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Il Neoclassicismo




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Il Neoclassicismo


La componente innovativa più pervasiva fu quella classica.

La passione per l'antico diventa, grazie all'enorme diffusione delle stampe e dei libri, nonché ai viaggi e all'internazionalismo della cultura, la cifra forse più significativa e riconoscibile non solo della società artistica europea, ma anche di quella di aree geografiche distanti dal vecchio continente.

Il Neoclassicismo è la logica conseguenza sulle arti del pensiero illuminista.

Assieme al rifiuto degli eccessi del Barocco e del Rococò, il Neoclassicismo guardava all'arte dell'antichità classica, specie a quella della Grecia che si era potuta sviluppare grazie alle libertà di cui godevano gli uomini della polis.

Il movimento neoclassico ebbe come sede Roma e il suo massimo teorico fu il tedesco Johann Joachim Winckelmann.


J.L. David

Jacques-Luis David nasce a Parigi il 30 Agosto 1748 e compì i suoi primi studi nella capitale francese.

David soggiornò in Italia dal 1775 al 1780 ed ebbe così modo di studiare la scultura e la pittura romane e la pittura di Raffaello.

Rientrato in Francia ebbe numerosi incarichi di lavoro e partecipò attivamente alla rivoluzione del 1789, fu deputato e poi presidente della Convenzione Nazionale, appoggiò Robespierre e fu incarcerato dall'agosto al dicembre 1794. Successivamente subì il fascino di Napoleone, tanto da diventare suo sostenitore e il 18 dicembre 1804 venne anche nominato Primo Pittore dell'Imperatore. Dopo la caduta di Napoleone nel 1816 l'artista fu costretto all'esilio a Bruxelles dove morì il 29 dicembre 1825.


-IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI (olio su tela, 330x425 cm, 1784)


Il "Giuramento degli Orazi", firmato e datato 1784, quindi risalente al secondo soggiorno romano dell'artista, fu realizzato su commissione del re di Francia e l'anno seguente venne presentato al Salon.

Il soggetto è stato scelto dalla storia della Roma monarchica quando i tre fratelli Orazi, rimani, affrontarono i tre fratelli Curiazi, albani, per risolvere in duello una contesa sorta tra Roma e la città rivale di Albalònga. I tre Curiazi morirono e solo uno degli Orazi si salvò, decretando in tal modo la vittoria della propria patria. Il soggetto sta dunque a rappresentare le virtù civiche romane: la vittoria per la patria o la morte.

La scena si svolge nell'atrio di una casa romana inondata dalla luce solare. L'impianto prospettico è sottolineato dalle fasce marmoree che racchiudono riquadri di pavimento in laterizi disposti a lisca di pesce. Nel fondo due pilastri e due colonne doriche dal fusto liscio sorreggono tre archi a tutto sesto oltre i quali un muro delimita un porticato, mentre un'ulteriore arcata lascia intravedere altri ambienti abitativi.

I personaggi sono distinti in due gruppi incorniciati dalle arcate estreme mentre il vecchio padre si erge in mezzo, isolato, conscio della propria centralità nella storia e consapevole di mettere a repentaglio la vita dei figli chiedendo loro il giuramento. Il rosso del mantello lo individua come personaggio chiave della rappresentazione, mentre leva in alto le spade lucenti che, successivamente, consegnerà ai figli. È proprio su quella mano che sta il punto di fuga, lì i raggi prospettici conducono i nostri occhi. Un giuramento che unisce nell'eroismo i tre giovani, allacciati in un abbraccio che indica unanimità di intenti.

A destra le donne meste e mute sonno abbandonate nel dolore e nella rassegnazione. In posizione più arretrata la madre degli Orazi copre con il suo velo scuro, presagio di lutto, i suoi due figli più piccoli, mentre la figlia Camilla, affranta e con le mani in grembo, si volge verso la cognata Sabina. Questa piegata verso di lei, le tiene sulla spalla una mano su cui appoggia il capo chino.

In conformità all'estetica neoclassica, David non mostra il momento cruento del combattimento, ma sceglie di rappresentare quello supremo del giuramento, che precede l'azione.


- LA MORTE DI MARAT (olio su tela, 165x128 cm, 1793)

Nel dipinto non compaiono tutti quegli elementi che nella realtà caratterizzavano il luogo del delitto e che avrebbero fatto apparire la morte di Marat troppo simile a quella di un uomo comune. La tappezzeria in carta da parati viene sostituitala un fondo scuro e quasi monocromo. Una cartina della Francia e delle pistole appese alla parete non vengono riprodotte, mentre il cesto che fungeva da tavolino viene sostituito da una cassetta di legno chiaro. Questa viene trasformata da David in una sorta di lapide.

La sobrietà e l'essenzialità dell'arredo quasi monastico stanno a testimoniare la virtuosa povertà di Marat, repubblicano incorruttibile, ucciso a tradimento proprio per le sue virtù, le stesse alle quali l'assassina aveva fatto appello per essere ricevuta.

Infatti Marat tiene ancora in mano un biglietto, l'inizio di una supplica.

È un atto d'accusa che rivela al mondo l'inganno che ha reso possibile l'efferato delitto di un uomo buono e inerme.

Il calamaio e la penna d'oca sulla cassetta, la penna ancora stretta nella mano destra e il coltello lasciato a terra sono come gli strumenti della Passione.

Non a caso, David costruisce l'immagine del defunto come se si trattasse di una Deposizione di Cristo: la ferita aperta sul costato gronda ancora sangue, la testa è riversa, il braccio destro è abbandonato lungo la sponda della vasca, il lenzuolo macchiato di rosso appare quasi un sudario.

Il parallelo con la morte di Cristo è un modo per elevare Marat al di sopra degli altri uomini, per esaltarne maggiormente le virtù e proporlo come esempio da imitare.


A. Canova

Antonio Canova nacque a Possano il 1 Novembre 1757. Figlio di uno scalpellino, fece il suo apprendistato a Venezia dove aprì uno studio nel 1775. Nel 1779 Canova era a Roma presso l'ambasciatore della Repubblica Veneta Girolamo Zulìan.

Si allontanò da Roma solo per alcuni soggiorni nei luoghi natii, specie tra il 1798 e il 1799, a motivo della proclamazione della Repubblica romana e dell'esilio di papa Pio VI Baschi e successivamente per i viaggi all'estero, in particolare per un incarico in Austria e per due primi viaggi a Parigi su chiamata dello stesso Napoleone e per un terzo viaggio nella capitale francese dopo il Congresso di Vienna del 1815. Da Parigi si recò anche a Londra per vedere i marmi fidaci del Partendone lì condotti da Lord Elgin.

Dal 1802 fu Ispettore Generale delle Belle Arti dello stato pontificio al quale fece dono della collezione di antichità della nobile famiglia Giustiniani. Antonio morì a Venezia nel 1822.

Canova incarna i principi neoclassici di Winckelmann, sia nel disegno sia nella scultura, più di quanto non abbiano fatto i contemporanei dello studio e storico d'arte tedesco.


-AMORE E PSICHE CHE SI ABBRACCIANO (marmo, altezza 155 cm, 1787-1793)

Nel gruppo "Amore e Psiche che si abbracciano" Canova ho ripreso la favola narrata nel romanzo L'Asino d'oro di Lucio Apuleio. L'artista ha rappresentato un episodio della favola, quello in cui Amore rianima Psiche avenuta in quanto, contro gli ordini di Venere, aveva aperto un vaso ricevuto nell'Ade da Proserpina.

Canova ha fermato nel marmo un attivo che rimane. È l'attimo che precede il bacio, un contatto che sta per avvenire, che l'atteggiamento dei corpi e gli sguardi preannunciano.

Solo la visione frontale permette di ritenere un'immagine significativa del gruppo statuario, perché consente di coglierne la geometria compositiva lineare formata da due archi che si intersecano e due cerchi intrecciati.

Tuttavia la visione frontale non esaurisce tutte le possibilità di godimento dell'opera. Infatti i rapporti reciproci fra i due corpi mutano continuamente girando attorno al gruppo scultoreo. Ci si accorge solo così della complessità della creazione del Canova.


- IL MONUMENTO FUNEBRE A MARIA CRISTINA D'AUSTRIA (marmo, altezza 574 cm, 1798-1805)

Con il monumento funebre a Maria Cristina d'Austria concluso nel 1805 e commissionato nell'agosto 1798 dal duca Alberto di Sassonio-Teschen per ricordare la consorte, Canova realizza la più significativa opera di queste genere.

Rappresentativo anche del clima tardo-settecentesco della poesia sepolcrale, il monumento canoviano si lega facilmente al tema della morte com'è espresso nel carme "Dei sepolcri" del Foscolo.

La sepoltura si presenta come una piramide, all'interno della quale  una mesta processione reca le ceneri dell'estinta.

La forma del sepolcro deriva dalla Piramide di Caio Cestio a Roma o dalle tombe dei Chigi nell'omonima Cappella di Raffaello in Santa Maria del Popolo. Ma Canova ne sottolinea l'ingresso scuro per mezzo di uno spesso architrave e di due stipiti leggermente inclinati.

La defunta, la cui immagine in un medaglione è portata in volo dalla Felicità Celeste in forma di fanciulla, è onorata dalla personificazione delle proprie virtù e da quella della tenerezza del suo sposo.

Ma, in realtà, più che esaltare la defunta, Canova vuole sollecitare la meditazione sulla fatalità della morte, sul rimpianto e sulla "corrispondenza d'amorosi sensi".

Il mondo classico rivive nella scena composta quasi teatralmente dal Canova. Le ceneri della defunta vengono portate verso il buio della morte da un mesto corteo a cui prendono parte giovani donne, fanciulle e un vecchio. Tutti sono legati fra loro da una ghirlanda di fiori e tutti sono invitati a entrare passando sul tappeto che unisce ancora, fisicamente, l'interno con l'esterno.


F.Goya

-MAYA DENUDA (1800-1803, olio su tela, 97x190 cm)


Questa tela dovrebbe essere stata realizzata tra il 1800 e il 1803.

La modella scelta è di bassa statura e di corporatura minuta. Mollemente adagiata su due grandi cuscini, assume un atteggiamento vagamente artefatto e innaturale.

La tecnica fa già presagire la grande rivoluzione goyesca degli anni successivi.


-LE FUCILAZIONI DEL TRE MAGGIO 1808 SULLA MONTAGNA DEL PRINCIPE PIO(1814, olio su tela, 266x345 cm)


In questo grandioso dipinto storico Goya porta sulla tela il dramma della rivolta antinapoleonica, vissuta in prima persona quando, ai primi di maggio del 1808, assistette alla eroica resistenza del popolo madrileno contro le truppe francesi.

La tela, dipinta sei anni dopo quelle luttuose giornate, costituisce una straordinaria novità nel panorama artistico del tempo. In essa vengono per la prima volta riprodotti avvenimenti contemporanei, e questo significa contravvenire definitivamente alla regola accademica secondo la quale solo il mondo dell'antichità classica e i personaggi mitologici potevano avere la dignità di essere rappresentati.

Il dipinto raffigura una delle tante esecuzioni sommarie effettuate dalle truppe napoleoniche. A destra, di spalle, è schierato il drappello del plotone di esecuzione. Gli alti colbacchi neri e i pesanti pastrani delle divise cancellano nei soldati ogni parvenza di umanità. Dei loro volti, infatti, non solo non è possibile percepire l'espressione, ma anche i lineamenti paiono inghiottiti dalla notte. Con questo straordinario espediente Goya caratterizza i soldati come gruppo compatto e minaccioso che, piuttosto che da uomini, sembra composto da terribili automi programmati per uccidere. A sinistra vi sono i partigiani. Scompostamente ammassati gli uni contro gli altri, essi sono rappresentati con un realismo carico di tragica pietà. Il patriota con la camicia bianca leva le braccia al cielo, in un gesto che è di disperazione, di rabbia e di paura. Nel suo volto dai tipici, marcatissimi tratti spagnoli, si legge con impressionante crudezza il tumultuare dei sentimenti. Ciò è evidente anche nelle espressioni dei compagni che gli si stringono attorno: in tutti vi è la disperata paura della morte, quella che non abbiamo mai visto negli impassibili eroi della pittura neoclassica. La tecnica pittorica è tutt'uno con la volontà espressiva dell'artista. La cupezza dei toni ha il duplice significato di rispecchiare sia i valori naturalistici delle tetra ambientazione notturna, sia quelli psicologici, messi in rilievo dall'angoscia soffocante della scena.

In basso, quasi si trattasse di un mucchio di stracci sudici, si accalcano indistintamente i cadaveri di coloro che sono già stati fucilati. Il personaggio in primo piano, in particolare, ha il volto orribilmente sfigurato e giace riverso sul terreno intriso del suo stesso sangue.

Le macchie informi si fanno sangue, carne e volume, plasmati dall'incerta luce della lanterna, con sullo sfondo - lontano e pur incombente - il profilo della martoriata Madrid, addormentata nella notte della vendetta.

La frammentarietà della pennellata, la povertà della tavolozza, l'espressività dei personaggi, la volontà di cogliere e di bloccare l'attimo irripetibile sono altrettanti, significativi indizi di una tecnica pittorica già anticipatrice di quelle che, nel giro di un sessantennio, saranno le nuove tecniche impressionistiche.


-SATURNO DIVORA UN FIGLIO (1821-1823, olio su intonaco strappato e riportato su tela, 146x83 cm)


Questo dipinto è stato realizzato da Goya nel suo "periodo nero", quando, già malato e disilluso, si era ritirato nella "Quinta del Sordo". La scena di Saturno che divora uno dei suoi 5 figli è di grande impatto emotivo. Il personaggio emerge dalla penombra della notte con disumana violenza. Bagliori sinistri lumeggiano qua e là.

Gli occhi indemoniati gettano lampi di follia e le fauci spalancate inghiottiscono ripugnanti brandelli di carne sanguinolenta. Pur nella voluta esagerazione dei toni, il tema è ricco di evidenti allegorie. Ferdinando VII sterminava i suoi sudditi allo stesso modo di come Saturno divorava i propri figli.

La tecnica pittorica si adatta perfettamente alla drammaticità del tema. I colori,sporchi e terrosi, sono emblematica espressione dell'abbrutimento cannibalesco, mentre i suggestivi effetti di chiaroscuro e la composizione diagonale delle spalle e della gamba destra conferiscono al personaggio un impeto di inquietante vitalità.

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