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Perdita di proteostasi




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PERDITA DI PROTEOSTASI



L'invecchiamento e alcune malattie ad esso associate sono collegate ad un'alterazione della proteostasi, cioè dei meccanismi che controllano la sintesi, la conformazione (il folding), la degradazione e l' aggregazione proteica (Powers et al., 009; Parenti G. et al., 20 2). Tra gli elementi coinvolti nella proteostasi si hanno proteine deputate a garantire la corretta conformazione, principalmente appartenenti alla famiglia delle



 
Heat  Shock Proteins (HSP o proteine dello shock termico), e il complesso multiproteico del proteasoma che si occupa, così come gli organelli lisosomiali, della degradazione Hartl et al., 2011; Koga et al., 2011; Mizushima et al., 2008). Nel dettaglio, gli elementi appena descritti operano in maniera coordinata per far sì che le proteine la cui conformazione risulti alterata possano riacquisire quella corretta o, quando ciò non è più possibile, vengano eliminate. In particolare, può accadere che vari fattori sia esogeni che endogeni come variazioni di temperatura, stress ossidativo o stress a livello del reticolo endoplasmatico che è deputato al folding e alla modificazione di proteine, determinino la presenza di molecole proteiche denaturate che se si accumulano tendono ad aggregarsi producendo danno cellulare (Fig. 6).







Fig. 6: Sistemi coinvolti nella proteostasi e invecchiamento.























Difatti è stato visto che la presenza cronica di proteine mal conformate, denaturate o di aggregati contribuisce, a causa dei loro effetti tossici, non solo allo sviluppo di patologie come la malattia di Alzheimer o quella di Parkison che sono associate

all'invecchiamento ma anche all'invecchiamento stesso Powers et al., 2009). In


accordo con queste osservazioni, molti studi hanno dimostrato che la proteostasi si


altera con l'invecchiamento (Koga et al., 01 ).



1. Stabilità e conformazione proteica mediata da Chaperone


E' stato osservato che durante l'invecchiamento si assiste ad un'alterazione nella


sintesi indotta da stress delle proteine chaperones sia citosoliche che organello-


specifiche (Calderwood et al.,2009). Queste proteine sono una classe funzionale di famiglie proteiche, la cui funzione predominante è la prevenzione di associazioni non corrette e aggregazione di catene polipeptidiche non ripiegate, sia in condizioni fisiologiche che in condizioni di stress. La famiglia di cui fanno principalmente parte è quella delle HSP o proteine dello shock termico. Nell'invecchiamento si osserva un declino dei livelli di queste proteine Murshid et al , 201 ). Sono molti i modelli animali che hanno dimostrato che questa riduzione ha un forte impatto sulla longevità dell'individuo. In particolare, vermi e mosche in cui è stata indotta un'aumentata espressione di chaperones hanno mostrato una durata della vita maggiore (Morrow et al.,20 4; Walker e Lithgow, 20 3). Topi mutanti carenti in una proteina della famiglia HSP coadiuvante gli chaperones mostrano un invecchiamento accelerato, mentre è stato visto che topi a lunga vita hanno una aumentata attività di alcune proteine di questa stessa famiglia Min et al, 2008; Swindell et al,2009). E' stato inoltre visto che composti che sono in grado di legare proteine fibrillari che tendono ad accumularsi, come le amiloidi, sono in grado di mantenere la proteostasi durante l'invecchiamento e incrementare la durata della vita (Alavez et al , 2011). In più la capacità di attivazione di geni dello shock termico, ad esempio Hsp70, da parte di questo fattore di trascrizione è stato visto essere potenziata dalla sua deacetilazione operata da SIRT1, il quale peraltro riduce la risposta allo shock termico quando ne viene ridotta l'attività (Westerheide et al., 009). Altre evidenze circa l'implicazione delle proteine chaperones nel mantenimento di uno stato di buona salute sono date da studi su topi modello di distrofia muscolare in cui si è osservato che inducendo farmacologicamente la proteina Hsp72 si mantiene la funzione muscolare e si ritarda la progressione della distrofia (Gehrig et al. 2012). Sulla base di tutto ciò è stata prospettata la possibilità di poter impiegare, in organismi modello, piccole molecole con funzione di chaperones farmacologici e in questo modo assicurare il ripristino della corretta conformazione di proteine danneggiate e migliorare così varie caratteristiche assunte con l'età Calamini et al., 012).


2. Sistemi proteolitici



Sia l'attività del sistema proteolitico autofagico-lisosomiale che quella del sistema ubiquitina proteasoma si riducono con l'invecchiamento (Rubinsztein et al. 2011; Tomaru et al., 012). Questo fatto supporta ulteriormente l'idea che un declino della capacità di mantenere l'omeostasi proteica sia un fattore comune e caratteristico dell'età avanzata. Il sistema autofagico, per quanto concerne la degradazione proteica, può cooperare con chaperones molecolari, come Hsc 0 , che riconoscono proteine denaturate e ne mediano l'ingresso nei lisosomi dove avviene la proteolisi vera e propria. In alternativa il sistema autofagico può operare grazie alla formazione e fusione sempre con i lisosomi di vescicole, denominate autofagosomi, che possono contenere anche organelli cellulari danneggiati o che devono essere rinnovati. Nel caso degli autofagosomi il processo è anche detto macroautofagia (Lopez-Otin et al ,

2013). Per quanto riguarda l'autofagia chaperone mediata, topi in cui è stata fatta esprimere una copia in più del recettore LAMP2a, il legame al quale permette l'ingresso della proteina mal conformata nel lisosoma, non mostrano il declino di questo sistema proteolitico con l'invecchiamento e anzi, conservano una funzionalità epatica migliore in età avanzata Zhang e Cuevo, 2008). Per quanto concerne invece la macroautofagia, induttori chimici della stessa sono diventati di notevole interesse dopo la scoperta che l'antibiotico macrolide rapamicina, inibitore di un complesso ad azione chinasica denominato mTOR che è coinvolto nella regolazione di questo tipo di autofagia, può aumentare la durata della vita se somministrata costantemente o a intermittenza a topi di mezza età Blagosklonny, 2011; Harrison et al., 2009). La rapamicina ritarda anche l' invecchiamento nel topo apportando beneficio a vari livelli, ad esempio cuore e fegato Wilkinson et al., 2012). In mosche, lieviti e nematodi la capacità della rapamicina di allungare la vita è stato visto essere strettamente dipendente all'induzione dell'autofagia (Bjedov et al., 2010; Rubinsztein et al., 2011).

Quest'ultima evidenza non è ancora stata rinvenuta nei mammiferi, nei quali invece si pensa ad altri meccanismi mediante i quali la rapamicina potrebbe svolgere il suo effetto positivo sulla longevità. In particolare è stato ipotizzato che la rapamicina possa


agire sulla sintesi proteica inibendo la proteina chinasi S6 ribosomiale (Selman et al.,


2009). Altra sostanza che è stato visto essere in grado di promuovere la longevità tramite induzione della autofagia in lieviti, mosche e vermi è la spermidina (Eisenberg et al.,2 09). In accordo a ciò l'integrazione della dieta con preparazioni di poliamine

contenenti spermidina o l'apporto di flora intestinale producente poliamine incrementa la longevità nei topi (Matsumoto et al., 20 1; Soda et al., 200 ). Ancora a sostegno dell'importanza dell'efficienza dell'autofagia nell'incremento della durata della vita vi è l'osservazione che l'integrazione dietetica con acidi grassi w6 polinsaturi determina l'attivazione di questo sistema proteolitico e porta ad una aumentata longevità in nematodi (O Rourke et al., 2013). Per quanto riguarda l'altro sistema proteolitico il cui declino si verifica ed è posto in relazione all'invecchiamento, il sistema ubiquitina- proteasoma, esso opera in maniera diversa dall'autofagia. In questo caso, infatti, la degradazione in senso stretto avviene nel complesso multiproteico contenente proteasi e chiamato proteasoma. Le proteine destinate ad essere qui degradate sono quelle a cui vengono legate in sequenza, da specifici enzimi, più molecole di un piccolo peptide denominato ubiquitina. Queste catene di poliubiquitina sono quindi riconosciute dai proteasomi che incamerano e degradano la proteina "indirizzata" (De Leo et al., 2 08). In nematodi è stato osservato che l incremento dell espressione di componenti del sistema appena descritto, grazie all'attivazione della via di segnalazione del fattore di crescita epidermico (EGF), aumenta la longevità (Liu et al., 2011). Anche in cellule umane coltivate in vitro la promozione dell'attività proteasomica tramite l'utilizzo di inibitori degli enzimi deubiquitilasi o di attivatori del proteasoma ha un effetto positivo accelerando l'eliminazione di proteine tossiche (Lee et al., 2010). In lieviti questo trattamento determina un incremento della durata della vita (Kruegel et al., 201 ).


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