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Opere e vite. l'antropologo come autore di clifford geertz




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OPERE E VITE. L'ANTROPOLOGO COME AUTORE di Clifford Geertz


Capitolo sesto: Essere qui. Ad ogni modo, di chi è la vita?


All'inizio di questo capitolo Geertz  effettua una riflessione riguardante la tipologia di professione dell'antropologo e giunge alla conclusione che essa è una di quelle tra le più accademiche.

In realtà, l'esistenza di un etnologo è divisa, da una parte egli deve immettersi nelle vite degli altri là dove stanno e dove vivono, dall'altra ha il compito di descriverli là dove non ci sono. Per questo è presente un'inquietudine che mette in discussione la pretesa degli antropologi di voler spiegare gli altri solo sulla base del fatto che sono stati nel loro habitat originario.

A questo proposito la domanda più significativa è stata posta da Emawaysh: 'Cosa succede alla realtà quando viene trasportata altrove?'

A questa domanda si può cercare di rispondere partendo dal cambiamento che è avvenuto alla fine del colonialismo, che ha alterato la natura della relazione sociale tra coloro che intervistano ed osservano e coloro che vengono intervistati ed osservati. La causa di tutto ciò è probabilmente da attribuire alla perdita di fiducia nella capacità illimitata del sapere scientifico.

Inoltre, le migrazioni recenti, che hanno immesso in ogni parte del mondo nuclei di popolazioni di diversa provenienza, hanno ridotto la distanza tra le mentalità differenti. Questa mescolanza di oggetto e pubblico lascia gli antropologi contemporanei in un'incertezza riguardo all'indirizzo retorico da seguire, mettendo così in discussione l'idea stessa di etnografia: essa è l'impegno sostenuto dall'Occidente per conservare un certo tipo di relazione con il suo Altro o, come secondo la definizione comune, lo studio diretto dei popoli presenti sulla Terra?

Di conseguenza anche il compito dell'etnografo è meno chiaro, anche se le proposte non mancano, da quelle che vogliono un'antropologia  che spinge verso l'interno, verso mistificazioni della società occidentale, a quelle che vogliono un'antropologia che spinge verso l'esterno, attraverso il miscuglio internazionale della cultura postmoderna.

Con la decolonizzazione si sono scossi i fondamenti morali ed epistemologici dell'antropologia; così, gli etnografi si sono dovuti chiedere se le loro rappresentazioni fossero giuste e possibili.

Solamente in quest'ultimo periodo alcuni di loro hanno cercato di dare una risposta, se non altro perché se non lo avessero fatto loro, lo avrebbero fatto altri.



In seguito l'autore sottolinea l'assurdità di descrivere delle non entità come la cultura o la società e la pretesa comportamentista di descrivere modelli ripetitivi di azione isolandoli dal discorso che gli attori adoperano nel costruire e situare la loro azione, e tutto questo con la convinzione che, il discorso osservato possegga una forma di oggettività sufficiente alla descrizione degli atti.

Ma in verità l'autore sostiene che in etnografia non c'è alcuna cosa che si possa prendere a oggetto di una descrizione che sia l'apparenza originaria che il linguaggio descrittivo sarebbe incaricato di "rappresentare".

Tutto ciò appare piuttosto sofisticato per una disciplina non elaborata come l'antropologia. Ma per quanto possa sembrare esagerata e febbrile,la sua tesi riflette il riconoscimento del fatto che lo slogan "dire le cose come stanno" difficilmente può essere più appropriato per l'etnografia di quanto lo sia per la filosofia,per la letteratura,per la pittura per la storia, per la politica o per la fisica.

Da questa lista ne deriva il problema di fronte al quale si trovano oggi gli etnografi, i quali nutrono sempre interesse per "i fatti, le descrizioni, le induzioni e la verità".

La diffusa ricerca di  modi comuni di costruzione del testo non solo rende il semplice realismo meno semplice; lo rende anche meno persuasivo.

Ma il vero problema non è quello dell'incertezza morale insita nel fatto stesso di parlare dei modi di vivere d'altri  popoli, e non sta neppure nell'incertezza d'ordine epistemologico che proviene dall'assegnare racconti etnografici allo statuto di genere letterario.

Il problema è oggi che i testi etnografici cominciano ad essere osservati oltre che in se stessi anche attraverso se stessi quindi coloro che li fanno si trovano a dover fornire molte più risposte.

Per riuscire a far fronte a questa situazione tutto dipende dal fatto che la ricerca sul campo riesca ad adattarsi alla nuova situazione, nella quale i suoi obbiettivi, la sua pertinenza, le sue ragioni e i suoi procedimenti sono rimessi interamente in discussione.

Scrivere di etnografia vuol dire scrivere con la consapevolezza che questi presupposti sono scomparsi, sia nell'autore sia nel pubblico.

Se esiste  una qualche maniera di opporsi alla concezione che fa dell'etnografia una pratica iniqua, un gioco che è meglio non giocare, ebbene, questo argomento d'opposizione dovrebbe partire dal fatto che , come la meccanica quantistica o il melodramma italiano, l'etnografia è un lavoro d'immagine, meno stravagante della prima, meno metodica della seconda.

L'autore conclude il concetto dicendo che la natura della scrittura etnografica intermedia tra testi sovrasaturi d'autore come David Copperfield da una parte, e dall'altra testi del tutto depurati d'ogni presenza d'autore come L'elettrodinamica dei corpi in movimento.

Alla scrittura etnografica spetta ancora il compito di dimostrare con altri strumenti che la descrizione dei modi di vita altrui può essere convincente.


























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