L'INDUSTRIA
CULTURALE e la cultura di massa
La
nozione di "industria culturale" nacque come espressione polemica dal titolo di
un saggio di Horkheimer-Adorno contenuto in Dialettica
dell'Illuminismo, nel secondo dopoguerra. Sempre più si va affermando una
cultura definita "seriale", dal fatto che essa viene diffusa e commercializzata
da grandi apparati tecnico-organizzativi, che adottano procedure "di serie" non
dissimili da quelle caratteristiche della grande industria. È un fenomeno
apparentemente paradossale, se si pensa che proprio la concezione moderna della
cultura è fondata sull'ideale dell'originalità. La polemica va nei confronti
del processo di degradazione cui la cosiddetta alta cultura si sottopone
entrando nei circuiti della comunicazione di massa, diventando un prodotto come
gli altri, il cui valore tende inevitabilmente al basso e alle leggi del
mercato.
Con l'espressione
industria culturale si designa dunque un'organizzazione produttiva e
distributiva di un particolare tipo di cultura, detta 'cultura di
massa', sviluppatasi nella società industriale. L'industria culturale
comprende le case editrici, la televisione e ogni altro strumento di
comunicazione. Il suo scopo è quello di fornire la più ampia informazione sui
più svariati argomenti, capaci di suscitare l'interesse di ognuno. Caratteristiche
della cultura di massa sono l'eclettismo, la semplicità del linguaggio, la
semplificazione degli argomenti proposti, l'universalizzazione dei temi. Tutto
ciò contribuisce a formare un livello medio di pubblico e di cultura. Il
pubblico delle cultura di massa è per lo più passivo e non brilla per spirito
critico. Da ciò consegue il conformismo che
non è altro se non l'accettazione passiva, acritica e consuetudinaria delle
idee e delle norme di comportamento della maggioranza. L'individuo adotta così
il tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali. È chiaro
che in queste condizioni il condizionamento a cui il popolo e sottoposto e
molto accentuato.
La
"seconda rivoluzione industriale" trasformò anche le forme e i tempi di produzione
culturale. Nella nuova società di massa era possibile immettere sul mercato
merci di tipo culturale prodotte in serie e sulla base di politiche
imprenditoriali sostanzialmente non dissimili da quelle di ogni altro settore
economico. I romanzi a puntate pubblicati a fine Ottocento negli Stati Uniti e
in Europa furono alcuni dei primi esempi di quella "cultura seriale" che si
sarebbe enormemente diffusa negli anni Venti e Trenta, suscitando lo sdegno di
molti intellettuali preoccupati per la mercificazione e la standardizzazione
della cultura. Ormai distanti dall'idea romantica dell'artista come creatore
isolato di opere uniche, nell'era della riproducibilità dell'arte le nuove
tecnologie e i mezzi di comunicazione di massa potevano permettere a équipe di
professionisti di prevedere i gusti del pubblico. A fine secolo la produzione
culturale era divenuta un fatto collettivo, frutto di lavorazioni complesse a
cui partecipavano tanto i "creatori" individuali quanto i coordinatori e gli
organizzatori, come in qualsiasi altro ramo industriale.
I
prodotti cinematografici, i telefilm a puntate, ogni interminabile telenovela,
gli albi di fumetti a scadenza mensile e gli stessi prodotti multimediali sono
infatti il risultato di politiche imprenditoriali basate su programmazioni e
indagini di mercato volti alla commercializzazione di prodotti fruibili ed
economicamente redditizi. I decenni tra le due guerre costituirono un periodo
di grandissima vitalità artistica e culturale ed in questo contesto anche il
cinema si affermò definitivamente sia trovando una propria collocazione come
"settima arte" sia proponendosi come una vera e propria attività industriale
assai redditizia. Negli anni Venti le tecniche cinematografiche vennero
raffinandosi e specializzandosi, tanto che questo periodo viene detto di
"apogeo del cinema muto" (il primo film sonoro fu Il cantante di Jazz del
1927); gli Stati Uniti furono i principali protagonisti di questa fase,
investendo copiosamente nell'industria cinematografica e creando una struttura
assai rigida dentro la quale fare emergere il mito hollywoodiano, attraverso un
abile utilizzo dello star system, dello studio system e della codificazione dei
generi cinematografici, rivolta ad un pubblico sempre più vasto. Nello stesso
periodo, però, venivano acquisendo sempre più salde radici anche le singole
cinematografie nazionali che, soprattutto in Germania e Russia, legate alla
vitalità politica, sociale e artistica degli anni dell'immediato dopoguerra,
raggiunsero alti livelli estetici. In particolare la Germania fu la patria
dell'espressionismo che, già presente in letteratura e nelle arti figurative,
si espresse anche nel cinema trasmettendo un senso di irrealtà e di incubo,
caratterizzato da dissolvenze, sovraimpressioni, un uso straniante di luci ed
ombre, attraverso registi quali Fritz Lang (Il Dottor Mabuse, 1922; I
Nibelunghi, 1923-24; Metropolis, 1926; M., 1931), Robert Wiene (Il gabinetto
del dottor Caligari, 1924), F.W. Murnau (Nosferatu il vampiro, 1922). Anche nei
primi anni della Russia bolscevica alcuni grandi registi produssero opere assai
significative e spesso rivoluzionarie per l'uso delle tecniche cinematografiche
e del montaggio come strumento di comunicazione efficace, come Dziga Vertov,
(L'uomo con la macchina da presa, 1929) e Sergej Ejzenstein (Sciopero, 1925; La
corazzata Potëmkin, 1926; Ottobre, 1927; Aleksandr Nevskij, 1938).