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Caratteristiche fisiche
Le isole della Polinesia sono 117, suddivise in cinque arcipelaghi: le isole della Società (14), tra le quali Moorea, Tahiti, Tetiaroa, Raiatea ., le Marchesi (14), le Australi (6) e le Gambier (5).
A queste va aggiunta tutta una costellazione di microscopici atolli e isolotti, per un totale di circa 4000 km quadrati di terre emerse distribuite su un'area oceanica di 5 milioni di km quadrati, una superficie paragonabile a quella dell'Europa.
Per la loro diversità esteriore, le isole sono tradizionalmente classificate dai polinesiani in 'alte' e 'basse', in modo da distinguere le isole vere e proprie dagli atolli.
In realtà hanno quasi tutte la stessa origine, rielaborata da Charles Darwin durante il suo giro nel Pacifico sulla Beagle.
Originariamente le isole erano vulcani che sono andati in subduzione (sprofondati) sotto la crosta terrestre.
Il particolare clima ed il tipo di roccia hanno poi favorito la crescita di vaste formazioni di madrepore, che nel corso di milioni di anni hanno formato grandi scogliere coralline.
Con lo sprofondamento definitivo dei vulcani, resta in superficie solo un anello di natura calcarea che forma l'atollo.
Per questo motivo, oggi, le isole dell'arcipelago polinesiano assumono caratteristiche diverse a seconda del loro grado di evoluzione. Tahiti, per esempio, che è forse la più giovane di tutta la Polinesia francese, ha ancora alte vette (2271 metri) e la barriera corallina che la circonda è appena accennata; a Bora Bora il vulcano in avanzata subduzione convive con una barriera che ha già formato diversi motu (lunghe strisce sabbiose già coperte di palme) che contengono la laguna; Rangiroa, poi, non presenta più tracce di vulcani: l'isola è un anello di madrepore che abbraccia la laguna.
Storia
James Cook, navigatore ed esploratore che tra il 1769 e il 1779 compì per conto della monarchia inglese una serie di viaggi intorno al mondo, descrisse le isole polinesiane come ' il giardino dell'Eden' e le sue raccolte di documenti sul luogo ispirarono a Jean Jacques Rousseau il mito del ' buon selvaggio'.
La Polinesia di oggi, sotto la direzione del presidente Gaston Flosse, non si presenta come una colonia succube ed annientata dal dominio francese, ma come una terra che vuole mantenere i valori della propria cultura, integrati in una struttura economica e sociale moderna.
Essendo un Territorio d'Oltremare (T.O.M.) i capitali investiti sono francesi (secondo la legge Pons), ma questi contribuiscono a combattere la disoccupazione ed a creare opportunità di sviluppo futuro.
Oggi la Polinesia è anche presentata come il paradiso minacciato dai tests nucleari autorizzati fin dal 1962 da Charles De Gaulle che, dopo l'indipendenza dell'Algeria, trasferì i poligoni sugli atolli di Mururoa e Fangataufa.
Negli ultimi trent'anni la Francia ha condotto oltre 200 tests negli atolli a dispetto delle proteste dei Paesi del Pacifico e di quelle, più violente, della popolazione tahitiana.
Nel 1998 il Centre d'Expérimentation du Pacifique è stato chiuso e sulle due isole è stata riaccolta la popolazione locale, anche se gli effetti reali dei tests saranno valutati a lungo termine.
Malgrado il disastro ecologico, la decisione di De Gaulle ha contribuito, però, a far trasferire a Tahiti un notevole ammasso di capitali che hanno radicalmente cambiato l'economia agricola e ittica del luogo, favorendo le esportazioni e dando grande sviluppo al turismo, fonte primaria di reddito ed unica via per raggiungere l'indipendenza economica dalla Francia.
In Polinesia si canta che ' I cieli ondeggiano e toccano la Terra' perché qui il movimento della danza e quello del mare vengono messi in contrasto con la fermezza del suolo.
Per gli antichi tahitiani, fu il suono del tamburo dell'oceano primordiale ad evocare dal profondo le viarie isole dell'arcipelago.
Il movimento ondeggiante del bacino delle danzatrici che segue i suoni del tamure trae origine nella grande divisione tra danza primitiva e non. Aperta quella degli uomini, con salti di stacco da terra; chiusa quella delle donne, con passi trascinati (che richiamano il contatto con la fertilità terrestre) e movimenti delle anche così ampi da coprire la più vasta porzione di cielo possibile.
La danza trasforma la donna in un'anfora di colori, con fiori e corone sui fianchi.
Anche i tatuaggi sono un esempio della tradizione polinesiana.Un tempo raccontavano la vita di chi li portava ed oggi sono il simbolo dell'identità culturale.
Il termine tatuaggio ha origini polinesiane e deriva dalla tecnica con cui si effettuava l'operazione.
Anche l'umu ti, la marcia sul fuoco del gran sacerdote tahua, ha origini antichissime e richiama il contatto con l'aldilà.
Il cielo, la terra e la donna: tutto è una conchiglia.
Oggi milioni di dollari di fatturato derivano dalla vendita di un bivalve della famiglia delle Pteridi: Pinctada margaritifera, morori in tahitiano, l'ostrica in cui vengono coltivate le preziose perle nere, che contribuiscono per il 14% alle esportazioni della Polinesia francese e per il 6% al bilancio totale del paese.
Gli esemplari di questa specie hanno, normalmente, dimensioni da Guinness: pesano in media cinque chili e possono arrivare anche a nove, e sono quattro volte più grandi delle Akoya, le ostriche perlifere giapponesi.
La coltivazione delle perle richiede una notevole maestria ed una continua manutenzione: le stazioni sottomarine devono essere controllate quotidianamente e ripulite dalle alghe che si formano intorno alle ostriche.
Oggi poi P. Margaritifera deve fronteggiare un nuovo pericolo. Negli ultimi anni, dopo l'eccessivo sfruttamento che la minacciò dalla seconda metà dell'Ottocento fino a metà del Novecento, una malattia ha decimato le colonie di ostriche di alcuni atolli, mettendo seriamente in crisi anche l'attività di qualche produttore.
Come al solito, la causa di questo nuovo allarme va imputata all'uomo: secondo alcuni ricercatori la malattia è provocata dall'inquinamento delle lagune, secondo altri sarebbe dovuto alle vernici protettive che ricoprono la chiglia delle imbarcazioni.
Dopo due mesi e mezzo di navigazione, nel giugno 1891, Gauguin giunge a Tahiti.
La prima impressione è di delusione. Papeete, capitale dell'isola, è ormai abbastanza contaminata dalla civiltà occidentale ed il contatto con i colonizzatori in quanto titolare di una missione, non può che confermare questa impressione. La morte del re Pomarè gli appare il segno tangibile della fine di una civiltà e, nello stesso tempo, gli indigeni convenuti da ogni parte dell'isola per i funerali gli fanno intravedere costumi e un folclore più intatti. Come al solito, egli ha bisogno di un certo periodo di tempo per conoscere un luogo nuovo ed impadronirsi del carattere della natura e della gente. I primi dipinti tahitiani non si discostano dalla sua maniera precedente, che è il primo tentativo di accostarsi al tipo fisico ed alla psicologia maori, nella quale la novità sta nella tipologia femminile, nella volontà di fare un ritratto 'somigliante a ciò che i miei occhi velati dal mio cuore hanno visto. somigliante soprattutto interiormente'.
Una fase di lavoro più innovativa si avvia con il trasferimento a sud di Papeete, a Mataiea, una località meno toccata dalla colonizzazione. Egli familiarizza con gli indigeni, impara il loro linguaggio ed il processo di conoscenza si esprime in disegni, schizzi, annotazioni di esperienze visive e notizie. I suoi dipinti raccontano la vita trascorsa all'aria aperta, tra ruscelli ombrosi e con le donne cinguettanti in un immenso patrimonio naturalistico, con tutte le ricchezze che Tahiti racchiude. L'aria infuocata, raccolta e silenziosa, è accompagnata da molti colori favolosi.
Gauguin si serve inoltre di miti e leggende per dare alla pittura più suggestione; così i titoli in lingua maori hanno lo scopo di intensificare il mistero dei quadri.
Non è possibile individuare un percorso lineare nelle opere del primo soggiorno tahitiano (circa una sessantina di tele riuscite), né per quanto riguarda lo stile, né per i temi ed i contenuti. In questa fase di grande ricchezza innovativa ed inventiva, Gauguin esplora molte direzioni e, come sempre, non è sistematico.
Molti quadri che non hanno un soggetto preciso sono dipinti con libertà, alternando la modellazione delle forme con brevi pennellate alla stilizzazione lineare; il colore è denso, di toni bassi con poche note accese e la superficie della tela risulta compatta, riempita da forme ravvicinate e serrate tra loro.
Durante il primo soggiorno a Tahiti, Gauguin manifesta un forte interesse verso la mitologia maori. Si tratta di una curiosità che non prende mai il carattere di un' indagine di tipo documentario ed etnografico, ma si colloca all'interno del suo sentimento del sacro, proiettato in una dimensione lontana e carica di mistero.
Nei dipinti i riferimenti a miti e leggende locali sono generalmente piuttosto liberi e costituiscono uno stimolo per l'invenzione di temi e l'esplicazione del gusto del colore e della linea.
Il Manao tupapau (lo spirito dei morti veglia, 1892), dipinto da Gauguin, deriva dalla appropriata traduzione pittorica delle due dimensioni del tema: quella musicale, suggerita da linee orizzontali ondulate ed accordi di colore blu ed arancio raccordati da gialli, violetti e scintille verdastre; l'altra, letteraria, e cioè il legame tra lo spirito di un essere vivente e lo spirito dei morti.
Alcuni studiosi ritengono che i primi abitatori delle isole polinesiane siano provenuti dall'Indonesia molto tempo prima della nascita di Cristo. In epoca più tarda (verso il 500 d.C.) sarebbero giunte nella Polinesia alcune popolazioni bianche provenienti dal Perù. Queste riuscirono a sottomettere i primi abitatori della Polinesia e li considerarono loro sudditi. Da queste due popolazioni discenderebbero quindi gli attuali polinesiani.
Le abitazioni
L'abitazione tipica dei polinesiani è costituita da una grande capanna in legno. Essa è in genere di forma rettangolare, ha il tetto a due spioventi fatto di rami assai flessibili, su cui sono fissate foglie di canna da zucchero. L'arredamento è ridotto al minimo indispensabile: un certo numero di stuoie tessute con foglie di cocco, su cui i polinesiani mangiano e dormono; gusci di noci di cocco che servono come piatti e bicchieri; un pentolone di ghisa nel quale vengono cotti i cibi ed attrezzi per la pesca, la più importante attività degli indigeni. Attualmente però molti polinesiani vivono in moderni edifici.
Il pesce è l'alimento fondamentale dei polinesiani. Un frutto di cui i polinesiani sono ghiottissimi è quello dell'albero del pane. È un frutto farinoso che si mangia col latte dopo averlo cotto in forni di pietra. Un altro frutto alla base dell'alimentazione è la noce di cocco.
Abili pescatori
Il mare offre ai polinesiani risorse inesauribili: numerosissime specie di pesci vivono nelle acque polinesiane ed inoltre molluschi, aragoste, gamberi ed altri crostacei. Gli uomini gettano in mare le reti, le donne pescano con la canna, i bambini raccolgono con le mani molluschi presso gli scogli.
Ogni polinesiano si costruisce da sé gli attrezzi necessari per la pesca: la lenza con giunchi flessibili, l'amo con la madreperla ricavata dalle conchiglie raccolte.
Nel Pacifico sudorientale, 3.700 Km al largo delle coste cilene, si trova l'isola di Pasqua.
Geograficamente appartiene alla Polinesia, politicamente è terra cilena. Quest'isola dal giorno della sua scoperta ha costituito, per etnologi ed archeologi, un'appassionante intrico di misteri; soltanto recentemente qualcuno dei suoi enigmi ha incominciato a svelarsi. Il primo europeo che approdò in quest'isola fu l'olandese Roggeveen; correva l'anno 1722 ed era il giorno di Pasqua: da ciò il nome che fu dato all'isola. Trovò in quella piccola terra due diversi popoli: l'uno era formato da individui di statura alta e pelle chiara; uomini e donne si allungavano stranamente i lobi delle orecchie forandoli ed introducendovi dei grossi pesi; erano perciò chiamati 'orecchie lunghe'. L'altro popolo era di aspetto meno nobile ed aveva la pelle bruna; era chiamato 'orecchie corte'. Ma quello che ancor più stupì gli olandesi fu l'incredibile vista di centinaia gigantesche sculture di pietra, sparse ovunque per l'isola. Erano alte come palazzi di cinque o sei piani e ritraevano figure umane, dalla cintola in su. Sul capo delle più grandi era posto, quasi in equilibrio, un enorme masso di pietra rossiccia, raffigurante una parrucca od un cappello. Davanti a quelle statue il popolo delle 'orecchie lunghe' accendeva dei fuochi e si inchinava in adorazione. Poiché gli abitanti dell'isola non disponevano che di piccoli e semplici attrezzi di pietra, simili a quelli degli uomini primitivi, agli olandesi riuscì inspiegabile come gli indigeni avessero potuto scolpire ed erigere quelle enormi statue. L'enigma rimase insolubile anche a tutti gli altri navigatori che, a lunghissimi intervalli di tempo, sbarcarono successivamente nell'isola: spagnoli (1770), inglesi (spedizione CooK, 1774), francesi (1786). Questi nuovi visitatori trovarono che la venerazione per i giganti di pietra era quasi del tutto scomparsa; gli ultimi videro addirittura tutte le statue abbattute e lasciate in abbandono. Gli spagnoli trovarono l'isola fittamente popolata; gli inglesi la videro semideserta; i francesi la trovarono nuovamente popolosa.
Questi nuovi fatti inspiegabili, uniti ai precedenti, fecero dell'isola di Pasqua e dei suoi abitanti il luogo più misterioso della terra.
Le vicende dell'isola misteriosa furono chiarite soltanto nel 1955 dall'etnologo norvegese Thor Heyerdahl, il quale, recatosi laggiù, vi soggiornò a lungo interrogando gli indigeni ed esaminando minuziosamente i monumenti dell'isola. Secondo lui i primi abitatori dell'isola di Pasqua furono le 'orecchie lunghe' giunte certamente dal continente americano. Più tardi, forse solo un secolo prima dell'arrivo degli europei, giunsero sull'isola le 'orecchie corte', provenienti dalle altre isole della Polinesia. Le 'orecchie lunghe' assoggettarono i nuovi arrivati, riducendoli alla condizione di schiavi. Poi li costrinsero al lavoro di scavo delle gigantesche statue. La roccia del Rano Raraku, il grande vulcano spento dell'isola, veniva tagliata e modellata battendola con asce di pietra più dura. La statua veniva staccata dalla roccia soltanto quando era ultimata in tutti i particolari, ma a ciò si giungeva dopo molti mesi di lavoro. Le parrucche, che misuravano fino a sei metri cubi, venivano ricavate da rocce rossicce esistenti all'estremità opposta dell'isola. Quando la statua era separata dal monte, veniva trascinata sul luogo ove doveva essere innalzata da centinaia di uomini che facevano forza, insieme su grossissime funi. Bisogna notare che alcune statue pesavano fino a cinquanta tonnellate.
Ma l'operazione che richiedeva maggior perizia era quella di rizzare la statua. Gli indigeni si servivano di tre soli pali di legno, che infilavano come leve sotto la statua; era sufficiente riuscire ad alzarla di pochi centimetri perché si potessero incuneare nella fessura alcuni ciottoli che servivano da nuovo punto di appoggio per le leve. Così, di centimetro in centimetro, la statua assumeva la posizione verticale.
In queste ed ingegnose e febbrili attività trascorse il periodo più fiorente della civiltà dell'isola di Pasqua.
Ma ecco che un grande cambiamento avvenne nell'isola: le 'orecchie corte', stanche di essere tenute in schiavitù e sottoposte a tali fatiche, si ribellarono ai dominatori. In una lunga guerra combattuta con estrema ferocia nel breve spazio dell'isola, le 'orecchie lunghe' furono tutte sterminate, eccetto uno solo.
Le 'orecchie corte', vittoriose, abbatterono tutte le opere a cui avevano lavorato in schiavitù; ecco perché nessuna delle statue già innalzate nei grandi spiazzi fu trovata più ritta. Tutte quelle che erano in lavorazione, e sono centinaia, rimasero incompiute, ancora unite alla montagna, oppure abbandonate lungo il percorso; queste, col trascorrere dei secoli, rimasero semisepolte, cosicché oggi ne vediamo sporgere dal terreno solamente la testa.
All'uccisione delle 'orecchie lunghe' non seguì però la pace. Cominciò una guerriglia, durata per secoli, fra le diverse famiglie dei vincitori. Poiché, data la piccolezza dell'isola, vivere all'aperto durante le guerre era troppo pericoloso, ogni famiglia si scavò un rifugio sotterraneo e segreto, nel quale trascorreva buona parte dell'esistenza. Poiché, in queste condizioni era difficilissimo procurarsi il cibo, si diffuse nell'isola la pratica del cannibalismo. Queste caverne formate da corridoi lunghe anche centinaia di metri sono perciò, oggi, ricchi giacimenti di resti umani, sculture e graffiti; ma purtroppo, della maggioranza di esse nessuno può conoscere l'entrata che gli antichi abitatori nascondevano con grandissima cura. L'esistenza di questa città sotterranea ha spiegato finalmente perché, ad alcuni navigatori, l'isola apparisse quasi disabitata. Questo tempo tristissimo, di decadenza, si è ormai concluso. Il Cile ha stabilito un governatorato sull'isola e, creandovi alcuni allevamenti, ha ridato la pace ed un po' di benessere alla popolazione superstite.
Il 12 agosto del 1998 è stato celebrato il centenario dell'ammissione delle Hawai'i agli Stati Uniti d'America.
Per alcuni la data è stata solo una solennità patriottica a ricordo dell'espansione americana del gruppo di 132 isole che costituiscono un avamposto strategico di enorme importanza.
Per altri invece, la ricorrenza ha riportato tristemente alla memoria la sconfitta di un popolo antico e fiero e la fine di un regno indipendente.
Non si trattò di una sconfitta sul campo di battaglia: i pacifici Hawaiiani non avevano opposto alcuna resistenza ai marinai americani sbarcati nel 1893, che detronizzarono l'ultima regina delle isole.
Nel 1959 le Hawai'i vengono dichiarate il 50° Stato dell'Unione.
In passato gli Hawaiiani facevano sacrifici umani ed erano oppressi da un terribile sistema di tabù i quali, se infranti, richiedevano punizioni severissime.
I sacrifici, i tabù, la struttura piramidale della società hawaiiana datano dopo il 1000-1200 d.C. con l'arrivo nelle isole di un kahuna di nome Pa'ao, proveniente da Tahiti, il quale introdusse l'abitudine alla guerra, vietò gli scambi commerciali e la fabbricazione delle grandi canoe per la navigazione oceanica.
Isolò le Hawa'i per secoli fino allo sbarco di Cook.
Prima le Hawa'i vivevano in una perfetta società dette dei ' cerchi concentrici', dove gli uomini e le donne collaboravano in armonia, non esistevano capi che gestivano il potere, ma solo anziani che guidavano le ahupua'a, cioè le varie ' fette' di territorio.
C'è una cosa che i bianchi hanno dato alle Hawai'i: i libri. Fu una vera rivoluzione: la corsa ad imparare a leggere e scrivere cominciò nel 1922.
A metà febbraio del 1834 nacque il primo giornale in lingua hawaiiana.
Nel 1860 l'analfabetismo non esisteva quasi più.
Isolate come sono, le Hawai'i hanno una storia evoluzionistica tutta loro: emerse dall'oceano sotto forma di aspri coni di lava, sono state progressivamente colonizzate da poche decine di animali e vegetali, trasportate fin lì dal vento e dalle maree.
Da qui hanno avuto origine le oltre 8.800 specie che costituivano il loro patrimonio biologico, spesso evolutosi con caratteristiche peculiari: uccelli che hanno perso la capacità di volare, data l'assenza nelle isole dei tradizionali nemici predatori, o dotati di becchi adatti a procurarsi il cibo e nettare dalle piante isolane, piante senza spine o rovi, insetti dai molteplici adattamenti al territorio locale. Le Hawai'i rappresentano, dunque, un ecosistema unico nel mondo ed un laboratorio ideale per gli studiosi di evoluzione.
Le isole, però, stanno cambiando rapidamente, proseguendo lungo un cammino che contrasta con la salvaguardia dell'ambiente. La pressione su un territorio così limitato è enorme e la crescente domanda di terra da destinare ad uso turistico o residenziale ostacola le necessità di conservazione e di protezione della natura.
Gli stessi hawaiiani sono discordi sul futuro della terra in cui vivono.
Alle Hawai'i ci troviamo di fronte ad uno dei sistemi vulcanici più importanti del pianeta ed alle montagne più alte della Terra: l'arcipelago, infatti, che è costituito da otto isole principali e da centinaia di atolli ed isole minori, disegna nell'Oceano Pacifico un arco di 2400 Km nel quale le parti emerse non sono altro che le cime di una catena di vulcani, alcuni dei quali spenti ed altri ancora attivi.
La catena continua sott'acqua, verso nord, ancora per 3500 km con i monti Emperor, un altro allineamento di vulcani sottomarini, che porta a 6000 km la dimensione di questa struttura unica al mondo, formata da 107 vulcani.
Le montagne di questa catena non hanno la stessa età; le più vecchie sono quelle sommerse ed ormai spente a nord-ovest, mentre le più recenti formano l'isola di Hawaii, all'estremo sud dell'arcipelago (formata dal Kohala, il più vecchio, il Mauna Kea, l'Hualalai ed il Mauna Loa.
I vulcani della catena Emperor-Hawai'i sono alimentati da un punto caldo, situato nel mantello terrestre; esso rimane immobile nel tempo, mentre la zolla di terra sovrastante, sulla quale si sono formati i vulcani, slitta al di sopra del mantello, spostandosi di alcuni centimetri ogni anno.
Di conseguenza, il punto caldo genera ed alimenta un vulcano fin tanto che esso si trova sulla sua perpendicolare. Quando non c'è più questa coincidenza, il vulcano gradualmente si spegne ed il punto caldo comincia a generare un secondo edificio.
I vulcani delle Hawai'i sono massicci ed hanno basi molto allargate e versanti poco scoscesi.
Data la ripida pendenza del fondo marino, vaste porzioni di terra possono crollare nell'oceano senza dare segnali premonitori. Questo fatto può provocare violente esplosioni dovute al contatto della lava incandescente con l'acqua.
Frane, esplosioni, flussi di lava su zone abitate e coltivate, terremoti sono i rischi ai quali le Hawai'i sono sottoposte. L'Hawaiian Observatory svolge un monitoraggio geofisico, centrato su un numero e l'intensità dei terremoti, la deformazione del suolo e la quantità di lava eruttata; controlla la composizione e quantità dei gas; studia la temperatura e composizione chimica della lava.
La hula kahico, la danza così come veniva intesa nel mondo antico, faceva parte di un rituale, sebbene lo spettacolo costituisse anche un divertimento per gli spettatori. Gli hawaiiani ritenevano che i suoi movimenti ritmici fossero carichi di mana: mimando perciò azioni e fenomeni, incontri con animali o l'arrivo della pioggia, si poteva ottenere un certo controllo sulla realtà. La hula andava alla radice stessa dell'esistenza, che è movimento. Se infatti ogni cosa è animata, il mondo intero è una danza.
Prima delle grandi rappresentazioni, i mea ula (danzatori) entravano in ritiro, chiusi per intere settimane nella halau hula, una lunga capanna che da quel momento diventava kapu, cioè tabù per chiunque provenisse dall'esterno, e dove il corpo di ballo, considerato sacro, doveva esercitarsi, mangiare taluni cibi, astenersi rigorosamente dal sesso, concentrarsi, pregare. Il ritiro terminava con il sacrificio di un maiale sull'altare della dea Laka, protettrice della hula, che, se i danzatori avevano raggiunto l'armonia interiore, entrava in essi e permetteva a loro di farsi interpreti della danza.
Oggi vi partecipano, con incredibile entusiasmo e dedizione, bambini adulti hawaiiani ma anche bianchi e asiatici. La moderna scuola di hula insegna più della danza: influenza la cultura hawaiiana, aiutando a preservare la lingua, a tramandare miti, rituali, tradizioni.
BIBLIOGRAFIA
Egidio Gavazzi, 'Airone' - Editoriale Giorgio Mondadori
Lorenzo Camusso e Francesco Vallardi, 'Paesi' - Edizioni Vallardi
Anna Maria Damigella, ' Gauguin' - Art Dossier- Giunti
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