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I caratteri che mostrano i limiti della piccola impresa
Da un'analisi statistica basata su dati pubblicati semestralmente sui quaderni Movimprese della CERVED, si evince, nella seconda metà degli anni '80, una natalità imprenditoriale decrescente[1]. Nel ricercare le cause di quest'andamento, non facilmente riscontrabili, si deve in primo luogo escludere l'influenza dei fattori congiunturali in quanto nel periodo considerato, 1985-1990,si osserva una fase espansiva del ciclo economico. Tale andamento deve quindi essere fatto risalire ad un aggiustamento strutturale dell'economia italiana in conseguenza alle nuove condizioni economiche e tecnologiche che caratterizzano il periodo in esame.
Il fenomeno della natalità imprenditoriale riguarda in particolar modo le piccole impresa e quelle individuali e si può vedere come gli anni '70 e inizio '80 hanno avuto condizioni favorevoli alla loro crescita. In questo periodo, infatti, lo sviluppo di micro imprese è stato favorito da vari fattori: la presenza di un forte decentramento produttivo per un alto costo del lavoro, la disponibilità di tecnologie di piccola scala efficienti e flessibili, alla necessità di far fronte ad una domanda più sofisticata e meno prevedibile che poteva essere soddisfatta da micro-iniziative più flessibili per la loro dimensione ridotta e capaci, per la loro specializzazione produttiva, di soddisfare un mercato sempre più suddiviso in nicchie.
Negli anni '80 lo scenario cambia completamente. Dal lato della domanda si registra un rallentamento dei consumi e un cambiamento nella psicologia del consumatore. Potremmo identificare alcuni atteggiamenti tipici che sono[2]: una particolare sensibilità al prezzo nelle decisioni di acquisto, delineandosi così un consumatore realistico; una certa attenzione agli elementi di differenziazione caratterizzanti produzioni mature, per questi il cliente, sensibile ed esigente, si mostra disposto a pagare un prezzo più alto ; una certa attenzione per i prodotti altamente innovativi, con alti standard qualitativi per i quali il consumatore sensibile non si pone limiti in termini di prezzo. Viene così a delinearsi un consumatore più informato e per questo più esigente.
Si evidenzia inoltre una certa attenzione nel comportamento d'acquisto verso alcuni fattori come l'assistenza pre e post-vendita, la reperibilità del bene e la sua esposizione nel negozio, la disponibilità di un assortimento di modelli e la presenza di sconti ed altre condizioni. Il distributore si mostra così strategicamente rilevante e talvolta interlocutore più difficile e condizionante dello stesso consumatore finale.
I cambiamenti riguardanti le forme di concorrenza sono avvenuti su più fronti. Il primo proviene dai paesi di nuova industrializzazione che per la disponibilità di manodopera a un costo contenuto, si sono mostrati più capaci nell'offrire prodotti maturi a basso prezzo, atti a soddisfare la fascia di consumatori meno esigenti.
Il secondo fronte del cambiamento nella concorrenza è avvenuto nelle imprese maggiori che sono riuscite a soddisfare il consumatore più esigente che è alla ricerca di prodotti differenziati e innovativi. Ciò è stato possibile per le nuove tecnologie flessibili che hanno consentito di differenziare il prodotto e alle capacità della grande impresa di costituire attorno a questo una certa immagine e un valido mix di marketing.
Bisogna infine ricordare un terzo elemento (del quale potremo conoscerne la vera incidenza solo nei prossimi anni) che è l'aumento generalizzato della competizione, conseguente alla realizzazione del mercato unico europeo. L'intensificazione della concorrenza si avrà tra le piccole imprese facenti parte dello stesso sistema nazionale, nella ricerca di godere delle opportunità offerte dall'integrazione, e tra imprese minori, appartenenti a diversi sistemi nazionali, a causa di un possibile spostamento da un sistema nazionale all'altro da parte delle grosse organizzazioni di distribuzione.
La piccola impresa a causa dei cambiamenti indicati, quindi, si trova in difficoltà nel servire le fasce tradizionali di mercato mostrando una certa insufficienza a livello strategico per affrontare i cambiamenti resi necessari dalla complessità del nuovo scenario.
Sul piano produttivo ha evidenziato una certa incapacità nel dominare l'innovazione tecnologica potendo al massimo applicarla con originalità. Sul fronte del marketing, della commercializzazione e della logistica non ha mai posto una sufficiente attenzione. Si evidenzia, così, un modello di crescita inwardlooking, in cui si è cercato di ottimizzare l'impiego delle risorse interne, con la riduzione dei costi e il miglioramento della qualità dei prodotti, ponendo però poca attenzione all'esterno. La tensione verso il mercato consentirebbe: lo studio delle opportunità offerte dall'ambiente; una presenza efficace sui mercati; una ricerca di occasioni per stabilire legami strategici con altre imprese al fine di diversificare o consolidare strutture che possano garantire una presenza stabile nel mercato.
La piccola media impresa italiana si è trovata così negli anni '70 ad esportare molto, ma senza capire in fondo quale fosse stato l'elemento che dava ai propri prodotti una vocazione internazionale, senza cioè capire che non è l'origine del prodotto che influenza i gusti del consumatore, ma i suoi elementi di stile e d'immagine che necessitano di adeguate politiche di marketing.
Da quanto detto si deduce che nelle piccole imprese la pianificazione è rivolta più ai fattori interni di successo che alle opportunità offerte dall'ambiente, basandosi così più su mosse adattive, gestibili nel breve periodo, che non a politiche che inducano ad un cambiamento strategico.
2 Le relazioni esterne delle piccole imprese con i canali di vendita e il distretto industriale
I canali di vendita si sono mostrati spesso l'unico punto di riferimento e di supporto nel contattare i mercati stranieri. Il distributore, essendo l'unico capace di esprimere elementi di strategia, è diventato elemento attivo. Tale ruolo lo ha esplicitato dando suggerimenti sul prodotto, effettuando aggiustamenti sui prezzi e rendendosi ideatore di azioni promozionali e talvolta dei servizi pre e post-vendita.
Questa posizione ha così creato uno spostamento dell'attività d'impresa verso gli interessi del distributore e la creazione di una forte dipendenza nei loro confronti.
Tale dipendenza è ancor più accentuata nei rapporti con le grandi catene e centrali d'acquisto[3] esistenti in altri paesi che rende ancora più incerta la posizione concorrenziale dei piccoli esportatori.
I rapporti con questi interlocutori sui principali circuiti internazionali (particolarmente su quello europeo) sembra essere ormai un riferimento obbligato per le piccole imprese italiane. Queste, infatti, devono conquistare una presenza incisiva sul mercato e per far ciò devono essere in grado di garantire una serie di elementi di marketing. Tali fattori vanno al di là del rapporto qualità/prezzo e della creatività/tipicità del prodotto; essi richiedono una certa capacità nel garantire: un livello minimo di quantità di prodotto; la costanza della qualità della merce fornita; la tempestività delle consegne; l'efficienza del circuito logistico; l'idoneità dell'imballaggio e della confezione necessari per soddisfare le esigenze di trasferimento e di esposizione nelle grandi superfici di vendita.
La grande quantità di rapporti che devono essere mantenuti con i piccoli fornitori porta, inoltre, i grandi acquirenti ad effettuare una selezione realizzata, oltre che sul prodotto e sul prezzo, su l'affidabilità, sulla puntualità, sulla garanzia di qualità e quantità costanti ed, infine, sulla possibilità di istituire un rapporto di collaborazione.
Una maggiore attenzione nei confronti di tali elementi si mostra da un lato necessaria per trovare uno sbocco di mercato, ma dall'altro può risultare anche vantaggiosa per la piccola impresa per l'esistenza di potenzialità non ancora espresse. In realtà, però, si evidenzia una certa insussistenza di margini interni per un potenziamento delle sue capacità strategiche. A essa mancano molti elementi di "cultura", evidenziandosi in tal modo una insufficiente attenzione all'informazione interna ed esterna, una resistenza eccessiva alla crescita, una non precisazione degli obiettivi ed una scarsa coscienza dei propri limiti, assumendo così un atteggiamento passivo nei confronti dell'ambiente.
Da un'impostazione di questo genere consegue uno stile di lavoro convulso che mira al massimo sfruttamento delle risorse.
Tali elementi sono riscontrabili anche nelle imprese che operano nei distretti industriali dove lo sviluppo è avvenuto attorno alla produzione tipica di una determinata "area" geografica, all'interno della quale si sono manifestati i fenomeni di divisione del lavoro e di forme intense di collaborazione. Si è così costituito un complesso organico di unità produttive tra loro affini per la dimensione, la cultura, il livello tecnologico, l'attività produttiva e complementari in quanto facenti parte di uno stesso ciclo produttivo.
Il distretto industriale è stato una risposta valida alle esigenze di flessibilità emerse negli anni '70 quando sembra chiudersi l'era del fordismo e manifestarsi la crisi delle forme organizzative dei processi produttivi e del lavoro che portano all'alienazione dei lavoratori.
Nel distretto industriale vengono a delinearsi una serie di vantaggi
economici derivanti dalle economie esterne[4] che in esso si formano e che sono: le economie di localizzazione e di agglomerazione . I vantaggi di carattere economico vanno così a sommarsi a quelli di carattere sociologico e culturale. Questi ultimi, generando la capacità di circolazione delle idee e del loro miglioramento, portano all'"ispessimento localizzato delle relazioni interindustriali" che si caratterizzano per una certa stabilità nel tempo.
Se da un lato tale integrazione (che domina le professionalità, i valori culturali, i rapporti imprenditoriali e orientano la nascita di istituzioni a sostegno dell'economia e della comunità locale) crea sinergie e vantaggi socio-economici, dall'altro può generare dei blocchi conoscitivi che determinano la "debolezza dei legami forti" . Il fatto cioè che l'impresa non ha una propria autonomia (sia perché il più delle volte la produzione si rivolge a grandi subcommittenti o grossisti, sia perché esiste una carenza culturale e una serie di relazioni di tipo corporativistico a livello locale) può portare ad un'inerzia che riduce l'adattabilità regionale. L'adattamento, infatti, porta ad una crescente specializzazione di risorse e ad una preferenza verso innovazioni che riproducono strutture esistenti. Questa ottimizzazione all'interno del sistema comporta, però, la perdita della sua adattabilità. In definitiva, "la coerenza interna del sistema risulta in una «omeostasi patologica». Il sistema perde la sua capacità di riorganizzare la propria struttura interna al fine di far fronte a imprevedibili cambiamenti dell'ambiente" . L'attitudine di adeguarsi ai cambiamenti esterni deriva dalla disponibilità di risorse non specifiche e non-dedicate, ridondanti, che possano essere utilizzate per una serie di fini imprevedibili. È necessario quindi sviluppare una certa capacità che non permetta di adattare l'attività a specifici cambiamenti ambientali, ma anche di esaminare l'appropriatezza dell'adattamento.
"Nella misura in cui gli interessi individuali non riescono a cogliere l'importanza di investimenti in capacità ridondanti, seguire questi interessi sarebbe sostanzialmente come violarli, lasciando che l'attuale opportunismo difensivo di breve periodo privi gli attori della loro capacità di avvalersi di comportamenti opportunistici futuri, offensivi e di lungo periodo"[9].
Le peculiarità della piccola impresa
La piccola impresa è caratterizzata dalla coincidenza, nella persona dell'imprenditore, tra proprietà e controllo e da questa peculiarità discendono gli elementi che la contraddistinguono dalla grande impresa.
Nell'attività imprenditoriale delle piccole imprese vengono ad assumere un ruolo importante alcuni fattori di carattere soggettivo che sono[10]: gli obiettivi e le motivazioni dell'imprenditore, le sue esperienze lavorative precedenti, l'assenza di cultura manageriale, lo stile manageriale di leadership, la concezione personale dei propri compiti, l'appartenenza alla prima o alle successive generazioni, la presenza in azienda dei membri della famiglia, l'età dell'imprenditore. Tali elementi, unitamente alle caratteristiche conseguenti alla dimensione ridotta dell'attività, intervengono nel generare peculiari condizioni organizzative.
In primo luogo, si può riscontrare che nelle piccole imprese le mansioni sono costruite intorno alle persone e non viceversa. Questo carattere non è osservabile nelle grandi imprese, dove esiste una struttura organizzativa formale che identifica i compiti e le mansioni necessarie per una gestione efficace preponendo a questi le persone più adatte. Nella piccola impresa le funzioni manageriali vengono accorpate in poche persone che devono quindi svolgere compiti multifunzionali. Venendo così a mancare gli organi di staff in grado di razionalizzare tale struttura , il rischio per il piccolo imprenditore è quello di definire la struttura dei propri compiti più in funzione delle preferenze personali e meno in funzione di scelte razionali.
Una seconda conseguenza derivante dalle dimensioni relativamente ridotte è data dall'impossibilità d'influenzare il proprio ambiente. Tale carattere condiziona l'imprenditore che, non avendo un reale controllo sul territorio, cerca di formulare politiche adattive che fanno leva su un'organizzazione con assetti flessibili capaci di assecondare i cambiamenti. Si evince così una bassa propensione alla pianificazione strategica ed un'attività operativa di breve periodo.
L'orientamento dell'attività imprenditoriale ad un arco temporale ridotto, oltre che derivare da una strategia che mira ad adattarsi ad un ambiente che sa di non poter cambiare, consegue dalla scarsa disponibilità di risorse umane e finanziarie capaci di fornire una pianificazione formale. Tale carenza talvolta è dovuta ad un rifiuto da parte dell'imprenditore di far affluire nell'azienda competenze manageriali per tenere accentrate su di sé le leve di comando dell'impresa. Questo è reso possibile se l'attività imprenditoriale è di carattere prettamente operativo, ha una dimensione ridotta, processi produttivi e tecnologie non sofisticati e un mercato prettamente locale. Elementi questi che permettono di effettuare controlli basati più sul senso comune che non su forme scientifiche.
Questi caratteri si mostrano più smorzati tra gli imprenditori della seconda o terza generazione che hanno una diversa cultura ed obiettivi più ambiziosi, grazie anche ad una struttura aziendale più consolidata.
Tornando alle peculiarità della piccola impresa si vede come una gestione manageriale accentrata in una o poche persone comporti una forte influenza degli individui sulle sorti dell'impresa e quindi un accrescimento del rischio che scelte errate compromettano il buon andamento dell'impresa.
Inoltre, se è vero che la flessibilità della piccola impresa, per le sue dimensioni, la tipologia degli investimenti, può tradursi in possibili opportunità di profitto, è anche vero che culturalmente l'imprenditore -proprietario non sempre è propenso al cambiamento.
I fattori che giocano un ruolo determinante a questo riguardo sono[11]: l'intreccio tra obiettivi atti a soddisfare motivazioni personali quelle di profitto e di crescita, dove i secondi spesso vengono subordinati ai primi; una notevole fiducia nell'esperienza e nei modelli passati di successo che spesso portano a rifiutare modelli meno familiari; una propensione ad affrontare le discontinuità solo dopo che esse hanno già manifestato i loro effetti negativi sulla gestione, avendo quindi una logica più reattiva che proattiva; modalità di fronteggiare i cambiamenti che ricadono più nel novero dei provvedimenti di natura operativa che non in quelli di natura strategica.
Un ultimo elemento rinvenibile nelle piccole imprese è dato dalla scarsa considerazione alle variabili ambientali, collegata ad un orientamento introspettivo che conduce l'impresa ad estraniarsi dalle attività svolte dalle associazioni di categoria con potere contrattuale maggiore.
Da quanto detto si evince che l'elemento che limita maggiormente la vitalità delle piccole imprese nel lungo termine è quello manageriale e più specificamente quello culturale. Questo aspetto non è destinato permanere e può trovare lo stimolo al cambiamento negli imprenditori della seconda o della terza generazione o in altri fattori culturali, come può essere l'adesione ad un progetto come quello di Economia di Comunione. Se da un lato è suscitato da motivazioni strettamente personali ( che possono essere la religione, la volontà di "far del bene" ed altre ancora), dall'altro, nei suoi principi, costituisce uno stimolo alla reimpostazione dell'intera attività imprenditoriale prestando attenzione ad una serie di elementi essenziali per orientarla verso un'ottica di lungo periodo.
La pianificazione strategica nella piccola impresa
Nelle piccole imprese accade che il comportamento strategico, che costituisce l'effettivo modo d'essere e di operare delle imprese, non è il risultato voluto di un piano d'azione intenzionale, con un carattere programmatico e scandito nel tempo. È piuttosto definito ex-post, cioè dopo che si è verificata una certa omogeneità nelle decisioni e nei comportamenti a queste conseguenti. Il prevalere di scelte ed azioni di breve periodo, non lascia spazi sufficienti per effettuare un'analisi strategica necessaria a sintetizzare la situazione esistente e ad esplorare le opportunità di azioni alternative.
L'assenza o la scarsa esplicitazione nelle piccole imprese di un'attività strategica è da attribuire sia a fattori di carattere soggettivo, legati cioè alla figura dell'imprenditore, sia a fattori di carattere oggettivo .
Tra i fattori di carattere soggettivo emerge il profondo coinvolgimento che ha il piccolo imprenditore nella gestione operativa che, se da un lato consente un'immediata applicazione sul prodotto di un'idea vincente, dall'altro crea nell'imprenditore una mentalità "tecnica" che non gli permette d'interessarsi a funzioni che apparentemente non hanno un riscontro sugli andamenti produttivi.
La scarsa propensione alla delega è, inoltre, un altro elemento di carattere soggettivo che ostacola una esplicita pianificazione strategica. Questo atteggiamento è il frutto di una cultura aziendale limitata che porta l'imprenditore a respingere qualsiasi contributo esterno (mondo accademico, consulenti), atto a potenziare la sua capacità gestionale, al fine di conservare il controllo incondizionato dell'organizzazione che dirige.
Un terzo elemento soggettivo è quello relativo all'influenza che certi fattori esterni hanno sulla vita aziendale, come per esempi alcuni problemi legati alla sfera privata, che possono impedire comportamenti economicamente razionali.
Tra i fattori oggettivi deve essere annoverata la scarsa competenza manageriale presente nelle piccole imprese. Tale fatto deve essere attribuito alla tendenza accentratrice dell'imprenditore, agli alti costi fissi derivanti dall'assunzione di dipendenti qualificati, al rifiuto da parte di validi dirigenti a prestare il proprio lavoro in un ambiente che offre una modesta remunerazione, basse possibilità di far carriera e di tenersi aggiornati.
Altri fattori che limitano l'esercizio di una certa attività strategica, derivano dal rapporto delle imprese con il mercato. Se infatti l'attività svolta è di subfornitura, i margini che l'imprenditore ha a disposizione per progettare azioni future è fortemente limitata. Presupposto quindi fondamentale per lo sviluppo di un'attività strategica è il potere che deve avere l'impresa d'incidere sull'ambiente circostante.
Altre volte l'attività strategica è ostacolata dalla mancanza di obiettivi di crescita dovuta alle caratteristiche proprie dell'imprenditore o al posizionamento in settori maturi o con alte barriere all'entrata che portano
alla riduzione delle pressioni competitive.
Da quanto detto emerge che il fattore cruciale per l'attivazione della fase di analisi strategica è dato dalla mentalità imprenditoriale in conseguenza al ruolo preponderante che assume l'imprenditore nell'impresa.
La mentalità che deve essere acquisita è quella di lungo periodo. L'imprenditore deve quindi essere messo in grado di capire che l'azienda, essendo volta a raggiungere un equilibrio economico durevole nel tempo, deve, nel breve periodo garantire un equilibrio futuro che è possibile solo mediante un'analisi strategica e una successiva pianificazione.
La struttura tecnica e le metodologie d'analisi che devono essere utilizzate per introdurre gradualmente nell'azienda i principi dell'analisi strategica devono sottostare ad alcune esigenze.
Il primo ordine di esigenze è dato dalla comprensione e dal rispetto della figura imprenditoriale e della sua centralità nell'organizzazione aziendale. Il consulente deve quindi lavorare a fianco dell'imprenditore ed avere grandi doti di comunicazione che gli consentono di costruire un rapporto di fiducia e di stima reciproca.
Una seconda esigenza è data dalla continuità di analisi strategica atta a
monitorare il quotidiano svolgimento della gestione, per avere una visuale immediata delle condizioni di economicità, vista la forte dipendenza della piccola impresa ai risultati quotidiani. L'analisi deve mirare più che all'applicazione di strumenti particolari, a sviluppare una certa capacità d'interpretare in chiave di lungo periodo gli andamenti correnti.
Per far ciò si deve favorire una chiara comprensione della dinamica economica dei ricavi e dei costi non solo a livello complessivo, ma anche nell'analisi per combinazioni prodotto-mercato, per avere un maggiore controllo diretto su quell'area strategica d'affari che ha generato determinati risultati.
L'analisi deve quindi essere portata avanti su tre fronti: quello economico-finanziario, con un riferimento particolare al concetto di combinazione prodotto-mercato; quello tecnico produttivo, per analizzare i tempi, la qualità e l'efficienza del processo produttivo e quello delle relazioni ambientali e delle variabili competitive.
Possiamo quindi vedere come sia impossibile ed inopportuno applicare anche alle piccole imprese metodologie collaudate nelle grandi e come sia la lungimiranza del piccolo imprenditore il fattore chiave che può creare le condizioni di economicità di lungo periodo.
L'eccellenza imprenditoriale e i suoi presupposti
L'eccellenza dell'impresa sottostà ad una
formula imprenditoriale che vede il
successo non semplicemente come la capacità di produrre profitto, bensì come
l'attitudine di salvaguardare la vitalità dell'impresa assicurandole una
funzionalità economica duratura. Il profitto deve quindi poggiare su solide
basi: la dominanza e la coesione .
La prima deriva da
Fig. Elementi della formula imprenditoriale sul versante competitivo e loro caratteri distintivi nelle imprese ben gestite.
FONTE: CODA V., l'orientamento strategico dell'impresa, UTET, pag. 89
un vantaggio concorrenziale difendibile su tutti i possibili fronti (miglioramento del prodotto, rafforzamento della rete distributiva, del servizio al cliente ecc.) mirando così a creare una vera cultura aziendale dell'eccellenza.
La coesione, invece, scaturisce dall'attrattiva delle proposte che l'impresa può rivolgere ai diversi interlocutori sociali e che con il loro contributo può realizzare. L'ispessimento di questi rapporti tra le parti sociali e l'impresa è reso possibile dal patrimonio di competenze, credibilità, valori imprenditoriali presenti nell'azienda. Questo si deve
FONTE: VITTORIO C., op. cit.
mostrare un soggetto credibile per conquistare il consenso e la collaborazione dei diversi attori sociali al raggiungimento di quel certo progetto impresa".
La dominanza e la coesione fanno quindi parte di un unico sistema dove i due elementi si alimentano a vicenda.
In un sistema così strutturato il profitto assume un ruolo di fine- mezzo che si concatena con gli obiettivi di dominanza e coesione e dove l'impresa mostra una sua specifica vocazione o missione: " Una missione non già banale, ma significativa, capace di dare un senso al lavoro e all'impegno di tutti, verbalizzabile per l'appunto come un sentiero di apprendimento imprenditoriale fecondo"[14].
Ecco allora che ancora una volta si evidenzia come solo un'ottica di lungo periodo possa dare all'impresa quel carattere distintivo necessario in un contesto poco controllabile come quello odierno. Un orientamento di questo genere non è una prerogativa esclusiva della grande impresa, ma si mostra essenziale per salvaguardare e valorizzare il patrimonio imprenditoriale e culturale presente nella piccola impresa.
I presupposti necessari affinché si affermi un orientamento di lungo periodo sono tre: una professionalità manageriale, una creatività imprenditoriale, una eticità dei comportamenti degli attori chiave.
La professionalità manageriale mette l'imprenditore in grado di comprendere la complessità del sistema aziendale e dell'ambiente nel quale l'impresa opera; di percepire le forze evolutive del settore cui questa è interessata; di capire i fattori causanti una buona o cattiva salute aziendale da alcuni sintomi; di rendersi conto di alcune dissonanze alle quali occorre porre rimedio e ricercare altre linee di consonanza. Le competenze manageriali devono quindi creare una certa capacità di apprendere e gestire i mutamenti necessari per poter così anticipare l'insorgere di problemi e di difficoltà.
A tale carattere deve sempre accompagnarsi una certa creatività imprenditoriale che si concretizza nella capacità di operare sintesi economiche, valide a dare una risposta ai bisogni espressi dal mercato e le competenze attivabili per soddisfarle.
Tutto ciò non sembra essere sufficiente, è necessario, infatti, che gli attori-chiave rispecchino comportamenti eticamente corretti, basati sui principi si rispetto delle persone, visione del potere come servizio, distacco dalla ricchezza , amore della verità, ricerca disinteressata di ciò che è bene per l'azienda.
L'inserimento di tali concetti nelle piccole imprese si mostra particolarmente irto di difficoltà, in quanto il contesto nel quale sono sviluppate ha permesso loro di vedere il sistema locale come fonte di opportunità da cui attingere più che come una ricchezza da alimentare.
Il problema che si pone non è tanto quello d'integrare il Know-how produttivo e commerciale posseduto, di acquisire tecnologie innovative, che pure sono necessarie, ma è piuttosto quello di intervenire sui principi che guidano le scelte dell'impresa, cercando di valorizzare le conoscenze, le idee e i valori che ne costituiscono il patrimonio.
Uno stimolo in questo senso viene dato dal progetto di Economia di Comunione che porta delle finalità di più ampio raggio nell'impresa e cerca di dare coerenza a quella che è la missione aziendale con i mezzi utilizzati a tal fine. L'elemento che viene più in evidenza in questo progetto è quello etico che comunque funge da stimolo agli altri due (la professionalità manageriale e la creatività imprenditoriale) . Il fatto poi che un'impresa for profit abbracci un progetto di carattere sociale induce ad accrescere la coesione, sia interna che esterna.
VIVARELLI M., La natalità imprenditoriale il Italia nella seconda metà degli anni '80, Piccola impresa/Small business, n. 2 , 1992.
PEPE C., Riflessioni sulla debolezza strategica delle piccole imprese italiane, Piccola impresa/Small business, n. 1, 1988.
le economie di localizzazione derivano dalla presenza nel territorio di risorse immateriali, dovute ai fattori socio-culturali, e materiali, come ad esempio l'esistenza d'infrastrutture, della disponibilità di fattori di produzione e la vicinanza ai mercati di sbocco. Le economie di agglomerazione derivano dalla divisione del lavoro tra le diverse imprese nel territorio.
BECCATTINI G., Dal "settore" industriale al "distretto" industriale. Alcune considerazioni sull'unità d'indagine dell'economia industriale ,Rivista di Economia e Politica Industriale, n.1, 1979.
GRABHER G., La debolezza dei legami forti: il ruolo ambivalente della cooperazione interaziendale nel declino e nella riorganizzazione della Ruhr, Piccola impresa/Small Business.
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