. La loro struttura è come la nostra stessa coscienza, che ci
sfugge a mano a mano che noi la frughiamo più a fondo.