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LE PRIME FILOSOFIE DELL'INFINITO
Proprio di stampo filosofico furono le prime indagini sul tema dell'infinito: come per la maggior parte delle grandi idee filosofiche le sue origini risalgono al pensiero dell'antica Grecia, fondato proprio sull'indagine filosofica. Il fine era la piena definizione e conoscenza della realtà dal punto di vista cosmologico e ontologico: la filosofia deteneva infatti il significato di continua ricerca dei fondamenti della realtà e della conoscenza, di un rapporto diretto tra il filosofo e il cosmo perseguendo il quale egli arrivava alla verità attraverso il pensiero e la ragione. E tale verità doveva rispondere alle domande sull'origine della materia, sull'inizio e la forma dell'universo, sulle leggi che governano la natura: doveva cioè darne spiegazione razionale.
La filosofia antica comprendeva in questo diverse discipline, occupandosi anche di fisica e matematica: è così che già nel mondo greco si assiste al dualismo tra l'infinito nella cosmologia, ossia nel mondo fisico, e l'infinito inteso come assoluto ontologico; e inoltre tra l'infinito nell'estensione, sia nel grande che nel piccolo, e l'infinito numerico, che si realizza nella quantità.
L'APEIRON E GLI ATOMISTI
Il primo a parlare esplicitamente di "infinito" è Anassimandro di Mileto. Egli fa infatti riferimento all'apeiron come elemento primo, o archè, di tutte le cose: si tratta di una parola che indica illimitatezza spaziale e temporale e indeterminatezza della materia. È l'ingresso del concetto di infinito cosmico e di infinito nella grandezza: il mondo fisico appare invece finito, immerso nell'infinito Apeiron.
Totalmente diversa è invece la prospettiva degli atomisti: essi infatti vedono nell'atomo, ossia nell'unità indivisibile della materia, l'elemento primo dell'universo. Si introduce in questo modo l'infinito nella quantità: gli atomi sono infatti entità assolute, infiniti nel numero e nelle combinazioni possibili, si muovono nel vuoto e generano la materia aggregandosi tra loro. Ciò porta gli atomisti, primi fra tutti Epicuro e Lucrezio, ad affermare l'esistenza di infiniti mondi in un unico cosmo, mondi corrispondenti alle varie combinazioni degli infiniti atomi. Si nega inoltre la presenza di una dimensione metafisica: i fenomeni sono determinati dal moto degli atomi, e si parla quindi di determinismo.
PARMENIDE E L'INTRODUZIONE DELL'ASSOLUTO
Parmenide è invece il primo filosofo a riferirsi esplicitamente a un piano metafisico, a un'essenza della realtà che supera il piano della sensibilità e del fenomeno. Tale essenza si ritrova nella pura idea di essere, nell'Essere Perfetto: un'entità astratta e necessaria, eterna, incorruttibile e sempre uguale a se stessa. L'Essere è l'assoluto che si cela dietro al divenire riscontrato dai sensi. Il mondo dei fenomeni, del divenire e del molteplice, percepito dai sensi, è illusorio: solamente l'Essere costituisce la verità della realtà. Esso può essere colto unicamente dalla ragione: si ha quindi un'assolutizzazione della ragione stessa come mezzo per accedere all'essere.
Tuttavia all'assoluto dell'Essere Parmenide fa corrispondere un cosmo finito: l'Essere è infatti associato a una sfera, il solido geometrico perfetto, e tale immagine deve quindi avere anche l'universo fisico. Parmenide è in questo modo il primo sostenitore di un finitismo cosmologico che proseguirà successivamente con Platone e, soprattutto, con Aristotele. A partire dalla sua dottrina si assisterà inoltre al prevalere del dualismo, nella definizione della realtà, tra un universo fisico finito, dimora del divenire e della materia corruttibile e mutevole, e un assoluto metafisico e perfetto che ne costituisce l'essenza ultima: tale posizione si riflette anche nell'indagine sulla natura e sul mondo fisico. In questo modo il tutto è considerato come un'entità unitaria che ha in se stessa la ragione del suo essere: esiste cioè un principio vitale immanente alla natura, principio che si manifesta nella vita, priva di cause esterne a essa, e nella totalità dei fenomeni. La natura fisica diviene immagine dell'idea metafisica.
La cosmologia aristotelica costituisce un perfetto esempio di tale finitismo: un insieme di sfere concentriche, o cieli, con centro posto in corrispondenza della Terra e in cui il cielo della Luna costituisce una sorta di frontiera tra il mondo sublunare, imperfetto e corruttibile, e il mondo dei cieli composto di etere, perfetto e immutabile. L'ultimo cielo, quello delle stelle fisse, rappresenta la perfezione massima, un'immagine del divino: esso costituisce il limite di un universo che non ha luogo proprio, poiché non esiste vuoto o estensione al di fuori del cielo delle stelle fisse rispetto a cui riferire una posizione dell'universo.
Aristotele considera comunque il cosmo come interamente appartenente alla dimensione della fisicità, non subordinato ad alcuna dimensione metafisica. Essendo interamente fisico esso non può però contenere quello che definisce infinito attuale, ovvero realizzato come tale. Egli considera infatti l'infinito dal punto di vista della quantificazione, e ritiene quindi che l'infinito possa realizzarsi unicamente in potenza: cioè come idea del pensiero, come assenza di un limite insuperabile in entità come i numeri, o le estensioni temporali o spaziali. È un infinito che esiste come pensiero, come concetto della ragione di cui non è tuttavia possibile l'esperienza diretta.
I PITAGORICI E L'ASSOLUTIZZAZIONE DEL NUMERO
La Tetraktys: il simbolo dei Pitagorici
La cultura greca, nella pluralità delle
tematiche e delle concezioni affrontate, ha introdotto anche la nozione di
infinito matematico: è proprio in Grecia che la matematica, in precedenza
disciplina volta a scopi pratici, ha assunto l'impostazione moderna, basata su
enti puri e assiomi definiti a priori, determinati dall'intuizione razionale.
La matematica è divenuta parte del discorso filosofico, e le sue basi hanno
assunto valore di idealizzazioni, analoghe in ciò alle idee di assoluto della
metafisica: esse costituiscono cioè astrazioni della ragione che vanno oltre il
piano della sensibilità.
Vi è tuttavia una scuola filosofica, quella dei Pitagorici, che attribuisce agli enti matematici un valore concreto e attuale. Sono loro a introdurre il concetto di numero irrazionale e trascendente, definito cioè attraverso successioni numeriche infinite, e a precorrere in questo il calcolo infinitesimale. Il loro interesse è tuttavia concentrato sui numeri interi, che essi vedono come vere e proprie entità spaziali; sono inoltre i primi a idealizzare gli enti matematici come portatori di bellezza e armonia. Sulla purezza e l'armonia dei numeri si fondava la visione di un cosmo ordinato: un cosmo retto da un assoluto non più descritto qualitativamente, ma definito dalle precise quantità numeriche e matematiche.
IL COSMO FINITO
Il cosmo finito di Aristotele
Le dottrine filosofiche fiorite
nell'antica Grecia pervengono quindi alla visione dominante di un cosmo fisico
finito, limitato da una precisa frontiera, e dell'esistenza di un piano
metafisico immanente alla realtà concreta stessa, sede dell'assoluto o
dell'idea suprema.
I fenomeni colti dall'esperienza costituiscono una manifestazione di tale assoluto, che si esprime come principio vitale della totalità della realtà. Il cosmo appare inoltre ordinato secondo una rigida struttura geometrica, capace di governare i moti dei vari astri: il principio razionale che governa la realtà si esprime cioè anche attraverso le leggi geometriche insite nella natura e nell'universo, leggi che costituiscono una caratterizzazione dell'entità di spazio.
L'INFINITO NEL MEDIOEVO
Tale idea di un universo fisico finito e racchiuso entro la frontiera delle stelle fisse costituisce la base per il pensiero medievale: in esso si ritrova l'idea di assoluto, che si identifica nella nuova visione cristiana dell'universo con Dio. Con Lui si identificano la perfezione e una verità che non va più ricercata attraverso l'indagine filosofica autonoma basata sull'esperienza e il ragionamento individuale, ovvero attraverso un rapporto uomo-cosmo, ma sull'ascolto del messaggio divino secondo un nuovo rapporto Dio-uomo: la nuova verità religiosa è cioè considerata superiore alle capacità della ragione di svelarla e comprenderla autonomamente, e diviene quindi fondamentale il credere attraverso la fede.
L'universo come un tabernacolo: un esempio di cosmo finito
La filosofia era in tal modo sottoposta alla teologia, con il ruolo di rendere accessibile alla
ragione ciò che era già conosciuto dalla fede: in ciò si assiste, soprattutto
nel Basso Medioevo, alla ripresa della dottrina aristotelica e alla sua
riproposizione in chiave cristiana. Ciò significava la conduzione di indagini a
priori, nelle quali l'esperienza diretta dei fenomeni passava in secondo piano
di fronte all'immutabilità e alla perfezione divina. Il fenomeno è qualcosa che
viene percepito dall'uomo nel mondo terreno, e quindi illusorio e imperfetto;
la vera realtà è quella dell'ordine cosmico stabilito da Dio, nel quale Egli è l'assoluto infinito che governa e dà movimento a un cosmo finito, ripreso dalla cosmologia aristotelica.
È il cosmo come appare, ad esempio, nella Divina Commedia di Dante: egli ripropone nella sua opera la suddivisione aristotelica in cieli sferici concentrici, attraverso i quali, dalla materialità terrena, si giunge all'immutabilità e alla perfezione dei moti celesti e del cielo delle stelle fisse. Il principio motore del cosmo diviene l'amore divino, e sua espressione è anche la struttura razionale e geometrica del cosmo: il tutto si trova in perfetta armonia con l'amore di Dio. L'ultimo cielo costituisce il passaggio alla pura spiritualità dell'Empireo, il regno divino, infinito spazialmente e temporalmente: in questo modo le stelle, venendo a trovarsi in qualche modo "a contatto" con l'elemento divino, ne costituiscono una manifestazione nel mondo fisico, manifestazione che necessariamente conserva i caratteri di perfezione e immutabilità.
LA RIVOLUZIONE DEL RINASCIMENTO
Dal pensiero medievale e dantesco emerge anche come l'uomo sia una creatura privilegiata, l'unica capace di concepire il divino e di costruire un rapporto con Dio: l'uomo è superiore nella possibilità di accedere attraverso la fede alla conoscenza ultima, a una verità che trascende i limiti della ragione. Si tratta di un ruolo che trova conferma anche nella centralità del mondo terreno, e quindi dell'uomo stesso, nel cosmo medievale: si può parlare di un primo antropocentrismo, nel quale l'uomo mantiene tuttavia una natura terrena, sottoposta all'assoluto divino.
Tuttavia è con il Rinascimento che la centralità dell'uomo si afferma pienamente: di fronte alla riscoperta delle dottrine classiche e al fiorire degli studi umanistici le concezioni medievali appaiono anacronistiche, incapaci di definire una realtà nuovamente percepita come mutevole. L'uomo non è più limitato all'ascolto di una verità superiore proveniente dal divino: egli recupera l'idea classica di filosofia come indagine autonoma della realtà, indagine per la quale l'infinito metafisico e trascendente non appare più soddisfacente e in cui è la natura, la fisicità a divenire il centro della ricerca. Proprio su questo si definisce il nuovo antropocentrismo, una vera idealizzazione e assolutizzazione dell'uomo e della sua razionalità, nel quale egli diviene artefice di sé stesso e del proprio ruolo nel cosmo, capace di individuare e definire egli stesso i caratteri dell'universo e di stabilire sul cosmo un dominio intellettuale.
Il Rinascimento porta in questo al recupero delle dottrine di Platone e Aristotele in chiave filologica, senza cioè farne uso in chiave teologica e religiosa. Il nuovo Platonismo conserva in questo il piano della metafisica come sede di Dio ed essenza della realtà, collocandolo però in una dimensione completamente assoluta, al di fuori di ogni definizione spaziale o temporale: l'uomo afferma così la propria centralità come entità capace di elevarsi oltre il piano fisico e di accedere a quello metafisico per trovarvi l'essenza del cosmo. L'Aristotelismo ricerca invece l'essenza della realtà nella realtà stessa, identificandola in un ordine razionale immanente al cosmo: viene eliminato il piano metafisico. È l'uomo l'entità che determina, attraverso la sua ricerca, la nuova legge della natura.
Sia il Platonismo che l'Aristotelismo "liberano" in tal modo la realtà fisica, non più subordinata spazialmente e temporalmente alla dimensione metafisica. È la rinascita della filosofia della natura, ossia l'indagine filosofica che fa riferimento all'esperienza diretta dei fenomeni naturali, non più conducendo unicamente ragionamenti a priori, e che punta alla risoluzione dell'ordine e delle leggi naturali insiti nel mondo fisico. Una nuova prospettiva filosofica che recupera, più di mille anni dopo la dottrina atomistica, l'idea di un universo fisico infinito nell'estensione, arrivando inoltre ad affermare l'esistenza effettiva dell'infinito attuale. Il filosofo platonico Nicola Cusano, ad esempio, afferma come il cerchio sia un poligono regolare in cui il numero di lati è un infinito in atto, e giunge a teorizzare un cosmo infinito, espressione fisica dell'assoluto divino: in esso diviene impossibile parlare di centro, e la Terra non occupa più alcuna posizione privilegiata.
UN INFINITO ATTUALE: LA PROSPETTIVA
È tuttavia in campo artistico che il Rinascimento giunge a un'effettiva attualizzazione dell'infinito, realizzandola attraverso l'introduzione della prospettiva. Il riavvicinamento alla natura e alla dimensione concreta producono nell'arte l'esigenza di recuperare la mimesi, ovvero la rappresentazione veritiera della realtà così come essa appare nella nostra esperienza: la questione si pone soprattutto nella rappresentazione dello spazio, degli oggetti tridimensionali. Il problema viene risolto dalle prime figure di artisti interessati allo studio teorico: su tutti Filippo Brunelleschi e Piero della Francesca.
La prospettiva si configura quindi come la proiezione su un piano di linee ideali che, dall'oggetto rappresentato, arrivano all'occhio dell'artista: linee parallele nello spazio, ma che nella rappresentazione piana convergono tutte a un unico punto, il punto di fuga. Tale punto costituisce una rappresentazione dell'infinito attuale, un punto all'infinito dove teoricamente avviene l'incontro delle rette parallele. La prospettiva costituisce quindi una rappresentazione geometrica dello spazio; non più tuttavia dello spazio "reale", ma di uno spazio assoluto e infinito, idealizzato. È una struttura geometrica attraverso la quale l'artista può interpretare e riprodurre esattamente lo spazio fisico: si ritrova quindi l'idea di una centralità dell'uomo e dell'artista, capace attraverso la prospettiva di determinare le strutture geometriche dello spazio. È un'idealizzazione che si ritrova proprio in Brunelleschi e in Piero della Francesca: nel primo attraverso l'evidenziazione delle linee ideali di fuga, nella struttura delle sue chiese, e in moltissimi dipinti del secondo, dove l'uso della prospettiva esprime un nuovo ideale di razionalità e purezza artistica.
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