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Rosso Malpelo e La roba: l'etica del lavoro




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Rosso Malpelo e La roba: l'etica del lavoro


La novella rosso Malpelo è basata su un procedimento antifrastico, basato sull'accettazione esteriore del giudizio che la collettività ha di Rosso. Subito all'inizio l'affermazione esprime una convinzione che al lettore non può non sembrare paradossale, e che quindi viene capovolta per ristabilire la realtà umana del personaggio:

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone

La novella continua sullo stesso tono anche dopo:

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico

Ma bisogna vedere se il comportamento di Rosso è la causa per cui nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, o non ne sia piuttosto l'effetto.

Rosso è considerato peggio di una bestia perché è di razza cattiva: il padre, mastro Miscu, veniva chiamato Bestia ed era morto perché non aveva capito la pericolosità del lavoro che stava affrontando, ma contro l'opinione della collettività acquista rilievo la reazione di Rosso alla morte del padre:

Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero

In questo atteggiamento si vede sì l'animalità del comportamento del ragazzo, ma anche il suo affetto sincero per il padre. La collettività esprime poi l'insensatezza della ricerca del padre, fino ad arrivare a stravolgere la devozione del figlio, facendogli sentire la voce del diavolo al posto di quella del padre e usando come prova della sua cattiva indole il rifiuto di mangiare che è invece testimonianza di un sentimento inconsolabile:

Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio

Poi i paragoni animaleschi che fin qui avevano degradato l'umanità del ragazzo, passano a celebrarla sempre più, con un tono di maggior rispetto e di comprensione:

Tutti [lo]  schivavano come un can rognoso

Andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari

Si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi

Rosso viene prima paragonato a un cane randagio che è l'immagine di una disponibilità naturale agli affetti familiari che viene però frustrata e capovolta in selvatichezza rabbiosa; un secondo paragone è quello con l'asino da soma che simboleggia un destino di fatica assoluta come una condanna immotivata e inappellabile. Quando entrambi gli animali sono affiancati si ha un definitivo chiarimento della condizione del ragazzo, con l'inserimento di un terzo elemento animalesco, gli occhiacci di gatto:

Egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persino nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono

Ma l'umanità di Rosso non è perduta, si vede la vittoriosa resistenza che lui oppone alle offese dei bruti, anche se ciò si esplica solo in presenza della morte:

Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento

Il significato della novella è che il ragazzo che è stato disconosciuto dagli uomini può ritrovare se stesso solo rinunciando ad esistere, nel regno della necessità l'individuo è libero solo di non vivere più. Ciò si sviluppa su due linee, il rapporto di Rosso con l'asino grigio e quello con Ranocchio: nei confronti della bestia Rosso compie tutte le vendette dei maltrattamenti che il padre ha subito, mentre verso il ragazzo assume una figura paterna. Rosso scopre la verità universale della vita attraverso una generalizzazione della sua esperienza concreta e può fare ciò trovandosi in una condizione privilegiata, la miseria: il ragazzo è estraneo alla logica utilitaristica che regola il mondo sociale non possedendo altro che il ricordo del padre. Rosso non ha coscienza sociale, quindi viene visto su un piano cosmico, della natura: l'uomo non può comportarsi con i sui simili come con il resto della realtà, cioè dominandoli e appropriandosene:

- La rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -

Dunque è inutile ribellarsi al destino, poiché nessuno potrebbe ottenerne uno migliore. Il lavoro diventa un elemento negativo, in quanto è il mezzo con cui si distruggono gli affetti, e la sorte dell'uomo si realizza tutta nell'ambito corporeo, dopo la morte resta solo un cadavere:

Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -

Rosso è l'eroe dell'intelletto: cerca di adeguarsi alla legge razionalmente accettata, ma a cui il suo essere si ribella, elevandosi a volte al di sopra della comunità quando si dedica all'educazione di Ranocchio: è un insegnamento sadico quello impartito, perché esorta a liberare gli istinti aggressivi e esalta il piacere a produrre danno, sempre secondo la legge di natura:

- L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.

Ma questa logica dell'odio nasce da un bisogno represso d'amore e Rosso accresce la sua frustrazione nella misura in cui è indotto a negarla: il sadismo diventa masochismo. Rosso maltratta Ranocchio per adeguarsi alla norma di comportamento che vige nel mondo adulto e perché Ranocchio impari ad adeguarvisi, ma è evidente il sentimento di solidarietà che lo muove:

- Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! -

Gli dava una mano

Gli dava la sua mezza cipolla e si accontentava di mangiarsi il pane asciutto

Si caricava Ranocchio sulle spalle

Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio

Così la violenza sopraffattrice diventa solo egoismo utilitario che respinge l'individuo nella sua solitudine, pur regolando la vita associata. Cercando di alleviare le sofferenze altrui si contravviene all'ordine delle cose perché vi si inserisce un criterio di valore, ma quando la coscienza apprende che l'unica verità universale è il dolore non le resta che la morte:

-Così creperai più presto!-

-È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! -
Ma Malpelo ha la prova ancora una volta dell'esistenza di sentimenti che sfuggono alla logica utilitaria quando si immedesima nella pena di Ranocchio:

Sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana

L'approdo alla conoscenza totale che la vita è male e lo spegnersi della coscienza è l'unica salvezza, è la conclusione di un itinerario mentale che ha valenza simbolica: il labirinto delle miniere è il labirinto interiore della nostra esperienza esistenziale, a cui si può contrapporre un sogno utopistico di serenità armoniosa, anche se il nostro destino concreto è diverso, sotto terra e privo di luce:

Lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa

Rosso dimostra coraggio scegliendo di partire per il fondo della miniera: si inchina alla crudeltà del destino per prevenirne le mosse, punisce se stesso per essere incapace di essere nemico ai suoi simili sottraendosi ai loro insulti, e infine si perde per ritrovare se stesso.

Nella novella l'oggettività sociale è un piano immobile su cui si svolgono i rapporti secondo regole prefissate, mentre l'autocoscienza del protagonista è una linea  ininterrotta e imprevedibile perché regolata dall'ethos affettivo.


La roba è l'estrema testimonianza della certezza che l'uomo non può uscire dai limiti dell'esistenza. La novella parte con l'elogio del protagonista in crescendo, finchè lascia spazio all'irrisione che esprime una condanna senza appello. La novella inizia con un'evocazione paesistica con una connotazione esotica e favolistica vista dagli occhi di un viandante di alta estrazione sociale evidente nell'uso degli aggettivi ricercati: la stessa sintassi mima il passaggio del viandante da uno stato di torpore a un 'interesse sempre più meravigliato di fronte a così tante terre proprietà di un unico uomo. Dopo il paesaggio iniziale si ha una descrizione di Mazzarò che lo smitizza, ma solo nell'aspetto fisico, esaltandone per contrasto l'eccezionalità interiore:

Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo.

Ora il punto di vista è mutato, è quello del lettighiere, più vicino all'ambito del protagonista; è un passaggio evidente nel mutamento stilistico. La fisionomia del personaggio è schizzata secondo un pittoricismo impressionistico che aggiunge nuove tinte su uno sfondo monocromatico: Mazzarò è un eroe della volontà, sempre fedele a se stesso, all'etica del lavoro. Vi è sempre un termine fisso nell'encomio del personaggio: la roba, è una presenza che occupa la mente sia del protagonista che di chi lo descrive e ne racconta la vicenda. Nella prima parte dell'evocazione di Mazzarò si ha un accumulo di particolari:

A zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto

A destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura

Gli uccelli del cielo e gli animali della terra

Non bevevo vino, non fumava, non usava tabacco

Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne

Nella seconda parte ci sono modi di partecipazione emotiva più intensa:

Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua

Mazzarò è convinto che la proprietà privata sia l'unico mezzo di salvaguardia materiale e morale dell'individuo: è un eroe sia eticamente che socialmente positivo:

E adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla messe poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati

Da proprietario Mazzarò finisce per adottare gli stessi metodi che erano stati usati su di lui quando era ancora sottoposto:

Aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì nella giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento

Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d'occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci, ragazzi! -

Ma tuttavia quanto più Mazzarò ha realizzato se stesso, tanto più si è negato alla comune umanità da cui è uscito, in più non può fermarsi, continua ad alimentare la tensione della volontà perché ancora non si sente padrone di se stesso. Nel ritratto inizia dunque ad emergere il chiaroscuro, il venir meno del senso di reciprocità umana e l'intimità individuale con le cose: il termine "roba" è sempre più frequente col procedere della novella e si vede come Mazzarò abbia sacrificato ogni affetto per dedicarsi solo a essa:

Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll'affaticarsi dall'alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch'era tutto quello ch'ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né  parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba

Ora si può approfondire l'analisi e passare al piano storico: inizia il confronto col barone i cui possedimenti sono ora la roba di Mazzarò. Le riflessioni di Mazzarò sembrano essere un commento obiettivo :

- Costui vuol essere rubato per forza! -

- Chi è minchione se ne stia a casa!-

Il trionfo economico di Mazzarò è ancora visto sotto una buona luce, è frutto di giustizia e di fatica:

Quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba

Ma nei termini usati c'è implicita l'antisocialità del personaggio e lui stesso diventa una cosa, un brillante o una macina di mulino. Le accuse diventano ancora più gravi quando Mazzarò non si trova a che fare con un ricco aristocratico, ma con i suoi compagni: l'umanità diventa essa stessa un oggetto di possesso da amministrare secondo i criteri dell'utile. Mazzarò vuole essere meglio del re che comunque non può vantare disponibilità piena dello Stato sottoposto al suo dominio: la sua ambizione è un mito sociale negativo e regressivo. Ma avviene infine che la tensione volontaristica che ha portato Mazzarò a possedere tutto ciò incontra l'unico ostacolo per lei insuperabile: il tempo, una constatazione che per lui prima una frustrazione disperata e infine uno sfogo di rabbiosa impotenza:

E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! -

Dunque è acquisita la consapevolezza della contraddizione angosciosa del fatto che vivere vuol dire imporre con le proprie opere la propria presenza sulla natura, ma vuol dire anche essere espropriati dal proprio essere ad opera del tempo che non può essere posseduto, ma solo consumato. All'uomo non rimane altro potere sulle cose che la distruzione:

Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! -

Dunque l'etica eroica del lavoro come punto di responsabilità personale nel rapporto con i nostri simili perde tutta la propria fondatezza in quanto le condizioni in cui si svolge il caso particolare presentato vengono ritenute perennemente valide. La logica di rapina dunque disumanizza chi se ne fa protagonista: Verga nega il concetto di progresso che era alla base della mentalità borghese, l'unico motore della società è l'interesse personale, e condanna la presente società in cui un membro delle classi subalterne può accedere alle classi sociali superiori appropriandosi dei metodi di ingiustizia dei ceti dirigenti e, anzi, aggravandoli. Quindi l'unico cambiamento che può avvenire all'interno dei rapporti umani è il loro peggioramento: Mazzarò è moralmente più arido del barone di cui ha preso il posto, che non era tuttavia ancora del tutto schiavo della ragione economica, la volontà di possesso invece ha ucciso in lui l'uomo. La vicenda di Mazzarò acquista dunque un significato universale, ma Verga offre oltre a questa visione pessimistica un motivo di rivalsa: l'etica del lavoro mantiene il suo valore di risorsa massima dell'esistenza, ma deve essere indirizzata non a modificare lo stato delle cose, ma a entrare in concorrenza con esso attraverso l'elaborazione artistica., che è l'attività lavorativa più disinteressata.


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