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I cambiamenti che implicano una reimpostazione dell'impresa
Lo scenario nel quale l'impresa opera è radicalmente cambiato rispetto a quello esistente sino a pochi anni fa. Procedere ad una lettura delle trasformazioni in atto può essere utile cercando di cogliere in esse quelle condizioni e quelle opportunità che possono consentire una riconsiderazione o reimpostazione della responsabilità sociale dell'impresa.
Il primo cambiamento è dato dalla globalizzazione dei mercati che comporta una forte intensificazione della concorrenza su scala mondiale. Si evince un allargamento degli orizzonti di riferimento dove le diverse realtà (economiche, produttive, sociali e culturali) entrano in comunicazione tra loro. L'interrelazione reciproca tra queste, consentita dalla diffusione di conoscenze e tecnologie informatiche, fa si che queste diventino parti
interconnesse di sistemi più ampi.
Questo processo, di "globalizzazione interdipendente"[1], non si espande con la stessa velocità in tutti i settori, costituendo così per alcuni una grande opportunità e per altri un vincolo o una minaccia dalla quale difendersi.
Un secondo cambiamento, che può sembrare in contrasto con il primo, è dato dalla "complessificazione" e "densificazione" degli ambienti di riferimento con i quali l'impresa interagisce, caratterizzati da un'organizzazione con molteplici dimensioni: sociali, politiche, economiche, giuridiche.
Se la prima tendenza è accentrata sulla globalità, la seconda si mostra orientata verso la specificità. Queste due dimensioni si mostrano complementari tra loro se le differenze stanno a rappresentare potenziali fattori d'integrazione e d'arricchimento.
Il terzo cambiamento è rinvenibile nel sapere scientifico e tecnologico sempre più capace di penetrare orizzontalmente, cioè da settore a settore e questo grazie alla diffusione di logiche di autofertilizzazione e di multidirezionalità.
Infine è necessario evidenziare i mutamenti riguardanti la strategicità delle risorse indispensabili per lo sviluppo che sono quelle immateriali raffigurabili nel sapere scientifico, nella conoscenza e nell'informazione. Tali risorse hanno la peculiarità di essere incorporate nelle persone, nelle strutture, nella cultura aziendale e necessitano, per essere alimentate, un interscambio tra loro.
Tali cambiamenti non sono univoci, sono bensì complessi e contraddittori; proprio in quanto tali portano ad una crisi delle nostre categorie concettuali e strumentali e quindi al modo di rapportarci a noi stessi, agli altri e all'ambiente. Vengono così a crearsi nuove domande di senso e di significato scaturite da uno sviluppo che se da un lato ha portato ad una crescente potenza dei mezzi scientifico-tecnici, dall'altro ha portato ad una carenza di finalità e valori.
Se tali cambiamenti prodotti dal sapere scientifico e tecnologico comportano un'importanza crescente del ruolo che ha la risorsa umana dall'altro evidenziano una situazione dove ad una evoluzione cosi veloce come quella tecnologica, non si è ancorata quella culturale.
Le imprese devono, dunque, essere le promotrici di quest'ultima dando una risposta a quelle che sono le domande di senso e di significato. Risulta essenziale che ogni soggetto nell'impresa senta propri alcuni valori, come quelli della corresponsabilità e della partecipazione. Solo in questo modo l'interagire tra soggetti, organizzazioni ed istituzioni può generare ritorni positivi per ognuno.
A questo punto dobbiamo chiederci perché proprio adesso avviene questo cambiamento e la risposta è perché il problema economico della società post-industriale è qualitativamente diverso da quello della società industriale.
In quest'ultima il problema è l'adeguatezza dei mezzi scarsi rispetto al fine dato, che è l'accumulazione del capitale che è scarso. Non viene quindi posto in discussione il fine bensì i mezzi per raggiungerlo.
Nella società post-industriale non esiste più il problema di scegliere i mezzi più adatti per raggiungere un fine dato e questo perché le soluzioni a tali problemi vengono date sia dalle teorie economiche che da quelle ingegneristiche. Il problema ora è piuttosto quello di trovare un consenso nell'identificazione dei fini da perseguire.
E' la mancanza di una convergenza e di un consenso verso questi che crea i grossi paradossi sociali del nostro tempo, come ad esempio: l'aumento delle ineguaglianze sociali con la crescita del reddito medio; il problema della "jobless growth", una situazione, cioè, dove l'economia cresce senza provocare l'aumento di nuovi posti di lavoro; la restrizione delle sfere di libertà intesa in senso proprio, la libertà cioè di poter scegliere e non quella di scelta, ed altri ancora.
I caratteri che mostrano questo cambiamento si possono leggere da alcune linee tendenziali che esprimono la possibilità di strade nuove e queste linee sono qui di seguito elencate[2].
. La caduta di molti determinismi storici e organizzativi: esistono maggiori gradi di libertà per muoversi in un contesto incerto e complesso.
. Un 'accresciuta rilevanza delle dimensioni soggettive e culturali in conseguenza della diminuzione di vincoli e di rigidità.
. Centralità e criticità delle risorse umane: le nuove tecnologie ne rendono necessaria il loro coinvolgimento e la loro partecipazione.
. l'innovazione, fattore essenziale di competitività economica, poggia in misura crescente sulla collegialità e l'interdipendenza: queste relazioni non sono limitate semplicemente a livello imprenditoriale ma anche cono l'ambiente sociale, culturale istituzionale.
. la crescita di nuove forme organizzative e gestionali che si fondano sull'accordo tra i vari soggetti che operano condividendo il fine.
Da tali segnali si potrebbe giungere alla conclusione che il ritorno all'etica deriva dal fallimento delle teorie che ne postulavano invece l'abbandono. Questo, però, comporta l'ammissione che se noi avessimo un'economia di mercato perfetta non ci sarebbe bisogno ne di comunione ne di condivisione (tutti pagherebbero le tasse, tutti rispetterebbero le leggi, nessuno cercherebbe di barare ecc.). Ora questo è corretto se il ragionamento parte da un modello con una matrice che potrebbe essere definita liberal-individualista . Da questo punto di vista esperienze come quella dell'Economia di Comunione sono tollerate, ma solo in quanto utili ad educare la gente a pagare le tasse, a rispettare le leggi, sono, cioè, "strumentalizzate" per raggiungere quelli che sono gli obiettivi del mercato .
In una visione liberal-personalista, invece, dove si fa una distinzione concettuale tra l'individuo e la persona, l'Economia di Comunione e le altre esperienze simili a questa, diventano fondamentali.
La persona, sotto questa concezione, è l'individuo che vive assieme agli altri in una comunità e proprio in questa dimensione comunitaria si riscopre la persona come essere relazionale.
Se dunque si riscopre l'importanza della dimensione comunitaria, tutte le esperienze che contribuiscono a diffondere tale cultura, la cultura della reciprocità che controbilancia quella del contratto , sono fondamentali e non marginali.
In una concezione liberal-individualista si è pensato di risolvere i vari problemi dilatando la sfera del mercato fino a farla diventare onnicomprensiva e trascurando di conseguenza la cultura della reciprocità. Si può allora concludere che i grandi problemi, le grosse contraddizioni della nostra società derivano da una concezione del mercato liberal-individualista.
Gianbattista Vico, il primo a formulare una legge di evoluzione delle società, sosteneva che il declino di una società inizia nel momento in cui gli uomini non trovano più dentro loro stessi la motivazione che li lega agli altri uomini. E' proprio a questo concetto che si rifà Stefano Zamagni quando parla di reciprocità.
I mutamenti nella filosofia manageriale
I cambiamenti nella tecnologia e nella direzione, comportano un rapporto di lavoro più motivato e partecipato
Il consumatore si mostra più esigente, ha oramai soddisfatto quelli che potremmo definire i bisogni primari ed è continuamente alla ricerca di nuovi bisogni da soddisfare.
Le produzioni di massa sono oramai scomparse per dare il posto ad una produzione differenziata consentita dalle nuove tecnologie che permettono una flessibilità sempre maggiore.
È cambiata, dunque, in questi anni la logica manageriale passando[5]:
. da obiettivi di crescita estensiva ad obiettivi di crescita intensiva. Non è più tanto importante l'accumulazione fisica del capitale per conseguire delle economie di dimensione, è piuttosto importante accumulare capitale umano, di conoscenze, di competenze professionali, di una certa capacità ad innovare;
. da parametri di efficienza statica a parametri di efficienza dinamica. Se da un lato c'è l'esigenza di ottimizzare le risorse date dall'altro cresce l'esigenza di saper generare nuove alternative nelle possibilità d'impiego delle risorse stesse;
. da logiche deterministiche a logiche multifunzionali. Le prime si basano su rapporti inequivoci di causa effetto mentre le seconde richiedono un governi delle interdipendenze tra le numerose variabili in gioco (da una cultura « meccanica» ad una cultura «elettronica»);
. da criteri organizzativi basati sulla «semplificazione» e «scomposizione» a criteri organizzativi finalizzati al trattamento di una «complessità» crescente;
. da soluzioni di predeterminazione a soluzioni di flessibilizzazione. Di fronte alla variabilità, imprevedibilità e turbolenza dell'ambiente l'impresa deve essere capace di reagire tempestivamente e deve in più creare delle condizioni organizzative e tecniche capaci di assorbire o neutralizzare i fattori che provocano la stessa variabilità. Se si prende in riferimento in particolare il settore dei beni di consumo durevole, dove c'è stata una drastica riduzione della vita media commerciale dei prodotti, si evince la necessità di riprogrammare i rapporti tra progettazione, produzione, commercializzazione.
. da impostazioni esclusivamente gerarchico-competitive a impostazioni che tengono conto della necessità della cooperazione e dell'accordo dentro l'impresa e con le altre imprese e di concertazione o di scambio con gli altri soggetti sociali che intervengono nella vita economica.
Da quanto detto si evince il passaggio da logiche o modelli meccanici a logiche o modelli organici.
Il contesto precedente si caratterizzava per gli alti volumi di produzione e di vendita di beni poco differenziati, con bassi costi generali e unitari, ed una struttura organizzativa a connotati predeterminati e rigidi. Nel contesto attuale c'è un generale orientamento dell'organizzazione e dei soggetti ai risultati e la struttura si configura in termini di interdipendenza, apprendimento, collaborazione.
L'etica e l'impresa
La questione dell'etica nell'impresa provoca reazioni diverse, c'è chi per esempio trova la legittimazione sociale di questa nella sua capacità di produrre ricchezza senza dover, di conseguenza, avere vincoli di altro genere. Altri vedono la responsabilità sociale dell'impresa come la volontà di voler imporre degli impegni nell'interesse della collettività senza valutarne la sopportabilità di questi da parte dell'azienda.
C'è in fine chi no vuole negare un ruolo sociale dell'impresa, questo, però, deve essere compreso nella categoria dei vincoli, stabiliti dalle pubbliche regolamentazioni o assunti autonomamente dall'impresa nelle proprie strategie economiche e magari, talvolta, sfruttando quest'aspetto per creare nuovi business (per esempio nel campo ecologico).
Una visione a livello concettuale ben diversa è quella che parte dal presupposto che "dell'etica non si può fare a meno se si vuole dare una risposta ai problemi e alle trasformazioni che abbiamo di fronte. ..., la responsabilità sociale è - dunque- elemento costitutivo, fattore intrinseco dell'essere e del fare impresa. Non è un di più" .
E' un'impresa, questa, che deve essere valutata nell'ottica della storicità, multidimensionalità, multirelazionalità, della complessità sociale interna e del cambiamento[7].
L'azienda ha, quindi, una sua collocazione a livello di spazio e di tempo, che implica il possesso dei caratteri di variabilità e di varietà che si associano alle due dimensioni.
L'impresa deve essere, inoltre, riconosciuta in ogni sua sfaccettatura e quindi, come agente economico, come un organismo, un flusso di trasformazioni, un insieme di culture, una struttura sociopsicologica e un sistema di potere.
Essa è parte di una popolazione di attori sociali capaci di plasmare il mercato e l'ambiente. L'ambiente, a sua volta, è formato da un insieme di elementi economici e non che si riversano nell'impresa con una serie svariata di relazioni competitive, collaborative, politiche e culturali.
Nell'interno dell'impresa è riscontrabile, inoltre, una pluralità di soggetti e gruppi sociali che comportano la combinazione tra interessi particolari e interessi generali.
L'azienda è, infine, un soggetto che vive nel mutamento, che implica la compresenza del vecchio e del nuovo.
"L'impresa - quindi - non è soltanto un ambito costituito da soli rapporti contrattuali. Essa è anche una comunità, ovvero un insieme di persone inserite nei circuiti dell'economia moderna con proiezioni interne ed esterne, ove l'autocoscienza e la cultura dei suoi membri, valori di responsabilità e di partecipazione, anche se variamente giocabili e configurabili, non sono delle mere sovrastrutture"[8].
Interagendo, pertanto, l'impresa con l'ambiente nel quale opera non può sottovalutarne l'impatto delle proprie scelte. Ciò non comporta la rinuncia a perseguire obiettivi diversi da quelli che potremmo dire istituzionalmente assegnati all'impresa. Questa dovrà saper combinare orizzonti di breve e medio-lungo termine in modo da poter armonizzare le diverse dimensioni della vita economica, sociale e civile.
Ne consegue che le esternalità negative conseguenti le scelte aziendali non possono essere sottovalutate e non devono, nello stesso tempo, essere viste solo come dei costi che l'impresa può decidere o meno di sopportare ma possono, al contrario, avere un ruolo strategico positivo.
Potremmo, in primo luogo, sottolineare l'allargamento dell'orizzonte di riferimento, creando cosi un sistema più ampio per l'interazione tra ambiti economici, produttivi, sociali e culturali.
La responsabilità sociale dell'impresa: implicazioni sul piano strategico
Assumersi a livello sociale la responsabilità delle proprie scelte per l'impresa non è un comportamento innato o automatico, richiede un preciso orientamento strategico.
Si possono identificare quattro atteggiamenti al riguardo con intensità crescente[9]:
Atteggiamento passivo: l'impresa risponde ai mutamenti con una certa resistenza.
Atteggiamento reattivo: l'impresa risponde successivamente, solo quando l'ambiente crea una forte pressione.
Atteggiamento proattivo: l'impresa quale soggetto anticipatore del cambiamento.
Atteggiamento interattivo: l'impresa promuove il dialogo con l'ambiente in un clima di condivisione delle responsabilità, crea le condizioni per il benessere futuro.
L'impresa, abbiamo detto, è formata da un insieme di soggetti. Non essendo quindi un'identità astratta, la sua responsabilità sociale non può essere svincolata dall'identità morale dell'imprenditore e management e nello stesso tempo non si può isolare la responsabilità dell'impresa ad alcuni momenti o circostanze, deve essere giocata a tutto campo.
Coerentemente a quanto detto le scelte devono essere guidate prendendo in riferimento due poli; il primo facente capo alle conseguenze sul piano ambientale, il secondo ai valori, principi e regole propri dell'impresa che devono essere anteposti alla decisione stessa.
La percezione di una dimensione etica da parte del management può essere compresa quando questo si trova a dover scegliere tra diverse alternative o mezzi eticamente non indifferenti. Se in alcuni casi la decisioni sono immediate e semplici da prendere, in altri, queste comportano dei veri e propri conflitti dove un interesse deve essere forzatamente sacrificato. Altre volte ancora, il conflitto è tra valori parimenti importanti.
Si possono individuare due modi da parte dell'imprenditore di risolvere tali problemi. Il primo si rifà ad una concezione consequenzialistica o teleologica ed enuncia una scelta giusta se comporta conseguenze buone.
Il secondo è relativo ad una concezione deontologica, dove la scelta è valutata in base al rispetto di certi principi e di certe regole.
I dirigenti, di fronte al dilemma se dare priorità nelle proprie scelte all'aspetto economico o a quello etico dovrebbero :
Dedicare più tempo e maggiore sforzo per la ricerca di nuove soluzioni attraverso un'analisi approfondita della situazione, tenendo conto di tutti i bisogni implicati così da ampliare i propri orizzonti.
Tenere conto delle diverse variabili economiche che spesso in maniera riduttiva vengono ricondotte al profitto "tout court" in un'ottica di breve periodo. Al contrario se la gestione di una compagnia è guidata da una visione di lungo termine, dove l'obiettivo principale è l'espansione dell'impresa, la politica economica di base è di un'altra natura e le soluzioni ai vari problemi sarebbero molto differenti. Tale gestione, infatti, confermerebbe una razionalità che non risulterebbe né in una indiscriminata corsa verso il profitto, né in un'applicazione automatica delle norme morali senza considerare lo sviluppo della compagnia nel lungo termine.
Tenere presente l'inerente complessità delle situazioni evitando giudizi moralistici. Infatti, porsi nel ruolo di chi deve prendere le decisioni, richiede la consapevolezza di una situazione estremamente complessa, in cui sono implicate una miriade di diverse considerazioni, sia economico-manageriali che umane, tutte ugualmente importanti e legate da una fitta rete d'interrelazioni dinamiche; nel breve termine esse sono tra loro prevalentemente concorrenti, mentre nel lungo termine sono in realtà complementari. Trascurare le implicazioni economico-manageriali nel nome di più importanti considerazioni etico-sociali significherebbe in effetti intraprendere dei passi verso il non soddisfacimento di tali bisogni. Occorre evitare di cadere nella trappola di prendere una posizione moralistica e agire spinti da convinzioni etiche basate su una visione completa della situazione in tutta la sua complessità.
Fare attenzione non solo a ciò che dovrebbe essere fatto in situazioni specifiche, ma anche ai modi basilari di approccio e agli atteggiamenti che sono la base di questi dilemmi. Bisogna tener conto, infatti, dell'orientamento strategico fondamentale dell'azienda che è realmente la fonte di questi problemi e del modo in cui essi sono trattati. È essenziale, quindi, analizzare la loro sfera di azione, gestione e filosofia organizzativa. Le scelte specifiche assumono, quindi, caratteristiche diverse a seconda dell'orientamento di base dell'azienda.
L'imprenditore deve in tal caso saper riconoscere le problematiche etiche che si presentano di volta in volta durante lo svolgimento della propria attività e deve, di conseguenza, scegliere una condotta capace di contemperare interessi e valori e tutto ciò deve essere fatto in modo ponderato, con la consapevolezza e la responsabilità, per le conseguenze che una certa decisione comporta.
"Il mondo degli affari, la pratica delle imprese, non sono dunque zone franche o neutrali rispetto ai problemi ed agli interrogativi etico - sociali. Questi riguardano tutti i protagonisti della vita economica: ognuno deve fare la propria parte, creando le condizioni per un clima ed una cultura etica che facilitino l'interiorizzazione di valori e di principi e spingano anche alla necessaria sperimentazione" .
Il profitto
Il fine ultimo dell'impresa
Dai dibattiti che si sono avuti nel corso degli anni la risposta a tale quesito può essere sintetizzata in due orientamenti che partono da ipotesi diverse.
Nel primo, si conclude che l'impresa non può prescindere dall'obiettivo di massimizzazione del profitto. Tale obiettivo deve però essere raggiunto sottostando ad alcuni vincoli che sono: le "regole di convivenza", cui devono sottostare oltre alle imprese anche i partiti, i sindacati, le istituzioni ecc. ; l'esistenza di un ordinamento che definisce con chiarezza ciò che è lecito e ciò che non lo è, anche se le imprese devono tener conto della sensibilità e delle coscienze prevalenti in quanto le leggi non si adattano con tempestività all'evoluzione della società; il sistema dei "vincoli interni ed esterni" che sono dati dai diritti dei lavoratori, dalla concorrenza, dai consumatori, dalle istituzioni pubbliche e dalla comunità dei cittadini in generale; le "regole del gioco liberamente accettate".
Il secondo orientamento ha come principio di base la visione dell'uomo come "fine" e non come "mezzo", pone cioè la dignità dell'uomo al di sopra della ragione d'impresa senza però con ciò negare da un punto di vista formale le regole del "gioco".
Il perseguimento del profitto deve collocarsi in un sistema di coordinate più ampie, rispetto all'area del mero calcolo economico ma non deve essere negato, in quanto costituisce la base materiale per la sussistenza dell'impresa e per la salvaguardia dei suoi gradi di libertà che le danno la possibilità di parlare di responsabilità sociale. Un'azienda, inoltre, che mostra una carenza sul piano del consenso, dei valori, della cultura rischia di pregiudicare la propria redditività.
L'impresa deve quindi migliorare nella sua capacità di creare valore puntando ad una crescita globale del potenziale competitivo, sociale e redditizio e cioè all'ottenimento di un profitto di alta qualità.
A tale proposito mi sembra qui opportuno citare quanto viene detto da Giovanni Paolo II nella "Centesimus Annus" al punto 35:
"La chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell'azienda: quando un'azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l'unico indice delle condizioni dell'azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso per l'azienda, siano umiliati ed offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l'efficienza economica dell'azienda. Scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa".
Il profitto, di conseguenza, non può essere il fine ultimo dell'impresa, bensì il mezzo per perseguirne altri. A tale conclusione sono giunti, seppur con presupposti diversi, la maggior parte degli studiosi aziendalisti. Se infatti negli anni addietro si pensava che l'azionista era l'unico soggetto al quale l'amministrazione dell'impresa doveva rispondere, oggi si constata che ad esso si associa una pluralità di soggetti meglio identificati con il termine stakeholder. Tali soggetti assumono un ruolo centrale nella vita dell'impresa in quanto portatori d'interessi e nello stesso tempo di potere d'influenza, per il vantaggio che trae l'impresa dalle loro prestazioni. Trovandosi quest'ultima a dover gestire una molteplicità d'interessi, dovrà cercare di soddisfarne il maggior numero possibile per ottenere il massimo consenso sociale e ciò senza subordinare l'interesse privato a quello pubblico, ma conciliando i due.
Il profitto risulterebbe, quindi, essere strumentale al conseguimento di finalità sociali. Non si mira a raggiungere il "massimo" profitto bensì un profitto "ragionevole", l'impresa deve quindi tener conto di alcuni importanti interessi di carattere sociale, quali per esempio: un'adeguata retribuzione per i dipendenti, la produzione di prodotti di qualità ed infine una sufficiente protezione ambientale.
L'impresa, pertanto, si pone come interlocutore tra interessi diversi superando in tal modo la tradizionale contrapposizione tra capitale e lavoro, configurandosi così come un'azienda caratterizzata da tutta una serie di relazioni con l'esterno (i fornitori e i clienti) e con l'interno (operai, impiegati, manager).
I valori imprenditoriali e la qualità del profitto
La gestione dell'impresa non deve essere focalizzata sul miope raggiungimento
di risultati contingenti, deve invece essere preoccupata di costruire una solida base, sia a livello competitivo che sociale, su cui fondare la redditività a lungo termine dell'impresa. Questo deve essere fatto in tutti gli aspetti della gestione compreso il modo in cui viene prodotto il reddito. Si deve perciò mirare a produrre un profitto di alta qualità.
Dietro a questa preoccupazione si possono distinguere tre valori imprenditoriali, strettamente connessi l'uno all'altro, che potrebbero essere gli elementi essenziali per raggiungere un profitto di alta qualità. Tali valori sono: la longevità dell'impresa, l'obiettivo del lungo termine ed, infine, la centralità della persona .
Il primo valore è dato dalla capacità dell'impresa di mantenere e rafforzare la vitalità dell'organizzazione e la sua capacità di rispondere ai cambiamenti esogeni. Talvolta la longevità di un'impresa viene posposta ad interessi particolari, questa deve, invece, essere perseguita attivamente attraverso un esame critico di tutti gli scenari che, sebbene convenienti, potrebbero avere effetti negativi sul futuro dell'impresa.
Il secondo valore, che è l'orientamento dell'impresa verso il lungo termine, implica inevitabilmente la costruzione di una solida posizione competitiva di un consenso sociale necessario per una redditività durevole. Tutto ciò crea, inoltre, i presupposti per la longevità dell'impresa.
Se l'impresa è orientata sul breve termine, basa le sue decisioni soltanto sul loro potenziale a creare profitti a breve e abbandona tutti gli investimenti che possono dare qualche segno di perdita di redditività. L'impresa potrebbe ad esempio rinunciare a mercati con bassi margini di profitto anche se sono strategicamente importanti o potrebbe scegliere di tagliare drasticamente i costi del personale in momenti di difficoltà, senza cercare prima altre soluzioni e senza considerare la perdita di personale esperto e il deterioramento delle relazioni sociali che ne potrebbe conseguire.
Un orientamento verso il lungo termine, al contrario, implica innanzitutto la ricerca di un successo sia da un punto di vista competitivo sia da un punto di vista sociale. È importante sottolineare come un obiettivo a lungo termine non deve entrare in conflitto con il porre l'attenzione sui risultati di breve termine. È infatti dai risultati di breve termine che l'impresa trae gran parte delle risorse necessarie per il suo sviluppo a medio-lungo termine.
La centralità della risorsa umana, che rappresenta il terzo valore,
rappresenta non solo un valore etico, ma un valore funzionale al raggiungimento di un successo durevole e difendibile.
Non si può trascurare il fatto che le risorse umane sono l'espressione delle competenze e conoscenze dell'impresa che fanno la differenza competitiva di questa.
Come valutare la qualità del profitto
Il profitto è considerato come la crescita del capitale dell'azienda dovuta alle attività manageriali. La sua valutazione che avviene attraverso il bilancio annuale, non permette un pieno apprezzamento dei risultati ottenuti dall'azienda. Nei sistemi contabili tradizionali vengono infatti prese in considerazione soltanto le risorse materiali tralasciando quelle intangibili.
Valutare la qualità del profitto significa, invece, valutare la consistenza e le variazioni nel tempo di un certo tipo di capitale aziendale più ampio, che include oltre ai beni materiali, beni come la conoscenza di tecnologie, know how produttivo, la reputazione aziendale, la credibilità della compagnia e le sue relazioni con le varie parti (clienti, azionisti, finanziatori ed altri), il clima sociale, la dedizione del personale, l'"intensità di cooperazione" con fornitori selezionati ecc.
Al fine di poter valutare pienamente la qualità del profitto, bisogna raggiungere un accordo su quanto la crescita o il deterioramento di questi elementi siano positivamente o negativamente correlati ai flussi di profitto e questo sia per il breve che per il medio-lungo termine.
Nella figura che segue vengono riassunti i valori che devono essere considerati per valutare la qualità del profitto.
VALORI
GESTIONE STRATEGICA E OPERATIVA
CAPITALE FINANZIARIO DELL'AZIENDA FLUSSI REDDITUALI E FINANZIARI |
BENI INTANGIBILI ACCUMULAZIONE / CONSUMO DI RISORSE INTANGIBILI |
VALUTAZIONE
DELLA QUALITÀ DEL PROFITTO
DEL VALORE AZIENDALE
FONTE: C. Parolini, The quality of profit, Economia Aziendale, n. 1 anno 1995, pag. 54
Si evidenzia come la gestione strategica e operativa influenza sia i beni materiali sia quelli immateriali. I flussi reddituali misurano la crescita del capitale finanziario dell'azienda, mentre l'accumulo o il consumo di risorse immateriali porta dei cambiamenti nel patrimonio dei beni intangibili. Soltanto con una valutazione unitaria, del capitale finanziario e dei beni intangibili, è possibile da una parte stimare la qualità del profitto e, dall'altra, il valore dell'impresa in un dato momento.
L'aumento o la diminuzione del valore netto ci dà una stima della futura vitalità di un'impresa. Tale valutazione verifica se e fino a che punto il profitto "quantitativo", per il periodo considerato, risulta dallo sfruttamento di condizioni esogene favorevoli e/o dai beni esistenti oppure dall'obiettivo di investire nel mantenimento e nella crescita sia dei beni tangibili e intangibili e sia della competitività dell'azienda.
Per quanto riguarda gli investimenti, è importante tener presente che questi devono essere fatti in un ambiente con una strategia competitiva chiara e ben definita. Tali investimenti verrebbero altrimenti guidati partendo da presupposti diversi, come per esempio quello di vedere l'azienda come un propria ed esclusiva proprietà della quale poterne disporre per soddisfare i propri bisogni ed interessi, per dispensare favori e per arricchire i membri interni o esterni l'organizzazione. Conseguenza di ciò sarebbe quella di tralasciare obiettivi aziendali più importanti.
Il profitto di qualità deriva non dalla quantità degli investimenti, ma dalla qualità di questi, quindi non da "quanto" ma da "come" investire. Talvolta, infatti, il valore dell'impresa viene accresciuto da una capitalizzazione intelligente nel know how che deriva da una gestione aziendale coerente senza il bisogno di grossi investimenti.
Porre l'attenzione sulla qualità del profitto, e quindi sullo sviluppo delle risorse invisibili, favorisce lo sviluppo delle risorse umane rispetto a quelle finanziarie e materiali dell'impresa, questo perché è all'interno delle prime che si genera l'accumulo dei beni immateriali.
Anche le imprese che aderiscono al progetto di Economia di Comunione pongono l'attenzione su come viene realizzato il profitto e non sulla quantità di questo. Per far ciò, concretamente, come è stato già detto nel capitolo terzo, si sta cercando di studiare un bilancio "ideale", che si pone a fianco di quello contabile, con lo scopo di verificare se l'impresa si sta muovendo nel rispetto dell'ambiente esterno e delle persone che in essa prestano la propria attività lavorativa .
Le relazioni verso l'interno
Le nuove forme organizzative aziendali, che rompono i confini delle singole funzioni, implicano una partecipazione della persona più diretta, responsabile e gratificante. L'imprenditore o il manager oggi, quindi, deve non solo esigere la prestazione del lavoratore, ma deve anche stimolarlo e motivarlo.
Si trova così "costretto" a ridare dignità al lavoratore. Questo non deve più essere solo un soggetto passivo delegato ad "obbedire", ma deve essere messo nella condizione di poter agire in maniera autonoma, potendo così esplicare meglio le sue capacità.
Un ruolo importante, a tal fine, è quello svolto dalla comunicazione interna. Questa diventa uno strumento operativo, che può essere utilizzato da gruppi di persone che operano in diversi settori aziendali, con conoscenze, professionalità e culture diverse, al fine di mettere in comune know-how e conoscenze specifiche.
Il fatto che la persona viene posta al centro dell'azienda comporta, sotto il profilo della comunicazione, un maggiore coinvolgimento e una maggiore attenzione ai destinatari che non sono più dei dipendenti, bensì dei clienti interni. Si cerca così, per far sì che l'impresa abbia successo, di costituire un equilibrio tra la soddisfazione del cliente che acquista e quella del cliente che lavora.
Il rapporto tra l'azienda e il lavoratore si arricchisce, rispetto a quanto previsto dal contratto di lavoro, di un altro statement che prevede che il dipendente dovrebbe essere capito, motivato, orientato. In tal modo si passa dal dipendente che deve lavorare al dipendente-cliente che gradisce lavorare ed è disposto a collaborare alla realizzazione degli obiettivi aziendali. Gli anni '90 hanno quindi portato ad una riscoperta della centralità dell'uomo ed alla consapevolezza che " la scelta vincente è data da un miglior utilizzo di tutta la capacità intellettiva di tutte le persone che operano in azienda e da una maggiore attenzione alla motivazione al lavoro" .
La comunicazione interna cambia, non si configura più col sapere professionale specifico, ma col sapere diffuso, con un'abilità professionale estesa ad ogni livello. L'arricchimento d'idee e proposte che ne derivano porta alla learning organization , che è la diretta conseguenza di un'organizzazione che apprende , che è spinta a migliorare in un'ottica di contributi attesi e non più, pertanto, di compiti prefissati. Tale organizzazione si autoalimenta con lo scambio d'informazioni e di professionalità al fine di ottenere nuove competenze.
IL MIGLIORAMENTO CONTINUO
COMPETITIVITÀSPINTA |
RISCOPERTA DELLACENTRALITÀ DELL'UOMO |
MAGGIORE UTILIZZO DELL'INTELLIGENZADI TUTTE LE PERSONE |
MAGGIORE PRODUZIONE E CIRCOLAZIONE DI IDEE |
LEARNING ORGANIZATION Fondata sullo scambio, la pluridirezoinalità, l'apprendimento, il cambiamento, la comunicazione |
FONTE E. Auteri, op. cit., pag. 29
La comunicazione interna diventa quindi un elemento costitutivo dell'impresa e, nello stesso tempo, "motore propulsore del continuo cambiamento e garanzia della "tenuta" del sistema, in termini di trasmissione di valori, principi, responsabilizzazione e autoregolazione" .
Da quanto detto si può facilmente dedurre che lo stimolo non può essere creato solo mediante un buon salario, il lavoratore si deve sentire coinvolto e motivato. Solo così si può generare la fedeltà all'impresa che caratterizza il modello della Total Quality.
L'obiettivo primario dell'impresa non è più , quindi, il profitto bensì il benessere delle persone coinvolte, "se le persone non sono felici e se non è possibile renderle felici, l'azienda non merita di esistere" (Ishikawa 1992).
"Ogni azienda ha una sua filosofia che mette sempre ai primi posti la sincerità e l'armonia, la collaborazione con i fornitori ed i clienti ed il contributo al miglioramento della società. I dipendenti, quelli regolari, in modo particolare, si identificano con le proprie aziende, che vengono viste come delle grandi famiglie." (Inohara 1993).
La dimensione e le finalità sociali fondano e sorreggono la logica economica. Ecco allora che l'armonia aziendale non è un obiettivo da perseguire, ma è un presupposto fondamentale in un progetto. Sotto quest'ottica cambia sia il ruolo dell'impresa sia quello del lavoratore.
Scopriamo quindi un'impresa socialmente radicata dove l'imprenditore apporta la propria personalità, i propri valori, le proprie capacità di cooperare e comunicare, il lavoratore, definito auto - organizzatore, è messo nella posizione di poter autonomamente decidere, comunicare e stabilire rapporti con l'esterno.
Il "coinvolgimento" e la "fiducia" emergono quali elementi imprenscindibili per raggiungere alti livelli di qualità nelle prestazioni lavorative.
Sociologi ed economisti sono dell'avviso che per aumentare la qualità del prodotto deve essere aumentato il coinvolgimento ed il consenso del lavoratore e ciò deve istituzionalmente essere fatto dall'imprenditore.
"Il consenso ricercato mediante partecipazione operativa dei lavoratori dipende dall'organizzazione dell'ambito produttivo." (C. Carboni, "Qualità e cultura del lavoro", 1990, 204).
Risulta vitale per l'imprenditore ottenere un buon coinvolgimento dei lavoratori ed instaurare con essi un rapporto di fiducia reciproca.
Le relazioni verso l'esterno
Le responsabilità sociali verso l'esterno implicano una presa di coscienza dell'impresa di tutte quelle che sono le componenti negative che con il suo operare riversa sull'ambiente.
Questo porta ad unire due dimensioni, quella sociale e quella economica, che per molto tempo sono apparse distanti tra loro pur essendo in realtà compresenti. Il valore dell'impresa per la società non è dato solo dal soddisfacimento degli interessi degli stakeholder ma anche dai benefici sociali che derivano dall'attività imprenditoriale.
La responsabilità sociale per l'impresa non deve, quindi, essere vista come un vincolo che implica necessariamente delle ripercussioni negative sulla sua redditività, deve al contrario essere interpretata come un modo particolare di essere azienda, capace di avere una certa sensibilità a quelli che sono i problemi sociali e rispettarli, andando nello stesso tempo incontro a quelle che sono le esigenze del mercato ed utilizzando forme manageriali strategicamente solide.
E' questa una via per far sì che l'impresa cresca qualitativamente nel suo insieme. Le divergenze tra i fattori economici e sociali, risultano da quest'ottica, più teoriche che pratiche e si mostrano più in un contesto di breve termine rispetto ad uno di lungo termine.
Un'ottica di breve periodo può portare l'azienda ad avere un visione miope e non realistica dell'economia; il profitto è visto come il fine ultimo dell'impresa.
Un'ottica di lungo periodo dà la possibilità di considerare un maggior numero di elementi che, accompagnati ad una certa cultura imprenditoriale ,creano dei ritorni positivi dell'azienda.
La coesione tra fattori economici e sociali può essere facilitata da: la maturità dell'individuo, cioè, la capacità di identificare i valori essenziali dell'uomo e di lottare per anteporli ad altri; la mentalità e la cultura di coloro che lavorano in azienda che dev'essere aperta ed orientata verso gli interessi della compagnia e della società in generale; le azioni di coloro che agiscono in difesa dell'ambiente, prime tra tutti quelle delle istituzioni.
A tale proposito mi sembra giusto sottolineare che valori quali la solidarietà non devono essere il deterrente per svincolare lo Stato dal suo ruolo istituzionale. Se l'impresa deve assumersi le proprie responsabilità sociali, tanto più deve farlo lo Stato.
Possiamo affermare che l'impresa ha una sua "convenienza" nel porre comportamenti "socialmente accettati" in quanto trova, in questo consenso, la legittimazione del proprio agire.
Internamente all'organizzazione dell'impresa si configura come inevitabile una rivalutazione delle risorse umane che, con le nuove tecnologie, si mostra più che mai vitale.
Rispetto all'ambiente esterno l'impresa si deve mostrare credibile ed affidabile e questo è possibile solo mediante l'imposizione di una propria immagine con l'affermazione di principi coerenti con l'agire pratico.
La legittimazione sociale, quindi, "consiste nell'essere considerati attori credibili, degni appunto di fiducia, che perseguono fini accettabili con mezzi ritenuti pubblicamente leciti" (Corvi, "Visibilità ed immagine nel funzionamento d'impresa", 1993,100).
A conclusione di questo capitolo si può vedere come l'etica sia da un lato considerata come il mezzo per ridare senso alle attività economiche e dall'altro, sia vista come funzionale alle necessità derivanti dal progresso tecnologico.
Queste due conclusioni non sono però tra loro compatibili, perché partono da due concetti diversi di senso economico .
Il primo inquadra il senso economico dell'attività imprenditoriale nella capacità che questa ha di contribuire alla creazione di una società migliore in cui tutti possano vivere decentemente, e ciò rappresenta già di per sé una ricompensa all'attività stessa.
Il secondo concetto di senso economico delle attività imprenditoriali è
espresso nel mero raggiungimento del profitto e della ricompensa, dove, quindi, l'attenzione nei confronti dei terzi ha un carattere prettamente strumentale al raggiungimento del fine primo che è la massimizzazione del profitto. Ecco allora che in questo caso c'è una correlazione indiretta tra l'attività economica e l'etica, dove si constata come un comportamento "corretto" in affari si può tradurre in una prestazione economica positiva.
L'esperienza dell'Economia di Comunione rientra nella prima accezione di senso economico. L'impresa trova il motivo della sua esistenza solo in quanto strumento per alleviare la miseria e la sofferenza di molti. Questo ruolo viene svolto mettendo al centro dell'attività imprenditoriale l'uomo e la sua felicità. Una felicità che, se da un lato non può prescindere da una valorizzazione e gratificazione per il lavoro svolto, dall'altro si completa solo in una dimensione sociale. Aiutare concretamente i poveri, con un terzo degli utili, oltre ad essere una forma di aiuto diretto a chi è nel bisogno, contribuisce a soddisfare il bisogno di sentirsi utili a qualcuno.
Vorrei a questo punto citare Raoul Follereau che dice: ". la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno e che la vostra vita non serva a niente. Amare o scomparire".
S. Zamagni, Per una diversa dimensione dell'economia: l'esperienza Economia di Comunione, Piacenza, 13 Aprile1996.
lo stesso discorso potrebbe valere per il "terzo settore" sostenuto in quanto necessario per colmare le lacune lasciate dallo Stato e dal mercato.
L. Caselli, Risorse umane e trasformazioni produttive, l'ipotesi partecipativa, G. Giappichelli Editore, Torino, pagg. 28-29.
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