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La Tettonica delle placche




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La Tettonica delle placche


Alla ricerca di un modello

L'esame dei fenomeni vulcanici ha messo in luce che nell'interno della Terra si formano continuamente magmi diversi in condizioni diverse (profondità, temperatura) ma, soprattutto, in settori ben definiti, per cui la parte esterna della Terra appare percorsa da una rete di fasce particolarmente <<attive>>, che determinano aree più <<tranquille>>.

L'esame dei fenomeni sismici, inoltre, mette in luce una struttura globale del pianeta Terra fatta di <<gusci>> concentrici di materiali diversi.

Numerosi sono stati i tentativi fatti per mettere insieme un <<modello>> dell'attività del pianeta. Negli ultimi 4 decenni del XX secolo, le Scienze della Terra hanno elaborato un <<modello globale>>, noto come Tettonica delle placche.


L'interno della Terra

Il valore della densità media della Terra (5,52 g/cm^3) consente di arrivare ad una prima conclusione sull'interno della Terra: poiché le rocce che costituiscono la crosta hanno densità media tra 2,7 e 3 g/cm^3, l'interno del pianeta deve essere formato da materiali a densità molto elevata. Per tale via, soprattutto attraverso lo studio dei terremoti, si è giunti a riconoscere che il nostro pianeta presenta una struttura a involucri concentrici di diversa natura e spessore: una sottile crosta (da meno di una decina a qualche decina di km di spessore) ricopre uno spesso mantello (che arriva fino a 2.900 km di profondità), il quale a sua volta avvolge un grosso nucleo (distinto in interno ed esterno, con un raggio complessivo di oltre 3.400 km). Nell'interno della Terra sono presenti superfici di discontinuità sismiche, che separano materiali a caratteristiche meccaniche diverse.


La crosta

E' la parte più esterna del pianeta, un involucro rigido e sottile, il cui spessore varia da una media di 35 km sotto i continenti (ma con massimi di 60-70 km in corrispondenza delle grandi catene montuose) a una media di 6 km sotto i fondi oceanici. La sua composizione è molto eterogenea, e la sua densità varia da 2,7 g/cm^3 per le rocce granitoidi dei continenti, a circa 3 g/cm^3 per le rocce basiche che costituiscono i vari fondi oceanici. La base della crosta è indicata dalla brusca discontinuità sismica, nota come superficie di Mohorovicic o Moho.


Il mantello

Rappresenta l'82% in volume della Terra e si estende dalla Moho fino a 2.900 km di profondità, dove è presente la discontinuità sismica di Gutenberg. La Moho corrisponde a un brusco aumento della velocità con cui si propagano le onde sismiche nei confronti della velocità con cui attraversano la crosta, e questo significa che le rocce del mantello devono avere una maggiore rigidità ( attitudine a resistere a sollecitazioni esterne). La pressione aumenta, con la profondità, da 9 a circa 1.400 kbar e la densità dei materiali sale da 3,3 a 5,6 g/cm^3. Tuttavia le caratteristiche del mantello non variano in modo graduale e continuo per tutto il suo spessore: i dati sismici hanno messo in evidenza che, in una fascia tra 70 e 250 km di profondità, si trova l'astenosfera (zona di debolezza), interpretata come una zona in cui il materiale del mantello è parzialmente fuso. La presenza dell'astenosfera nel mantello è continua sotto le aree oceaniche, mentre sotto quelle continentali è incerta, o forse spostata più in profondità. A profondità maggiori di quelle dell'astenosfera la rigidità del mantello torna ad aumentare con la profondità.

L'insieme della crosta e del mantello fino all'astenosfera viene definito litosfera per sottolinearne il comportamento complessivo più <<resistente>> nei confronti della sottostante astenosfera.


Il nucleo

La discontinuità sismica di Gutenberg segna il passaggio al nucleo, che presenta caratteristiche nettamente diverse da quelle del mantello e che, con un raggio di circa 3.470 km (più della metà dell'intero pianeta), comprende il 16% del volume della Terra. La pressione aumenta con la profondità da 1.400 kbar a oltre 3.600 kbar; la densità aumenta bruscamente da 5,6 g/cm^3 a 9,7, e continua ad aumentare fino ai 13 g/cm^3 del centro della Terra.

Il materiale della parte più esterna del nucleo (fino alla superficie di Lehmann, a 5.170 km di profondità) ha le caratteristiche di un fluido, mentre poi si passa a un nucleo solido, che rimane tale fino al centro della Terra.

L'ipotesi più accreditata sulla natura del nucleo è quella di una lega ferro-nichel (ferro puro con il 5% di nichel, ma con qualche elemento meno denso, come il silicio e lo zolfo).


Il flusso di calore

Il flusso termico terrestre (la quantità di calore emessa nell'unità di tempo per ogni unità di superficie) è molto basso (in media 0,06 W per m^2); tuttavia dal punto di vista energetico è il più imponente tra i fenomeni terrestri, poiché l'energia che viene liberata in un anno per tale via è 50 volte l'energia liberata da tutti i terremoti ed eruzioni vulcaniche nello stesso periodo di tempo (anzi, questi fenomeni sono legati direttamente o indirettamente proprio al flusso di calore).

Ma qual è l'origine del calore?

L'energia cinetica delle particelle emesse da isotopi radioattivi ( nuclei di atomi di un elemento in cui allo stesso numero di protoni corrispondono diversi numeri di neutroni, che con il tempo si modificano spontaneamente con emissione di particelle nucleari trasformandosi in isotopi di elementi diversi) si trasforma in calore, e nella crosta terrestre sono presenti vari isotopi radioattivi (tra cui l'uranio 230, il torio 232 e il potassio 40). I calcoli effettuati in base all'abbondanza di tali isotopi nella crosta mostrano che il loro decadimento ( modificazione spontanea) potrebbe spiegare buona parte del flusso di calore della Terra, ma il problema non è così semplice: si ritiene che le zone con flusso termico più elevato (es.: in corrispondenza delle dorsali oceaniche) siano dovute all'esistenza di correnti convettive nel mantello ( reali spostamenti di materiale più caldo e meno denso che risale da zone profonde verso l'alto, sostituito da materiale raffreddatosi in vicinanza della superficie e quindi divenuto più denso, che ridiscende verso il basso).

Nel mantello, dove elevate temperature e pressioni perdurano per milioni di anni, rocce profonde divenute più calde del materiale circostante tendono a risalire verso la crosta sia pure con movimenti lentissimi (qualche cm/anno), mentre rocce vicine alla crosta e divenute più fredde scendono verso il basso, dove tornano a riscaldarsi e possono risalire nuovamente verso la crosta.


Il campo magnetico terrestre

La Terra, come il Sole e altri pianeti, possiede un campo magnetico, la cui struttura può essere descritta supponendo di porre al centro del pianeta una barra magnetica il cui asse formi un angolo di circa 11° con l'asse di rotazione.


La <<geodinamo>>

In realtà la forma del campo geomagnetico è più complessa di quella connessa con una semplice barra magnetica. In quest'ultimo caso, infatti, il campo è dipolare, mentre il campo geomagnetico si può definire solo prevalentemente dipolare, poiché, rispetto all'andamento dipolare teorico, presenta alcuni scostamenti. Inoltre, al di sopra di una certa temperatura critica, detta punto di Curie, i materiali magnetici perdono il loro magnetismo permanente e tale temperatura è dell'ordine di 500°C, molto più bassa, quindi, delle temperature presenti all'interno della Terra. Esclusa perciò la presenza di qualcosa di analogo ad un magnete permanente, le ipotesi sull'origine del campo geomagnetico si sono orientate verso un modello simile a quello della dinamo ad autoeccitazione. Tale modello prevede la presenza di materiale buon conduttore di elettricità in movimento entro la Terra, e questo potrebbe essere individuato nel nucleo esterno di ferro fuso, che è un buon conduttore e che si può immaginare <<agitato>> dai moti convettivi (l'origine di tali moti viene in genere imputata al calore prodotto dalla radioattività residua del nucleo).


Il paleomagnetismo

La conoscenza del campo geomagnetico si è molto ampliata e ha schiuso prospettive inaspettate con la scoperta del paleomagnetismo, che consente lo studio del campo magnetico terrestre del passato, grazie al fatto che molte rocce conservano una magnetizzazione propria, indotta dal campo geomagnetico esistente al momento della loro formazione. Si è scoperto così che il campo geomagnetico esiste da almeno 3,5 miliardi di anni.

Ma l'analisi sistematica del paleomagnetismo di numerose rocce ha portato ad altre sorprendenti scoperte: nel corso degli anni Cinquanta del XX secolo alcuni ricercatori inglesi osservarono che la direzione della magnetizzazione conservata in rocce antiche era diversa da quella attuale, e non solo; per una stessa età, rocce di continenti diversi indicavano una diversa posizione del polo magnetico. Si giunse così alla conclusione che i continenti si erano mossi, scivolando e ruotando lentamente sulla superficie terrestre: di conseguenza le rocce avevano cambiato posizione e orientamento nel tempo e con esse si era spostato anche il loro campo magnetico fossile.

Il paleomagnetismo ha portato anche a un'altra importante scoperta: in molte rocce di età recente la direzione di magnetizzazione risulta esattamente opposta a quella del campo geomagnetico attuale; il fenomeno si osserva anche in rocce molto più antiche, il cui campo magnetico, oltre a indicare una direzione più o meno ruotata rispetto a quella attuale, rivela anche la presenza di ripetute inversioni di polarità. La conclusione che ne è stata tratta indica che il campo magnetico terrestre è passato alternativamente da normale (cioè orientato con il Polo nord come oggi) a inverso. Si è dunque ricostruita in dettaglio la successione dei periodi di tempo a polarità normale e inversa che si sono susseguiti negli ultimi 5 milioni di anni circa: si è stabilita una scala stratigrafica paleomagnetica divisa in 4 epoche magnetiche, all'interno delle quali si sono riconosciuti alcuni intervalli molto brevi di inversione, chiamati eventi.

Sappiamo ben poco su come avvenga il fenomeno dell'inversione di polarità, ma è possibile che il campo magnetico si indebolisca o scompaia per qualche tempo, lasciando la Terra senza il suo scudo naturale contro certe radiazioni cosmiche.


La struttura della crosta


Crosta oceanica e crosta continentale

La crosta oceanica è coperta interamente dalle acque degli oceani, di cui costituisce il pavimento; quella continentale corrisponde ai continenti e alla loro prosecuzione sotto il livello del mare, comprendendo la piattaforma continentale e buona parte dell'adiacente scarpata continentale. La classica distinzione geografica tra mari e terre emerse non ha, dal punto di vista della natura crostale, un particolare significato.

I due tipi di crosta sono molto diversi tra loro per vari aspetti:

spessore: la crosta continentale ha quasi ovunque uno spessore medio di 35 km (tranne in corrispondenza delle catene montuose, dove lo spessore arriva a 60-70 km); solo in alcuni settori molto limitati risulta assottigliato (fino a circa 20 km): sono movimenti distensivi, con sviluppo di grandi depressioni tettoniche. La crosta oceanica ha invece uno spessore medio di 6 km sotto il fondo del mare, ma si assottiglia moltissimo in corrispondenza del centro delle dorsali oceaniche;

quote medie della superficie: la differenza più immediatamente osservabile è che il livello medio della superficie della crosta continentale è di oltre 4.000 m maggiore di quello della crosta oceanica;

età delle rocce: nella crosta continentale compaiono rocce di ogni età, tra oggi e circa 4 miliardi di anni fa, mentre nessun punto dei fondi oceanici presenta rocce più antiche di 190 milioni di anni (questo significa che la crosta oceanica si è formata in un periodo di tempo che è l'ultimo 4% dell'intera storia della Terra);

natura delle rocce e loro giacitura: la crosta oceanica mostra una struttura a strati molto regolare: sotto un modesto spessore di sedimenti si ritrova ovunque un grosso spessore di basalto, che in profondità passa a uno stato di gabbro ( roccia magmatica che è il corrispondente intrusivo del basalto). La crosta continentale presenta invece una composizione estremamente eterogenea in cui si affiancano rocce sedimentarie, magmatiche e metamorfiche.


Poiché l'evoluzione della crosta non si è esaurita e l'orogenesi ( processo che ha portato alla formazione di grandi catene montuose nel corso di numerosi cicli geologici) è tuttora in atto, vaste aree continentali ci appaiono oggi composte da aree cratoniche, più antiche e stabili, e da fasce orogeniche, più recenti e sedi di forti attività.


Nelle aree cratoniche (o cratoni) si distinguono scudi e tavolati: gli scudi sono le parti più antiche, appaiono come ampie pianure debolmente bombate verso l'alto e sono costituiti da affioramenti di ammassi di rocce ignee e metamorfiche, non interessate da orogenesi né ricoperte dal mare almeno nell'ultimo miliardo di anni; i tavolati circondano gli scudi, sono ampie aree pianeggianti su cui affiorano rocce sedimentarie che testimoniano lunghi periodi di sommersione marina alternati a fasi di emersione, ma che non risultano comunque coinvolte in processi di orogenesi: sotto i tavolati, a modesta profondità, proseguono le rocce degli scudi.

Le fasce orogeniche (orogeni) sono quelle in cui l'orogenesi si è verificata in tempi meno antichi (entro gli ultimi 500 milioni di anni, in genere), tanto che i suoi effetti possono essere molto vistosi (es.: forte ispessimento della crosta). Negli orogeni più recenti infatti la crosta non ha ancora raggiunto lo spessore e la stabilità delle vaste aree cratoniche (è il caso delle Ande e della catena alpino-himalayana, dove la crosta arriva anche a 70 km e l'attività geologica è molto intensa).


L'isostasia

La constatazione che la crosta terrestre nel suo insieme affonda più o meno nel mantello a seconda del suo spessore, suggerisce che essa possa letteralmente galleggiare sul mantello a causa della sua minore densità media. La tendenza della crosta a raggiungere una posizione di equilibrio con il galleggiamento è chiamata isostasia, e i movimenti verticali con cui la crosta reagisce ad ogni variazione di tale equilibrio sono detti aggiustamenti isostatici.


Quando un settore di crosta si deforma e come risultato si solleva una catena montuosa (si verifica cioè un'orogenesi), al di sotto della catena i materiali della crosta risultano scesi a parecchi chilometri di profondità rispetto alla crosta continentale non sollevata: in pratica quel settore di crosta è aumentato di spessore (per le deformazioni subite) ed è divenuto più pesante (come conseguenza è sprofondato nel sottostante mantello, finché la spinta di galleggiamento non ne compensa il maggior peso). In superficie, a quel settore di crosta ispessito corrisponde una catena montuosa che nonostante il suo grande peso può restare sollevata proprio perché sostenuta da un grosso spessore di <<radici>> fatte di materiale crostale <<leggero>>. Via via che l'erosione demolisce la nuova catena montuosa, le radici si riducono di volume continuando a tenere sollevati rilievi sempre meno imponenti. Quando la catena montuosa è totalmente spianata, le sue radici sono pertanto sparite e lo spessore locale della crosta raggiunge il valore medio che si osserva sotto gli scudi e i tavolati (35 km).


Misure geofisiche particolari e opportuni calcoli consentono di stabilire quella che si può definire la tendenza isostatica di un settore della crosta: se cioè sia in equilibrio isostatico (stabile) o se presenti anomalie isostatiche, che quel settore tende a compensare sollevandosi o abbassandosi.



L'espansione dei fondi oceanici


La Pangea e la teoria di Wegener

Secondo Wegener, circa 200 milioni di anni fa vari lembi di crosta continentale oggi separati si trovavano uniti in un unico grande continente, detto Pangèa, circondato da un unico grande oceano, Pantàlassa; a partire da quell'epoca la Pangèa si sarebbe smembrata in più parti (Americhe, Africa, Eurasia, India, Australia, Antartide) che si sarebbero sempre più allontanate tra loro secondo un meccanismo noto come deriva dei continenti ( grossi frammenti di crosta sialica sarebbero andati pian piano alla deriva verso Ovest per essere rimasti in ritardo rispetto alla rotazione della Terra verso Est). La teoria della deriva dei continenti partiva da premesse valide e i dati oggi disponibili non possono far altro che confermare l'avvenuta <<diaspora>> dei frammenti di Pangèa.

Dove invece la teoria di Wegener risultava poco sostenibile era nelle cause e nelle modalità della deriva, in quanto le forze invocate per spiegare questo fenomeno apparivano del tutto inadeguate: di conseguenza tutta la teoria venne contrastata, mentre la mobilità della crosta veniva ammessa solo per movimenti isostatici. Per affermarsi decisamente, l'idea di una <<Terra mobile>> aveva bisogno di nuovi dati di supporto.

Negli anni Sessanta, alcune entusiasmanti scoperte mostrarono che il <<pavimento>> degli oceani non è stabile, ma in continua evoluzione (espansione dei fondi oceanici). Esaminiamo due gruppi di strutture oceaniche fondamentali per le dimensioni e l'attività geologica associata: le dorsali oceaniche e le fosse abissali.


Le dorsali oceaniche

Sul fondo degli oceani si snoda un sistema di dorsali sommerse, lungo complessivamente oltre 60.000 km. E' una figura caratteristica del nostro pianeta, sede di intenso vulcanismo e di forte sismicità. Le dorsali oceaniche non sono catene montuose come quelle dei continenti, ma corrispondono ad una lunghissima fascia di crosta oceanica (ampia da 1.000 a 4.000 km) inarcata verso l'alto tanto che la sua sommità è 2.000-3.000 m più alta degli adiacenti fondi oceanici, e in qualche punto arriva ad emergere dalla superficie del mare (Islanda, Azzorre).

La "cresta" del sistema di dorsali è quasi ovunque segnata da un solco longitudinale largo qualche decina di km e profondo 1.500-3.000 m, chiamato rift valley per la sua grande somiglianza con il sistema di fosse dell'Africa Orientale noto come Great Rift Valley. Un diverso sistema di fratture, trasversali rispetto all'asse della rift valley, disarticola invece le dorsali in numerosi segmenti, ciascuno dei quali risulta spostato rispetto a quelli contigui; tali fratture sono state chiamate faglie trasformi. Lungo il tratto di faglia trasforme compreso tra due segmenti successivi di rift valley, il fondo oceanico si muove in direzioni opposte, con violenti attriti e conseguenti terremoti (es. di faglia trasforme: faglia di San Andreas, che collega due tratti di dorsale oceanica posti l'uno a Nord-Ovest della California e l'altro all'interno del Golfo di California).

Inoltre, lungo le spaccature che delimitano la rift valley risale continuamente dal mantello magma ad alta temperatura che fuoriesce da innumerevoli punti sul fondo del mare solidificando all'interno della valle come roccia basaltica (con la tipica a struttura a <<cuscino>> detta pillow lava). Infine numerosi terremoti con ipocentro poco profondo si verificano lungo tutta la rift valley e lungo le faglie trasformi.

L'insieme delle caratteristiche osservate indica che sotto la crosta, in corrispondenza delle dorsali, deve esistere un flusso ascendente continuo di materiale molto caldo in risalita da livelli profondi entro il mantello.

La massa di materiale caldo in risalita, arrivata in prossimità della superficie, si espande dividendosi in rami che si allontanano in direzioni opposte rispetto alla posizione della dorsale e si muovono, sempre alla velocità di qualche cm/anno, sotto le piane abissali, continuando però a perdere calore. Come conseguenza di questi movimenti profondi, in superficie i due fianchi delle dorsali si allontanano l'uno dall'altro a partire dalla rift valley: tale movimento non lascia uno spazio vuoto, in quanto dalle numerose faglie che continuamente si aprono risale immediatamente magma che forma nuovi ammassi di rocce effusive (basalti) e intrusive (gabbri), per uno spessore di qualche km e su tutta l'estensione della rift valley. Non appena consolidate, anche le nuove rocce vengono coinvolte nel meccanismo in atto. In definitiva, i fondi oceanici si accrescono e si espandono a partire dalla rift valley.


Le fosse abissali

I fondi oceanici presentano un altro tipo di strutture nettamente distinte dalle dorsali, ma ugualmente caratterizzate da intensa attività: le fosse abissali ( depressioni del fondo lunghe migliaia di km e relativamente strette, molte delle quali scendono a più di 10.000 m di profondità).

Rispetto alla sua quota media, il fondo oceanico scende di oltre 5 km in corrispondenza di una fossa. L'attività vulcanica è sistematicamente presente, ma localizzata su una fascia parallela alla fossa e situata ad una certa distanza. Se la fossa fiancheggia il margine di un continente, lungo tale margine si innalza una catena di vulcani che individua un arco vulcanico (es.: le Ande, parallele alla fossa del Perù-Cile); se invece la fossa è in pieno oceano, parallelamente ad essa si osserva un arco di isole vulcaniche (es.: le Isole Marianne, lungo la fossa omonima). In ogni caso il vulcanismo associato alle fosse è ben diverso da quello delle dorsali: quest'ultimo è caratterizzato da effusioni di lava fluida, mentre quello lungo le fosse è altamente esplosivo, alimentato da magmi molto ricchi di gas e vapori. Tutte le più violente esplosioni vulcaniche si verificano in prossimità di una fossa oceanica.

Le fosse sono accompagnate anche da forte sismicità: gli ipocentri dei terremoti sono superficiali in prossimità della fossa, mentre diventano via via più profondi man mano che ci si allontana da questa in direzione dell'arco vulcanico, fino a un massimo finora registrato di circa 720 km. Inoltre la loro distribuzione complessiva permette di individuare una superficie ideale, la superficie o piano di Benioff, che scende in profondità con un angolo compreso tra 30 e 70° rispetto alla superficie terrestre.


Espansione e subduzione

Se l'interpretazione delle dorsali oceaniche come luogo di formazione ed espansione di una nuova litosfera oceanica è corretta, allora deve esistere qualche forma di consunzione di litosfera in altri settori del globo, la cui superficie complessiva dovrebbe altrimenti aumentare di continuo (fenomeno previsto in verità da qualche studioso).

Negli anni Sessanta fu prospettata per la prima volta l'ipotesi dell'espansione dei fondi oceanici. In tale ipotesi, le dorsali oceaniche sono sostenute dalla risalita di materiale caldo in movimento nel mantello; l'inarcamento della litosfera provoca l'assottigliamento e la fratturazione di quest'ultima, per cui la rift valley corrisponde a una gigantesca <<crepa>> estesa su tutto l'involucro litosferico; attraverso essa, parte del materiale del mantello allo stato fuso risale e alimenta il vulcanismo della dorsale, i cui prodotti contribuiscono, una volta divenuti solidi, alla formazione di una nuova litosfera. A sua volta la litosfera oceanica, trascinata dai movimenti profondi del mantello, si allontana da un lato e dall'altro della rift valley, si raffredda e, per la conseguente contrazione, diviene più densa e si abbassa di quota rispetto alla dorsale, verso un nuovo equilibrio isostatico: si forma così il pavimento delle vaste piane abissali, che si ricopre col tempo di un certo spessore di sedimenti.

Contemporaneamente, ad una certa distanza dalle dorsali, il materiale del mantello in movimento, ormai divenuto più freddo e pesante, comincia a ridiscendere in profondità con un lento movimento detto di subduzione. La litosfera segue tale movimento, inflettendosi verso il basso (si formano così le fosse) e immergendosi nel mantello. Nella sua discesa entro zone a temperature via via più elevate, la litosfera si riscalda e comincia a fondere, finché in profondità risulta del tutto riassimilata.

Non tutto il materiale della litosfera viene però <<riciclato>> nel mantello: la fusione graduale della crosta oceanica e dei sedimenti che la ricoprono produce grandi volumi di magma che risale verso la superficie alimentando il vulcanismo degli archi vulcanici; poiché parte del magma si consolida anche a una certa profondità dando origine a rocce intrusive, si parla più generalmente di archi magmatici.

Inoltre la discesa della litosfera avviene con violenti attriti, che si manifestano come terremoti. La superficie di Benioff permette di intravedere la litosfera che sprofonda; la mancanza di ipocentri più profondi di 700 km sarebbe un segno che, a quelle profondità, tutta la litosfera è stata ormai riassimilata.


La <<prova indipendente>>: anomalie magnetiche sui fondi oceanici

Per trovare prove a sostegno dell'ipotesi dell'espansione dei fondi oceanici, un contributo decisivo venne dal paleomagnetismo.

Le anomalie magnetiche indicano lo scarto in più o in meno tra la misura del campo magnetico attuale di un luogo e il suo valore teorico. Tali scarti sono provocati dalla presenza, in superficie o a modesta profondità, di masse rocciose con una propria magnetizzazione che interferisce con il campo geomagnetico.

Nel caso dei fondi oceanici, le anomalie magnetiche risultano distribuite in fasce, di valore alternativamente positivo e negativo, disposte parallelamente alle dorsali. Due ricercatori inglesi, Vine e Mattews, nel 1963 interpretarono le zone di anomalie magnetiche positive dei fondi oceanici come risultato dell'interferenza (positiva) tra campo geomagnetico attuale e porzioni di crosta oceanica aventi magnetismo residuo con orientazione uguale a quella del campo attuale, e le zone di anomalie negative come risultato dell'interferenza (negativa) tra campo geomagnetico attuale e porzioni di crosta oceanica aventi magnetismo residuo con orientazione contraria a quella del campo attuale. Con questa interpretazione è evidente che la presenza dei due tipi di anomalie richiede che la crosta oceanica non si sia formata tutta insieme, ma in tempi diversi, e l'ipotesi dell'espansione dei fondi oceanici fornisce la chiave di interpretazione.

I basalti che si solidificano sul fondo della rift valley si magnetizzano nella direzione del campo magnetico terrestre presente in quel momento; la nuova striscia di crosta che via via si forma viene a sua volta lacerata nel senso della lunghezza dal movimento di espansione e le due strisce he ne risultano vengono allontanate dal centro della rift valley in direzioni opposte. Le nuove spaccature vengono invase da altro magma ma, se nel frattempo si è invertito il campo magnetico terrestre, le nuove rocce verranno magnetizzate in direzione opposta a quella delle rocce formatesi in precedenza. Il processo di espansione prosegue e così altra crosta si allontana dalla rift valley insieme a quella più antica, dalla quale si distingue per la direzione di magnetizzazione opposta. Questo meccanismo spiega la distribuzione a fasce parallele delle anomalie magmatiche, giustificandone anche la disposizione speculare rispetto alla rift valley da cui ha origine l'espansione.


La tettonica delle placche


Le placche litosferiche

Alla fine degli anni Sessanta si è giunti alla formulazione di una teoria globale sull'evoluzione del nostro pianeta, nota come Tettonica delle placche. La teoria prende in esame il comportamento della litosfera.

La litosfera è intersecata per tutto il suo spessore da fasce molto attive, caratterizzate da sismicità e vulcanismo, lunghe migliaia di km e relativamente strette: sono le dorsali di espansione, le fosse di subduzione e le grandi faglie trasformi. Nel loro insieme esse formano una rete che si dirama su tutta la litosfera, suddividendola in una ventina di maglie irregolari (sei molto vaste, le altre assai minori). Queste maglie, dette placche (o, meno propriamente, zolle) possono essere formate da sola litosfera oceanica (come la placca del Pacifico) o da sola litosfera continentale (come la placca eurasiatica), o da porzioni di litosfera dei due tipi (come la placca africana). I bordi delle singole placche, detti margini, vengono distinti in tre tipi:

margini costruttivi o divergenti: dorsali oceaniche;

margini distruttivi o di convergenza: fosse oceaniche;

margini conservativi: alcune grandi faglie trasformi, lungo le quali due placche scorrono una a fianco dell'altra in direzioni opposte (o con diverse velocità), con fenomeni di metamorfismo e forte attività sismica, ma senza variazioni nel volume della litosfera.

Poiché le placche sono a contatto reciproco, ogni margine è comune a due placche; inoltre le placche litosferiche occupano in ogni momento tutta la superficie della Terra, per cui non rimangono mai spazi vuoti tra esse. Alcune sono circondate in gran parte da margini costruttivi (come quella Africana e quella Antartica): in tal caso la loro superficie aumenta continuamente nel tempo; altre sono limitate sia da dorsali che da fosse (come la placca Sudamericana), e in tal caso la loro superficie può rimanere stazionaria o modificarsi col tempo.





L'orogenesi

Alcuni oceani hanno al loro interno una dorsale di espansione, ma non presentano fosse di subduzione: poiché la superficie della loro crosta oceanica continua ad aumentare per l'attività della dorsale, dobbiamo concludere che i continenti ai loro bordi devono allontanarsi tra loro per fare spazio alla nuova crosta (es.: nell'Oceano Atlantico deve aumentare continuamente la distanza tra Nordamerica ed Europa e tra Sudamerica e Africa), ma così facendo essi potrebbero andare ad interferire, per esempio, con una fossa di subduzione (es.: se il Sudamerica si muove verso Occidente interferisce con la fossa di subduzione del Perù-Cile, che è costretta a migrare verso Ovest). In questo complesso <<gioco ad incastro>>, la crosta continentale appare ben poco attiva (i blocchi di crosta continentale seguono i movimenti della litosfera). Ma questo comportamento <<passivo>> può avere conseguenze importanti se un lembo di crosta continentale finisce per interferire con una fossa di subduzione: il risultato può essere un'orogenesi, cioè un processo di intensa deformazione crostale che coinvolge grandi volumi di rocce, con fenomeni di metamorfismo e magmatismo, e che si manifesta in superficie con il sollevamento di una nuova catena montuosa.

Un orogeno ( prodotto di un'orogenesi) può formarsi in tre situazioni:

crosta oceanica in subduzione sotto il margine di un continente: se un continente finisce per trovarsi a ridosso di una fossa oceanica, non entra in subduzione, in quanto la litosfera continentale è meno densa di quella oceanica e non può sprofondare entro il mantello: in questo caso la crosta oceanica si infila sotto il margine continentale, che viene così deformato dal violento attrito; dalla crosta oceanica in subduzione vengono strappati via i sedimenti oceanici insieme a lembi dei sottostanti basalti, e queste masse rocciose si saldano stabilmente al margine del continente per formare una nuova striscia di crosta continentale; la crosta continentale si accresce di spessore per la risalita di grandi quantità di magmi e si individua così il processo di orogenesi, che prosegue finché è attiva la subduzione;

collisione continentale: se la placca che sta sprofondando nella subduzione comprende, oltre a crosta oceanica, anche un continente, questo - una volta consumata tutta la crosta oceanica - finirà per arrivare alla fossa dove, in presenza di un altro continente <<bloccato>> lungo di essa, la collisione continentale sarà inevitabile; i due margini che entrano in contatto vengono sconvolti e deformati, e grandi masse rocciose possono scivolare una sopra l'altra per centinaia di chilometri, fino a saldarsi facendo aumentare lo spessore della crosta e originando una lunga catena montuosa;

accrescimento crostale: si verifica quando frammenti di crosta di varia natura, in origine anche molto lontani fra loro, sono <<incastrati>> in una placca oceanica in lento e progressivo movimento verso una fossa di subduzione; man mano che arrivano alla fossa questi frammenti, rilevati rispetto alla quota media del fondo marino, verrebbero strappati via dalla placca che sprofonda e spinti ad accavallarsi contro il margine del continente lungo cui si trova la fossa (altri frammenti si aggiungerebbero nel tempo concorrendo ad ampliare le dimensioni del continente contro cui si saldano).



Il ciclo di Wilson

Le fosse non sono forme stabili: prima o poi vengono distrutte in un processo di collisione e sostituite dalla formazione di altre fosse altrove (in zone della litosfera oceanica in quel momento meno resistenti alle continue sollecitazioni che fanno muovere le placche). Anche le dorsali sono forme mutevoli: se i movimenti in atto nel mantello sottostante si modificano, l'espansione si arresta e la dorsale diviene inattiva e si raffredda, perdendo il suo rilievo. Ma gli stessi mutamenti nei moti del mantello possono far nascere una nuova dorsale: ciò si verifica quando grandi volumi di materiale caldo in risalita dal mantello arrivano al di sotto di un lembo di litosfera continentale. In tal caso la litosfera si inarca e si frattura; le lunghe spaccature provocano un allineamento di grandi fosse. Dalle spaccature fuoriesce il magma che ricopre il fondo delle fosse. E' lo stadio embrionale (es.: Great Rift Valley).

Se il processo di espansione continua, i due margini continentali si allontanano e le lave che continuano a risalire dal basso formano una prima striscia di nuova crosta oceanica, mentre le acque dei mari vicini cominciano ad invadere la depressione che si apre. Prende forma così il nuovo oceano, il cui fondo presenta un elevato flusso termico. E' lo stadio giovanile (es.: Mar Rosso).

La fase successiva ci porta allo stadio di maturità (es.: Oceano Atlantico). L'oceano si è ampliato, il suo fondo si accresce secondo il meccanismo di espansione e la frattura originaria è chiaramente segnata dalla rift valley. I due frammenti di continente sono trasportati lontano dal movimento delle placche su cui si trovano, mentre lungo i loro margini i detriti portati dai fiumi si accumulano in prismi sedimentari.

Un oceano, comunque, non può allargarsi all'infinito: ad un certo punto gli equilibri sotto la litosfera possono mutare e la dorsale diviene inattiva. Il fondo del vecchio oceano si consumerà in qualche fossa di subduzione, finché i due continenti, separatisi proprio per l'espansione di quell'oceano, torneranno ad avvicinarsi, entreranno in collisione e si salderanno nuovamente in un unico continente.

Sembra di poter concludere che l'incessante movimento delle placche costringe ciclicamente i lembi di crosta continentale a saldarsi via via fino a formare un supercontinente, che ben presto gli stessi movimenti frammentano in nuovi continenti in separazione e in movimento verso nuove collisioni. Il ciclo del supercontinente o ciclo di Wilson è la nuova unità di misura dell'evoluzione del nostro pianeta e ha una durata dell'ordine di circa 500 milioni di anni.


Vulcanismo, sismicità e placche


Vulcani: ai margini delle placche o all'interno delle placche

Il vulcanismo essenzialmente effusivo lungo l'asse delle dorsali oceaniche è dovuto alla risalita dalle profondità del mantello del materiale caldo che fa inarcare la litosfera. Il magma deriva dalla fusione parziale delle rocce del mantello ed è, di conseguenza, di natura basaltica: essendo povero in silice, questo magma dà origine a lave fluide, che fuoriescono <<tranquillamente>>.

Il vulcanismo fortemente esplosivo è localizzato lungo gli archi insulari vulcanici o lungo il margine dei continenti che fronteggiano le fosse abissali. E' collegato al processo di subduzione, nel corso del quale la placca che sprofonda viene progressivamente fusa; la presenza di notevoli spessori di sedimenti marini fa sì che il magma prodotto dalla fusione sia ricco in silice (quindi viscoso) e di fluidi (anidride carbonica, vapore acqueo): di conseguenza il vulcanismo dà origine a manifestazioni altamente esplosive.

Le fasce di vulcanismo ora citate sono chiaramente associate all'attività di margini costruttivi e distruttivi delle placche, ma esistono anche numerosi grandi centri vulcanici all'interno delle placche. Nella maggior parte dei casi siamo di fronte alla manifestazione in superficie di un <<punto caldo>> ( ristretta area della crosta caratterizzata da elevato flusso termico e continua effusione di lave basaltiche).


Terremoti: ai margini delle placche o all'interno dei continenti

La distribuzione dell'attività sismica coincide per oltre il 95% con le fasce lungo cui interagiscono i margini delle placche in cui è suddivisa la litosfera.

Lungo le dorsali, le forze che tendono a far allontanare uno dall'altro i due fianchi della rift valley e la risalita del magma attraverso numerose fratture provocano continuamente l'attivazione di numerose faglie, producendo sismi di modesta entità o una miriade di <<microsismi>>.

La forte sismicità associata alle fosse oceaniche è legata alla subduzione di una placca sotto l'altra.

Nelle catene montuose di orogenesi recente, nate da collisioni continentali, non si sono ancora esaurite le spinte che hanno deformato e fatto saldare tra loro i margini venuti a contatto (es.: catene circum-mediterranee, con subduzione della placca africana sotto quella euroasiatica).

Una piccola percentuale di terremoti cade lontano dai margini. Si pensa che, occasionalmente, gli sforzi si possano propagare all'interno di una placca litosferica, e possano crescere fino a superare localmente la resistenza delle rocce stesse, soprattutto in qualche punto di minor resistenza (per esempio lungo le antiche faglie), provocando uno dei rari terremoti localizzati all'interno di una placca.


Celle convettive e punti caldi

Cosa fa muovere il complesso meccanismo delle placche? Molti elementi fanno pensare a movimenti convettivi all'interno del mantello, provocati da locali squilibri termici, a loro volta causati dal calore liberato da processi radioattivi, ma il problema non è così semplice e la soluzione sembra coinvolgere anche il nucleo. Un contributo decisivo è venuto dalla tomografia sismica ( tecnica sofisticata di analisi delle onde sismiche, che consente di ottenere un'immagine tridimensionale dell'interno della Terra in termini di regioni relativamente più calde o più fredde).

Il calore ad altissima temperatura presente nel nucleo interno si propaga verso l'esterno; il nucleo esterno assorbe questo calore, che si aggiunge al calore prodotto da materiali radioattivi e al calore che si libera via via che porzioni della lega ferro-nichel solidificano e si aggregano al nucleo interno. Come conseguenza, il nucleo esterno è agitato da energici moti convettivi che trasferiscono il calore alla base del mantello.

Alcuni geofisici ritengono che dalle regioni più calde presenti alla base del mantello si innalzino colonne di materiale caldo, chiamate pennacchi, ciascuna con diametro di un centinaio di km, che arriverebbero in superficie manifestandosi negli hot spots. Altri, in base alla presenza della complessa zona di transizione (verso i 700 km di profondità) che permette di distinguere un mantello superiore e un mantello inferiore, propongono un modello di circolazione a due livelli: una serie di celle convettive localizzate tra la zona di transizione e il tetto del mantello, e un'altra tra la zona di transizione e il nucleo. I moti nel mantello inferiore, molto più denso di quello superiore, sarebbero più lenti, mentre i movimenti delle placche sarebbero direttamente collegati ai moti convettivi del mantello superiore, relativamente più rapidi.

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Appunti su: ricerca scientifica su Rift Valley per la tesina, orogenesi aree cratoniche, aree stabili nelle placche, come sono distribuite le anomalie magnetiche rispetto alle dorsali, https:wwwappuntimaniacomsuperiorigeografiala-tettonica-delle-placche75php,



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