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ECONOMIA E SOCIETA' IN EPOCA CAROLINGIA
Il territorio rurale e la sua organizzazione
Originatasi dalla pesante crisi dello stato romano, la prima età medievale è stata descritta come un'epoca più povera" della precedente sotto quasi tutti i punti di vista . L economia agricola rimase tuttavia sostanzialmente invariata e i contadini, che rappresentavano la quasi totalità della popolazione romana e poi dell Occidente altomedievale , modificarono solo in minima parte i modi di sussistenza e le tecniche produttive Senza essere l unico elemento dell'attività economica dell'epoca, l agricoltura ne fu l'elemento di gran lunga preponderante Nello studio di un'economia di questo tipo non si può perciò prescindere da un'attenzione per il territorio altomedievale. L avvento dei longobardi provocò una progressiva estromissione dell'antica aristocrazia dal possesso fondiario e il nuovo ceto dirigente, a differenza di quello romano, preferì stabilire la propria residenza fuori dalle citt . Il calo demografico cui andarono incontro i centri urbani è indice dello svuotamento delle funzioni economiche della citt , che conservò la funzione religiosa; gli scambi tra città e territorio inoltre si ridussero in modo evidente
Con l'avvento dei carolingi, e poi fino al IX secolo, si assistette ad un inversione di tendenza determinata dal fatto che vennero potenziate le figure vescovili e le proprietà ecclesiastiche. Le città tornarono ad essere allora al centro di un sistema di vaste proprietà fondiarie.
Il paesaggio carolingio fu per una buona parte costituito da boschi e foreste che si estendevano principalmente ad est del Reno e lungo il suo corso, oltre che nella Francia e nel Belgio orientali Per quanto riguarda il territorio italiano, le aree boschive erano minori e meno fitte, salvo in alcune zone, tra cui i lembi settentrionali della pianura del fiume Po, gli Appennini ligure e toscano, l Abruzzo e i boschi di pini della Calabria
A livello generale va poi considerato anche che mentre nel sud marittimo l insieme paesaggistico venne plasmato dal sistema antropico romano e successivamente, pur nello spopolamento e nella recessione, dall incontro scontro con un altra civiltà a base urbana come quella islamica, le grandi formazioni forestali del nord Europa rimasero indifferenti alla penetrazione romana e restarono immutate anche in virtù delle caratteristiche del popolamento germanico e del suo rapporto con l'ambiente silvano, fonte primaria di approvvigionamento . Lo sfruttamento dei boschi, associato alle altre forme di gestione dal territorio, costituì la prassi nelle strategie di sussistenza: entità come i gualdi , studiati nella Sabina da Chris Wickham, sono un esempio di quell'economia mista di tipo boschivo-arativa che caratterizzò ampie aree dell'Europa carolingia.
Fig. Estensione delle foreste in Europa nell'Alto medioevo
Sotto l'aspetto gestionale del territorio in epoca carolingia l'area che è stata studiata in modo più approfondito è quella mitteleuropea, i cui modelli tuttavia non sono sempre estendibili a tutto l impero.
Nei suoi studi Guy Fourquin ha tentato di capire se la villa o curtis) sia stata veramente il tipo quasi esclusivo di conduzione agricola nell alto Medioevo o se siano esistiti, accanto a queste grandi proprietà regie, laiche ed ecclesiastiche, dei piccoli appezzamenti di terreno assolutamente liberi e gestiti in modo completamente diverso , in virtù appunto delle loro ridotte dimensioni. Pare che questa seconda ipotesi trovi varie conferme e che sia particolarmente pertinente per quanto concerne l Italia ostrogota, longobarda e bizantina. Anche se la storia agraria della penisola italica è molto mal conosciuta, sembra che il regime della proprietà terriera abbia avuto dei caratteri originali e che il frazionamento della proprietà e della conduzione sia stato nettamente più pronunciato che altrove : i paesi mediterranei, più romanizzati degli altri, ebbero nel Medioevo una storia rurale diversa da quella dell Occidente non mediterraneo
In ogni caso, tra VII e VIII secolo il regime della grande proprietà di tipo curtense, nato tra la Loira e il Reno, si sarebbe progressivamente generalizzato, anche se in modo disomogeneo, assumendo spesso forme ibride73 nonostante gli sforzi dei sovrani e degli ecclesiastici per uniformare il regime delle loro proprietà terriere , talvolta disperse in varie province. Per quanto riguarda le proprietà ecclesiastiche disponiamo di importanti fonti che ce ne descrivono la consistenza e l estensione, nonché il modo in cui venivano gestite . E' quasi certo che la grande aristocrazia laica detenesse anch'essa vasti patrimoni parimenti dispersi in un ampia regione. I re carolingi, enormi possidenti, avevano riunito le loro villae regie in fisci, per agevolarne la gestione.
Tenendo conto dell'estrema eterogeneità strutturale delle villae, in relazione ad esempio alle dimensioni delle stesse o al contesto geografico nel quale erano inserite, si può parlare in generale degli elementi costitutivi della villa solo in modo semplificato e superficiale, ma indicativo ai fini di una premessa storico economica sulle modalità di gestione del territorio in epoca carolingia.
La curtis si divideva, secondo un sistema bipartito, in pars dominica e pars massaricia i polittici77 chiamano terra mansionaria l insieme delle terre date in concessione ai contadini in una grande tenuta agricola di tipo curtense
Gli oneri legati alla gestione dei mansi erano di due specie: i canoni e i servizi . In genere i canoni erano gli oneri meno pesanti e il loro ammontare era fisso: rappresentavano in parte il corrispettivo dovuto per il possesso della terra avuta in concessione, in parte il controvalore dei diritti di godimento del concessionario sui communia della villa e in parte le antiche imposte pubbliche del cui provento il signore si era impadronito, spesso senza averne titolo. I canoni in denaro erano diffusi solo in alcune zone, mentre molto più in uso risultavano i canoni in natura , spesso rappresentati da quantità fisse di cereali, di vino, di lino, o di prodotti legati all'allevamento e all'artigianato; molto meno frequenti erano i canoni in capi di bestiame. Per quanto riguarda gli oneri costituiti dai servizi e dalle prestazioni di lavoro, è bene evitare di definirli corv es, un termine che designa solamente il servizio di aratura. I servizi, numerosissimi e vari, costituivano il nucleo essenziale del sistema della grande proprietà terriera ed erano gli oneri che più gravavano sul concessionario, tanto più che venivano effettuati a detrimento della valorizzazione del suo manso
Non si sa molto delle piccole proprietà terriere in quanto le fonti scritte si concentrano sui grandi patrimoni. Il capitolare De villis ci tramanda informazioni sulle grandi tenute regie indicando come alla testa di ogni villa ci fosse un maior o villicus e di come le villae fossero raggruppate in circoscrizioni amministrative dette fisci; a capo di ciascun fiscus stava un iudex
E' stata ormai superata l immagine delineata da Marc Bloch per quanto riguarda la funzione economica della grande tenuta agricola di tipo tradizionale e si è visto come, quando il dominus possedeva più villae, queste si integrassero tra loro in un insieme economico più vasto
Il capitolare De villis stabiliva che gli iudices dei fisci regi dovessero consegnare annualmente al sovrano il denaro ricavato dai raccolti: l'economia curtense sfociava dunque in un'economia di scambio alimentata dalle eccedenze della produzione agricola, le quali alimentavano un'attività commerciale che percorreva i fiumi e gli assi viari più agevoli, almeno nei secoli IX e X86 salvo qualche parentesi dovuta alle incursioni normanne , e che si serviva non solo di pagamenti in natura, bensì di moneta, come è attestato specialmente per l Italia, a Brescia, Bobbio e altre localit . Ancora il capitolare De villis prevede che gli iudices si procurassero sempre sementi di prima qualit , sia per acquisto, sia in altro modo. Pare dunque esistesse un movimento naturale di acquisti e di vendite, limitato ma regolare. Decisamente più vivace era la condizione economica italica, con un impiego sempre meno ristretto della moneta tanto che le imposte in natura si erano molto ridotte . Ma il territorio italico pare seguire una Sonderweg fin dall inizio: ancora nel VI VII secolo prevaleva la conduzione indiretta, senza schiavi e senza corvees. Alcune novità sono riscontrabili nella Langobardia, dove a metà del VII secolo, dopo l'emanazione dell'editto di Rotari 643) si trovano figure di schiavi allevatori che non potevano riferirsi a funzioni proprie di un'economia di tipo silvo pastorale e comparivano anche schiavi bifolchi addetti all'aratura dei campi; nei primi decenni dell VIII secolo fecero la loro comparsa i dominici, coltivati da schiavi e grazie alle corvees . Ben diversa era la situazione nell Italia non longobarda, dove sembra persistesse la situazione tardo antica caratterizzata da una quasi totale assenza della conduzione diretta, dall'esiguità delle corvees e dalla mancanza di schiavitù, anche se rimangono a riguardo molte ombre. Fu Pierre Toubert ad elaborare per l Italia l ipotesi di una tipologia di gestione signorile che riflette un'evoluzione verso il maniero bipartito classico basato sullo sfruttamento del dominico e il rapporto tra questo e le tenures. A tal proposito sono state individuate in area italica tre principali tipologie di maniero: nell Italia settentrionale il maniero di Limonta90 presenta un esempio di dominico strutturato con mulini e altre installazioni rivolte alla produzione principalmente di vino e olive, mentre quella cerealicola era secondaria; i servizi di lavoro erano rari. Caratteristico dell Italia centrale e della valle del Po fu un modello di fattoria priva di un dominico strutturato e basato prevalentemente su un'agricoltura di tipo pastorale dove le tenures non erano obbligate ad alcuna prestazione lavorativa, venendo invece impegnate nelle bonifiche. E' documentata nelle stesse regioni anche la presenza del maniero classico bipartito orientato alla produzione cerealicola, simile a quello dell Europa nord occidentale, dove il lavoro di servi e prebendari era fondamentale
Tendenzialmente i tentativi di dimostrare la presenza di aziende curtensi laddove manchi un documento con le caratteristiche del polittico sono destinati al fallimento, fatta salva la possibilità di formulare delle ipotesi più o meno fondate sulle forme alternative di gestione delle grandi propriet . Se si esclude la diffusione del sistema curtense in quasi tutta l Italia centromeridionale92 è lecito chiedersi se non sia l'assenza di polittici a influenzare largamente questa convinzione . Se è vero che dalla documentazione ben poco trapela sulle forme di gestione di tipo curtense, ancora più scarse sono le testimonianze su eventuali forme alternative di gestione Nelle regioni che hanno restituito polittici , che non vanno oltre la metà del secolo X, il sistema curtense caratterizzato dalla compresenza di dominico, massaricio e corv , ebbe una certa diffusione, anche se le corti italiche erano in genere di dimensioni più ridotte rispetto a quelle dell'area franca e talora si presentavano disorganiche. Nelle altre regioni della Langobardia che sono prive di polittici , erano possibili forme curtensi o di tipo longobardo, embrionale o arcaico, oppure con le caratteristiche proprie delle corti non classiche: in ogni caso queste aziende vanno in crisi nel corso del secolo X, o addirittura prima nella Sabina e nell Italia meridionale. Per Romagna, Marche, Lazio, regioni bizantine e longobarde meridionali, sulla scorta dei libri traditionum e delle raccolte di contratti, viene ipotizzata un'assenza o una presenza molto sporadica di curtes dalle caratteristiche ibride. La connessione tra polittico e sistema curtense diventa, secondo questa impostazione di ricerca storica, talmente totalizzante da oscurare le forme di gestione delle aree non interessate dalla suddetta simbiosi. Uno dei principali motivi che portò alla redazione dei polittici fu in effetti la necessità di descrivere lo stato delle propriet , in genere in occasione di contese legali o di ridistribuzioni del patrimonio nella forma del beneficium, senza escludere tuttavia intenti amministrativi. La pratica di registrare i patrimoni era comune sia nella tradizione longobarda, sia in quella romana e non si può ragionevolmente ritenere che i polittici a noi pervenuti siano stati gli unici tentativi fatti in Italia di registrare le caratteristiche gestionali dei grandi patrimoni fondiari. La definizione di una domusculta o di una curtis, le cui prime attestazioni in Italia risalgono al secolo VIII e non appartengono solo alla Langobardia, corrisponde all'esigenza di individuare una casa rurale padronale protetta da un recinto97 cui demandare sia la gestione economica dei dominici, sia la raccolta e l uso delle rendite del massaricio, corvees comprese. Non sappiamo come questa operazione venisse condotta nelle aree che non ci hanno tramandato polittici, ma non dobbiamo escludere a priori che i proprietari, i quali vivevano prevalentemente in citt , disponessero sul territorio rurale di dominici e massarici in qualche modo connessi tra loro secondo modelli che ci sfuggono quasi completamente, ma che nei rari casi individuabili non appaiono lontani da quelli curtensi
Fig. L'aratro pesante in una miniatura tratta da un calendario anglosassone dell XI secolo
Per quanto riguarda le tecniche agricole e le dinamiche di sfruttamento del terreno , le informazioni che possediamo rinviano a un impiego assai ridotto del suolo, destinato quasi esclusivamente a uso arativo e prativo , dal quale non provenivano risorse alimentari sufficienti . Il bassissimo rendimento , determinato dal rapporto tra seminato e raccolto, ottenuto dall impiego di attrezzature da dissodamento inadatte ai pesanti terreni dell Europa settentrionale rese l incidenza dei prodotti cerealicoli sussidiaria rispetto all'allevamento brado nei boschi, in particolare quello dei maiali. Meno esposti ai condizionamenti climatici dai quali dipendevano i raccolti, i popoli settentrionali furono quindi anche meno esposti alle carestie che rendevano incerta la sussistenza del mondo mediterraneo, dove tuttavia l'agricoltura era favorita dalla qualità più leggera del suolo. Parte integrante dello sfruttamento alimentare dell'ambiente, il bosco e l incolto divennero riserve fondamentali alla sopravvivenza assicurando il fabbisogno proteico e una dieta assai variata che non si ridusse, come succederà successivamente, al quasi esclusivo apporto di carboidrati assicurato dai cereali . Nelle foreste si trovava il miele, l unica sostanza edulcorante in un epoca che non conosceva lo zucchero, e vi si facevano pascolare i maiali, animali tra i più allevati nel medioevo
Nell alto medioevo italico, oltre alla produzione cerealicola è attestata quella vitivinicola, e nei monasteri non mancavano il miele e le castagne. Dall XI secolo la ripresa demografica a livello continentale favorì e rese necessaria la messa a coltura di nuovi campi determinando un effettivo aumento quantitativo dello stock annuo di cereali a disposizione degli abitanti ma contemporaneamente si ebbe una notevole riduzione a livello qualitativo: i nuovi campi erano sottratti al bosco e alla brughiera che erano l habitat di selvaggina e frutti che precedentemente andavano ad integrare la dieta quotidiana ad ogni livello sociale
Alla produzione agricola si affiancavano inoltre tutti gli alimenti derivanti dall'allevamento . Dal latte bovino si ricavava il formaggio, e i buoi erano indispensabili al lavoro nei campi; il maiale era invece la base dell'alimentazione carnea per tutto l'alto medioevo, mentre non si utilizzava generalmente la carne ovina e le pecore erano allevate per ricavare la lana, la pelle dalla quale si otteneva la pergamena e il grasso utilizzato per preparare le candele
La produzione artigianale
Diversamente che in epoca merovingia, quando la realtà urbana rivestiva ancora un ruolo centrale per le attività artigianali, nell Europa carolingia i materiali tessili, gli strumenti, le armi e altri oggetti in ferro, legno o vetro e il vasellame, si producevano in un contesto prevalentemente rurale e legato al maniero , come documentato dai vici annessi o integrati alle grandi abbazie , anche se persisteva nelle città vescovili un certo fermento economico . Nella famosa pianta dell'abbazia di San Gallo fig. 7) figura un grande laboratorio destinato a varie attività manuali, insieme ad una fabbrica di birra, dei mulini, un officina per forgiatori e altri laboratori. Nelle abbazie, infatti, i lavoratori manuali dovevano provvedere ai bisogni di comunità molto ampie e si occupavano della lavorazione del cuoio, del metallo, della ceramica , del legno, delle pelli e di molte altre materie prime . Connesso a questi laboratori pertinenti alle grandi realtà monastiche vi era tutto l indotto di attività che provvedevano all'approvvigionamento dei materiali, di cui sono un esempio le miniere di ferro databili tra VIII e X secolo che gli scavi archeologici hanno individuato e che i documenti attestano in riferimento all'abbazia belga di Prüm, ma anche le scorie di ferro che sono state rinvenute in quasi tutti gli stanziamenti rurali carolingi. Laddove non esistevano miniere il ferro veniva acquistato in forma di lingotti grezzi o di prodotti finiti
Fig. 7 - Pianta dell'abbazia di San Gallo (ca. 825-830)118.
Altro aspetto dell'attività artigianale in epoca carolingia riguardava la produzione del sale, che assunse in questo periodo principalmente tre forme: di vaporizzazione dell'acqua di mare in orti salini creati dall'uomo grazie a fattori climatici naturali, lungo la costa atlantica della Francia e quella del Mediterraneo; di sfruttamento dei pozzi d'acqua salata in molte parti dell'Europa centrale; di estrazione del sale dalla torba attraverso la cottura119.
Il sale prodotto negli orti salini lungo la costa, principalmente a nord e a sud dell'estuario della Loira, in particolare nella baia di Bourgneuf, fu oggetto di un vivace commercio da parte di molte abbazie. C'erano bacini del sale anche in alcuni luoghi della costa settentrionale del Mediterraneo, come nei pressi dell'estuario del Rodano. Nelle lagune di Venezia e nel delta del Po, presso Comacchio120, la produzione di sale era cosi importante che nel IX secolo dette luogo a una vasta rete di commercio interregionale lungo il Po, a monte del suo corso.
Religione ed economia
In età tardo antica si verificò una curiosa associazione di concetti economici e concetti religiosi nella quale il commercio divenne metafora della Salvezza cristiana. Il commercio e i mercanti esistevano allora all'inizio dell'età medievale sia come realtà quotidianamente utili alla sopravvivenza, testimoniate sporadicamente da fonti documentarie di varia natura, sia come raffigurazioni emblematiche dell'organizzazione di una società che i capi della nuova religione di Stato volevano coesa e attivamente operante in vista di una futura salvezza. Ecco allora che importanti personalità religiose quali Ambrogio vescovo di Milano, Agostino di Ippona e Salviano di Marsiglia122 ritenevano che il commercium fosse la forma a cui riferire le relazioni sociali perfette e cioè, dal loro punto di vista, cristiane123. Si può intendere la crescente attenzione che la teologia morale o la legislazione, prima tardo antica e poi carolingia, riservano alle attività commerciali non come una semplice volontà o velleità di controllo politico o etico sul quotidiano economico, ma piuttosto come un modo culturalmente preciso di definire e codificare quelle attività lucrative che, riconducibili alla relazione di compravendita o di credito, parevano centrali tanto nell'universo economico quanto in quello simbolico della Cristianità tra V e X secolo124. A partire dal IX secolo si sviluppò tuttavia, dai capitolari e dai concili carolingi alle riflessioni di Raterio vescovo di Verona e ai codici di Burcardo di Worms e Ivo di Chartres, anche il timore e la diffidenza nei confronti dei mercanti125 e della loro supposta incapacità di distinguere fra i beni economici sacri, e dunque non stimabili a un prezzo corrente di mercato e i beni economici comuni126. Il capitolare di Nimega (806) risultava guardingo nei confronti dei mercanti che acquistavano da ecclesiastici disonesti i beni delle chiese e i testi successivi riportavano più volte allusioni alla frequenza del dolo commerciale e all'allarme percepito nei confronti di un'attività economica che negli stessi testi veniva presentata come indispensabile per la società dei cristiani. La dinamica del mercato insomma avrebbe dovuto essere controllata completamente dagli esperti del sacro per poter essere intesa come compiutamente cristiana.
La dimensione del commercio
Mentre l'impero romano d'Occidente basò generalmente la propria economia sugli scambi commerciali, soprattutto marittimi e sulla vita urbana, l'impero carolingio ebbe come base economica l'agricoltura latifondistica, caratterizzata prevalentemente da una produzione di sussistenza127. Le dinamiche commerciali dell'alto medioevo furono palesemente diverse da quelle odierne in quanto mosse da logiche completamente differenti128: le compravendite venivano infatti effettuate spesso per necessità e il profitto passava in secondo piano, soprattutto quando gli attori commerciali non erano mercanti di professione129.
Per un'economia concepita in tal modo è stato ipotizzato un modello che prevedeva un circuito a doppio livello: uno privilegiato, riservato ai produttori e ai consumatori, dove le compravendite avvenivano per necessità e non per profitto, attraverso operatori che agivano al loro servizio, e un altro livello sovrapposto al primo di liberi mercanti di professione che operavano per profitto e accettavano esclusivamente pagamenti in denaro, che erano sottoposti a tassazione130. In ogni caso gli scambi avvenivano di norma a mezzo di denaro e della circolazione monetaria in epoca carolingia esistono molte prove131. Il commercio aveva luogo o nei mercatus legitimi, o in mercati privati situati generalmente all'interno di un maniero rurale detto mercatus villae132. Con il proliferare dei mercati la situazione divenne ben presto incontrollabile quindi vennero prese misure per concentrare le operazioni commerciali soprattutto nei mercati regi, scoraggiando coloro che li evitavano per sottrarsi al pagamento delle tasse e alcuni mercati pubblici furono trasferiti alle chiese assieme alle relative tasse133. Benchè una buona parte dell'attività commerciale all'interno dell'impero carolingio si svolgesse fuori dalle città, in mercati e fiere rurali, le città rimanevano i luoghi favoriti per i commerci, malgrado le opinioni di Pirenne, come risulta dai molti privilegi di riscossione delle tasse che ne situavano i punti di esazione in civitates, castella, portus, vici134.
Un caso assai particolare era rappresentato dagli emporia135 i cui più celebri esempi sono Quentovic e Dorestad136, anche se ne esistevano altri, tutti localizzati di fatto sul confine marittimo dell'impero. La caratteristica che più colpisce di tutti questi luoghi di commercio è la brevità della loro esistenza, dato che la maggior parte di essi scomparve fisicamente entro il X secolo, dopo che il loro progressivo declino aveva seguito la parabola discendente dell'autorità dei re carolingi137.
Il commercio interregionale aveva invece le sue stazioni in città138 quasi sempre collocate sulle rive di grandi fiumi. Il sale fu certamente la merce più trasportata su grandi distanze139, in parte perché era il principale conservante dell'epoca e poi perché veniva prodotto solamente in alcuni specifici luoghi. Il commercio di sale meglio documentato dell'età carolingia fu quello svolto dai bavaresi sul fiume Danubio, tra Passau e i confini orientali dell'impero, nell'ultimo quarto del IX secolo140. Nei territori del Regnum Langobardorum il sale veniva prodotto a Comacchio e a Venezia.
Fig. 8 - Traffici commerciali nell'alto medioevo.
Accanto al sale, i cereali erano la seconda merce più trattata dal commercio interregionale anche se non sappiamo ancora quali regioni, quando non afflitte dalla carestia, avessero bisogno di importare cereali per la loro normale sussistenza. Molto probabilmente l'area del delta del Po, che produceva quasi esclusivamente sale, aveva un gran bisogno di prodotti agricoli, che arrivavano tramite il fiume dai mercati di Pavia, Piacenza, Cremona, Parma e Mantova, alimentati dalle eccedenze produttive141 delle grandi abbazie di Bobbio, Brescia e Novalesa142. Spostandoci a nord, nelle Fiandre, notiamo come la parte settentrionale della regione tra IX e XI secolo fosse prevalentemente boschiva. La coltivazione della terra non risulta essere stata particolarmente sviluppata e veniva prodotta soprattutto avena, determinando quindi la necessità di un approvvigionamento di cereali dalle regioni più fertili quali le Fiandre meridionali o il Brabante meridionale. Altri beni che regolarmente alimentavano il commercio internazionale erano il vino, le ceramiche e le pietre da macina143. Sicuramente meno importante come volume, ma comunque presente e attivo fu il commercio internazionale. E' attestata la sopravvivenza di collegamenti esistenti già in epoca tardo antica come ad esempio quelli di Marsiglia nel Mediterraneo, anche dopo l'espansione araba. Altro porto importante in tal senso, anche se completamente differente dal punto di vista tipologico in quanto situato più all'interno, era quello di Arles che svolse un ruolo notevole tra IX e X secolo come intermediario negli scambi tra arabi ed europei: generi di lusso come il cuoio di Cordoba, la seta, i gioielli e anche monete arabe erano presenti in città144. Per quanto riguarda il commercio con l'Oriente, nell'812 il trattato tra Carlo Magno e l'imperatore bizantino Michele I, aprì grandi prospettive per un'altra città marinara, Venezia, la quale si sostituì a Marsiglia nel ruolo privilegiato delle rotte mediterranee verso est145.
Il denaro, i prezzi, lo stato
Con Carlo Magno i possedimenti del fisco regio vennero accresciuti anche attraverso le confische effettuate ai danni dei precedenti capi politici e militari. Carlo Magno possedeva direttamente un numero elevatissimo di ville, organizzate secondo il sistema curtense. L'organizzazione e la dislocazione di queste aziende aveva carattere notevolmente dispersivo. Esse si trovavano geograficamente vicine tra loro nelle aree più visitate da Carlo Magno, mentre la loro disposizione risultava maggiormente scaglionata nelle zone di frontiera. È stato calcolato che, solo in Neustria, l'imperatore fosse possessore di circa 400 ville mentre le altre sue proprietà erano dislocate nel resto dell'impero146. Carlo impose precise disposizioni su come utilizzare le eccedenze di quei possedimenti sui quali la corte regia non transitava e non sostava in occasione degli itinerari tradizionali attraverso l'impero. Qualora l'azienda venisse a trovarsi nelle vicinanze della residenza imperiale, alcune quote dovevano essere destinate al mantenimento della corte, mentre altre costituivano gli approvvigionamenti che dovevano essere inviati all'esercito durante le campagne estive e, infine, altre ancora dovevano essere vendute e il ricavato trasmesso direttamente a palazzo. Il re si era reso conto insomma di poter diversificare la produzione delle sue aziende e ne stabilì a priori la destinazione d'uso. Il tutto era finalizzato anche, in una certa misura, a limitare l'indipendenza e l'intraprendenza che certi gerenti manifestavano nell'amministrazione delle ville147.
Per concludere, se volessimo redigere un bilancio dell'operato regio in materia economica, dovremmo rilevare che gli interventi intrapresi in tal senso, per quanto importanti in epoca carolingia, non possono essere definiti espressamente "politica economica" poiché non rientranti in un progetto generale e privi di lungimiranza di visione in quanto dettati da situazioni contingenti e spesso caratterizzati da aspetti occasionali e pragmatici148.
L'agricoltura fu indubbiamente il settore più importante149 dell'economia carolingia e la storiografia ha spesso sostenuto che Carlo Magno avesse perseguito una vera politica agraria150. Questa affermazione si è basata sull'esistenza di un capitolare totalmente e specificamente dedicato all'amministrazione delle tenute reali151 e particolarmente preoccupato di provvedere all'approvvigionamento dell'esercito e della corte, in specie durante le campagne militari; a tal proposito si era resa necessaria la redazione di inventari che elencassero il numero preciso dei mansi, degli abitanti, dei capi di bestiame, ecc.152. Dato il carattere più sistematico e gli aspetti monetari delle misure adottate, tra cui l'accumulo di scorte di cereali e l'imposizione dei prezzi massimi, a dispetto di quanto suddetto possiamo forse nella fattispecie considerare la possibilità che esistesse una politica economica a breve termine, la cui attuazione però non sempre produsse i risultati sperati153.
La fioritura dei mercati durante il IX secolo non si può certamente ricondurre ad alcun intervento diretto del re, che fosse ispirato da una precisa politica in materia di scambi e di commercio. Egli tuttavia legalizzò e controllò l'esistenza dei mercati nel tentativo di arginare l'evasione delle tasse154.
Pipino III dopo la sua ascesa al trono, ripristinò il peso standard del denaro d'argento che aveva progressivamente sostituito il tremisse d'oro alla fine del VII secolo, portandolo da 1,1 grammi a 1,3. Successivamente il potere passò al figlio Carlo, il quale nei primi decenni del suo regno non intervenne nella monetazione con significative variazioni, ma si limitò a ridurre il numero delle zecche a circa quaranta. Nell'inverno 793-794 aumentò però il peso del denario da 1,3 a 1,7 grammi. Questo intervento, che favorì i creditori a danno dei debitori, è stato interpretato alla luce delle relazioni internazionali dell'impero carolingio, in particolare nell'evoluzione del rapporto tra oro e argento nelle esportazioni est-ovest155.
L'ipotesi più recente e condivisa è che la riforma monetaria di Carlo Magno rientrasse in una generale revisione dei pesi e delle misure, attuata contemporaneamente156. Il concilio di Francoforte (794) impose l'accettazione universale dei novi denarii e il fatto che l'autorità ecclesiastica si occupasse di tali questioni non è prova soltanto del fondamento morale della politica carolingia ma anche delle difficoltà incontrate da Carlo Magno nel portare avanti la sua riforma, tanto che successivamente con il capitolare di Thionville (805) dovette restringere il diritto di conio alla sede palatina nel tentativo di porre fine alla dilagante contraffazione delle monete. Questa misura tuttavia non riscosse il successo auspicato, dal momento che il palesarsi di una conseguente carenza di moneta costrinse il sovrano a concedere la riapertura delle zecche locali157.
Al fine di combattere la produzione di falsi un altro strumento al quale si fece ricorso fu la ri- coniazione, impiegata da Ludovico il Pio previa demonetizzazione del vecchio circolante158 in un periodo nel quale la situazione economica pare essere stata particolarmente favorevole. Dopo la frammentazione politica dell'843 il sistema economico e monetario avvertì vari problemi e, oltre ad un allentamento del controllo e a una minore uniformità di progettazione e realizzazione, si ebbe anche una contrazione nel raggio di circolazione delle monete a livello locale. Si verificò inoltre una svalutazione nell'intrinseco dei denari, che durante i primi anni di regno di Carlo il Calvo contenevano solo il 50% di metallo nobile159. Nonostante l'impegno del sovrano per rimediare alla situazione, si aprì un periodo di svalutazione e penuria d'argento che si sarebbe protratto per circa un secolo160.
L'uso del denaro o la sua relativa penuria può essere dedotta da stipulazioni specificanti pagamenti di canoni, somme per acquisti o vendite e simili. In parecchi casi veniva indicata una duplice possibilità di pagamento, in natura o in denaro, persino a est del Reno, dove non erano attive zecche161 e compaiono nei testi canoni in natura che potevano essere sostituiti da pagamenti in denaro e viceversa a seconda delle disponibilità del caso162. Grierson ha ripetutamente affermato che in questo periodo le monete circolarono sorprendentemente poco e che il loro uso nel commercio, di fatto, ebbe un carattere marginale163. Metcalf ha contestato aspramente tale opinione sulla base del dato archeologico fornito dai tesoretti rinvenuti, mentre Morrison assume una posizione intermedia mettendo in guardia dal servirsi dei dati sui ritrovamenti di monete come prova dell'esistenza o dell'assenza di relazioni commerciali164.
La presenza e il numero di zecche in un dato territorio sono spesso indice dello sviluppo economico di un'area, anche se non sempre la loro attività è riconducibile esclusivamente a fattori economici. Talvolta inoltre all'apertura di una zecca fu associata la concessione di un mercato, come nell'869 a Rommersheim165 ma l'impressione generale è che la situazione fosse estremamente eterogenea e che potesse differire da una regione all'altra.
La storia dei prezzi del periodo carolingio ci è di scarso aiuto al riguardo in quanto la disponibilità di denaro pare lungi dall'essere un fattore chiave nella formazione dei prezzi, dato che esistevano anche altri mezzi di pagamento, come testimoniato ampiamente dalla documentazione. I liberi prezzi potevano modificarsi seguendo la legge della domanda e dell'offerta e in relazione anche e soprattutto alle varie stagioni dell'anno166. I prezzi più instabili infatti furono certamente quelli dei cereali, del pane e del vino, perché determinati essenzialmente dalla bontà o meno del raccolto167 che di anno in anno era determinata da diversi fattori e soggetta agli eventi naturali e socio-politici, i quali non potevano generalmente essere previsti.
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