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Storia del lavoro
Nell'antichità e nel Medioevo il lavoro, specialmente quello manuale, veniva inteso come una necessità per l'uomo e non come strumento di autorealizzazione.
Nella Genesi, infatti, il lavoro è presentato come una punizione inflitta da Dio all'uomo a causa del peccato.
Bisogna attendere il Rinascimento per avere una lenta affermazione del lavoro, Giordano Bruno, infatti pone il fondamento dell' eccellenza dell'uomo non solo e non tanto nell'intelligenza, ma soprattutto nella mano, che egli definisce 'l'organo degli organi'.
Nel Seicento e nel Settecento con lo svilupparsi di nuove tecniche si accentua il riconoscimento sociale delle attività pratiche e dei mestieri,successivamente però si contrappone l'affermarsi della vita aristocratica basata su i possessi fondiari e sul lusso
Il noto filosofo inglese Adam Smith durante la Rivoluzione industriale evidenzia nella 'Ricchezza delle nazioni' come il lavoro umano anche quello operaio sia la fonte di ogni ricchezza.
La Rivoluzione industriale sviluppò una divisione del lavoro, che permise un notevole aumento della produzione e lo gettarsi delle basi della fabbrica moderna, la quale si basa sulla distribuzione in diverse fasi del lavoro con gruppi diversi di lavoratori.
L'operaio viene chiamato a specializzarsi in una sola particolare mansione che essendo ripetitiva lo porta a velocizzarla e migliorarla. Anche l'avvento di nuovi tipi di macchinari fu decisivo per semplificare e per ridurre i tempi di produzione.
Secondo il filosofo il lavoro non è soltanto finalizzato alla produzione, ma porta l'uomo alla collaborazione con gli altri favorendo quindi al concetto di società: cioè su un insieme di individui che lavorano e scambiano per uno scopo comune.
Contrapposto è il parere del filosofo tedesco Hegel che invece sottolinea nel suo pensiero come la società tende a contrapporsi al suo interno in una 'guerra di tutti contro tutti'.
Nella dialettica servo-padrone di Hegel, si evidenzia il rapporto dialettico tra il padrone cioè colui che ha saputo rischiare e il servo che mediante il lavoro, diventa padrone del suo padrone (questa dialettica verrà ripresa da Marx)
Partendo dalla filosofia di Hegel, dalla politica economica di Adam Smith, David Ricardo ed altri, l'economista tedesco Karl Marx nel XIX secolo sviluppò una critica scientifica e rivoluzionaria della società moderna.
Marx nacque a Treviri il 5 Maggio 1818; tra i suoi testi fondamentali troviamo L'Ideologia Tedesca (1845), il Manifesto del Partito Comunista (1848), il Capitale (1867).
In tutte queste opere è fondamentale la collaborazione dell'amico e filosofo Friedrich Engels.
Marx svolse un ruolo attivo nell'organizzazione del movimento operaio, egli infatti partecipò alla Prima Internazionale del 1864 scontrandosi in particolar modo con gli anarchici e proponendo una collaborazione internazionale del proletariato che portasse al superamento della nazionalità e del setterismo.
In tutti i suoi scritti Marx si espresse a favore di una dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Egli raccolse le sue critiche sul lavoro nella sua opera fondamentale (benché rimasta incompiuta): il Capitale.
Un importante tappa della storia del lavoro fu il movimento socialista che si sviluppò parallelamente alla Rivoluzione industriale, vale a dire dal XIX secolo
Questo socialismo è caratterizzato dalla messa in discussione del principio di proprietà e dell'individualismo liberale, esso è quindi portatore di un radicale mutamento della società che porta al ribaltamento del rapporto politico-sociale affermato dalla Rivoluzione Francese.
L'obiettivo dei socialisti risulta perciò essere il conseguimento della giustizia sociale: un concetto che richiama a se tre elementi principali: il concetto di uguaglianza del Settecento, il clima romantico che ebbe un importante ruolo nella sua elaborazione, e le condizioni sociali della prima rivoluzione industriale.
Il termine 'giustizia sociale', indica la ricerca di un possibile equilibrio della proprietà, con la conseguente fine dello sfruttamento e dell'egoismo individualista.
Esistono due tipi di socialismo: il socialismo umanitario e il socialismo marxista: il primo si caratterizza per la ricerca di un'espansione sostanziale dei diritti umani come mezzo per superare il capitalismo, il secondo invece proclama l'inevitabilità di una rivoluzione violenta per abbattere la società borghese.
Le teorie socialiste di Marx possono essere sintetizzate con il termine comunismo poiché propose una lucida analisi del comunismo e propone un cammino per superarlo.
Marx considera il lavoro secondo un duplice punto di vista: il lavoro è certo, come in Hegel, un momento necessario per la realizzazione dell'uomo ma dopo la Rivoluzione industriale esso diventò uno strumento di commando sull'uomo in quanto egli evidenzia come nella fabbrica, a differenza che nella manifattura preindustriale, non sia più il lavoratore ad usare gli strumenti, ma siano invece le macchine (cioè il capitale = lavoro morto) a comandare sul lavoro vivo dell'operaio: il lavoro nella fabbrica meccanizzata ottocentesca comporta infatti secondo la sua analisi che l'elemento mentale del lavoro sia per cosi dire 'risucchiato' dalla macchina.
Marx, infatti, era contrario alla suddivisione del lavoro in quanto ognuno viene ad avere una sfera di attività determinata ed esclusiva, cui è legato, e dalla quale non può discostarsi; egli infatti è cacciatore, pescatore, pastore o critico e lo deve rimanere, se non vuole perdere i mezzi per vivere, nella società comunista invece non esiste per ciascuno una sfera esclusiva di attività, ma ciascuno si può formare n ogni ambito che lo desideri.
Occorre chiarire che per Marx, a differenza che per gli altri 'socialisti' e 'utopisti' del suo tempo, non c'è proprietà dei mezzi di produzione quando è separata da chi effettivamente la utilizza. In altre parole, il capitalista detiene le macchine con cui produce la merce da cui ricava il suo profitto; ma egli non lavora direttamente alle sue macchine, bensì impiega una forza-lavoro salariata alla quale non è destinato il profitto ricavato dal proprio lavoro ma solo una quota di esso (il salario), sufficiente al proprio mantenimento fisico.
Questa separazione tra forza-lavoro (proletariato) e i mezzi di produzione è l'anomalia sociale che genera, alla lunga, le rivoluzioni.
Marx considera la produzione dei mezzi di sussistenza l'attività fondamentale dell'uomo, nonché prima azione storica specificamente umana. Sulla base di questa attività ne individua altre tre: la creazione e la soddisfazione di nuovi bisogni, la riproduzione (quindi la famiglia) ed infine la cooperazione fra più individui.
Sorge soltanto adesso il concetto di coscienza, al contrario di tanti altri, Marx non delinea la coscienza come presupposto dell'uomo, seppur riconoscendogli un ruolo fondamentale nella vita, ma come prodotto sociale che si sviluppa in relazione all'evoluzione dei mezzi di produzione e a tutto quello che esse comportano, in una parola alle forze produttive.
La coscienza si manifesta dunque in diverse forme a seconda del processo storico.
La totalità dell'essere sociale va dunque indagata dalla sfera produttiva.
La separazione fra coscienza e condizioni materiali da luogo all' 'ideologia', essa svolge un ruolo essenziale, in quanto corrisponde all'esigenza delle classi dominanti in un dato periodo storico di presentarsi come classe universale, portatrice quindi di valori universali espressi appunto nell'ideologia
Marx muore nel 1883, lasciando nello sconforto Engels e tutto il movimento operaio internazionale.
Marx, il concetto di lavoro rispetto ad Hegel
Marx, critica la concezione del lavoro hegeliana ritenendola troppo astratta e spirituale. Il lavoro nel sistema capitalistico non risulta più uno strumento di autorealizzazione e di libertà dell'uomo ma di alienazione e di asservimento.
Hegel, invece, collocandosi dal punto di vista dell'economia moderna concepisce il lavoro come l'essenza che si avvera dell'uomo, egli vede, infatti, solo la parte positiva del lavoro, non quella negativa.
Il lavoro che Hegel solo conosce e riconosce è il lavoro astrattamente spirituale.
L'operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed estensione. L'operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci.
Questo fatto non esprime altro che l'oggetto prodotto dal lavoro, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente.
Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l'oggettivazione del lavoro. Questa realizzazione del lavoro comporta l'annullamento dell'operaio, e l'oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell'oggetto,e l'appropriazione come alienazione ed espropriazione
L'operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un soggetto estraneo. E' chiaro da questo presupposto che quanto più l'operaio si consuma nel lavoro tanto più acquista potenza il mondo estraneo, tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo, il suo mondo interiore.
L'operaio mette nell'oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto Ciò che è prodotto dal suo lavoro egli non lo è. Quanto maggiore è questo prodotto, tanto minore è egli stesso.
L'espropriazione del lavoro indica che il lavoro resta estremo all'operaio, cioè non appartiene al suo essere e che quindi l'operaio non si afferma nel lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale e mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito.
L'operaio si sente con se stesso soltanto fuori del lavoro, il suo lavoro infatti non è volontario ma forzato. Il lavoro non è la soddisfazione di un bisogno, bensì è un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso.
Infine, l'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro, che i lavoro non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a se, bensì a un altro.
Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero omai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generale, tutto al più nell'aver una casa, nella sua cura corporale, ecc, e che nelle funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l'umano e l'umano il bestiale.
Il mangiare, il bere, il generale, ecc sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell'astrazione che le separa dal restante cerchio dell'umana attività e ne fa gli scopi ultimi e unici.
L'ente estraneo al quale appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, al servizio del quale sta il lavoro e per il godimento del quale sta il prodotto del lavoro, può esser soltanto l'uomo stesso.
Quando il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e gli sta di fronte come una potenza estranea, può essere
possibile solo quando esso appartiene ad un altro uomo estraneo all'operaio.
Quando l'attività è penosa, essa deve essere godimento per un altro, gioia di vivere di un altro.
Nel lavoro alienato, espropriato, l'operaio produce il rapporto che a questo lavoro ha un uomo estraneo e che sta fuori di esso. Il rapporto dell'operaio con il lavoro genere il rapporto del capitalista o come si voglia chiamare con il padrone del lavoro.
La proprietà privata è dunque il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato, del rapporto estrinseco dell'operaio alla natura e a se stesso.
Il lavoro per Nietzsche
A differenza di Hegel e Marx, Nietzsche non riconosce nel lavoro (lavoro operaio) un elemento essenziale per la vita del genere umano e per la sua educazione. Al contrario, il lavoro gli appare un vizio, una forma di primitivismo e di ritorno alla barbarie.
Il pensiero nietzscheano è in realtà chiaro: essendo ormai impossibile reintrodurre, dopo la guerra di secessione statunitense, la schiavitù in Occidente, o si trasforma la classe operaia europea in una cineseria operaia o, se no, devono essere i barbari a formare, in seguito alla colonizzazione o all'immigrazione, la classe servile del mondo civile. Un ceto di schiavi, fosse anche nelle forme del moderno proletariato, deve permanere e non deve ribellarsi, pena la caduta della civiltà. A fondamento dell'otium dei dominatori Nietzsche individua, con la spregiudicatezza che lo caratterizza e utilizzando una categoria comune a Marx, il pluslavoro. Lavoro e servaggio si identificano, ma non vi è spazio per una concezione razziale della schiavitù, che resta una condizione oggettiva della civiltà indipendentemente dal colore degli schiavi.
Nietzsche individua un bimillenario ciclo rivoluzionario che ha sempre avuto di fronte signori e servi e che ha le sue radici nella tradizione ebraico-cristiana e nella filosofia socratico-platonica.
Esso considera che affaticarsi nel lavoro ha infatti come conseguenza la ricerca di uno svago qualsiasi e di piaceri semplici.
Il lavoro secondo Weber
La religione protestante e l'etica del lavoro
Il Novecento è stato un secolo di grandi innovazioni nel settore industriale, e quindi nel campo lavorativo.
Il tema centrale, che venne affrontato in questo ambito e che fu al centro dell'analisi della società moderna, fu quello degli "effetti disumanizzanti comportati dal lavoro".
Con la seconda rivoluzione industriale, si ebbe una grande diffusione della cosiddetta «americanizzazione», ovvero di quelli che furono il modello Tayloristico e quello della fabbrica fordista . Con la catena di montaggio il lavoratore eseguiva gesti ripetitivi e rapidi tipici della produzione in serie, fino a diventare in un certo senso servitore piuttosto che utilizzatore della macchina. Queste condizioni di lavoro erano ovviamente molto più alienanti rispetto alle modalità lavorative della prima industrializzazione (analizzata da Marx)
A spiegare i motivi di questa alienazione, è il sociologo Max Weber.
Egli, a differenza di Marx, parla della disumanizzazione non come dell'espropriazione dell'operaio da parte del capitalista, ma come risultato del continuo subentrare della razionalità moderna all'interno del sistema produttivo capitalistico.
Ne 'L'etica protestante e lo spirito del capitalismo' (1905) , si Weber spiga che il protestantesimo, e in particolare il calvinismo, è all'origine del capitalismo moderno.
In realtà, Weber non intende sostenere che un fenomeno economico possa essere causato direttamente da un fenomeno religioso. Mette invece in relazione due fenomeni omogenei, la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista, affermando che la prima fu condizione utile alla formazione della seconda.
Secondo il pensiero di Lutero, il guadagno e l'accumulazione del denaro non erano finalizzati tanto al consumo e al godimento, quanto più erano una forma di preghiera (e quindi il fine a cui doveva mirare il credente). Coloro che avevano successo nell'intraprendere un'attività economica, vedevano in questa un segno della Grazia, mentre la vita veniva vista come un «compito» e una «chiamata divina». Inoltre Max Weber notava come i paesi calvinisti (i Paesi Bassi, l'Inghilterra, il Massachussetts) erano arrivati prima al capitalismo rispetto a quelli cattolici come la Spagna, il Portogallo e l'Italia, e fu per questo se si chiese se effettivamente la religione avesse influenzato in tal modo l'economia. Da dire poi, che il capitalismo nasce in un periodo in cui ogni condotta religiosa perde il suo valore e riferimento trascendente, e quindi, la conferma della Grazia divina di cui prima si è parlato, perde di ogni valore religioso. L'etica protestante si razionalizza quindi nello spirito del capitalismo. Tutto ciò comunque, implica ovviamente una severa autodisciplina, la stessa poi che si ritrova laicizzata nell'etica del lavoro dei più grandi capitalisti del '900.
Il Lavoro nel Lavoro
Un altro concetto chiave della Chiesa Calvinista affrontato da Weber, è quello del «lavoro per il lavoro».
Questa concezione calvinista del valore del lavoro per il lavoro stesso trova riscontro per Max Weber in alcune caratteristiche che differenziano le due religioni: mentre il cattolico celebra la messa o prega per ottenere qualcosa, il protestante ringrazia Dio per quello che ha già ottenuto, la sua preghiera onora Dio, ha un valore in se stessa non serve per ottenere qualcosa.
Così le chiese cattoliche manifestano nell'oro e nella ricchezza dei loro edifici e delle cerimonie la gloria di Dio al contrario quelle calviniste hanno il senso di sé in se stesse, sono severi luoghi di culto fatti per pregare.
Il dovere professionale e la razionalizzazione della realtà
Per Weber, il concetto di «dovere professionale» (ovvero l'obbligo morale che il singolo avverte in rapporto alla propria attività professionale) fa parte di quella che è l'«etica sociale», la quale secondo il filosofo tedesco è alla base del capitalismo.
Ormai però, egli afferma che non è più necessario che lavoratori e imprenditori facciano proprio questo atteggiamento, dato che il capitalismo moderno si è ormai reso autonomo dalle forze che ne hanno favorito la nascita, ed essendo ora in grado di determinare se stesso.
Sempre il capitalismo moderno - dice Weber - costituisce l'ambiente, che seleziona il personale più adatto, ma non solo.
Esso infatti costituisce il punto d'arrivo di un processo di razionalizzazione, che ha visto la egemonia dell'agire razionale rispetto allo scopo: sono manifestazioni di questo orientamento la ricerca scientifica, il capitalismo stesso e i moderni apparati burocratico-amministrativi.
Nel descrivere la realtà, egli utilizza anche l'espressione «disincantamento del mondo», con riferimento al prosciugarsi in essa di tutti gli aspetti magici e sacrali dell'esperienza, a favore della pretesa di un totale controllo razionale e tecnico della realtà.
Inoltre, la razionalità moderna e capitalistica che domina il mondo è puramente strumentale, basata su una fredda efficienza del rapporto mezzo-fine, ottenuto dalla liberazione da vincoli rappresentati dalla tradizione e dai valori.
Secondo Weber, i fini e i valori sono molteplici (politeismo dei valori), e tra essi è possibile decidere razionalmente, affinché ciascuno possa dedicarsi a ciò a cui crede («servire il proprio demone»).
Il lavoro intellettuale: la scienza come professione
Nel 1919, durante una conferenza che Weber tenne di fronte agli studenti dell'Università di Monaco, egli parla delle conseguenze del lavoro, e più nello specifico di quello che era il «lavoro intellettuale», ovvero il lavoro di studio, di ricerca scientifica e di insegnamento.
Analizzando la condizione del lavoro scientifico in Germania, egli evidenziò il fatto che comunque anche in questo campo si erano verificate tendenze all'«americanizzazione» (come nell'attività produttiva del resto).
Con ciò, Weber intendeva sottolineare il fatto che vi era stata una specializzazione della ricerca. Il fatto poi che la ricerca scientifica fosse tanto progredita, ha fatto si che svanissero tutte le illusioni sul fatto che essa potesse effettivamente aiutare l'uomo a risolvere i grandi interrogativi (il senso del mondo, la felicità,.). Questo secondo Weber, è fuori dai limiti della ragione scientifica e filosofica.
Indipendente da ciò, comunque, la conoscenza scientifica può aiutare a risolvere i problemi tecnici, individuando poi con quali mezzi è possibile raggiungere determinati fini, e può aiutare a capire con maggior chiarezza quale visione teorica o con quale visione del mondo fossero coerenti determinati comportamenti pratici. Per spiegare meglio il suo pensiero, egli fa riferimento alla metafora del «conflitto» tra dei (cioè del conflitto tra valori, inconciliabili tra loro).
A conclusione del suo discorso, Weber criticò duramente quegli intellettuali che non sapevano accettare con coraggio quello che era il «disincanto dal mondo», e che invece erano alla continua ricerca di nuovi valori assoluti e che «vivevano in attesa di nuovi profeti e nuovi redentori», rivendicando così la fedeltà al suo «demone» della professione di studioso.
Un'ultima nozione molto importante è quella del «beruf» ovvero della vocazione professionale, usata per indicare appunto la dedizione al lavoro dei pionieri calvinisti del capitalismo, che nell'"Etica protestante e le origini del capitalismo" Weber collegava alla parola inglese calling ("chiamata", "vocazione"), e che affermava doveva essere raggiunta in austerità di costumi e sobrietà di consumi.
Il lavoro per Marcuse
Eros e lavoro
Al centro dell'analisi della societa contemporania, svolta dal filosofo Herbert Marcuse in "Eros e civiltà"(1955), esso utilizza anche nozioni freudiane, come i "principi di piacere" e di "realtà".
Freud nel "Il disagio della civiltà" aveva indicato nel princio di piacere il fattore fondamentale della vitalità dell'individuo; solo la repressione e il sacrificio di tale principio "Principio di realtà" consentirebbe secondo Freud la realizzazione dell'ordine sociale e lo sviluppo della produzione.
Marcuse contesta però a Freud di avere generalizzato a tutte le forme di civiltà umana quella che è invece condizione specifica della società moderna capitalistica, l'unica che si fondi sul repressione generalizzata e sistematica del "principio di piacere"
Marcuse studiò attentamente Freud, trovando che, accanto alla pur desolante constatazione che l'iniziatore della psicoanalisi non era mai andato oltre l'auspicato ritorno alla normalità ed il reinserimento nel mondo borghese, nella psicoanalisi stessa erano insite potenzialità ben più grandi e radicali.
Marcuse, di fatto, rovesciò Freud, affermando il contrario di quanto lo stesso Freud aveva teorizzato in un momento più filosofico che psicoterapeutico: signori, è possibile una società non repressiva.
La psicoanalisi deve mutare pelle. Non deve limitarsi ad una funzione terapeutica, ma diventare una teoria generale in grado di integrare ed arrichire il marxismo critico.
Marcuse era, ovviamente, d'accordo con Freud nello scorgere nella repressione il prezzo da pagare alla civilizzazione. Ma, a differenza di Freud, che su questo era stato piuttosto lapidario, affermava che non è la civiltà in quanto civilità a risultare repressiva, a richiedere una costante repressione dell'istintuale, ma quel tipo particolare di civiltà impostasi in Europa ed in America: la civiltà autoritaria e borghese. In sostanza, diceva Marcuse, questa società non si è limitata a richiedere il minimo della repressione istintuale richiesto dalla convivenza civile, ma ha preteso un surplus repressivo per motivi che hanno nulla a che vedere con la natura dell'uomo e la convivenza civile stessa, ma sono tutti riportabili al sistema sociale, politico ed economico, oltre che a convinzioni ideologiche.
La repressione è l'unico modo di garantire l'efficienza, quel principio di prestazione che è alla base dell'efficientismo capitalistico. La genitalizzazione monogamica, la famiglia, sono istanze funzionali alla produzione ed alla riproduzione, abiti etici imposti dal regime alla gente.
Orfeo Narciso contro Prometeo
Il principio di piacere si conserva nell'inconscio e nelle sue fantasie, che trovano la loro espressione più alta nell'arte e nella poesia che ci permettono in effetti di riappropriarci di archetipi e figure che propongono atteggiamenti verso la realtà di segno diverso e opposto rispetto a quello tipico di prometeo,il quale rubando il foco agli Dei, diede inizio alla civilizzazione repressiva del lavoro.
Marcuse individua nelle figure mitologiche di Orfeo e Narciso i due archetipi che significano un ordine di vita non repressivo, un ordine in cui, mediante il gioco e la bellezza, si conciliano istinti e ragione, principio del piacere e principio della realtà.
Orfeo e Narciso si contrappongono a Prometeo: quest'ultimo è l'eroe civilizzatore, è il simbolo della produttività, della lotta faticosa per l'esistenza, e quindi anche della repressione. Prometeo simbolo della produttività, della prestazione, progresso e fatica. E nel mondo prometeico Pandora, il principio
femminile, la sessualità e il piacere, appare come una maledizione, disgregativa, distruttiva. Se prometeo è l'eroe civilizzatore della fatica Orfeo e Narciso sono gli esponenti di una realtà molto diversa. La loro è un immagine di gioia e di compimento, la voce che non comanda ma canta, il gesto che offre e riceve Orfeo è l'archetipo del poeta come liberatore e creatore: egli istituisce nel mondo un ordine più alto, un ordine senza repressione. Nella sua persona, l'arte,la libertà e la cultura sono eternamente unite Ma quest'odine Orfeo lo paga con la vita. Fu sbranato dalle donne trace impazzite. La vita di narciso è una vita di bellezza, e la sua esistenza è contemplazione.
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