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La "vergine luna": "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia"
"Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
[.] corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
[.] Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia; [.]
E tu certo comprendi
il perché delle cose [.]
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore. [.]
Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto. [.]
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero;
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale."
Il "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" fu composto fra il 1829 e il 1830; l'idea del Canto fu suggerita a Leopardi da un articolo del "Journal des savants" del 1826, da cui apprese che i pastori nomadi dell'Asia centrale trascorrevano le notti seduti su una pietra a contemplare la Luna, improvvisando parole tristissime su arie malinconiche.
Il componimento consta di sei strofe libere di endecasillabi e settenari. Il poeta non parla in prima persona, ma delega il discorso poetico ad un pastore nomade, che rappresenta l'uomo disperatamente solo nel suo peregrinare; egli interroga la Luna sul significato dell'esistenza e sullo scopo dell'universo poiché essa gli appare come una misteriosa creatura, l'immagine di una natura bella ed infinitamente lontana che sembra suggerire un'idea di infinito e di felicità ma in realtà resta muta ed impassibile davanti al destino dell'uomo. Fin dall'inizio il Canto si configura come un colloquio senza possibilità di dialogo: la Luna è "silenziosa" e "muta". Le domande del pastore sono le stesse di Leopardi ed entrambe non trovano risposta, ma il primitivo risulta immune da ogni condizione intellettualistica ed è quindi più credibile nella sua domanda esistenziale.
Gli aggettivi riferiti alla Luna rimandano alla divinità classica, intatta e non corrotta dalla misera ed insostenibile esistenza mortale, imperscrutabile spettatrice della Terra; nell'ordine si trovano silenziosa, vergine, intatta, solinga, eterna peregrina, pensosa, muta, giovinetta immortal, candida. La Luna è un astro del cielo e quindi percorre un corso immortale; essa ha già contemplato innumerevoli volte il deserto sconfinato nel quale si trova il pastore e tutte le regioni della Terra, quindi egli può sperare che la Luna comprenda il "viver terreno", il significato della vita e della morte così come l'alternarsi delle stagioni ed i meccanismi che regolano i moti degli astri nel cielo. Ella conosce "il tutto".
Ma il pastore è un uomo, e come tale percorre un "vagar breve". Egli non riesce ad indovinare alcuna spiegazione per l'esistenza e soprattutto per il dolore che essa comporta. Forse nemmeno il suo gregge, che sembra contentarsi di sedere all'ombra, trova una felicità veramente piena nella vita. Il giorno della nascita è ugualmente funesto per uomini ed animali, caratterizzati da un'assoluta ed invalicabile ignoranza del perché dell'esistenza, congiunta però alla certezza che essa termina nel dolore e nel nulla della morte: la vita è dolore inutile.
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