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Commercio equo: una svolta nel modo di intendere la cooperazione internazionale




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COMMERCIO EQUO: UNA SVOLTA NEL MODO DI INTENDERE LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE


1. Premessa

Nel corso degli anni Sessanta si era andato approfondendo il dibattito sul divario economico Nord-Sud e sulle possibilità di intervento. Durante la prima conferenza UNCTAD tenutasi a Ginevra nel 1964 fu lanciato da alcuni gruppi di solidarietà lo slogan "No aid, but trade", con il quale si intendeva da un lato sensibilizzare l'opinione pubblica riguardo ai problemi dei paesi in via di sviluppo, dall'altro criticare l'impianto logico-caritativo sul quale erano stati fino a quel momento costruiti gli interventi nel Sud del mondo. Si faceva dunque strada l'idea che iniziative più efficaci dovessero essere fondate a partire da un nuovo modo di concepire i rapporti fra le diverse realtà economiche. L'obiettivo doveva essere quello di avviare un tipo di relazioni che permettessero sul lungo periodo uno sviluppo autonomo delle comunità e dei gruppi di produttori.

Una visione di questo genere colpiva nel vivo i progetti di cooperazione allo sviluppo maturati a livello internazionale, la cui inefficacia è stata poi riconosciuta dai diversi soggetti che vi hanno partecipato.



Lo "sviluppo trasferito" degli anni Sessanta


Negli anni Sessanta le politiche di cooperazione furono utilizzate come strumento per mantenere in uno stato di dipendenza i paesi ex-colonie. Inoltre, in accordo con i fondamenti teorici delle politiche di sviluppo di quegli anni (Primo Decennio delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, 1960-69), gli interventi specifici si connotavano per produttivismo, tecnicismo e settorialità. La priorità dell'"obiettivo crescita" si traduceva nel potenziamento della produzione per colmare il gap, attraverso un travaso tecnologico dal centro alla periferia, riguardante i singoli settori ("sviluppo trasferito"). Le tecnologie impiantate, che contrastavano con i processi di lavorazione tradizionali, imperniati su tecnologie dalla debole potenza, avrebbero avuto in seguito ripercussioni sull'ambiente e sul contesto socio-culturale locale. Mancava del tutto, in quel periodo, una concezione sistemica dell'ambiente, che si basasse sul concetto di retroazione (feed-back).  

Si trattava di un approccio riduzionista, fondato sulla convinzione che lo sviluppo fosse realizzabile attraverso un semplice trasferimento di capitali e di tecnologie e sull'impianto di poli di sviluppo industriali. L'obiettivo era fondamentalmente quello di sostenere la crescita del prodotto interno lordo dei paesi in via di sviluppo.



L'interdipendenza globale e la pianificazione degli anni Settanta


Negli anni Settanta, di fronte all'aumento delle disuguaglianze, si affacciò l'idea che la crescita fosse solo un elemento, per quanto fondamentale, dello sviluppo. In quegli anni si affermò la scuola neomarxista della dipendenza, secondo la quale la crescente dipendenza dei paesi in via di sviluppo era determinata dalle pratiche stesse di aiuto allo sviluppo. La soluzione fu quindi individuata non tanto in pratiche di riallocazione infrasocietaria del reddito, quanto in una trasformazione radicale della struttura sociale dei paesi dipendenti e del loro ruolo nell'economia internazionale. Si trattava, in ultima analisi, dell'individuazione e colpevolizzazione degli elementi di sfruttamento neocolonialista suddetti.

Anche il fronte liberale riformista avanzò proposte di conciliazione fra crescita economica e giustizia distributiva, che si manifestarono nella pianificazione di interventi socialmente mirati per risolvere le contraddizioni di una crescita economica intrinsecamente iniqua. Non era estranea a questa necessità d'intervento la preoccupazione per l'aumento del livello di rischio politico nei paesi del Sud, preoccupazione che costituì il punto di riferimento delle strategie di Targeted development che si affermarono in quegli anni.

Il Secondo decennio delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (1970-79) si svolse in una prospettiva di interdipendenza globale, cioè nella consapevolezza che il mondo fosse un aggregato di realtà interconnesse. Lo sviluppo, quindi, non doveva più essere concentrato ed intensivo, ma diffuso ed estensivo, e dalla connotazione essenzialmente quantitativa che ne aveva permeato il concetto nel ventennio precedente, slittava verso una connotazione che coinvolgeva gli aspetti qualitativi.

Nello stesso tempo la fiducia nel mercato regolatore venne meno, rimpiazzata dalla nozione di pianificazione. Si moltiplicarono quindi le tecniche di valutazione a priori dei progetti e gli studi di fattibilità, attraverso i quali si cercava di eliminare l'aleatorietà degli effetti.

In quel decennio si definirono le "strategie alternative " di sviluppo. La strategia dei "bisogni fondamentali" (basic needs), lanciata dalla Banca Mondiale nel 1972, rivendicava la priorità del soddisfacimento di bisogni, quali alimentazione, salute, alloggio, acqua potabile, etc. Lo "Sviluppo Rurale Integrato" (IRDP), fatto proprio dall'IFAD, dall'USAID e da molte ONG prevedeva un approccio intersettoriale allo sviluppo delle regioni rurali. Si affacciò, inoltre, la nozione di "ecosviluppo", legata essenzialmente alle teorizzazioni di I. Sachs, ma praticato da molte ONG, che proponeva un modello di sviluppo basato sulla compatibilità ambientale.



Il neoliberismo e la crescita del debito degli anni ottanta e   Novanta


Durante gli anni Ottanta, le difficoltà economiche dei paesi a capitalismo avanzato si riversarono sulle politiche di cooperazione, divenute strumentali alla creazione di nuovi sbocchi economici per i paesi industrializzati.

La Banca Mondiale propose le misure standard per l'"aggiustamento strutturale", consistenti in interventi di riorganizzazione economica per migliorare la bilancia dei pagamenti a medio temine. Queste politiche di stabilizzazione portarono ad effettuare tagli del credito, dei salari e della moneta circolante, e quindi ad una contrazione della domanda (approccio monetarista). Le politiche imposte ai Paesi in via di sviluppo comportarono la riduzione dell'intervento pubblico in economia, cioè il passaggio alla privatizzazione e la rimozione dei vincoli posti al mercato, sia all'interno dei singoli paesi (deregulation), sia in ambito internazionale (in contrasto con le rigide politiche protezionistiche dei paesi industrializzati), e soprattutto una drastica riduzione dei consumi interni e degli investimenti, con la contrazione delle spese sociali da parte dello stato. 

Dal punto di vista finanziario, il forte aumento dell'inflazione internazionale della seconda metà degli anni Settanta determinò una recessione a livello internazionale, alla quale seguirono una diminuzione dell'assistenza multilaterale allo sviluppo e il declino della domanda e dei prezzi per i prodotti esportati dai paesi in via di sviluppo, parallelamente all'aumento dei prezzi dei manufatti e del petrolio importati.

La riduzione delle entrate associata all'aumento degli esborsi commerciali e finanziari produsse, durante gli anni Ottanta, una crescita dell'entità del debito dei paesi del Sud, tale da bloccare le possibilità di crescita. Il meccanismo perverso dell'interesse, infatti, causò l'incremento continuo del debito stesso.

In quel periodo la Banca Mondiale e il Fondo Monetario indicarono la riduzione del debito come obiettivo prioritario per la stabilità del sistema economico internazionale. Passarono in secondo piano, quindi, le politiche rivolte al superamento della povertà; venute meno le risorse per promuovere la situazione delle regioni e dei ceti emarginati e gli investimenti relativi, alla concezione della pianificabilità dello sviluppo, in voga negli anni Settanta, si sostituì la completa remissione alle forze del mercato.

La costituzione nell'aprile del 1994 dell'Organizzazione mondiale del Commercio (WTO) ha infine sancito la "libera organizzazione delle forze del mercato" quale panacea per lo sviluppo dei popoli; ciò ha significato l'estensione delle regole del liberoscambismo anche ai paesi in via di sviluppo, nonostante la profonda disuguaglianza delle condizioni di partenza nella corsa economica.

Parallelamente all'istituzione di nuove regole per il mercato globale, l'aiuto mondiale pubblico allo sviluppo è andato costantemente diminuendo: i versamenti da parte dei paesi membri del Comitato di Aiuto allo Sviluppo (CAS) dell'OCSE nei confronti dei paesi in via di sviluppo sono diminuiti, tra il 1992 e il 1995, del 14%[1].


5. Il contributo della società civile: cooperazione non governativa e Fair Trade

La mobilitazione della società civile nella direzione della cooperazione allo sviluppo si è manifestata attraverso una quantità di organizzazioni private senza scopo di lucro, di associazioni di volontariato, di gruppi formali, comunemente definiti "organizzazioni non governative" (ONG). Tale denominazione proviene dalla Carta delle Nazioni Unite, che con l'articolo 71 autorizza il Consiglio economico e sociale a stabilire relazioni con le ONG. Si è trattato del riconoscimento ufficiale di organismi a carattere non governativo, e cioè frutto di iniziative private.

Le ONG rientrano nell'area sociale delle organizzazioni non profit, ma sono legate essenzialmente alla cooperazione e alla solidarietà internazionale, ed esistono già dagli anni Sessanta, sia nel Sud che nel Nord del mondo; tuttavia è nell'ultimo decennio che si è assistito ad una straordinaria crescita del fenomeno. Tale crescita può essere letta come una delle risposte della società agli effetti destrutturanti del mercato mondiale. Attualmente nei paesi dell'OCSE le ONG sono più di 7000, mentre al Sud sono circa 50000[2].

La fisionomia delle organizzazioni è differente sia come dimensioni sia come origini: alcune sono di chiara ispirazione religiosa, altre hanno un carattere più specificamente politico, così come, riguardo alla struttura, alcune sono di piccole dimensioni, mentre altre sono organismi molto estesi.

L'incremento del numero delle organizzazioni attive nel Nord dimostra come lo sviluppo sostenibile possa essere considerato una responsabilità istituzionale condivisa dai governi e dalla società civile. D'altra parte una politica di cooperazione allo sviluppo adeguata alle esigenze attuali dei paesi del Sud, flessibile e innovativa, può trarre giovamento da un'unione degli sforzi e da un rapporto di collaborazione tra istituzioni e organizzazioni private.

Gli interventi delle ONG possono aumentare la loro efficacia se i loro micro-interventi sono coordinati con i macro-interventi dei governi. Le attività delle ONG spesso si strutturano intorno ad una rete capillare di micro-progetti a livello di villaggio, attuati con la partecipazione delle popolazioni locali. Questa modalità di intervento offre opportunità inedite per la realizzazione di un intervento mirato, e basato su una conoscenza delle necessità reali espresse dalla popolazione.

E' altresì importante, ai fini della costruzione di un intervento efficace, lo sviluppo di un miglior coordinamento fra ONG che lavorano nello stesso paese e territorio. Questo elemento rimanda direttamente all'esigenza di networking, tipica di una dimensione come quella del terzo settore. L'esistenza di una molteplicità di soggetti attivi al suo interno, infatti, richiede il maggior grado possibile di coordinamento, come dimostrano le reti già avviate o in via di costruzione. E' evidente, infatti, che pur trattandosi di soggetti autonomi e dotati di una propria specificità, il campo d'azione e le finalità sociali li accomunano, fatto che costituisce una straordinaria risorsa per lo sviluppo di sinergie e per la forza e l'impatto sociale da esso creato.

Nel caso delle ONG l'avviamento di progetti condivisi e che si avvalgano del contributo di molteplici soggetti può non solo evitare lo spreco di energie e sovrapposizioni di intervento, ma migliorare l'azione, in termini sia qualitativi che quantitativi.

Le stesse organizzazioni di commercio equo traggono beneficio dalla presenza in loco di ONG, che possono attuare sopralluoghi e mettere a disposizione le conoscenze apprese a contatto diretto con le popolazioni del Sud. Il commercio equo, d'altra parte, costruisce la propria azione a partire da una relazione contestuale e dialogica con i produttori, nell'ottica di una riduzione dello "scarto di informazione" tra questi ultimi e i consumatori.

Il valore del fair trade, tuttavia, non è solo quello di restringere le distanze tra luoghi di produzione e luoghi di consumo, tipiche del mercato capitalistico. Il commercio equo, infatti, ha dato vita ad una forma di cooperazione allo sviluppo del tutto insolita, mettendo i beneficiari del sostegno in una condizione non di "assistito", subordinato a progetti stabiliti a migliaia di chilometri di distanza, bensì di protagonista consapevole del proprio autosviluppo. Il produttore che decide di prendere parte alla rete del commercio equo guadagna un accesso in qualche modo privilegiato a mercati a lui altrimenti preclusi, ma sulla base della propria libera offerta di lavoro. Ciò significa favorire una relazione paritaria, fondata su un interscambio non solo economico, ma anche culturale, ricco di implicazioni sia per il produttore che per il consumatore etico. Quest'ultimo, infatti, si trova in tal modo impegnato direttamente in una forma di cooperazione allo sviluppo, dimostrando come sia possibile allargare le dimensioni di "aiuto all'autosviluppo", attraverso gesti quotidiani compiuti dalla società civile.



Mani Tese, marzo 1997

Smillie [1995]

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