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Sofocle nacque a Colono, demo agreste situato
fra Atene ed Eleusi,
intorno al
Sotto l'aspetto della fede, Sofocle occupa una posizione intermedia tra Eschilo, pervaso dalla fede, e Euripide, scettico e razionale. Privi di fiducia negli dei, i protagonisti sofoclei sono dannati all'errore e alla sofferenza che ne è la conseguenza, e fondano così il prototipo dell'eroe propriamente "tragico". Sofocle, in una certa misura, ha inventato questo prototipo di eroe: tutti gli eroi e le eroine delle sue tragedie, sono investiti del privilegio, se non di dirigere, almeno di condurre l'azione drammatica. Nasce così la figura dell'eroe tragico, né completamente uomo (possiede qualità più che umane), né completamente dio (resta sottoposto alla volontà divina). Ma, , l'eroe tragico, posto tra l'uomo ed il dio, rifiuta il destino, si rivolta o, se si sottomette, preferisce morire.
Sofocle, sebbene buon cittadino, ama i ribelli, gli indomabili. Il tema
della rivolta, della rivolta giusta che un uomo risoluto sostiene contro la
ragione di Stato, è al centro della sua opera: non esiste una legge più giusta
di quella della coscienza. Tutti gli eroi di Sofocle rispondono allo stesso
modello di determinazione tenace: Elettra, Aiace, Edipo
soprattutto, che si ostina a cercare con accanimento i responsabili della
maledizione di Tebe, per poi scoprire che è lui il colpevole, ed
assumere su di se la punizione. Tutti quest'eroi, fuori del comune, segnati
dal destino, possiedono lo stesso coraggio e tentano disperatamente di lottare,
prima di essere distrutti dalla volontà degli dei. Questi, d'altra parte, sono
sempre onnipotenti sul destino degli umani, ma la giustizia e la responsabilità
degli uomini sono ugualmente affermate: così la tragedia mette ai primi
posti l'uomo, che può, in certa misura, prendere in mano il suo destino. Le
opere di Sofocle sono fortemente unitarie, accentrate intorno a personaggi solidi,
sui quali si fonda l'altissima poesia dei singoli drammi.
Gli eroi delle sue opere sono magnanimi e sventurati, nobili e incolpevoli; è
un poeta che possiede una sincera pietà, la sofferenza dell'uomo gli sembra
troppo grande e immeritata, il mistero
della giustizia gli rimane quasi sempre insoluto.
La tragedia di Sofocle fu una creazione artistica di grande equilibrio in cui le qualità strutturali e formali si uniscono in un organismo di estrema perfezione. Le fonti antiche informano sulle innovazioni tecniche che Sofocle apportò alla struttura della tragedia. Esse gli attribuiscono l'invenzione della scenografia, più precisamente l'introduzione di fondali mobili oppure di scenari dipinti secondo le regole della prospettiva, infatti elementi di una scenografia grandiosa anche se rudimentale erano indubbiamente già presenti in Eschilo. Maggiore importanza ha l'aumento dei coreuti da dodici a quindici, e soprattutto fondamentale fu l'introduzione di un terzo attore avvenuta all'epoca dei suoi esordi, grazie alla quale risultava superata la rigida contrapposizione eschilea di due posizioni antitetiche, in questo modo i rapporti interpersonali divennero più articolati, permettendo di ampliare dialoghi e battute, di conseguenza il ritmo teatrale divenne più vario e dinamico. Grazie a queste riforme Sofocle riuscì ad accentuare il rilievo attribuito all'individuo, innalzandolo al ruolo dell'eroe, visto come portatore di un destino proprio e irrepetibile, la sua dannazione e la sua gloria. Ma la fondamentale innovazione introdotta da Sofocle nella tragedia fu lo scioglimento della sua struttura trilogica in tre drammi indipendenti, mentre Eschilo si era servito di una continuità tematica all'interno della quale le singole tragedie rappresentavano le varie scansioni di un'unica storia. Quest'ultimo era stato il creatore della tragedia concepita come l'espressione delle relazioni dell'uomo con gli dei, trattando dell'esistenza travagliata dell'uomo inserita all'interno di una stirpe, di cui l'individuo, per quanto fossero grandiose le sue vicende, non costituiva che un anello. Restava a Sofocle mitigare, ridurre, perfezionare questo genere nuovo. Eschilo era stato il poeta del destino umano, sottoposto all'onnipotenza divina, che portava fino alla punizione dell'orgoglio degli uomini, come nei casi ad esempio di Agamennone e Prometeo. Aveva ignorato i dialoghi, e i suoi personaggi erano soltanto i semplici portavoce dei grandi problemi morali e religiosi che erano incaricati di diffondere. Nella tragedia di Sofocle, al contrario, il protagonista assoluto diventa l'uomo singolo, e questo è evidenziato anche da un'altra innovazione apportata dal tragediografo: mentre tradizionalmente alle tragedie veniva assegnato il titolo in base alla composizione del coro, con Sofocle la struttura dei drammi precedenti lascia il posto a quella dei drammi autonomi ed eponimi (che portano il nome dell'eroe protagonista).Con lui, perciò, si accentua l'importanza del personaggio protagonista umano, che non appare mai schiacciato dal Fato, ma che proprio dalla sua vana lotta con questo, riceve una piena dimensione umana, portatore di un destino che è la sua dannazione e, contemporaneamente, la sua gloria. I suoi eroi quindi, erano immersi in un mondo di contraddizioni incurabili, di conflitti con forze inevitabilmente destinate a travolgerli. Il teatro, con Sofocle, si propone di rappresentare sia una realtà alternativa rispetto all'esperienza quotidiana, sia l'immagine della condizione umana. Il suo dramma si sviluppa attraverso il calcolato e incalzante svolgersi della sceneggiatura: la successione degli avvenimenti dimostra una consapevole ricerca degli effetti della sospensione e del colpo di scena. Questi due elementi di grande incisività, consentono alla vicenda teatrale di divenire simbolo dello svolgersi dell'esistenza. All'interno del dramma, i personaggi, non possiedono un'evoluzione psicologica né un contrasto interiore, la vicenda è costruita interamente sull'azione; al centro degli eventi sta il destino dell'eroe, un problema esclusivamente individuale, che egli deve affrontare da sé, e con il quale deve misurarsi. Il teatro di Sofocle è popolato da protagonisti imponenti e inflessibili, che rimangono fedeli alla propria natura e ai propri progetti fino all'esito ultimo, che spesso vedrà la loro rovina, ma che non esclude la possibilità di una salvazione. Sofocle evita di fare riferimenti al presente all'interno delle sue tragedie, nonostante discuta avvenimenti e problematiche attuali nella dimensione del mito; egli si propone di interpretare il posto dell'uomo nel mondo e quello dell'individuo nella collettività: rappresenta il destino umano e l'atteggiamento che il protagonista sostiene di fronte a fati che non dipendono da lui. Non apre spazio alle contese e ai problemi sociali del suo tempo, che ispirano tante parte della tematica euripidea: la condizione delle donne, la dignità umana degli schiavi, l'universalità dell'uomo. Eppure nella sua opera si rispecchia la società dell'Atene contemporanea, nella fase più alta del suo splendore anche se già incrinata dai primi sintomi di quella rovina che inevitabilmente l'attende. La battaglia già perduta all'inizio che l'eroe sofocleo combatte con il suo destino, è forse la stessa che gli ateniesi sentivano di combattere contro la storia; ma Sofocle non dichiara le cause della sconfitta se non nel fatto stesso di essere uomini. Nelle sue tragedie è evidente un netto contrasto fra l'agire del singolo e una struttura politica e sociale che conferiva il massimo potere alla collettività. L'eroe e il coro, ossia l'individuo e la comunità non riescono a collaborare e soffrire insieme, come accadeva in Eschilo: l'eroe è solo nell'agire e nel patire, l'individuo prevale sulla collettività, e di essa provoca a crisi. Allo stesso tempo è anche escluso da essa, che in questo caso non coincide necessariamente con il coro, e si oppone alla sua forma istituzionalizzata che è lo stato. La comunità non riesce più a contenere l'individuo, né questo si considera parte di essa: Aiace, Antigone, Filottete e lo stesso Edipo sono esempi di un'emarginazione, volontaria oppure subita. Prima che la propria longevità eccezionale lo faccia assistere al suo declino, Sofocle testimonia, col suo teatro, le certezze che animano il cittadino ateniese, fiducioso di poter controllare ogni evento con la propria volontà.
Prologo
La prima scena si apre davanti alla reggia di Edipo, a Tebe, Sui gradini siede un gruppo di giovinetti che stringono in mano virgulti d'ulivo, in mezzo a loro, oltre al sacerdote di Zeus, stanno vecchi e bambini.
Uscendo dalla reggia, Edipo chiede
spiegazioni sul motivo di questa riunione. Stupito dal dolore e dallo sconforto
che regnavano nella città, aveva ritenuto doveroso recarsi di persona a
chiedere notizie, piuttosto che inviare un messaggero. Rivolgendosi all'anziano
sacerdote, che nel frattempo si è fatto avanti quale portavoce della folla,
Edipo afferma di essere disposto a portare aiuto in qualsiasi modo. Il vecchio
spiega ad Edipo la situazione. I cittadini più vecchi e più giovani della
città, si sono recati al suo cospetto per informarlo di una grave circostanza,
mentre tutti gli altri pregano nelle piazze e davanti ai templi: Tebe è
devastata da una terribile epidemia, della quale si ignora la causa. Il
sacerdote supplica Edipo di aiutare in qualche modo la città, come già aveva
fatto salvandoli dalle insidie della Sfinge, un terribile mostro antropomorfo
che un tempo aveva dimora presso Tebe, prima che fosse arrivato Edipo per
sconfiggerlo. L'appello accorato del sacerdote impietosisce il re, che si
commuove per la triste sorte dei suoi sudditi. Egli avendo già saputo della
disgrazia, dopo aver a lungo pensato ad
una soluzione, aveva ritenuto opportuno adottare l'unico rimedio che aveva
trovato: aveva inviato Creonte, fratello di sua moglie Giocasta, a Delfi, per
consultare l'oracolo di Apollo. Ormai egli era assente da giorni, ed Edipo
cominciava a preoccuparsi, pur manifestando l'intenzione, una volta che il
cognato fosse tornato, di ubbidire al volere del dio Apollo. A questo punto
interviene il sacerdote per informare il re dell'arrivo di Creonte. Edipo, vedendo avvicinarsi il cognato con il
capo cinto di alloro, spera che sia latore di buone notizie e, rivolgendosi a
lui, lo invita a svelare il messaggio del dio. Febo ha rivelato che è un
assassino la causa dell'epidemia: il precedente signore della città, Laio, era
stato assassinato, poco prima dell'arrivo di Edipo a Tebe, e ora gli dei
avevano scatenato contro di loro quella maledizione perché il colpevole si
trovava in quella città, impunito. Per porre fine alla sofferenza dei Tebani,
bisognava trovare l'assassino ed esiliarlo dalla città. Laio era partito per interrogare
un oracolo, ma dopo la sua partenza non era più tornato a casa, gli uomini che
si trovavano con lui erano stati uccisi, tutti, meno uno, che era fuggito per
la paura e non aveva mai saputo raccontare nulla di ciò che aveva visto, tranne
un unico particolare: erano stati dei briganti ad uccidere il re e gli altri.
Nessuno in seguito aveva mai indagato su quella morte, poiché in quel periodo,
fuori dalle mura di Tebe, dimorava ancora
Venendo a sapere come stanno le cose, e qual è la causa della disgrazia che affligge Tebe, Edipo giura che sarà lui a scoprire ciò che era accaduto a Laio. Poi, rivolgendosi alla folla dinnanzi al palazzo, li invita ad alzarsi dai gradini, levando in alto i rami d'ulivo, assicurando che diventerà loro alleato per trovare l'assassino di Laio. Così detto rientra nella reggia, mentre il sacerdote invita la folla a disperdersi tranquillamente, e ad avere fiducia nel sovrano e nel dio Apollo.
Entra il coro di vecchi tebani, che invoca Zeus:
"Oh, dolce parola di Zeus, quale responso da Delfi inviasti a Tebe? Io ti chiedo, o Apollo, invaso da un'ansia angosciosa, di svelarmi il compito che vuoi impormi. Parlami, oh oracolo. Per prima invoco te, figlia di Zeus, Atena immortale, e tua sorella Artemide che tutela questa terra, e che siede sul suo splendido trono, nell'agorà, e invoco anche Apollo, che lungi saetta. Voi tre, che proteggete dal male, mostratevi a me. Altre volte allontanaste la sventura dal paese, venite perciò anche ora! Sopporto innumerevoli sventure, l'intero mio popolo è malato e non esiste qualcosa che gli dia scampo: la terra non produce frutti, né le donne si liberano dei loro dolori dopo aver partorito; e gli abitanti di Tebe si affrettano a recarsi uno dopo l'altro a Occidente, verso la riva dell'Acheronte.
La città muore e i cadaveri dei tebani
giacciono al suolo, senza che i loro cari li possano compiangere, e le mogli e
le madri gemono supplicando gli dei, mentre i loro canti di dolore risuonano,
come in un'unica voce. Oh, figlia di Zeus, manda loro il tuo aiuto! Fa che Ares
il violento, che anche quando non combatte riesce a portare distruzione con la
malattia, se ne vada via dalla mia terra, verso l'Oceano, patria di Anfitrite,
o verso il Ponto Eusino, presso
Primo episodio
Edipo esce dal palazzo e lancia un appello agli abitanti di Tebe. Chiunque conosca l'uomo che uccise Laio, ha l'obbligo di rivelare ogni cosa al re. Se l'assassino fosse di un altro paese, chiunque lo conosca non deve tacere, e avrà così una ricompensa. Ma se qualcuno, per paura di nuocere a se stesso o ai propri cari, non volesse parlare, sarebbe punito severamente. I cittadini hanno l'ordine di non rivolgergli la parola, di non renderlo partecipe dei sacrifici agli dei, di non ospitarlo nelle proprie case, in quanto causa di contaminazione per la città, come affermato dall'oracolo. Edipo diviene alleato del dio e del morto, e augura al colpevole di consumare una vita infelice. Maledice coloro che non obbediranno ai suoi ordini, e loda coloro che si schiereranno dalla sua parte. A questo punto parla il corifeo, che si sente costretto dallo scongiuro di Edipo, e dice di non sapere chi sia stato, ma che Apollo avrebbe dovuto rivelarlo nel suo oracolo, tuttavia, poiché la volontà del dio è imperscrutabile, egli propone di mandare a chiamare l'indovino Tiresia, che predice il futuro come Febo. Ma Edipo aveva già provveduto, e si stupisce perché il veggente non è ancora giunto. Il corifeo frattanto racconta di altre strane voci che circolavano sull'uccisione di Laio, secondo le quali il vecchio re era stato ucciso da dei viandanti, anche Edipo aveva già sentito dire qualcosa a riguardo, ma non si riusciva a trovare il testimone del fatto da nessuna parte. Sopraggiunge in quel momento il cieco indovino Tiresia, guidato da un fanciullo e accompagnato da due uomini di Edipo. Egli però non vuole saperne di rivelare il nome del colpevole, e si lamenta della sua arte che l'ha messo in una terribile situazione. Edipo lo prega, lo supplica, ma Tiresia parla per enigmi e non vuole riferire ciò che sa. Il re, irato, lancia insulti e maledizioni all'indovino, definendolo malvagio fra i malvagi e arrivando ad accusarlo di essere il colpevole. Il cieco allora, adirato a sua volta, afferma che il colpevole della sciagura è lo stesso Edipo. Questi, stupito da tanta impudenza, non crede alle parole di Tiresia, che continua a rivolgergli accuse: a suo parere il re, senza saperlo, ha i rapporti più turpi con le persone più care. Ma per Edipo chiunque sia cieco nella mente, nelle orecchie e negli occhi non può certo invocare la verità, e perciò egli finge di non udire quando il vate gli rivela che quelle stesse offese molto presto saranno rivolte a lui. Alla fine il re, esasperato dall'insistenza di Tiresia, si lancia in un appassionato discorso. Non aveva mai voluto tutto ciò che gli era stato dato, e, ora che aveva finalmente trovato la felicità, qualcuno, tramando nell'ombra, voleva portargliela via. L'unico che poteva aver organizzato un simile piano era la persona a lui più vicina, il cognato Creonte, che indubbiamente aveva orchestrato tutta una messa in scena, mandando da lui l'indovino, col compito di accusarlo ingiustamente. Edipo infierisce anche su Tiresia, insinuando che egli non sia un vero vate, ma un mago fasullo e impostore, e a prova di ciò porta il fatto che il cieco non era stato capace di risolvere l'indovinello della Sfinge, allorché la città ne aveva avuto bisogno, mentre lui, Edipo, con la sua intelligenza aveva subito trovato la soluzione. Non sarebbe stato facile portargli via la felicità che si era così faticosamente guadagnata. Per tentare di calmare le acque, interviene il corifeo, osservando che le parole di entrambi erano dettate dall'ira: non era certo questo ciò di cui la città aveva bisogno in quel momento, ma di riflettere su come interpretare l'oracolo del dio. Tiresia però vuole ribattere alle parole di Edipo: l'indovino si proclama devoto solo ad Apollo, non avrebbe di certo avuto bisogno di Creonte come patrono. Ciò detto fa notare ad Edipo che non si sa neanche quali siano le sue vere origini, e che accusandolo di essere cieco, non si accorge invece di esserlo lui stesso. Edipo non si rende conto di trovarsi in una terribile sciagura, né sa con chi veramente vive, e neanche di essere maledetto sopra e sotto la terra. Anche la maledizione del padre e della madre perseguiteranno per sempre Edipo, che ora vede bene, ma presto vedrà le tenebre, e che spesso dovrà pentirsi, in futuro, di quella sorte che lo spinse a Tebe, dove trovò una sposa e dei figli a cui badare. Il re è libero di oltraggiare finché vuole l'indovino, che parla nel nome di Apollo, e anche Creonte, ma in seguito sarebbe stato severamente punito per la sua arroganza. Edipo, ancora più irato per queste parole, lo scaccia via, chiamandolo stolto e maledicendolo. Ma Tiresia, prima di andarsene, in un ultimo moto di sfida, riferisce ad Edipo che i suoi genitori l'avevano sempre ritenuto saggio; udendo ciò, il re lo richiama per farsi rivelare l'identità di suo padre e sua madre, l'indovino però, chiama un fanciullo perché lo accompagni via, ma , prima di andarsene, svela ciò per cui era stato convocato. L'uomo che Edipo cerca per vendicare l'uccisione di Laio, si trova ora a Tebe. Dicono che sia un forestiero, ma poi si scoprirà che è nativo di questa città, e di questo non avrà da rallegrarsi; diverrà cieco mentre prima vedeva, e povero invece che ricco, se ne andrà da Tebe tastando il suolo con un bastone. Si scoprirà poi che è insieme padre e fratello dei suoi figli, e figlio e marito di sua madre, e consanguineo e uccisore del padre. Ciò detto Tiresia ingiunge ad Edipo di riflettere su queste parole, e se scoprirà poi che esse non sono vere, potrà anche affermare che a pronunciarle era stato un mago fasullo.
Edipo rientra nel palazzo, il coro inizia a cantare:
"Chi è colui che, secondo quanto disse l'oracolo di Delfi, compì delitti indicibili? Per lui ormai è giunto il tempo di fuggire: contro lui si scaglia ora armato il figlio di Zeus. Si udì infatti una voce parlare dal Parnaso: ognuno si metta sulle tracce dell'uomo sconosciuto, poiché va errando per la foresta selvaggia, per antri e per rocce, come un toro, solitario, cercando di eludere gli oracoli di Delfi, invano. Sono terribili le cose che il saggio indovino ci disse, ma io non so se credergli o negargli fiducia, non so che dire: mi abbandonano le speranze, non posso vedere né il passato né il futuro. Non comprendo e non ho mai compreso quale sia stato il motivo di contesa fra Edipo e i Tebani. Non vedo nessuna ragione per la quale io mi possa opporre alla fama che circonda Edipo fra le genti, per vendicare la misteriosa morte subita dai Tebani.
Certamente Zeus ed Apollo comprendono e
conoscono bene le vicende dei mortali, ma non può essere vero che un vate,
anch'esso mortale, valga più di me: poiché un uomo può sempre superare per
intelligenza un altro uomo. Ma io, prima di constatare se un presagio è vero o
falso mi trattengo dal biasimare Edipo. Io vidi quando
Entra in scena Creonte, che ha appena saputo delle accuse che gli sono state mosse da Edipo, e vuole discolparsi. Si rivolge ai Tebani: se è tale la considerazione che ha di lui Edipo, egli non desidera vivere ancora, per sopportare una simile fama, l'accusa di viltà che gli è stata mossa, non è lieve, ma gravissima. Il corifeo fa notare a Creonte che le parole di Edipo erano state dettate dall'ira, piuttosto che da un giudizio ponderato, anche se in ogni caso era stato senza dubbio il re in persona a pronunciare quelle false accuse. In quel momento il corifeo si accorge dell'approssimarsi di Edipo, e avverte Creonte. Il re esce dalla reggia, e vedendo il cognato, inveisce contro di lui, stupendosi del fatto che abbia trovato il coraggio di mostrarsi, dopo aver tramato per ucciderlo e per rubargli il trono, senza l'appoggio del popolo né di un seguito. Creonte, a questo punto, esasperato, risponde all'accusa. Pretende spiegazioni sul torto che Edipo dice di aver subito. Il re si è convinto della colpevolezza di Creonte dopo aver sentito le parole di Tiresia, che, per trovare il coraggio di pronunciare simili assurdità, doveva essere stato pagato per forza di cose. Per poter sostenere la propria tesi, Edipo interroga il cognato sul passato dell'indovino, e, venendo a sapere che il suo nome non era mai stato fatto, prima del suo arrivo a Tebe, si convince sempre di più che, se Tiresia non fosse stato d'accordo con Creonte, non avrebbe mai potuto attribuire a lui la morte di Laio. Ma Creonte, parlando con chiarezza, fa notare ad Edipo che ha il suo stesso potere, e lo stesso potere di Giocasta sua sorella e moglie del re, e che, se avesse un qualsiasi desiderio, gli basterebbe chiedere per vederlo esaudito. Inoltre non potrebbe desiderare di meglio, poiché lo stesso potere di Edipo è suo, senza che egli si debba assumere gli oneri del governo, oltre a ciò non desidera niente di più, poiché è ben voluto e rispettato dai cittadini, che, quando hanno bisogno del re invocano lui, dato che per loro ottenere qualsiasi cosa dipende da questo. Interviene nuovamente il corifeo, a far notare che dovrebbero perlomeno nascere dei dubbi sull'innocenza di Creonte. I due però continuano a discutere: il re vorrebbe mandare a morte l'altro, e d'altra parte questi continua a protestare la sua innocenza. La discussione è ancora una volta interrotta dal corifeo, che avverte dell'ingresso di Giocasta. La donna giungendo dalla reggia rimprovera i due litiganti, ricordando la grave situazione che affligge Tebe. Ma Edipo sostiene che, se Creonte non andrà via dalla città, toccherà a lui andarsene e accettare il verdetto di Tiresia, anche se ingiusto a suo parere. Creonte sentendosi sminuito dall'atteggiamento del re, si allontana.
Rimasta sola con Edipo, Giocasta, indugia nel ricondurlo a palazzo, vorrebbe infatti sapere il perché del litigio fra i due uomini, ed Edipo le spiega che la causa della sua ira sono le insidie che Creonte trama alle sue spalle, accusandolo, con l'aiuto dell'indovino Tiresia, dell'assassinio di Laio. Perché Edipo abbandoni la sua ira, Giocasta gli racconta un episodio accadutole al tempo in cui lei e Laio erano ancora sposati. A Laio venne una volta un oracolo, da parte dei ministri di Apollo, secondo il quale il suo destino sarebbe stato quello di morire per mano di un figlio, che fosse nato da Giocasta e da lui. Eppure, come si raccontava, fu ucciso da predoni forestieri alla convergenza di tre strade. Il figlio che avrebbe dovuto ucciderlo era nato effettivamente, ma, dopo tre giorni dal parto, Laio gli aveva legato insieme le caviglie, e lo aveva fatto gettare per mano d'altri giù da un monte inaccessibile. Così Apollo non ottenne né che il bambino divenisse uccisore del padre, né che Laio soffrisse per mano del figlio una sorte tremenda. Eppure questo avevano stabilito i responsi degli oracoli. Naturalmente ciò dimostrava come le profezie non avessero alcun valore. Edipo però, non sembra rassicurarsi udendo il racconto di Giocasta, anzi, nel suo sguardo si accende improvvisamente un profondo smarrimento.Subito chiede quale sia il luogo dell'assassinio di Laio, e quanto tempo sia passato da allora. Il fatto era accaduto poco prima che Edipo divenisse re di Tebe, nella Focide, dove convergono le strade da Delfi e da Daulia. Udendo ciò Edipo sembra ancora più scosso, perciò la moglie, preoccupata, gli domanda cosa mai sia accaduto. Ma Edipo non vuole rispondere, e continua a chiedere notizie sull'aspetto di Laio alla sua partenza, e venuto a sapere anche questo, sconvolto, comincia ad avere dei dubbi sul fatto che Tiresia sia veramente un veggente, tuttavia, cercando di trovare una sola prova della propria innocenza, Edipo chiede a Giocasta se Laio fosse partito con un gran seguito, o se avesse viaggiato modestamente. La risposta, ancora una volta, sconvolge Edipo: Laio era partito con altri cinque uomini, con un solo carro, su cui viaggiava lui stesso, e di questi cinque, uno solo era sopravvissuto. Costui tuttavia, una volta rientrato a Tebe, e vedendo che vi regnava Edipo, aveva pregato Giocasta di mandarlo via dalla città, nei campi, a pascolare le greggi, per essere il più possibile lontano da Tebe. E lei aveva acconsentito, perché, pur essendo uno schiavo, meritava molto di più. Scoprendo l'esistenza di un sopravvissuto all'eccidio, Edipo ricomincia a sperare, e chiede di poterlo vedere. Giocasta dice che sarà fatto chiamare, ma anche lei vorrebbe conoscere gli affanni del marito. Egli si confida. I suoi genitori, o coloro che reputava tali, e che aveva sempre amato, erano il re e la regina di Corinto, Polibo e Merope. Là egli era considerato il più importante dei cittadini, prima che gli capitasse un fatto, che gli aveva procurato molto dolore. In un banchetto, un uomo completamente ubriaco, lo aveva chiamato falso figlio di suo padre. Edipo, il giorno dopo, turbato da quella rivelazione, si era recato dal padre e dalla madre, per chiedere spiegazioni a riguardo; essi mostrarono di essersi molto offesi per l'oltraggio di chi aveva osato pronunciare quella frase, e questo indubbiamente rassicurò Edipo, ma quelle brucianti parole rimasero da allora e per sempre nel suo cuore. Di nascosto dai genitori, si recò allora a Delfi, per interrogare l'oracolo, ma Apollo lo rimandò indietro senza la risposta per ciò che voleva sapere, predicendogli invece, una sorte terribile: si sarebbe sposato con sua madre, e avrebbe mostrato all'umanità una stirpe mostruosa, sarebbe inoltre divenuto assassino del padre che l'aveva generato. Udito ciò, disperato per l'orrendo futuro che l'attendeva, Edipo, orientandosi con le stelle, aveva lasciato per sempre la terra della sua infanzia, ed era fuggito dove il tremendo vaticinio, si augurava, non l'avrebbe mai raggiunto. Lungo la strada, all'incrocio fra le vie, gli si erano fatti incontro un araldo e un uomo, come gli era stato descritto da Giocasta, su un carro trainato da puledri, e il guidatore e lo stesso vecchio l'avevano spinto con arroganza fuori strada. Edipo, in un impeto d'ira, colpì il guidatore del carro, ma il vecchio, non appena lo vide passare a lato del veicolo, lo ferì con uno staffile a due punte. Ma pagò caro quel gesto, Edipo lo colpì a sua volta con il proprio bastone, ed egli cadde dal carro, dal quale venne poi travolto, tutti gli altri vennero uccisi. Il re termina il suo racconto, disperandosi sulle sue disgrazie, poiché poteva esserci evidentemente una connessione fra Laio e lo straniero. La sorte di Edipo potrebbe essere tragica, nessuno dopo tale delitto, lo accoglierebbe più nella sua casa, nessuno gli rivolgerebbe più la parola, egli dovrebbe andarsene lontano, colpito dalle sue stesse imprecazioni, solo e abbandonato da tutti, in esilio, senza più poter vedere la sua famiglia, senza poter tornare dai suoi genitori, col costante pericolo che si avveri quanto gli aveva predetto l'oracolo. Giocasta tenta in qualche modo di rassicurarlo, ricordandogli che ancora non è stata udita la testimonianza del pastore, ed Edipo ripone in lui tutte le sue speranze: se egli dovesse rivelare che furono in molti ad uccidere Laio, Edipo sarebbe innocente, in caso contrario, il delitto ricadrebbe su di lui. Giocasta lo rassicura che la prima di queste fu la versione allora data dal pastore, e che in ogni caso Laio sarebbe dovuto morire per mano di un suo figlio, cosa che non accadde, e perciò non si potrebbero tenere in conto le altre profezie. Detto ciò la regina fa chiamare il pastore, e i due regnanti rientrano nel palazzo.
Il coro inizia a cantare:
"Ah, se il Fato rendesse ogni mia parola e ogni mia azione pura e santa! Le sue leggi sublimi stanno alte nell'etere celeste, e l'Olimpo solo è loro padre: non le generò natura mortale di uomini, né mai l'oblio potrebbe farle tacere, un dio potente è in esse, e non invecchia.
L'arroganza genera i despoti, ma poi si empie follemente di molte cose non opportune e non convenienti, e giunta sulla cima di altissimi dirupi, subito precipita in abissi profondi.
Prego il dio di non interrompere la lotta per la salvezza della città, egli sarà sempre il mio difensore.
Ma se qualcuno, con i suoi atti o i suoi discorsi, dimostra superbia, senza temere Dike, dea della giustizia, e senza rispettare le sedi dei Numi d'Olimpo, mala sorte lo colga, per il suo orgoglio sciagurato, se cercherà ingiustamente guadagno, e non si asterrà da sacrileghi atti. Chi mai potrebbe trattenere il suo sdegno pungente nell'animo? Se infatti queste azioni verrebbero onorate, a cosa servirebbe il mio canto?
Non mi recherò più a Delfi, né al tempio di Abe, né ad Olimpia, finché gli uomini non saranno d'accordo su queste cose evidenti. E tu, Zeus, sovrano, poiché sei giustamente così chiamato, perché su ogni cosa regni, fa che nulla sfugga a te e al tuo potere in eterno immortale. Ecco infatti gli oracoli antichi su Laio vengono rifiutati, perché non ancora adempiuti, e in nessun luogo si onora Apollo con i dovuti onori."
Giocasta esce dalla reggia, seguita dalle ancelle che portano corone di fiori e vasi d'unguenti. Annuncia al popolo di Tebe di aver preso la decisione di recarsi ai templi degli dei, per portare le sue offerte. Edipo infatti continua a preoccuparsi con problemi e affanni di ogni sorta. Ora, dunque, le uniche speranze risiedono in Apollo, l'unico che potrebbe placare gli affanni di Edipo, che non pensa più a regnare sulla sua città. Giunge in quel momento un nunzio, che chiede indicazioni per arrivare al palazzo reale. Gli risponde il corifeo, indicandogli la reggia e la moglie del re. Il nunzio si rivolge a Giocasta, salutandola come si conviene ad una regina, le annuncia poi di portare buone nuove per Edipo, nuove delle quali però, il re potrebbe anche affliggersi. Suo padre Polibo è deceduto, e i cittadini di Corinto attendono Edipo per eleggerlo come nuovo re. Giocasta esulta, e manda un'ancella a chiamare il re: ancora una volta gli oracoli non dicevano il vero, il padre di Edipo è morto senza che il figlio l'abbia ucciso. Edipo esce da palazzo e chiede alla moglie perché lo abbia mandato a chiamare. Venuto a sapere che il vecchio re morì di malattia e di vecchiaia, Edipo si chiede il perché di quei vaticini, che non avrebbero valore, a meno che Polibo non sia morto di dolore per il figlio scomparso. Giocasta, trionfante, gli ricorda che lei aveva sempre sostenuto l'invalidità degli oracoli, ma Edipo teme ancora che si possa avverare la seconda parte della predizione, che gli preannunciava il matrimonio con sua madre Merope, che era ancora in vita. Il nunzio, non capendo di cosa si parli, chiede spiegazioni. Edipo gli racconta la sorte che gli predisse un tempo l'oracolo di Apollo, per salvarsi dalla quale, egli era fuggito dalla sua terra per rifugiarsi in paesi lontani. Il nunzio afferma di poter liberare il re dai suoi timori, svelandogli un segreto di cui è a conoscenza. Edipo fu portato ai re di Corinto dalle sue stesse mani, e da loro era stato adottato ed amato come il figlio che non avevano mai avuto. Dietro insistenza di Edipo, il messo racconta di aver trovato il bambino appena nato nelle valli del Citerone, mentre badava alle greggi montane. Il bambino aveva le giunture dei piedi legate e sanguinanti, e il pastore, avendone pietà, aveva slegato i lacci, e gli aveva dato come nome Edipo, "piede gonfio". Il re allora vorrebbe conoscere le sue origini, ma il Nunzio a questa domanda non sa rispondere, perché il bambino gli era stato dato da un altro pastore, certamente un uomo di Laio. Si trattava probabilmente, secondo il corifeo, dello stesso contadino che aveva assistito all'omicidio del vecchio re. Edipo ne chiede conferma a Giocasta, ma la donna sembra voler dissuadere Edipo dal ricordare il passato, e lo prega di non indagare oltre, perché lei ne soffrirebbe. Il re si convince che sua moglie tema di avere un marito dalle umili origini, e decide di continuare ad indagare. Giocasta lo supplica di ascoltarla, ma poi, con disperazione, gli augura di non ritrovare mai le sue origini, e detto ciò rientra nel suo palazzo. Il corifeo si domanda il perché di tale reazione, ma Edipo è convinto che sua moglie, superba come tutte le donne, si vergogni di avere un marito di umili origini.
Interviene nuovamente il coro:
"Se davvero io sono un buon profeta, dal pensiero sapiente, ed esperto delle vicende degli dei, o Citerone, domani tu sarai esaltato come patria e nutrice di Edipo; e noi ti celebreremo nei cori, perché tu gratifichi con una lieta sorte i nostri sovrani. E a te, o Febo, che guarisci dai mali, sia grato questo voto.
O figlio, quale tra le ninfe longeve ti generò, congiunta con Pan, che vaga tra i monti? O si unì forse con il nume che predice oracoli ambigui, al quale son care le contrade selvagge? O al dio Hermes il signore del monte Cilene? O ti ebbe Bacco divino, che abita le vette dei monti, da qualcuna delle ninfe Eliconie, con cui spesso si svaga? "
Quarto episodio
Entrano due servi conducendone un terzo, un anziano pastore. Edipo, vedendo il vecchio che gli viene condotto dinnanzi, ritiene che sia l'uomo che da tempo sta cercando, e ciò gli viene confermato dal corifeo, che lo riconosce come il pastore più fidato di Laio. Il re ne chiede conferma al nunzio, che a sua volta lo identifica come l'uomo che a suo tempo gli aveva consegnato il bambino. Interrogato, il vecchio pastore, ammette di essere stato uno schiavo di Laio, allevato in casa sua. Per tutta la vita aveva condotto le greggi, ed era vissuto sul Citerone, e nella regione circostante. Il nunzio gli ricorda i lunghi mesi che avevano trascorso insieme, sui monti, e il pastore lo riconosce, anche se dopo molto tempo. Ma quando il nunzio gli ricorda del bimbo che gli aveva donato perché lo crescesse come suo, il vecchio, sorpreso, gli ingiunge di tacere e di non parlare oltre. Ma dopo le minacce di Edipo, sebbene restio, confessa di avergli ceduto il neonato, e si lamenta di non essere morto quel giorno. Il bambino gli era stato dato da uno della famiglia di Laio, il vecchio non vorrebbe parlare oltre, ma Edipo minaccia di ucciderlo, ed egli ammette che si diceva che il bimbo fosse figlio dello stesso re, e che fu la stessa Giocasta a darglielo. Un vaticinio aveva infatti predetto che l'infante, una volta cresciuto, avrebbe ucciso suo padre. Il vecchio lo aveva donato al messo, perché lo portasse lontano, ma egli lo aveva salvato, e ora si scopriva che quello stesso bimbo era divenuto re di Tebe. Edipo comprende, i vaticini si sono avverati, egli fu generato da chi non doveva, e con chi non doveva si congiunse, e chi non doveva uccise. Detto ciò, disperato, rientra nel palazzo, seguito dai servi e dal nunzio.
Il coro intona:
"Ahi, generazioni dei mortali, simile è al nulla la vostra vita! Gli uomini trovano grande felicità nel credere di essere felici, ma non appena credono in ciò, la loro felicità scompare. Avendo come esempio, la tua, la tua sorte, o misero Edipo, la tua, posso capire come nessuna condizione umana sia davvero felice.
Tu, con grande abilità e con ambizione, avevi
volto lo sguardo ad un'ardua mèta, e avevi conquistato una grande felicità.
Avevi sterminato
Ma ora, chi si può dire più misero? Chi mai si ritrova ad avere la vita sconvolta a tal punto da affanni e sciagure? Ahi, glorioso Edipo, a quale infausto porto sei giunto! Ad un letto nuziale che ti vede insieme padre e figlio. Come ha potuto sopportarti così a lungo, disgraziato, la terra seminata da tuo padre?
Il tempo, occhio che tutto può vedere, ti ha scoperto, tuo malgrado. E ora giudica queste nozze, che nozze non sono, e dà dannazione al tuo letto, e a te figlio, che sei anche sposo. Ahi, figlio di Laio, mai, mai ti avessi conosciuto! Perché adesso mi dispero in questo cupo dolore, e verso lamenti dalla bocca: proprio io, che da te fui salvato, ora per mano tua muoio."
Esodo
Un nunzio esce da palazzo, e rivolgendosi ai cittadini, si lamenta della triste sorte della casa dei Labdacidi. Nessun sacro fiume potrebbe più lavare o purificare la reggia di Tebe, per tutto ciò che ha finora celato, e che presto verrà rivelato alla luce, disgrazie volontarie e involontarie, e soprattutto quelle liberamente scelte. Un'altra tragedia è da poco avvenuta: Giocasta è morta, e per sua stessa mano. Quando Giocasta comprese che le predizioni nefaste si erano avverate, in preda alla disperazione, subito si precipitò nella reggia, e, gettandosi sul letto nuziale, si strappò i capelli con entrambe le mani. Poi sprangò le porte, e invocò Laio, ormai da tempo scomparso, ricordando come dal frutto del loro amore egli stesso morì, lasciando poi lei a generare con suo figlio una terribile stirpe. E così gemeva sul letto, dove infelice aveva generato dal marito un marito, e dal figlio altri figli. E dopo, non si sa come, si uccise: infatti a quel punto era giunto Edipo gridando, e non era stato possibile assistere alla fine di lei, perché tutti gli sguardi si erano spostati su di lui, mentre si aggirava tra i presenti, supplicandoli di dargli un'arma, e chiedendo dove fosse la moglie, non a lui moglie ma madre, al tempo stesso sua e dei suoi figli. Il nunzio prosegue il suo racconto, ricordando come Edipo, certo ispirato da un nume, si era precipitato sulla porta sprangata, svellendo i battenti dai cardini, e lì un'orribile scena si era mostrata ai suoi occhi: Giocasta si era impiccata, strozzata con lacci attorti; ed egli, misero, non appena la vide, urlando terribilmente, allentò il cappio sospeso. Il corpo inerte della donna giacque a terra, uno spettacolo orribile a vedersi. Edipo, strappata la fibbia aurea che ornava le vesti di lei, la levò in alto sulla sua testa, e si colpì ripetutamente gli occhi, gridando che così non avrebbero visto né le sventure che soffriva, né quelle che provocava, e che ormai nelle tenebre non avrebbe visto più i suoi figli, e non avrebbe conosciuto i suoi veri genitori. E così gridando, stravolto dal dolore, continuava a colpirsi gli occhi, e le orbite sanguinanti bagnavano la barba, e non versavano liquide stille di sangue, ma rovesciavano una nera pioggia, un'orribile tempesta. E il nunzio conclude, dicendo che la terribile sciagura colpì l'uomo come la donna, entrambi, non uno solo dei due. La felicità antica era veramente tale, ma ora, in questo giorno tremendo, niente viene a mancare: pianto, sventura, morte, orrore, e quante altre sciagure possono avere un nome.
"E ora-, vuole sapere il corifeo,- l'infelice avrà qualche tregua dal male?"
Ma il nunzio fa sapere che il re ha dato ordine di aprire le porte, e di mostrare alla città l'uccisore di Laio, colui che dalla madre..
Edipo ha gridato altre orribili parole, dicendo di volersi esiliare dal paese, e che non rimarrà più a lungo in quella casa, maledetto dalle imprecazioni che lui stesso aveva lanciato.Eppure egli ha bisogno di un sostegno, di una guida, il suo male è troppo grande da portare. Ma ecco che si aprono i serrami della porta, lo spettacolo che apparirà sarà tale, da muovere a pietà i più spietati nemici.
Il nunzio smette di parlare, Edipo esce dalla reggia con il volto insanguinato, procedendo a tastoni.
Il coro intona:
"Oh, sofferenza, terribile a vedersi per i mortali, la più terribile fra quante io finora incontrai! Quale follia, o infelice Edipo, ti investì? Quale dio ti assalì, con questo tuo avverso destino?
Ahi, ahi, sventurato! Non posso nemmeno guardarti, né parlarti, pur volendo interrogarti molto, tale è il raccapriccio che susciti in me."
Edipo si dispera, non sa dove andare, non sa che fare, non sente più la sua voce, si lamenta del suo terribile destino. Una nuvola di tenebra, tremenda e immane lo sovrasta, infausta per lui: il tormento delle ferite che si è inflitto, e il dolore per il ricordo dei mali, sono troppo pesanti da sopportare. Il corifeo interviene, parlando ad Edipo, provando pena per il dolore e per la sofferenza che deve sopportare. Egli, nonostante la cecità, riconosce la sua voce, chiamandolo amico. Il corifeo vorrebbe sapere quale dio ha portato Edipo a compiere la terribile azione di spegnere per sempre i suoi occhi, ed egli dà la colpa ad Apollo per i suoi mali, il dio che gli aveva predetto quel terribile destino, non avrebbe più senso poter vedere, perché nulla sarebbe più dolce, dopo questi terribili avvenimenti. Vuol'essere portato via, lontano, al più presto, perché la città sia salva, nulla può più udire con gioia. Continua a lamentarsi della sua sorte: se nessuno l'avesse raccolto, se fosse morto il giorno stesso della sua nascita, non sarebbe ora divenuto assassino di suo padre, né sposo di sua madre. Ora è un sacrilego, con figli a sé uguali, il male più grande d'ogni male lo ha colpito. È certo di aver fatto la cosa migliore, essendo ora cieco, non potrà più vedere negli inferi sua madre e suo padre, verso entrambi aveva commesso atti, per i quali la morte non sarebbe bastata. Non voleva più vedere i suoi figli, né la città, né le mura, né le immagini sacre degli dei. Egli stesso diveniva vittima delle sue maledizioni, nessuno più avrebbe dovuto accoglierlo né rivolgergli la parola, non avrebbe esitato a otturare le proprie orecchie, se gli fosse stato possibile, sì da non vedere le cose turpi che aveva commesso. Ma poiché non bisogna dire ciò che non è bello fare, desiderava essere nascosto, o ucciso, o buttato in mare, da qualcuno che avesse voluto toccarlo, nonostante i mali che si portava dietro. In quel momento il corifeo annuncia l'arrivo di Creonte, l'unico custode del paese ormai rimasto. Edipo si rende conto di essere fino ad allora stato ingiusto nei confronti del cognato, e non sa come comportarsi. Creonte tuttavia non ha intenzione di rinfacciare ad Edipo il suo comportamento, ma non vuole che egli rimanga alla luce del sole, vuole che sia ricondotto in casa, perché solo i suoi parenti possano ascoltare i suoi mali. Edipo prega Creonte di essere mandato via il più presto possibile dalla città, dove non possa più parlare con nessuno. E Creonte l'avrebbe già fatto, ma desidera prima conoscere le decisioni degli dei a riguardo, egli sa bene che Apollo già si pronunciò, ma desidera chiarire meglio la questione. Edipo vorrebbe solamente affidare a Creonte quel che resta della sua famiglia. Chiede allora di seppellire il corpo di Giocasta nel sepolcro; vorrebbe restare a vivere sui monti, sul Citerone, che l'aveva visto nascere, è sicuro infatti che niente potrà ucciderlo, si era già salvato dalla morte, a causa della sua terribile sorte. Quanto ai suoi figli maschi, là dove avessero trascorso la loro infelice esistenza, avrebbero trovato di che vivere: Edipo si preoccupa invece delle figlie femmine, e chiede a Creonte di aver cura di loro, esprime poi il desiderio di poterle accarezzare un'ultima volta prima di essere esiliato. Proprio in quel momento, sente le figlie piangere, Creonte le ha fatte chiamare.
Le piccole Ismene e Antigone escono da palazzo, condotte da una schiava, e si avvicinano ad Edipo. Egli le chiama, dispiacendosi dello stato in cui si trova, invitandole a non spaventarsi. Piange anche per loro, sapendo che hanno davanti una misera vita, a causa della reputazione del padre. Così dicendo si lamenta per la sorte delle sfortunate, perché sa che mai potranno trovare marito. Prega Creonte di avere pietà di loro, e augura alle figlie un destino migliore del suo. Creonte lo invita allora a smettere di piangere e ad entrare in casa, ed Edipo acconsente suo malgrado, ma al patto che Creonte prometta di bandirlo definitivamente da Tebe.Egli è convinto infatti, di essere l'uomo più aborrito dagli dei, ed è sicuro di ottenere ciò che ha chiesto. Tutti entrano nella reggia. Parla il corifeo, rivolgendosi ai cittadini dell'antica Tebe: Edipo, colui che conosceva gli enigmi famosi ed era il più valente fra gli uomini, invidiato fino a poco tempo prima da tutti i cittadini per la sua sorte, ora è approdato ad un porto di terribili sciagure.
È vero: non si può dire che sia sereno nessun mortale che ha dentro la morte, e guarda verso di essa con occhi sbarrati. Deve oltrepassare l'ultima soglia, oltre la vita, prima di essere reputato tale, senza aver sofferto a causa delle ferite del male.
Personaggi
Edipo
È sulla figura di Edipo che la tragedia trova il suo significato.
L'Edipo Re è la storia di un uomo riconosciuto come uguale agli dei dal punto di vista degli uomini, ma pari a nulla, cieco, per gli dei. L'arte di Sofocle di accentrare il dramma attorno ad un unico personaggio, trova in quest'opera il suo culmine, mostrando tutti gli aspetti dell'uomo. Tutta la tragedia è incentrata sul protagonista, ed è volta svelarne la natura profondamente drammatica. Edipo risulta essere l'eroe tragico per eccellenza, precipitando dal gradino più alto alla condizione più misera.
La figura di Edipo è quella del cieco per antonomasia: egli vede la luce solo per un breve momento, e, dopo averla scorta, ritorna alle tenebre accecandosi con le sue mani. Cieco prima, poiché pur vedendo non si accorgeva della sua situazione, e cieco poi, poiché pur conoscendo, non poteva vedere le cose che sapeva.
Edipo viene condotto dall'autore al più basso grado di abiezione e di miseria, per poi essere risollevato attraverso la compassione; gli vengono attribuiti i delitti più orrendi per poi essere compianto nella rovina. Fin dal suo apparire, la figura di Edipo è una continua contraddizione. Egli, l'accorto, l'esperto, non vede nulla, non si accorge di quanto gli accade intorno. Non si rende conto della sua situazione, finché non gli viene mostrata in ogni particolare: sembra quasi non voler credere a ciò che sente, si ostina a rifugiarsi nell'ottusità e nell'ignoranza. Dopo essersi accecato, vorrebbe turarsi per sempre le orecchie, per non dover sentire, dice, suoni che non gli portano più alcuna felicità, ma sembra invece che non voglia avere alcun contatto con la tremenda verità. Anche quando questa gli appare chiara, per lui è talmente incomprensibile ed assurda, da portarlo ad un gesto che lo renda cieco, come se così gli potesse essere più facile il non vederla. Le sue parole, inoltre, nascondono, sotto la riaffermazione di questo concetto dell'errore che acceca l'eroe, delle verità indirettamente rivelate all'intuizione del pubblico. È in queste parole che si può evidenziare l'ironia tragica sofoclea: Edipo le pronuncia senza badarci, ma esse si rivelano alla fine, profetiche. Un tempo amato e potente signore, Edipo, alla fine del dramma, rivela di essere una creatura misera e mostruosa, cieco alla realtà quando i suoi occhi vedevano, scopre le trame del destino nel momento stesso in cui la sua vista si spegne. Trionfatore sugli arcani della sfinge, resta sordo alle allusioni che tutti intorno a lui hanno dolorosamente compreso. Edipo è il simbolo dell'impotenza dell'intelletto umano che si macchia di colpa nel tentativo di superare sé stesso, e che perciò viene duramente punito. Nel suo destino si attua la tragica caduta da una posizione di suprema felicità, alla misera follia dell'impotenza, ed è proprio nel fatale momento della comprensione che coincide il suo annientamento. La sua colpa non sta tanto nelle sue azioni, che per quanto siano delittuose non sono volute, quanto nella sua tensione alla conoscenza. Edipo pretende di sapere ciò che non gli era stato concesso, e a contatto con la conoscenza cade, annientato dalla durezza della verità.
La figura di Giocasta, è molto simile a quella di Edipo, ma rivela una più spiccata capacità di comprensione. Mentre Edipo comprende solo alla fine la verità, quando questa gli viene rivelata in tutte le sue sfaccettature, Giocasta comprende molto prima, e solo attraverso un piccolo particolare, insignificante agli occhi di Edipo: il bambino da lei consegnato al pastore affinché l'uccidesse, aveva i piedi legati, così come quello ricevuto in dono dal nunzio sul Citerone. Giocasta sa di essere stata punita soprattutto per la sua alterigia. Ella, a differenza di Edipo, non teme nel modo più assoluto gli oracoli, e non si preoccupa di ciò che predicono, è assurdamente sicura di essere sfuggita al destino, uccidendo il neonato da lei generato. Ma il destino, come si sa, nella concezione greca è ineluttabile, inevitabile. E Giocasta paga la sua presunzione in un modo atroce. Non può immaginare cosa ha in serbo il Fato per lei, non può lontanamente pensare che il passato di Edipo sia irrimediabilmente intrecciato con il suo. Così, quando Edipo le rivela l'oracolo infausto, non si preoccupa minimamente per se stessa: suo figlio è morto da tempo in fondo ad un dirupo. Alla fine la sorte colpisce entrambi, atrocemente, la donna e l'uomo, indistintamente, come tutto il genere umano, e sempre entrambi sono puniti, l'uno con la privazione della luce, poiché neanche quando vedeva era stato capace di scorgerla, e l'altra con la privazione della vita, la stessa che aveva cercato di togliere.
Significativa la figura dell'indovino Tiresia: benché compaia esclusivamente nel primo episodio, la sua voce e la sua predizione permeano tutta la tragedia. Egli è l'unico a conoscere interamente il passato e il futuro, e sa anche quanto il suo sapere e la sua arte profetica gli siano d'intralcio in questa situazione. Come tutti quelli che vengono a sapere come stanno le cose, Tiresia si rifiuta di parlare, di svelare il colpevole. Ma Edipo, nella sua presunzione di ignorante, non ascolta le suppliche del vecchio, e, con male parole, lo costringe a parlare. Ed egli parla, ma non tanto per voler salvare la città dalla tremenda situazione, quanto per esasperazione. E ovviamente Edipo non ascolta le sue parole, perché così dev'essere ai fini della trama, perché la tragedia possa compiersi in modo ancor più drammatico. Edipo anzi si stupisce del perché il suo nome non sia mai stato fatto prima, e una prima risposta potrebbe essere il fatto che Tiresia non abbia voluto parlare, per timore che in futuro qualcuno risalisse a lui, e lo accusasse di aver diffamato Edipo. Ma la verità in questo caso non ci è dato di saperla.
In realtà la figura di Creonte nell'Edipo Re è molto più marginale rispetto alle altre due tragedie che trattano della stirpe dei Labdacidi. La sua funzione nell'Edipo Re è inizialmente quella di messo, annunciatore dell'oracolo di Apollo, poi quella di antagonista di Edipo, visto come cospiratore agli occhi del re, e infine, in un certo senso, e colui che provvede ad attuare le decisioni dell'oracolo. Edipo si convince della sua colpevolezza soprattutto perché è Creonte che lo convince a chiamare l'indovino che gli fornirà la profezia infausta. Creonte però riesce a dimostrare la propria innocenza, ed Edipo, non trovando altri a cui poter attribuire la colpa per il tremendo vaticinio, continua ad accusarlo ingiustamente, e minaccia addirittura di mandarlo a morte. Ma pagherà alla fine questa sua arroganza, quando risulteranno chiare l'innocenza di Creonte, e la sua colpevolezza. Tuttavia, sempre nella parte finale, anche il personaggio di Creonte sembra acquisire una certa altezzosità, data forse dal trionfo della verità, che lo premia, mettendo in cattiva luce il re. Nell'ultima parte sarà Creonte ad assumere su di sé il comando della città, e la sorte di Edipo dipenderà da lui, la tragedia si chiude però, senza che il verdetto sia stato emesso.
COMMENTO
Le tragedie tebane, ossia relative alla saga dei Labdacidi, non costituiscono una trilogia,come a volte impropriamente si denomina il complesso. Esse vennero composte e rappresentate da Sofocle separatamente, a distanza di decenni: né la loro successione cronologica riflette il corso degli avvenimenti del mito. Infatti, la più antica, è l'Antigone, che rappresenta l'episodio conclusivo della storia; venne poi l'Edipo Re; infine l'Edipo a Colono fu l'ultima tragedia sofoclea. Si tratta, dunque, di opere indipendenti l'una dall'altra, anche se è possibile notare alcuni richiami a distanza, dalle opere posteriori alle precedenti, peraltro relativi solo alla ripresa di alcuni dettagli, volta per volta ribaditi e corretti.
La prima fase
storica del mito di Edipo e della sua stirpe era rappresentata da due poemi
epici del cosiddetto ciclo tebano, l'Edipodia e
L'Edipo Re è il sommo esempio dell'arte tragica greca. Nella sua struttura i colpi di scena e i personaggi si dispongono al di fuori del normale fluire degli eventi, e sono volti a mettere in risalto la figura e il destino di Edipo. Accade allora che, ad esempio nei lunghi anni del suo regno a Tebe, Edipo non abbia mai avuto notizie sull'uccisione di Laio; ancora più illogica è l'ottusità di Edipo di fronte a rivelazioni che si intrecciano in trasparente chiarezza. Tuttavia, è proprio grazie a queste incongruenze che viene esaltato il personaggio tragico di Edipo.
L'intero dramma è formulato in base all'enigma: la vicenda ha inizio con la vittoria dell'ingegno di Edipo sul quesito della Sfinge, e si conclude con la sua rovina nel momento in cui riesce a svelare un secondo enigma, quello della sua identità.
L'opera potrebbe avere come significato simbolico la natura indecifrabile dell'umanità: i suoi rapporti con le divinità sono oscuri, come anche i motivi del suo agire.
L'Edipo Re ha inizio quando Edipo è già da tempo re di Tebe: ma il motivo che l' ha portato ad assumere l'importante carica, viene svelato per gradi, attraverso velate allusioni. La vera storia di Edipo ha in realtà inizio in un tempo molto più lontano, ed è caratterizzata da un andamento ciclico, che lo vede nascere a Tebe, per poi lasciare la città e farvi ritorno, inconsapevole delle proprie origini, solo in età adulta.
La tragedia si apre, con il prologo, davanti alla reggia di Edipo, a Tebe: la città è devastata da un'epidemia, della quale non si conosce l'origine. Indubbiamente si tratta di una punizione divina per una colpa della popolazione. In questo modo viene introdotto dall'inizio il tema della punizione dell'errore umano, ad opera della divinità, il cui volere è imperscrutabile, attraverso una catastrofe naturale: ogni evento nella vita dell'uomo viene ad assumere un preciso significato all'interno del piano di esseri superiori, nulla avviene per caso. E questo è dimostrato anche dal fatto che l'unica soluzione che Edipo riesce a trovare al problema, dopo aver a lungo meditato, è quella di richiedere un responso all'oracolo di Delfi.
Il quadro iniziale della situazione viene reso alla perfezione, attraverso il dialogo tra Edipo e l'anziano sacerdote di Zeus: la visione della città di Tebe, piegata dalla peste, appare nitida e chiara, evocata dalle parole del sacerdote, in un passo altamente poetico e commovente. Sempre in questo tratto viene fatta la prima allusione alla vittoria di Edipo sulla Sfinge, mai citata direttamente, che qui viene definita con un eufemismo "dura cantatrice". Il popolo si rimette completamente alle decisioni di Edipo, migliore fra i mortali, per essere salvato da lui una seconda volta. Eppure è proprio la saggia decisione del re, che segnerà l'inizio della sua fine. Creonte, fratello della moglie di Edipo, inviato a chiedere il vaticinio, ritorna con il responso.
Febo ha ordinato di cacciare dal paese il contagio nutrito in quella terra, sottoforma di un uomo, o meglio, un assassino: l'uccisore di Laio. La storia dell'assassinio viene raccontata attraverso uno scambio di battute fra Edipo e Creonte; tuttavia non è ancora resa nei minimi particolari: verrà infatti svelata col procedere della tragedia, parallelamente alla rivelazione della vera identità di Edipo.
Sempre in questo dialogo vengono alla luce le prime tracce dell' "ironia tragica" di Sofocle, volta a svelare il terribile destino che attende Edipo, sempre attraverso enigmi e allusioni che risulteranno chiari solo alla fine. Si può anche dire che su questa tragica ironia si basa lo stesso evento scatenante della tragedia, poiché, se la città non fosse stata sconvolta dalla peste, Edipo probabilmente, nonostante la sua lunga permanenza a Tebe, non si sarebbe mai interessato della morte di Laio, e non avrebbe mai scoperto la sua vera identità, questa è ovviamente una coincidenza al di fuori della logica e della realtà umana. È opportuno citare sempre a proposito di quest'aspetto ironico della tragedia, il passo in cui Edipo afferma di sapere dell'assassinio di Laio, ma di non averlo mai visto, poiché quando giunse in città egli era già morto da tempo: egli non può ancora immaginare cosa gli riserva la sorte, non sa di essere la causa del male che affligge Tebe, e, di conseguenza, non può notare la concordanza cronologica fra la morte di Laio e il suo arrivo a Tebe; come afferma Creonte poco dopo: ciò che si cerca si può prendere, ma sfugge ciò che è trascurato. Fondamentalmente ironico, anche se grottesco, il passo in cui Edipo si nomina difensore di Laio, e si propone di scovare ad ogni costo il suo assassinio: chiunque infatti fu ad uccidere Laio potrebbe voler uccidere anche Edipo, e dunque in questa lotta saranno due le possibili soluzioni, "o saremo vittoriosi, o cadremo".
Entra a questo punto il coro, che apre con una splendida invocazione alle divinità olimpiche, affinché si coalizzino per scacciare dalla loro terra Ares, latore non solo di guerre, ma anche di malattie e affanni. Drammatico e commovente il lamento accorato, nel quale si ricorda la triste sorte dei cittadini di Tebe, che muoiono l'uno dopo l'altro, e come alati uccelli,si precipitano alla riva del dio d'occidente, ossia la riva dell'Acheronte, poiché, secondo la concezione omerica, l'Ade è collocato all'estremo limite occidentale della terra.
Il primo episodio,
ha inizio con un lungo monologo di Edipo, in cui ancora una volta si esplica in
modo evidente l'estrema tragicità della sua figura. Egli promette a chiunque
riveli qualcosa sulle oscure circostanze della morte di Laio, una ricompensa,
ma si schiera contro coloro che, pur sapendo, tacciono. Edipo prosegue,
lanciando invettive all'indirizzo del colpevole, maledicendolo, e augurandogli
ogni male. Quanto amaramente si pentirà in seguito, di quelle parole
pronunciate senza sapere! L'intreccio comunque prosegue. Spinto dalle parole di
Edipo, il corifeo, ossia il più importante membro del coro, che assume nel
contesto un ruolo di vero e proprio personaggio, è indotto a parlare, e pur non
sapendo nulla riguardo alla morte di Laio, si stupisce del fatto che Apollo non
abbia svelato nel suo oracolo l'identità dell'assassino: Sofocle si serve
dell'imperscrutabilità del volere divino, per spiegare il perché di questa
lacuna nella profezia, lacuna che è ovviamente funzionale allo sviluppo della
tragedia, la trama, infatti, sarebbe venuta a mancare se Edipo avesse scoperto
subito la verità sulla sua condizione. Il corifeo suggerisce anche al re di
mandare a chiamare l'indovino Tiresia. Ancora una volta Edipo dimostra un
grande spirito di iniziativa, e una grande intelligenza, avendo già provveduto
anche a questo. Mentre si aspetta l'arrivo del vate, il dialogo fra il re e il
corifeo prosegue, e si rivela un'altra versione della vicenda, secondo la quale
sarebbero stati dei viandanti ad uccidere il vecchio sovrano, versione non
attestata però, data la sparizione, peraltro abbastanza inverosimile,
dell'unico testimone al delitto, che incredibilmente era sopravvissuto ed era
riuscito a giungere a Tebe, solo dopo che Edipo aveva sconfitto
Nel secondo episodio, entra in scena Creonte, che ha appena saputo dell'ingiusta e alquanto improbabile accusa di Edipo, che, non sapendo con chi prendersela per l'infausto vaticinio di Tiresia, ha ritenuto che il cieco doveva essere stato mandato indubbiamente da qualcun altro, e chi poteva essere il mandante se non Creonte, avido di potere e di ricchezze? Naturalmente egli trova a dir poco offensive queste accuse, e cerca Edipo per chiederne ragione, non stando a sentire il corifeo che tenta di spiegargli che quelle parole del re furono dettate dall'ira del momento. Edipo appare sulla soglia della reggia, e, vedendo Creonte, non esita a trattarlo da impudente e sfacciato, vantandosi di essere stato eletto re con l'acclamazione dei tebani, un consenso che Creonte non avrebbe mai potuto ottenere. Creonte vuole difendersi dalle accuse rivoltegli, ma Edipo, ancora chiuso nella sua ottusità, non vuole sentire ragioni, e dichiara che l'onta arrecata, dovrà essere lavata col sangue. Edipo è assurdamente convinto della colpevolezza di Creonte, perché quest'ultimo l'aveva convinto che sarebbe stato necessario l'aiuto dell'indovino, lo stesso che poi l'aveva umiliato e oltraggiato. Inoltre Edipo si è accorto che l'indovino non ha mai parlato prima di lui, neanche ai tempi della morte di Laio, perciò qualcuno doveva avergli suggerito di incolpare il re. Ma Creonte, con logica e persuasione, fa notare ad Edipo che non gli sarebbe servito organizzare una tanto complicata messa in scena, per ottenere qualcosa che in fondo già possedeva. Egli infatti è allo stesso livello di Edipo e Giocasta nella gerarchia sociale di Tebe, e non avrebbe avuto nessun senso comportarsi da vile per avere un potere di cui poteva ampiamente disporre. Ma l'arroganza di Edipo non cede ancora, egli vuole ottenere la morte di Creonte, per potersi togliere il peso dal cuore che lo tormenta: trovare un colpevole a cui attribuire l'invenzione del tremendo vaticinio. Se infatti non si trovasse un altro colpevole, bisognerebbe accettare la verità delle parole di Tiresia, ed Edipo dovrebbe esiliarsi da sé. A interrompere la contesa interviene Giocasta, appena uscita dalla reggia. Ella rimprovera i due con fare materno, come per riportare la pace fra bambini capricciosi, ricordando il grave lutto che affligge Tebe, dinnanzi alla salvezza della quale le vicende personali non hanno più senso. E come bambini ostinati rispondono Edipo e Creonte, che non vogliono cedere sulle loro opinioni. La discussione si interrompe quando il re scaccia l'altro, come già aveva fatto con Tiresia. E Creonte, obbedendo controvoglia al volere del sovrano, si allontana.
Giocasta però, rimasta sola con Edipo, stenta a ricondurlo nel palazzo. Vuole sapere qual è stato il motivo che ha scatenato la sua ira. Giungiamo così, ad un altro evento chiave nella tragedia: la regina viene a sapere dell'infausta profezia, e, per dimostrare che nessun essere mortale possiede un'arte profetica, racconta ad Edipo dell'oracolo che un tempo Laio aveva ricevuto, oracolo che poi era risultato assurdo, perché lui era stato ucciso da briganti, e il figlio che avevano avuto era ormai morto, gettato da un dirupo con le caviglie legate. Ella non sa, né può sapere, a quali conseguenze porterà la sua rivelazione. La storia di Edipo comincia a prendere forma, concatenandosi con quella dei suoi genitori. Eppure il re non sembra notare la somiglianza fra le due previsioni, non si accorge che, come a lui era stata predetta l'uccisione del padre, un altro oracolo aveva profetizzato a Laio la sua morte per mano di un figlio. Edipo non può capire, è ancora convinto che i suoi genitori si trovino a Corinto, non ha più pensato alle parole brucianti che una volta gli erano state rivolte, secondo le quali egli non era il figlio dei re della regione dell'Istmo. Egli presta attenzione non alla profezia, ma ad un altro particolare rivelatogli dalla moglie, secondo il quale il suo primo consorte era stato ucciso ad una convergenza fra tre strade. Il particolare gli fa rivenire alla memoria un fatto accaduto tempo prima e, chiedendo altre informazioni sulle circostanze della morte di Laio, si convince sempre di più di aver già vissuto la vicenda: questo è forse l'unico caso nel quale Edipo collega immediatamente i due avvenimenti, e forse ciò è dato dall'angoscia che ancora pervade il suo animo dopo il dialogo avuto con Tiresia. Significativo risulta essere il passo in cui Giocasta, descrivendo Laio, dice, rivolta ad Edipo: la sua figura non differiva molto dalla tua, naturalmente Edipo non ci bada, ma Sofocle ci vuole far notare come padre e figlio si assomigliassero anche nella corporatura. La trama prosegue. Dietro insistenza di Giocasta, Edipo racconta finalmente la sua storia, come lui la conosce. Turbato dalle parole dell'uomo che a una festa lo aveva chiamato falso figlio di suo padre, si era recato a Delfi, per avere una risposta, ma qui gli era stata fatta un'altra profezia e, a questo punto, sembra strano che Edipo, parlandone, non noti che si tratta della stessa fattagli da Tiresia, ma così dev'essere, perché alla fine risulti più evidente la dimensione tragica della vicenda. Dopo la sfortunata profezia, egli fuggì, e arrivando all'incrocio fra le strade, incontrò un carro guidato da un vecchio, accompagnato da altri cinque uomini. Questi l'aveva sospinto con arroganza al lato della strada, ferendolo con uno staffile. In risposta Edipo, colto dall'ira, aveva ucciso lui e tutti i suoi compagni. Qui interviene nuovamente Giocasta, sempre convinta di fare il bene di Edipo, affermando che uno degli uomini di Laio si era salvato dalla strage, e costui, arrivando a Tebe, proprio quando Edipo era stato appena eletto, aveva raccontato che l'aggressione era avvenuta ad opera di briganti, ed aveva poi pregato la regina di essere mandato via dalla città. Ancora una volta Edipo intravede la speranza, ma non vede il significato nascosto nelle parole della moglie: il vecchio è l'unico altro uomo, come si scoprirà in seguito, oltre a Tiresia, a sapere tutto della vita di Edipo, o quasi. Egli sa infatti che il bambino nato da Giocasta e da Laio si era salvato, e sa anche che il colpevole della morte di Laio è colui che, dopo averne sposato la vedova, è divenuto il re di Tebe. L'unica cosa che il vecchio ancora non sa, è il fatto che il bimbo e il re sono la stessa persona, cosa che gli verrà svelata in seguito. Edipo in lui vede solo la salvezza: se costui testimonierà ancora una volta la sua innocenza, il re potrà continuare a regnare indisturbato. Egli non immagina quale altro stratagemma ha ideato il destino per attuare i suoi progetti.
I due coniugi, inconsapevoli, rientrano in casa, decidendo di mandare a chiamare più tardi il testimone. Entra a questo punto il coro, che innalza agli dei una protesta. Nessuno più rispetta gli oracoli, tutti con arroganza disprezzano i vaticini: anche questo canto appare come una forma di profezia, la punizione per coloro che non temono gli dei è vicina.
Si apre il terzo episodio, Giocasta esce dalla reggia, accompagnata dalle ancelle, intende recarsi ai templi degli dei, per portare offerte votive. Giunge in quel momento un nunzio, chiedendo indicazioni sul palazzo reale, il corifeo gli indica Giocasta come la regina. Egli la informa che è deceduto il re di Corinto, Polibo, padre di Edipo, e lei, felice, manda a chiamare il consorte. Se solo la sventurata sapesse che altre notizie porta il messo, di certo non si rallegrerebbe, né lo accoglierebbe a braccia aperte. Secondo le notizie, Polibio era morto di malattia, il vaticinio perciò, a quanto sembra, non ha valore. Giocasta ne era certa: così come non si erano avverate le previsioni su di Laio, anche quelle che riguardavano il nuovo re erano risultate vane. Ma Edipo teme ancora che si avveri la seconda parte del vaticinio, che lo vedeva sposo di sua madre. Il nunzio, rimasto in disparte fino adesso, non comprende ciò di cui si parla e chiede spiegazioni a riguardo. Edipo ancora una volta non sa a cosa va incontro confidando le sue pene, perciò racconta della profezia che da tempo lo perseguita e lo affligge. Il nunzio, credendo di liberare Edipo dalle sue sofferenze, gli rivela che in realtà Polibo non era suo padre, e spiegandogli ciò pronuncia parole che scateneranno un'altra serie di terribili rivelazioni: dalle mie mani, sappi, ti ebbe in dono.Inizia così un lungo dialogo nel quale, parola dopo parola, la storia di Edipo si va lentamente delineando. Il nunzio era stato pastore sul monte Citerone, e là aveva ricevuto in dono un bimbo in fasce, con le caviglie legate. Ecco il particolare che fa trasalire Giocasta, i collegamenti sono chiari: Edipo era il suo stesso figlio, quello che aveva tentato di uccidere perché non si avverasse il destino che a Delfi era stato predetto a Laio. E tuttavia, Edipo non sembra ricordare il particolare che Giocasta gli aveva riferito; la sua mente è ancora ottenebrata da un velo di stoltezza. Egli vuole unicamente scoprire le sue origini, il desiderio di sapere prevale ancora una volta sul buon senso. Edipo scopre che il nunzio aveva ricevuto il neonato dalle mani di un altro pastore, e il corifeo gli rivela che si tratta indubbiamente dello stesso contadino che aveva assistito ed era sopravvissuto all'eccidio di Laio e dei suoi compagni. Interviene nuovamente Giocasta, cercando di impedire ad Edipo di continuare ad indagare. La scena è drammatica: Giocasta sa tutto quello che deve sapere e per questo soffre. Conosce la caparbietà di Edipo, sa che nulla potrà fermarlo, eppure tenta, pur sapendo che i suoi tentativi sono vani. Il desiderio di sapere di Edipo lo porterà alla rovina: così gli dei puniscono chi non si vuole appagare delle rivelazioni concesse allo sguardo umano. Edipo non comprende le vere intenzioni di Giocasta, si convince anzi che la donna voglia impedirgli di trovare le sue vere origini, che potrebbero essere umili. Per questo decide di proseguire, non sapendo a cosa va incontro, affermando: tale è la mia origine: e non potrei venirne fuori diverso, così da non conoscere la mia nascita. Interviene ancora il coro: probabilmente l'indomani il Citerone verrà esaltato come patria di Edipo, forse figlio delle ninfe, congiuntesi ad una divinità.
Inizia il quarto episodio. Il pastore viene condotto alla presenza di Edipo.
Gli anziani lo riconoscono, è l'uomo di fiducia di re Laio, anche il messo corinzio, interrogato, conferma, è l'uomo che gli ha affidato il bambino. Edipo si rivolge al servo, e anche questi ammette di essere stato uno dei servitori più fedeli di Laio, ma non riconosce il nunzio di Corinto. Quest'ultimo gli ricorda di quando pascolavano insieme le greggi sul monte Citerone, e il pastore allora inizia a ricordare. Ma quando poi il nunzio parla del bambino, dicendo "Ecco, questo è il bimbo di allora", il pastore, dopo un attimo di smarrimento, comprende tutto, l'ultimo tassello è al suo posto, tutto è chiaro, ma ormai è troppo tardi, non può più negare, non può più nascondersi: il segreto che per tanti anni aveva custodito, la sua disobbedienza, è venuta alla luce. Guarda Edipo con orrore. Guarda il corinzio gridandogli di porre freno alla sua lingua. Non vuole più parlare, vuole andarsene, ma non c'è niente da fare, dietro le minacce di Edipo è costretto a confessare: il bambino gli era stato dato da un membro della famiglia di Laio, la stessa Giocasta, e si diceva che fosse figlio suo. Edipo finalmente comprende, il velo dell'ottusità e dell'ignoranza si squarcia, vede la luce, ma quanto è doloroso vedere il sole dopo una vita passata nell'oscurità!
Le sue parole sono dolorose e strazianti, la tragedia ha trovato compimento nella verità: O luce, che io ti veda per l'ultima volta, io che fui generato da chi non dovevo, e con chi non dovevo mi congiunsi, e chi non dovevo uccisi!
E inizia il quarto stasimo del coro, doloroso: Ahi generazioni di mortali, come pari al nulla la vostra vita io calcolo! E mai parole furono dette più a proposito. Edipo, invidiato da tutti, uomo più felice sulla terra, ora, a quale triste porto con la verità è giunto; meglio allora non sapere e restare felici, piuttosto che angustiarsi sapendo. Ma con queste parole Sofocle denigra la natura umana, volta al sapere e alla conoscenza: è la ragione dopotutto che distingue la razza umana, l'apprendimento, la tensione verso il sapere. Inoltre in questo passo risulta evidente come, nella concezione sofoclea, nessuna condizione mortale sia felice. Viene ribadito il concetto secondo il quale l'essenza della tragedia si ha nell'annientamento di una vita felice, che viene precipitata nella condizione più misera e sventurata. Il canto diviene dunque un lamento per la sorte di Edipo, ora reietto, e inviso alle genti tebane, che prima con lui trovarono la salvezza, e ora ricadono nel nero abisso della morte.
Ha inizio l'ultima parte della tragedia, l'esodo. Esce dal palazzo un altro nunzio, e, rivolgendosi al popolo tebano, si appresta a raccontare le disgrazie della casa dei Labdacidi. La notizia più rapida da dire e da apprendere è che è morta la nobile Giocasta. La donna, dopo aver compreso in quale sciagura si era venuta a trovare, era subito scappata via. In preda alla disperazione era entrata nel palazzo, e si era gettata sul letto nuziale, stappandosi i capelli con entrambi le mani. Nessuno però aveva potuto assistere alla sua fine, poco dopo infatti era giunto Edipo, gridando che gli dessero un'arma. A quel punto però, notando i battenti sprangati della camera nuziale, Edipo si era precipitato sulla porta, scardinandola con forza. La scena successiva corona in modo atroce la tragedia: all'interna della stanza i presenti scorgono la donna impiccata; Edipo, folle di dolore, allenta il cappio che stringe il suo collo. Il corpo esanime giace a terra, Edipo si getta su di lei, strappa dalle sue vesti la fibbia aurea di cui era adorna, la leva in alto e colpisce ripetutamente i suoi occhi, che così non avrebbero visto né le sventure che soffriva né quelle che provocava.Con questo passo drammatico si compie la profezia di Tiresia: la tragedia di Edipo si concentra nella sua cecità, mentre prima vedeva e non si accorgeva delle sue sciagure, ora, pur sapendo, non è più in grado di vedere. Edipo sa che in questo modo non avrebbe visto mai più quelli che non doveva,ovvero i suoi figli, né avrebbe conosciuto quelli che desiderava, ovvero i suoi veri genitori, poichè temeva di incontrarli, una volta morto, nell'oltretomba. Il nunzio prosegue annunciando l'ordine di Edipo di mostrare ai tebani l'uccisore del padre, ma per scrupolo di verecondia omette di pronunciare il resto. Edipo è ormai maledetto dalle sue stesse imprecazioni, ma ha ugualmente bisogno di un sostegno che lo aiuti: il suo male è troppo grande da portare. In quel momento egli appare sulla soglia del palazzo, con il volto insanguinato, procedendo a tastoni. Questa visione suscita l'orrore e la pena dei presenti. Edipo è vittima del Fato, che lui identifica in Apollo: l'ineluttabilità del destino si fonde qui nell'imperscrutabile volere divino. Edipo si pente solo ora di aver voluto sapere ciò che non gli era stato concesso, e in un lungo monologo enumera i suoi mali e le sue disgrazie, invocando i luoghi e le persone che gli avevano arrecato tanta sofferenza.Giunge allora Creonte dicendo di non volergli rinfacciare le offese subite; in realtà con il suo comportamento dimostra ben altro. Le sue parole sono animate dalla stessa arroganza che prima permeava i discorsi di Edipo: rimprovera i tebani di mostrare alla luce del sole il corpo del re, devastato dai suoi mali, e ordina di ricondurlo in casa . Edipo chiede allora di essere esiliato per poter salvare la città dalla devastazione dell'epidemia e prega Creonte di condurgli le figlie perché le possa salutare un'ultima volta. Le sue parole possiedono una tristezza infinita e una cupa rassegnazione: sa che cosa l'attende, pagherà per aver voluto troppo sapere. La scena finale è altamente commovente, nell'incontro tra Edipo e le sue due figlie è posto in risalto l'amore dell'uomo e la tragica condizione in cui si viene a trovare: egli non sa più come rivolgersi alle figlie, non sa se considerarle come sorelle sue pari. Anche Creonte sembra commosso dalla triste sorte di Edipo, e preso da pietà accetta di prendersi cura delle bambine prendendo la mano del re. Tutti rientrano nella reggia. Il dramma ha trovato la sua conclusione: nessun mortale può essere ritenuto veramente felice prima che abbia trascorso il suo ultimo giorno senza aver sofferto nulla di doloroso.
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