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[]quanto all'anima c'è negli uomini molta
incredulità; perchè temono che quand'ella si sia distaccata dal corpo, non
esista più in alcun luogo, [.]che se invece rimanesse in qualche
parte[.]grande speranza sarebbe, o Socrate. Tratto
dal Fedone di
Platone
L' immortalità dell'anima, intesa come vera e propria teoria filosofica, presuppone necessariamente una riflessione che ha come coordinate fondamentali il soggetto, la persona e l'esistenza di una dimensione metafisica della realtà, intesa però non come dottrina dell'Assoluto univoco, in quanto essa esclude la persona e l'immortalità personale, attribuendo al soggetto una eternità che può ottenere solo dissolvendo la propria consistenza autonoma; inoltre non è possibile pensare di trascendere il tempo se non in una prospettiva ove lo spazio e il tempo abbiano perduto il loro valore. Se appare evidente da un lato che per affermare l'immortalità dell'anima occorre affermare contemporaneamente la metafisica, dall'altro però, se per tale anima si intende l'anima personale del singolo uomo, si aprono problemi complessi come quelli dell'unità dell'intelletto e del carattere personale della ragione. Nella tradizione greca classica l'immortalità era il permanere della sostanza, la natura immateriale dell'operazione conoscitiva, l'incorruttibilità di ciò che è semplice e l'immaterialità del processo conoscitivo; la tradizione cristiana invece aggiunge anche il problema della resurrezione come partecipazione al vittorioso esito finale dell'esistenza terrena di Cristo, salto qualitativo atto a restaurare ciò che la morte ha disfatto, dinamica spirituale intimamente connessa con quella corporea. Il connubio tra tradizione classica e fede cristiana origina due correnti di pensiero: quella astrattiva, volta a prescindere dal sensibile e ad attuare la propria intenzionalità nella contemplazione estatica che permette così di ottenere l' immortalità, l'altra orientata verso il sensibile nell'intento di recuperarlo in una trasfigurazione escatologica, concetto base per una teoria della resurrezione.
Ripercorrendo storicamente l'evoluzione del problema nel pensiero filosofico occidentale, possiamo affermare che la base concettuale del problema e le sue categorie interpretative classiche sono dovute all'opera del filosofo greco Platone. Platone parte dalla definizione data da Socrate all'uomo, identificandolo con la sua anima, mentre il corpo è solo lo strumento di cui quest'ultima si avvale. Con Socrate l'anima diventa ciò per cui l'uomo conosce e determina la sua vita morale, ma dal punto di vista teoretico rimane in sospeso il problema dell'immortalità dell'anima, a cui egli credeva, ma che non poteva dimostrare razionalmente, poiché non aveva ancora guadagnato adeguati fondamenti metafisici di cui aveva necessariamente bisogno. Platone, ne "Il Gorgia", dove Callicle, esponente delle tendenze estremistiche che erano maturate con gli epigoni dei sofisti, afferma che la virtù è una sciocchezza, recuperando le verità orfico-pitagoriche, fonda le basi della sua metafisica, affermando la necessità di definire i concetti di vita e di morte. E' chiaro che per Platone diventa risolutiva la risposta al problema dell'immortalità dell'anima; infatti, se l'anima fosse mortale e se, con la morte del corpo, anche lo spirito dell'uomo si dissolvesse, allora la dottrina di Socrate da sola, non basterebbe a confutare quella di Callicle; la dottrina dell'immortalità dell'anima emerge allora in primo piano e conferisce una nuova dimensione all'etica e alla politica. L'uomo giusto che in questa vita viene ucciso, perde il corpo, ossia, ciò che è mortale, ma salva l'anima, che è, invece, immortale. Le prove dell'immortalità dell'anima acquistano così grande importanza nella filosofia di Platone e su di esse si concentra nel "Fedone". La prima dimostrazione, sostenuta da Socrate, parte dall'assunto che tutte le cose si generano dai loro contrari, dunque, poiché il contrario del vivere è il morire, risulta necessario che, come dal vivo si genera il morto, così dal morto si genera il vivo; ciò implica necessariamente che le anime sopravvivano nell'Ade, poiché, se ciò non sussistesse, tutto sarebbe destinato a tornare insieme("tutte le cose insieme", detto di Anassagora). La seconda dimostrazione risulta logicamente dalla teoria della reminescenza; infatti, se l'anima umana è capace di conoscere cose immutabili ed eterne, essa deve avere una natura loro affine, altrimenti queste rimarrebbero al di fuori delle sue capacità. Come quelle cose sono immutabili ed eterne, così anche l'anima deve essere ontologicamente immutabile ed immortale. Nella terza dimostrazione si afferma che le realtà composte sono le uniche che possono essere soggette alla decomposizione, mentre quelle non composte permangono stabili e sempre costanti; considerando poi che le prime sono visibili, mentre le seconde sono invisibili, ed essendo inoltre l'anima assimilabile a queste ultime e il corpo alle prime, si dimostra che l'anima è immortale e costante. La dimostrazione dell'immortalità dell'anima permette a Platone di confutare l'argomentazione di Callicle, sostenendo che i buoni riceveranno un premio per le loro virtù nell'aldilà. La questione fu poi ripresa da Aristotele, secondo cui l'immortalità è propria dell'intelletto attivo che, poiché ha natura affine a quella divina, partecipa della sua stessa sostanza. La tradizione filosofica cristiana si dibatte intorno alle interpretazioni fornite dai maggiori esponenti della patristica medievale, S. Tommaso e S. Agostino. Il primo giustifica l'immortalità personale basandosi sull'eccezionalità della presenza dell'uomo nell'universo, poiché, riprendendo alcune categorie aristoteliche, l'anima umana, pur essendo forma del corpo, nel contesto del sinolo è sia principio informante che principio sostanziale autonomo; al contrario il filosofo di Ippona, adottando una posizione platonica, sostiene che l'immortalità è propria dell'anima individuale e trova l'argomento principale per sostenerlo nell'autocoscienza, che identifica la presenza di Dio nel profondo di noi stessi. In età moderna, Cusano afferma che l'anima è immortale perché conosce verità immutabili ed è immagine della verità eterna; tuttavia la riflessione più originale e completa risale a Kant.
Nel contesto della filosofia kantiana, l'immortalità dell'anima riceve una singolare affermazione, benché le argomentazioni dialettiche ne abbiano smontato ogni giustificazione teoretica; è l'affermazione classica del postulato morale. L'immortalità dell'anima, impossibile a conoscersi e a dimostrarsi, diventa una necessità intrinseca al darsi della vita morale. Il primato della Ragion pratica si celebra anche a livello dell'immortalità personale. Quella di Kant è la via etica al riconoscimento dell'immortalità, infatti la ragione kantiana che, nel suo uso pratico, perviene sulla base del sentimento morale alla necessità di riconoscere il postulato, è ragione pura ed incompetente sul piano metafisico. La visione proposta da Kant ha due immediate e fondamentali conseguenze, giacché, in primo luogo, diviene una questione intimamente connessa con la concreta esperienza esistenziale ed interessa il destino dell'uomo e, in secondo luogo, la razionalità non è più estranea alla disputa ma interviene come struttura formale che garantisce coerenza e necessità logica ad una presa di posizione scaturita sul terreno pratico(caratterizzata dalla fede).
Per Hegel e l'idealismo tedesco la morte è un accadimento necessario nella dialettica dello spirito e l'immortalità è solo dello Spirito, infatti, la coscienza del singolo si salva soltanto nella coscienza trascendentale e solo dissolvendosi in essa acquista l'immortalità.
Dopo Nietzsche e Heidegger rimane l'ontologia "debole"che lascia lo spazio alla mutabilità dell'interpretazione, al gioco di messaggi che mutano e insieme si richiamano nella tradizione della esperienza storica; la finitezza, la morte ontica del singolo ente uomo è condizione necessaria per il succedersi delle interpretazioni, dunque l'immortalità è legata alla metafisica ed al valore, la morte alla ontologia. Il desiderio di immortalità è proiettato nel futuro, è escatologicamente rivolto "a terre nuove e cieli nuovi", la pietas è invece rivolta al passato; l'affermazione dell'immortalità comporta una svalutazione quasi nichilista della realtà oggettiva, o meglio della sua assolutizzazione. Nella riflessione di Husserl e Sartre l'analisi viene condotta con categorie interpretative differenti. Nelle meditazioni cartesiane Husserl approfondisce la problematica dell'altro nell'immanenza coscienziale dell'ego, introducendo così la riduzione nella riduzione per attingere a una sfera di coscienza radicalmente primordiale ove, mediante l'esperienza della corporeità propria, si perviene alla delucidazione del rapporto di appartenenza e di estraneità. Questa riduzione, sia nei riguardi della soggettività propria che in relazione alla soggettività estranea, porta a cogliere l'esperienza dell'io a livello primordiale, nel suo proprio elementare apparire.Ciò che si ottiene è la "natura appartentiva" che si esprime nella corporeità propria, esperita in connessione organica con la coscienza e non come oggettivo dato naturalistico. Il nostro mondo coscienziale con tutte le sue intenzionalità e i suoi valori non può però ridursi alla sola appartentività, ma essi sono condivisi con la sfera dell'estraneità; questa visione porta ad affermare la duplicità dell'io, immagine del rapporto io-altri e base della spiritualità umana. Nel "Saggio sulla trascendenza dell'Io" Sartre muove una critica alle affermazioni di Husserl sostenendo che l'io non va collocato nella continuità della consapevolezza trascendentale e che la problematica dell'altro non si risolve a livello conoscitivo.
La coscienza radicalmente ridotta, come appare nella V meditazione cartesiana, presenta due connotazioni che sembrano tra loro incomparabili:
Individualità avvertita come corporeità
Neutralità del vissuto in cui si disegna la trascendentalità della coscienza
Ciò determina che la trascendentalità husserliana della coscienza si laceri e un io elementare(pura emergenza esistenziale) si ponga come trascendente tale coscienza ed estraneo ad ogni operazione conoscitiva; se consideriamo sartrianamente l'io come trascendente la coscienza, l'ambigua ontologia fenomenologica dissolve il suo essere nel nulla. Per Sartre, all'apparire della coscienza esistenzialmente determinata, l'uomo si rivela come una malattia dell'essere. La coscienza della morte assume due significati, quello di consapevolezza di che cosa sia la morte(come contenuto concettuale) e quello di avvertimento del nostro morire(come esperienza esistenziale). Se l'appartentività è in qualche modo una immagine della morte, l'estraneità diventa paradossalmente l'elemento emblematico di ciò che non muore; l'altro è però principio organizzativo della nostra coscienza nei suoi livelli più qualificati, quindi una estraneità interiore(estraneo perché trascende la nostra individualità empirica, interiore perché costituivo della coscienza del nostro consistere personale). L'originaria struttura dualistica dell'io è dunque costituita dall'appartentività primordiale e dall'estraneità trascendentale; tale fatto sta alla base della spiritualità umana ed implica che, ad un livello superiore di coscienza, l'estraneità non sia più la negazione del proprio, ma un elemento costitutivo della coscienza dell'io. Questa presenza trascendentale dell'Altro è la presenza di Dio in noi; la morte risulta una radicalizzazione dell'isolamento appartentivo fino al dissolversi dell'appartentività stessa, mentre l'immortalità è l'adesione a quell'estraneità che qualifica la nostra coscienza personale fino ad assumere il volto personale di un Dio trascendente e a garantire il compimento della stessa comunicazione interpersonale.
La riflessione sartriana sul senso ultimo della vita, tuttavia, svela uno stato d'animo di chiusura esistenziale e psicologica che si risolve in un ripiegarsi sofferto ed amaro, lucido e disincantato, ben esemplificato dal passo riportato. In esso il filosofo francese esprime la sua diffidenza nei confronti della religione tradizionale che gli è sta insegnata, senza che,però, gli fossero forniti "i mezzi per credere"; questa condizione infantile ha creato poi "un disordine che diventò il mio ordine privato". Il giovane Sartre si indirizzò allora verso le Belle Lettere su cui "andò a depositarsi il sacro" e nacque così l'uomo di penna il cui soggiorno sulla Terra non aveva altro scopo che quello di fargli meritare la beatitudine postuma attraverso delle "prove degnamente sopportate[.]. La morte si ridusse a un rito di passaggio e l'immortalità terrestre si offrì come sostituto della vita eterna". In accordo con il proprio ateismo radicale, Sartre nega la possibilità di una vita oltre la morte, ma, riprendendo un'idea che era già stata enucleata da Foscolo, afferma la possibilità per l'uomo di sopravvivere nella memoria dell'umanità.
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