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Strumentalizzazione ideologica della gioventÙ




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STRUMENTALIZZAZIONE IDEOLOGICA DELLA GIOVENTÙ


"Noi vogliamo che i giovani raccolgano la nostra fiaccola,

si infiammino della nostra fede

e siano pronti e decisi a continuare la nostra fatica."

B. Mussolini, 1932


Giovani, interventismo e fascismo


All'inizio del XX secolo, i valori vengono definiti in rapporto all'azione, più che al contenuto, al credere fortemente, al proiettarsi verso il futuro nel disprezzo del presente e del compromesso, al desiderare lo scontro come unica via per la crescita comune; la sola categoria valida nel giudicare la realtà era quella che si basava sulla dicotomia vecchio/nuovo, adulti/giovani.

Con la leva obbligatoria, i giovani costituirono il settore della società più direttamente e visibilmente coinvolto nel processo di nazionalizzazione, acquisendo per il fatto stesso un ruolo riconosciuto e apprezzato. La diffusione di numerose associazioni di giovani di formazione umanistica e letteraria, di ambito urbano e prevalentemente piccolo-borghese, rafforzarono l'immagine di una scalata giovanile.

I partiti moderni e gli intellettuali furono solleciti a percepire questo fenomeno: guardarono al giovane come al militante entusiasta, o al futuro elettore, o comunque ad un'immagine vincente perché proiettata in avanti.

Le nuove forze politiche, che più prontamente colsero l'evoluzione della mentalità, recepirono i nuovi stimoli generazionali e li tradussero in una propria ideologia, per lo più nel culto dell'azione. Nell'uso di questa, il fattore generazionale fu agitato come motivo ricorrente ed essenziale e diventò quasi un valore in sé.

Il caso italiano fornì un chiaro esempio dell'uso retorico della tematica giovanilistica, finalizzato alla destrutturazione del sistema politico esistente.

In nome di una tensione volontaristica, le avanguardie si impegnarono a sventolare lo stendardo della gioventù. Esse compresero pienamente che per incidere in maniera decisiva sul futuro era necessario non rivolgersi alle masse amorfe, ma all'«élite innovatrice».

In Italia, il futurismo fu la corrente più iconoclasta nei confronti della tradizione, facendo del giovanilismo un'esplicita e programmatica rivendicazione. La tendenza all'avanguardia dei movimenti primonovecenteschi e il sovversivismo piccolo-borghese degli intellettuali italiani si realizzano pienamente nel Futurismo.

Sotto la guida di Marinetti, il movimento si strutturò dando vita a Milano a un vero e proprio ufficio per il servizio stampa e la promozione dei libri, riviste e manifesti. Lo stesso Marinetti definì il futurismo "un grande movimento antifilosofico e anticulturale d'idee intùiti istinti pugni calci e schiaffi svecchiatori purificatori novatori e velocizzatori creato il 20 febbraio 1909 da un gruppo di poeti e artisti italiani e geniali".

Esaltando la macchina, la tecnica, la velocità e l'aggressività, questa corrente intende interpretare la tendenza al nuovo.

La celebrazione del movimento, dell'azione, del gesto violento, induce a glorificare il militarismo, la guerra e la virilità. I futuristi sono interventisti, e anzi vedono nella guerra e nel conflitto un modo positivo di scatenare le energie primordiali e di selezionare i popoli e le nazioni più forti.

Il futurismo scopre l'effimero: non esistono più valori duraturi; così l'idea stessa di classico e di tradizione entra in crisi. Il vecchio è sorpassato, solo il nuovo, il giovane è positivo. Il giovanilismo venne, dunque, assunto come metafora del futuro stesso.

Con la pubblicazione del primo Manifesto del Futurismo sul quotidiano parigino «Le Figaro», emerge un'ideologia volta a celebrare gli istinti, i giovani, l'elemento ferino, la gioia della distruzione, l'amore per la guerra, gli atteggiamenti militareschi, virili ed eroici. Marinetti lancia già il primo proclama politico ispirato al nazionalismo. Infatti, recita così uno degli 11 punti esposti nel Manifesto: "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore".

Come ribadito nel Manifesto del partito politico futurista del 1920, si sancisce la "preminenza dell'Italia sovrana assoluta", proiettata verso una politica estera "cinica, astuta e aggressiva". Nel culto del progresso e della vigoria fisica, i futuristi proclamarono l' "esautorazione dei morti, dei vecchi e degli opportunisti" assimilando le tre categorie in una valutazione dispregiativa al tempo stesso fisica e morale; una sorta di pulizia della società invocata a favore dei giovani, cioè delle "minoranze audaci", vere e proprie avanguardie trascinatrici delle generazioni di appartenenza: "Ma noi non vogliamo più saperne del passato, noi giovani e noi forti futuristi".

A conferma della centralità del ruolo che i futuristi intendevano attribuire ai giovani, leggiamo nel loro programma politico che "Rimpiazzeremo il Senato con un Assemblea di 20 giovani non ancora trentenni". Abbandonata ogni credenza metafisica, si chiede il rispetto verso un' "unica religione: l'Italia di domani", accreditando l'immagine di una nazione che corre lasciandosi dietro un presente-passato di umiliante normalità.

La guerra e la violenza diventarono per questa nuova generazione il carattere più profondo della propria identità, che ebbe la forza di tradursi in miti collettivi capaci di aggregare forze sociali ed economiche eterogenee, ma sostanzialmente antidemocratiche, in un progetto che si proponeva di far saltare gli equilibri politici su cui si basava lo Stato liberale. La gioventù fu dunque assunta a simbolo di novità assoluta, in contrapposizione al mondo della politica liberale e parlamentare dei partiti, racchiuso nello stereotipo della corruttibilità. La guerra venne esaltata come la "scorciatoia" per rinnovare la nazione e far emergere una nuova classe politica.

Attraverso l'idea di purezza, la giovinezza viene congiunta con l'idea di combattimento per cause pure e disinteressate.

Se l'attitudine giovanile è un'appassionata adesione ad ogni speranza di costruzione di un mondo diverso e migliore rispetto a quello dei padri, appare evidente come il liberalismo non piacesse ai giovani: esso, infatti, ha il suo campo di azione nell'attività economica, nel principio della mediazione politica, non nell'eroismo e nella guerra; offre una prospettiva realistica e materiale, non utopica. Seppur dalle trincee, i giovani coltivano il mito di un riscatto individuale e collettivo.

La coscrizione obbligatoria è centrale nella formazione degli eserciti. Facendo risuonare lo slogan "Largo ai giovani", la prima guerra mondiale si nutre dell'appello ai più giovani (infatti nel 1917 erano impegnati nel conflitto circa 300 000 diciottenni). La leva di massa venne rafforzata dalla mobilitazione ideologica delle giovani generazioni costruita sullo stesso meccanismo di chiamata alle armi che avrebbe avuto contemporaneamente il senso di un privilegio.

Sovraccaricando ideologicamente il circuito tra guerra e virilità, il Novecento ha gettato allo sbaraglio masse di giovani.

I volontari vanno a morire per tre parole: Dio, Re, Patria, e spesso l'ultima basta: la patria è identificata integralmente con lo Stato, con la sua religione e con il suo capo; la guerra è per eccellenza la guerra giusta, così giusta da legittimare controlli e persecuzioni contro chiunque. Su questi terreni gioca a fondo la demonizzazione del nemico. Assimilato fin dall'inizio a un animale da preda, il nemico arriva a perdere ogni forma umana.

I giovani sono chiamati ad un'assunzione di responsabilità che si estende fino al sacrificio della vita stessa.

Paradossalmente, mentre ideologie politiche ed intellettuali sventolavano il mito della rinascita, i giovani vengono chiamati ad uccidere ma soprattutto a morire. Tuttavia la morte prematura apparve di per sé immacolata, incarnando così una sorta di ideale purissimo. A testimonianza di ciò, i monumenti e i cimiteri di guerra divennero luoghi di culto nazionale.

La fortuna dell'aforisma morte/inizio fu rilanciata dalla sacralizzazione della politica, tipica dell'epoca di massa e funzionale alla formazione di nuove identità forti come la Nazione e il Capo.

La Grande Guerra, dunque, rappresenta in potenza la strumentalizzazione politica a cui saranno soggette le giovani generazioni durante il periodo del Fascismo. Esaltazione del corpo, marce e stendardi, disciplina militaresca avrebbero infatti costituito la premessa storica sia della progressiva adesione al messaggio razziale e autoritario del fascismo, sia delle forme organizzative che assunse l'opera di disciplina della gioventù messa in atto da Mussolini.

I giovani divennero così l'oggetto di sofisticate sperimentazioni di irregimentazione sociale e di manipolazione ideologica volta a trasformarli in una milizia interamente votata all'esaltazione del duce.

Il richiamo alla giovinezza come paradigma del mutamento politico entrò subito a far parte del patrimonio genetico, o meglio della retorica, del fascismo. Di volta in volta, l'accento fascista cadde sul concetto di «giovani» o «giovanissimi», politicamente puri; di «figli» (figli d'Italia, della guerra, ecc.); di individui colti nella loro massima espressività vitale - appunto quella giovanile -; di continuatori della guerra ora rivolta contro i nemici interni. Autorappresentatosi come il «Regime della Giovinezza», il fascismo le attribuì una rilevanza centrale anche e soprattutto nella ritualità, nella simbologia e nelle strutture comunicative. Lo stesso inno delle Camicie nere (termine con cui si designano i membri del Pfn e della Mvsn, e che in senso lato indica tutti gli aderenti al Fascismo), che approdò ad una stesura definitiva nel 1925, è intitolato Giovinezza.

Rispetto alla gioventù Mussolini si pose a guida indiscussa, garante e depositario autentico: una sorta di padre collettivo. Inizialmente ne fece un'interlocutrice privilegiata. Con l'appello ai giovani coltivò un movimentismo con piglio vitalistico: il fascismo era così rappresentato tutto «giovinezza, impeto e fede». Con l'organizzazione partitica, il proselitismo fu finalizzato al consolidamento del preesistente modello gerarchico e disciplinato quasi militarmente: le reclute erano tutte inquadrate, selezionate, formate nel segno dell'obbedienza indiscussa al Capo, al fine di salvare la Patria. Presidente del Consiglio a soli trentanove anni, il più giovane della storia di'Italia, Mussolini si pose nel 1922 a duce dell'Italia-giovane, dell'Italia-nuova, interprete e stimolo per la migliore gioventù combattente. Dopo il delitto Matteotti e in funzione dell'involuzione autoritaria, anzi dittatoriale, la codificazione generazionale si sviluppò in modo più definito intorno al culto di Mussolini in quanto «capo della generazione», operante allo scopo di costituire una categoria di «italiani nuovi». Si creò allora uno «stile», si ricercò perfino il tipo fisico del fascista: si mirava all'immagine di una nazione che «ha tutta vent'anni».

Nella prospettiva del partito educatore emerse l'esigenza di suscitare l'interesse e la partecipazione dei giovani alla politica, così da rendere gli orientamenti spirituali della nuova generazione conformi agli obiettivi del regime.

Con la Leva Fascista e con i Fasci giovani di combattimento, fondati nel 1930, il Regime rivendicò a sé il compito e il merito della preparazione spirituale della gioventù, innanzitutto intorno a tre punti: ubbidire, per acquistare il diritto-dovere di comandare, credere e combattere nel culto ufficiale del duce. Il giovanilismo fu così strettamente funzionale all'inquadramento fascista della società italiana.

Alcuni dati illustrano in modo eloquente la situazione: gli squadristi erano confluiti in larga parte nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, istituita nel 1923 e posta al servizio della Patria; l'Opera dopolavoro (Ond), in grado di offrire ai giovani iniziative dotate di relativa autonomia in campo culturale, associativo e sportivo, arrivò a vantare 5 milioni di iscritti; l'Opera nazionale Balilla (Onb), che aveva per scopo la cura, l'assistenza e l'educazione fisica e morale secondo i principi e gli ideali abbracciati dal fascismo, vide arrivare gli iscritti a 3 650 000. 600 000 i giovani che si iscrissero anche ai Gruppi universitari fascisti (Guf). Nel complesso, quattro quinti della popolazione scolastica risultò inquadrata.

In campo scolastico si passò dall'istruzione all' «educazione»: la gioventù italiana avrebbe dovuto essere educata, come disse Mussolini alla fine del 1925, «a comprendere il fascismo, a rinnovarsi nel fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla rivoluzione fascista». Diventarono pratica scolastica l'educazione fisica, l'istruzione militare e la partecipazione alle manifestazioni del regime. Il tentativo di "fascistizzare" la scuola per farne uno dei suoi veicoli di propaganda, venne messo in pratica sia controllando i libri di testo sia fascistizzando gli insegnanti, a cui viene richiesta «una solida cultura fascista».

Fu con Achille Starace, che diresse il partito fino al 1939, che l'inquadramento giovanile conobbe una decisiva accelerazione., non solo tramite l'Onb e l'annuale Leva fascista, ma anche con la scuola di mistica fascista, con la costituzione di un'unica organizzazione, la Gioventù Italiana del Littorio (Gil), per tutti i giovani di ambo i sessi da 6 a 21 anni.

La politica verso, e non dei, giovani, che mirò a creare una «gioventù di stato», fu anche al servizio di obiettivi politici specifici. Il paradigma della vigoria fisica fu simbolo insieme della Roma fascista e della Roma Imperiale, nella presunta commistione tra grandezza antica e grandezza nuova.

Il giovane della prima metà del '900, dunque, fo oggetto di attenzioni costanti e specifiche, ma per finalità politiche, con inevitabili manipolazioni e rappresentazioni retoriche.


2. Giovani e Resistenza                          


Un quadro diverso possiamo invece dipingere nel parlare di un altro momento storico che vide i giovani protagonisti: la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza. Se il ventennio fascista e il regime dittatoriale di Hitler avevano operato per creare consenso, l'Europa dei sei anni di guerra fra il 1939 e 1945 vide emergere nuove tendenze che si sarebbero rivelate poi decisive nella costruzione degli stati recenti.

Il dominio nazista, immancabilmente sostenuto dai fascisti, rendeva impossibile qualsiasi forma di dissenso. Eppure, mentre molti tentavano una convivenza con quella oppressione, passando dalla sottomissione, all'indifferenza, fino al collaborazionismo con l'invasore, c'era anche chi volle cominciare a gridare il proprio "no".

In Italia, durante gli anni del dominio fascista, le forze clandestine, restando frammentate in piccoli gruppi non coordinati, erano incapaci di attaccare o almeno di minacciare il regime, se si esclude qualche attentato realizzato in particolare dagli anarchici. La loro attività si limitava al versante ideologico: era copiosa la produzione di scritti, in particolare tra la comunità degli esuli antifascisti, che però di rado raggiungevano le masse. Le uniche forze che mantennero una pur labile struttura clandestina in patria erano quelle legate ai comunisti.

La convinzione di poter attaccare la Francia con una guerra lampo nel 1940, viene ben presto corretta dalla realtà. Infatti, Torino e Genova sono colpite dal primo bombardamento e il regime fallisce non solo sul piano militare, ma si dimostra incapace di garantire la sicurezza e le condizioni di vita dei cittadini: tra giugno e dicembre del 1940 vengono razionati caffé, sapone, zucchero, olio, strutto, lardo, farina, pasta e riso; a dicembre del 1941 tocca al pane; il mercato nero invade il Paese marcando profonde divisioni fra chi può usufruirne e chi no; i bombardamenti provocano decine di migliaia di morti e danno origine a flussi di sfollamento che dimezzano le città; arrivano anche le prime notizie sulla campagna di Russia, dove gli italiani sono mandati allo sbando e più che decimati.

Il malcontento diffuso si esprime sotto forma di proteste individuali e simboliche finché, nel marzo 1943, un'ondata di scioperi scoppia nelle fabbriche del nord; è il frutto più che di un'agitazione antifascista, ancora debole, dell'insopportabilità delle condizioni di vita imposte dal regime. Insieme alla serie di sconfitte e allo sbarco alleato in Sicilia del luglio successivo, questi scioperi contribuiscono ad accelerare i piani di gerarchi moderati, della monarchia e di politici prefascisti per disfarsi di Mussolini e per portare l'Italia fuori dalla guerra.

Emergeva ormai il bisogno di disfarsi di tutto l'apparato simbolico del fascismo e questo si fece con il colpo di stato del 25 luglio 1943. Alcuni membri del consiglio ottengono la maggioranza su una mozione che sfiducia il capo del fascismo e rimette ogni potere nelle mani di Vittorio Emanuele III; Mussolini viene arrestato e messo sotto custodia a Campo Imperatore sul Gran Sasso.

Inizia così l'interregno chiamato dei «45 giorni». I capi fascisti si eclissarono e alla presidenza del Consiglio venne nominato Pietro Badoglio che però, dinanzi alle esplosioni di gioia e alle richieste di pace reagì prima dichiarando che la guerra continuava, poi reprimendo le manifestazioni con le armi. Egli garantì ai tedeschi che avrebbe continuato a combattere al loro fianco, ma nel frattempo firmò un armistizio con gli alleati, che verrà reso noto l'8 settembre, senza però dare alcuna indicazione di condotta per i militari italiani nel Paese e all'estero.

Mentre l'esercito è allo sbaraglio, i tedeschi completano l'occupazione dell'Italia centro-settentrionale, compresa Roma, dove a Porta San Paolo, alcuni reparti insieme a gruppi di civili, resistono con le armi. Mentre Badoglio e il Re sono già al sicuro in Puglia, i tedeschi, liberato Mussolini, favoriscono la creazione, nell'Italia settentrionale, di un regime neofascista, la Repubblica di Salò.

L'8 settembre fu un momento di profonda crisi morale del Paese. Quelle giornate di «vuoto di stato» furono vissute come una catastrofe collettiva: la pace (illusoriamente sognata alla caduta di Mussolini) si allontanava; la liberazione da parte dei tedeschi di Mussolini dava vita a funesti presagi, quelli di uscire dal caos per entrare di nuovo nel fascismo e in un'aggravata dipendenza dai tedeschi.

Lo sfacelo dello stato era cosa reale, ma da esso nacque in molti italiani e italiane, e soprattutto in molti giovani, il proposito di ricostruire l'identità nazionale perduta.

Nella guerra che continuava in forme sempre più dure e crudeli, si diffondeva l'idea di un'Italia diversa, di una nazione che non schiacciava l'individuo ma traeva vigore da esso. L'antifascismo divenne così un punto di riferimento obbligato della nuova esperienza politica.

Con la protezione ai soldati sbandati, i combattimenti di Roma, il no alla resa di molte guarnigioni (l'esempio più tragico è Cefalonia), la salita in montagna di gruppi di militari e antifascisti si può dire che la Resistenza italiana ha fatto il suo debutto.

La Resistenza, come spiega Vittorio Foa, che ha vissuto quell'esperienza da giovane protagonista, nella sua testimonianza Questo Novecento, era "il risveglio da una sonnolenza di lunga durata". In Italia ci si muoveva solo quando lo Stato chiamava, ma adesso il risveglio era volontario: i partigiani erano 230 mila, senza coscrizione. E insieme alla Resistenza armata c'era anche la Resistenza civile, senza uso delle armi ma altrettanto esposta a rischi e sacrifici.

La Resistenza vedeva una notevole componente operaia e la partecipazione di militari, di intellettuali e della piccola e media borghesia. Ma la Resistenza fu soprattutto un movimento di giovani.


3. Giovani e Resistenza in Abruzzo


La nostra storia locale ci fornisce alcuni degli esempi più tragici e, allo stesso tempo ammirevoli, della partecipazione giovanile.

I mesi che seguirono all'armistizio dell'8 settembre, furono animati da una serie di rivolte che coinvolsero soprattutto il Sud d'Italia. Il fermento della rivolta, popolare e spontanea, anima Matera, la Basilicata, la Campania, Napoli e arriva fino all'Abruzzo.

Il 12 settembre 1943, Lanciano fu occupata dai tedeschi che per alcuni giorni vi consumarono ogni sorta di soprusi e saccheggi ai danni della popolazione, suscitando odio e volontà di riscatto. Illusi di un imminente arrivo delle truppe alleate, fra giovani studenti e operai si diffonde un'unica parola d'ordine: «Iame, iame contro i tedeschi».

Gli antifascisti costituirono un Comitato d'azione partigiana che andò attuando le prime forme di Resistenza: furono stampati volantini, mentre gruppi di ragazzi cominciarono a seminare chiodi per le strade, per danneggiare le macchine tedesche di passaggio.

La sera del 4 ottobre i patrioti si procurarono le armi nelle caserme dei carabinieri e della finanza e nel comando locale della Milizia. Il 5 ottobre gli insorti di Lanciano, occupati diversi punti della città (le Torri Montanare, Santa Chiara, il Torrone delle Monache e i vari ponti di accesso), aprono il fuoco su automezzi tedeschi in transito. Colto di sorpresa, il nemico non reagisce subito, ma l'indomani le sue pattuglie escono a rastrellare. I giovani insorti, anche vittime della loro inesperienza, vengono ferocemente puniti dagli avversari anche se non si sottometteranno mai a lui. Ne è testimonianza il coraggio di Trentino La Barba, a cui chiedono di indicare i nomi e le case dei suoi compagni, ma egli non parla. Venne per questo trucemente ucciso: legato a testa in giù ad un albero, un boia gli cava gli occhi e poi lo sventra.

Muoiono combattendo ben undici giovani tra i 15 e i 31 anni ma l'entusiasmo e l'orgoglio che coinvolse tutta la popolazione emerge chiaramente nel proclama che uno dei protagonisti, Amerigo Di Menno, lanciò via radio ai patrioti dell'Italia settentrionale quando il 3 dicembre la città fu liberata: "Stanche delle soperchierie, dei maltrattamenti e dei soprusi dell'invasore tedesco, noi abbiamo combattuto pur sapendo che avremmo avuto la peggio; ma la nostra forza ci ha sorretto e saremo pronti sempre, ieri come oggi, a combattere questo nemico barbaro".

Un altro esempio regionale che si colloca all'inizio del movimento partigiano è quello di Bosco Martese, vicino Teramo. Anche qui i giovani ne sono protagonisti come ricorda Roberto Battaglia nella sua "Storia della resistenza italiana". Rispetto a 1600 uomini raccolti a Bosco Martese, a 30 Km da Teramo, egli calcola che " 1220 sono giovani della città di Teramo che accorrono al primo appello in montagna; fenomeno forse unico in tutta la Resistenza italiana, questo dell'emigrazione della parte più attiva di un'intera popolazione in montagna". Battaglia continua ripercorrendo i tre giorni di duri scontri che oppongono i resistenti abruzzesi alle truppe tedesche. Queste ultime in un primo momento subiscono un numero consistente, 57, tra morti e feriti, e solo dopo aver impegnato una quantità soverchiante di mezzi e uomini, riescono ad avere la meglio sui patrioti, che sciolgono la loro formazione, dopo aver dato una prova di inaspettato coraggio e efficienza militare, quale quella che si ritroverà nelle fasi più organizzate della Resistenza.

Nell'opera di Battaglia troviamo altri riferimenti importanti su giovani e Resistenza nella nostra regione. Egli ricorda un gruppo di giovani nemmeno ventenni che prende la via della montagna il 22 settembre che si stabilisce sulle pendici del Gran Sasso; nove di essi vengono fucilati, quali franchi tiratori. A questo e analoghi tentativi segue "il vigoroso sforzo organizzativo compiuto dal socialista Ettore Troilo, coadiuvato da alcuni ufficiali, e la costituzione del gruppo Patrioti della Maiella, la più consistente formazione partigiana abruzzese e anche la prima a prendere contatti con gli alleati".


4. Conclusione: Resistenza e Costituzione


I giovani di tutta Italia e di tutta Europa, dunque, decisero di combattere e morire per diventare protagonisti della battaglia per la libertà e per la democrazia, valori che rappresentano le basi su cui si fondano gli stati attuali.

Dopo il 25 aprile del '45 iniziò un fecondo periodo di costruzione del nuovo Stato democratico, che doveva segnare la cancellazione dei falsi miti e dei disvalori affermatisi durante il ventennio fascista. Non fu un periodo facile: erano ancora caldi molti rancori, su opzioni importanti era ancora da costruire un sentire largamente condiviso, come dimostra l'accanita contesa nel referendum costituzionale del '46, da cui scaturì, sia pure con una differenza labile, l'affermazione della Repubblica sulla Monarchia. Ma, nonostante alcune forti differenze ideologiche tra i soggetti protagonisti della vita politica, fino al 1948 resse l'unità delle forze della Resistenza. E questa fu la premessa per gettare le basi del nuovo Stato repubblicano, tramite una Costituzione molto avanzata sul piano democratico e civile.

In questo documento fondativo si ritrovano i valori fondamentali della Resistenza e della storia migliore dell'Italia risorgimentale e liberale: l'esaltazione dei diritti individuali e collettivi, l'importanza prioritaria del lavoro, il carattere democratico delle istituzioni, il rispetto per le minoranze culturali, sociali, religiose, il rifiuto della guerra, il carattere rieducativo della pena. Non erano queste le ragioni che avevano portato tanti partigiani, tanti giovani a combattere contro un nemico spietato? Dunque la Resistenza non solo diede un contributo alle campagne militari contro i nazifascisti, salvando l'onore nazionale, ma contribuì ad affermare sul campo nuovi valori, che così acquisirono maggiore legittimità e significato.

Non a caso Piero Calamandrei, in un suo celebre discorso del 1955, così si rivolge agli studenti milanesi "Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione".

Oggi viviamo tempi forse meno intensi, in cui questi valori sono meno sentiti a causa dell'opacità del quotidiano, della mancanza di grandi riferimenti ideali, delle distrazioni continue a cui i giovani sono sottoposti e anche a causa dei ripetuti tentativi, condotti a livello politico e culturale, di ridurne, se non negarne, il significato originario ed autentico.

E' dunque necessario recuperare da parte dei giovani uno spirito critico, per tornare alle fonti della nascita del nostro Stato repubblicano, per riappropriarci di valori etici, sociali, umani senza i quali si costruisce un futuro incerto e nebbioso in cui possono prevalere demagoghi e imbonitori di ogni sorta. La meglio gioventù è costituita da coloro che come nella scuola di Don Milani dicono "I care", cioè "mi interessa"; giovani che non sono racchiusi nel loro bozzolo privato alla ricerca di effimeri piaceri o che vengono travolti dalle continue mode che li frastornano, ma che cercano giorno dopo giorno una loro autenticità nel rapporto con gli altri, che si sentono coinvolti nella vita sociale, cercando di coglierne i processi. Questo significa essere buoni cittadini, proprio nell'accezione delineata dalla nostra carta costituzionale, che come dice ancora Calamandrei non è un "pezzo di carta" ma ha bisogno ogni giorno di nuovo combustile, "bisogna metterci dentro l'impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità".







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