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Galileo e le sue opere




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GALILEO E LE SUE OPERE



1 I grandi scritti scientifici.


Tra i testi che comunicarono al mondo le scoperte della nuova scienza Galileiana, il breve testo latino Sidereus Nuncius (1610) conserva ancor oggi tutto il fascino di una esaltante immersione nella luce del cielo, animato com'è dall'entusiasmo che si accende alla contemplazione degli astri. Ma tra gli scritti di Galileo non si possono trascurare le numerosissime lettere, spesso molto ampie, che ci permettono di seguire passo passo lo svolgersi della sua ricerca, i suoi progetti di politica culturale, la difesa delle proprie scoperte.

Il Saggiatore, lo scritto polemico contro Grassi, apparso nel 1623 sottoforma di lettera a Virginio Cesarini e con dedica a Urbano VIII, è tra le opere di Galileo, la più carica di elementi letterari, fitta di scatti inventivi, sorprese, battute scintillanti. Lo stesso titolo riprende scherzosamente quello della Libra dell'avversario. Pervasa da una magistrale ironia, quest' opera vuole anche essere una distaccata rappresentazione della vanità intellettuale, degli usi strumentali della scienza, degli equivoci intrecci tra sapere scientifico e istituzioni che caratterizzano il programma dei gesuiti. Anche se le tesi che Galileo vi formula sulla atra delle comete sono state successivamente smentite, il Saggiatore resta un modello ancora attuale di libera polemica, di coraggiosa denuncia delle forme culturali chiuse ed opportunistiche.

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, stampato nel 1632, è dedicato al granduca Ferdinando II de' Medici e, per sfuggire ai sospetti dell'Inquisizione si serve di schemi, ambiguità, simulazioni, in serrato gioco delle parti. Nella premessa "al discreto lettore" si dichiara che nel corso del dialogo il sistema copernicano viene sostenuto "solamente per capriccio matematico", per mostrare fuori d'Italia la fertilità dell'ingegno italiano; la struttura stessa dell'opera serve a occultare le idee dell'autore, inserendole in un vivace dialogo tra diversi interlocutori, in una incessante sequenza di discussioni, problemi specifici, intoppi, soluzioni di questioni particolari. La tesi copernicana è come velata da questi percorsi tortuosi, da precisazioni e correzioni, da avvertimenti e ritrattazioni, la verità scientifica non può però imporsi con chiarezza, rompe comunque i limiti imposti da queste cautele. Nel dialogo agiscono due tensioni opposte: l'una verso l'occultamento, preoccupata di attenuare la novità delle formulazioni; l'altra verso l'illuminazione, che mira a creare le condizioni per il rivelarsi della più autentica verità.

Una volta accennato però il metodo dialogico, si impone, nonostante tutto, una sola forma di conoscenza valida: quella che si interroga sulle proprie ragioni, che si misura con la realtà, che si muove verso nuove mete, verso ciò che non è ancora stato svelato e spiegato. Ne risulta destituito non solo l'aristotelismo, ma qualsiasi atteggiamento di subalternità verso nozioni non verificate. I diversi punti di vista non vengono esposti in astratto, ma si incarnano con vivacità nei tre interlocutori, due gentiluomini defunti, che erano stati amici di Galileo, il fiorentino Filippo Salvati (1582-1620) e il veneziano Giovan Francesco Sagredo (1571-1620), e una figura fittizia di filosofo peripatetico dal significativo nome di Simplicio. Salviati impersona nel dialogo la figura dello scienziato vero, misurato e cauto, sicuro di sé senza iattanza. Sagredo è il seguace fervente delle idee nuove, entusiasta e spregiudicato, caustico e arguto, quasi l'espressione dell'ironia Galileiana nelle sue punte più ardite e baldanzose. I due amici si completano e si frenano a vicenda, e dalla varia misura delle loro relazioni (digressioni, dubbi, rilievi ironici) scaturisce il tono polemico equilibratissimo dell'opera nel suo complesso. Quanto a Simplicio, egli è ritratto con mano sobria, seppure abilissima, nei suoi atteggiamenti di boriosa sufficienza e di scandalizzato conservatorismo, nella consapevolezza della sua vasta dottrina e nell'irrimediabile opacità della sua intelligenza: è un personaggio da commedia, appunto, non una caricatura.

Le argomentazioni scientifiche che si delineano nel corso di questa schermaglia paiono sospese nel silenzio dell'universo, nel riflesso misterioso dei corpi celesti:le giuda l'entusiasmo dell'osservazione e della ricerca, l'assorta voglia di colloquiare con una realtà distinta dall'uomo, colta nelle leggi necessarie che la regolano. Ma nello stesso tempo si affacci l'ironia, che prende corpo dal contrasto tra la sicura coscienza scientifica di Sagredo e Salviati e l'improbabile ingenuità di Simplicio.



II La fondazione della prosa scientifica moderna.


Galileo non è soltanto il primo grande scienziato moderno, ma anche il fondatore di una nuova       prosa scientifica, di grande rigore e di grande sapienza letteraria. Importante è il fatto che, per le sue opere principali, egli scelga il volgare, abbandonando di fatto il latino filosofico- scientifico, allora ancora predominante nelle università e nella comunità scientifica internazionale. Scegliendo il volgare Galileo mostra di rivolgersi a un pubblico più largo di quello degli accademici e degli studiosi: egli intende comunicare con tecnici e ingegneri e con un ampio pubblico di "intendenti" e "virtuosi", nobili colti e attenti al progresso della scienza, ma non specialisti. Galileo vede nella lingua italiana la nuova lingua scientifica europea: essa deve assumere su di sé il tema del nuovo rapporto scienza-natura, essendo libera da tutte le incrostazioni che una lunghissima tradizione ha lasciato sul latino scolastico e universitario. La parola della scienza non deve chiudersi in un tecnicismo indifferente alla comunicazione e alle scelte espressive, non deve tagliare i ponti con le forme letterarie, ma contribuire a creare una letteratura basata su un linguaggio razionale e concreto.

La prosa di Galileo si costruisce così nel rifiuto dei modelli formali astratti. Da questo punto di vista è assai importante per lui il contatto con l'ambiente padovano, dove persisteva una tradizione che nel secolo XVI aveva combattuto il formalismo linguistico, esaltando il valore naturale e comunicativo del linguaggio. L'educazione letteraria fiorentina, orientata in senso moderatamente classicistico, porta d'altra parte Galileo al rifiuto di ogni oscurità e complicazione artificiosa, di ogni prospettiva manieristica e barocca.

La base fiorentina della lingua di Galileo si spoglia in realtà dei caratteri marcatamente locali, tendendo piuttosto a dispiegarsi in un italiano medio, preciso e pacato, sicuro nel proprio argomentare, capace di soffermarsi pazientemente sulle varie sfumature della realtà, senza forzarne i contorni, puntando invece a conclusioni convincenti. La lingua diventa così veicolo essenziale della conoscenza: rinuncia sia alla pretesa di imporsi sulle cose, sia alle tensioni magiche o analogiche; sa servirsi degli strumenti retorici e talvolta giunge ad adattarsi agli aspetti più moderati dello stile barocco, ma rifiuta con decisione l'idea di una spontanea e sotterranea solidarietà tra lingua e mondo.

C'è però un particolare strumento retorico che domina sapientemente la prosa di Galileo. Si tratta dell'ironia, che crea momenti di distacco e di sospensione, corrode sottilmente le false credenze e le false teorie, sa ridimensionare il discorso stesso nel suo divenire, e più in generale si traduce in una rappresentazione delle diversità tra le supposizioni degli uomini e la realtà delle cose. Su questa scena lo scienziato si affaccia con superiore signorilità.

La prosa di Galileo si è poi caratterizzata per la ricerca di una estrema precisione: la nuova scienza non può fermarsi all'indeterminatezza, deve descrivere la realtà con termini rigorosi, rendendosi conto nello stesso tempo del carattere fittizio e convenzionale dei termini stessi, dello scarto che comunque rimane tra i nomi e la realtà oggettiva. Galileo si impegna a definire un linguaggio quanto più esatto possibile: ma, coerentemente col suo atteggiamento, rifiuta di introdurre ex novo termini specialistici, che venivano di solito coniati a partire da radici greche, e preferisce trasferire in ambito tecnico parole del linguaggio comune, solitamente riferite alle cose e alla vita quotidiana. Il linguaggio della nuova fisica si esprime così attraverso un lessico dai significati estremamente puntuali, eppure carichi del senso di una realtà concreta.

I Il nuovo metodo a confronto con l'antico.








Simplicio        Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove e gagliarde considerazioni; con tut­to ciò mi sento stringer assai più dall'autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande esorbitanza.


Sagredo          Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch'io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora nominare.


Salviati           Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò forse il signor Simplicio non con­tinuasse di creder d'avervi esso mosse le risa.


Sagredo          Son contento. Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l'origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine de i nervi venir dal cer­vello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: "Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d'Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera".


Simplicio        Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell'origine de i nervi non è miga così smaltita e decisa come forse alcuno si persuade.


Sagredo          Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a così sensata esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d'Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit.


Simplicio      Aristotile non si è acquistata sì grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne' suoi libri, che se ne sia formata un'idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché e' non ha scritto per il volgo, né si è obligato a infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato, anzi, servendosi del perturbato, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par che trattino di ogni altra cosa: e però bisogna aver tutta quella grande idea, e saper combinar questo passo con quello, accozzar questo testo con un altro remotissimo; ch'e' non è dubbio che chi averà questa pratica, saprà cavar da' suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile, perché in essi è ogni cosa.






Sagredo       Ma, signor Simplicio mio, come l'esser le cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi crediate con l'accozzamento e con la combina­zione di varie particelle trarne il sugo, questo che voi e gli altri filosofi bravi farete con i testi d'Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone centoni ed esplicando con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? io ho un libretto assai più breve d'Aristotile e d'Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissimo studio altri se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l'alfabeto; e non è dubbio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonan­ti o con quell'altre, ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti so­pra la tavolozza, va, con l'accozzare un poco di questo con un poco di quello e di quell'altro, flgurando uomini, piante, fabbriche, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che su la tavolozza sieno né occhi né penne né squamme né foglie né sassi: anzi pure è neces­sario che nessuna delle cose da imitarsi, o parte alcuna di quelle, sieno attualmente tra i colori, volendo che con essi si possano rappresentare tutte le cose; ché se vi fussero, verbigrazia, penne, queste non servirebbero per dipignere altro che uccelli o pennacchi.


Salviati        È son vivi e sani alcuni gentil uomini che furon presenti quando un dottor leggente in uno Studio famoso, nel sentir circoscrivere il telescopio, da sé non ancor veduto, disse che l'invenzione era presa da Aristotile; e fattosi portare un testo, trovò certo luogo dove si rende la ragione onde avvenga che dal fondo d'un pozzo molto cupo si possano di giorno veder le stelle in cielo; e disse a i circostanti: "Eccovi il pozzo, che denota il cannone; eccovi i vapori grossi, da i quali è tolta l'invenzione de i cristalli; ed eccovi finalmente forti­ficata la vista nel passare i raggi per il diafano più denso e oscuro.


Sagredo       Questo è un modo di contener tutti gli scibili assai simile a quello col quale un marmo contiene in sé una bellissima, anzi mille bellissime statue; ma il punto sta a saperle scoprire: o vogliam dire che e' sia simile alle profezie di Giovacchino, o a' responsi degli oracoli de' gentili, che non s'intendono se non doppo gli eventi delle cose profetizate.




(Galileo Galilei

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

Giornata seconda.)


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