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Scienza, ragione e coscienza - tesina




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SCIENZA, RAGIONE E COSCIENZA















INTRODUZIONE



"molte cose che noi ignoriamo

saranno conosciute

dalle genti dell'evo futuro;

molto è riservato a generazioni

ancor più lontane da noi nel tempo,

quando di noi

anche il ricordo sarà cancellato."

Seneca, Naturales questiones



Lo sviluppo delle conoscenze nel campo della scienza e della tecnica ha sempre fornito un contributo fondamentale allo sviluppo delle civiltà, permettendo a popoli ed individui, con le sue scoperte, di raggiungere condizioni di vita progressivamente migliori.

Nonostante i grandi progressi a cui essa ha indubbiamente condotto, o più probabilmente proprio a causa di questi, molti filosofi, letterati e persino alcuni scienziati si sono sempre più interrogati sulla validità e sui limiti della scienza stessa. Il pensiero umano ha continuato ad oscillare senza sosta fra una totale accettazione ed un rifiuto di tutto ciò che essa comporta.

All'incondizionata fiducia che nell'Ottocento correnti filosofiche come il Positivismo avevano dato alla ragione scientifica, e si pensi, a riguardo, al pensiero di Comte che la concepiva come essenzialmente diretta a stabilire il dominio dell'uomo sulla natura, già si opponeva un forte dubbio sul reale valore di questo progresso. Versi come


Qui mira e qui ti specchia,

Secol superbo e sciocco


che troviamo nella Ginestra di Leopardi o i due libri, i Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, che Verga ha lasciato con il suo incompiuto Ciclo dei vinti, scritti proprio quando questa corrente si stava per affermare o lo aveva fatto da poco, mostrano apertamente quale fosse il forte dissenso da parte di questi due letterati italiani nei confronti delle "MAGNIFICHE SORTI ET PROGRESSIVE", ovvero l'illusione positivistica di un continuo progresso trainato dalla scienza e dalla tecnica. Ma questa resta comunque una critica rivolta essenzialmente alla reale capacità dello sviluppo scientifico di condurre ad un effettivo miglioramento globale, nella convinzione che di esso alla fine non tutti possano beneficiare, ed anzi, alcuni, finiscano vinti dalla sua incessabile fiumana, deposti sulla riva, travolti da ciò che avrebbe dovuto esaltarli.

In realtà, tale dissenso nei confronti del mito che si era creato sulle potenzialità teoriche e pratiche della scienza e della ragione, si ferma solo al suo aspetto esteriore, alla sua eccessivamente ottimistica fiducia; non propone soluzioni, assume un ironico e polemico distacco nei versi di Leopardi e mostra soltanto, nei libri verghiani, una situazione ben diversa da quella a cui questo incessante progresso avrebbe dovuto condurre.

Ben più profonde e senza dubbio molto più moderne, sono, invece, le domande che pochi anni prima si era posta l'inglese Mary Shelley scrivendo il suo celeberrimo Frankenstein. Qui non ci si chiede se il progresso tecnico e scientifico sia davvero in grado di portare ad un generale miglioramento delle condizioni di vita per l'umanità, ma, al contrario, se esso non possa finire per distruggerla. L'obiettivo è spostato, da chi si illude e lo subisce, i vinti, a chi si sforza in ogni modo di realizzarlo, uno scienziato, il Victor di Mary Shelley. Ed in questo personaggio si condensano le paure di una generazione, quella dei poeti romantici inglesi, affascinata, ma allo stesso tempo spaventata, dalla scienza e dalle sue scoperte. Così Victor, nella sua infinita ambizione di overreacher, cercando di trainare verso un benefico progresso l'umanità, finisce per credersi un dio in grado di creare la vita. Robert Jungk lo definirebbe, proprio come fa per i vari "scienziati atomici" di cui narra la storia nel famosissimo saggio Più lucente di mille soli, nulla più che un apprendista stregone. Ed infatti, Victor perde controllo sulla sua creazione e viene punito con la morte per la sua smisurata sete di conoscenza. L'aver perso di vista la morale lo porta all'autodistruzione, ma egli è, comunque, l'unica vera vittima dell'errato uso che ha fatto della scienza e dei suoi mezzi. La sua stessa creazione mostra di essere in un certo senso più saggia, di avere quella coscienza che Victor ha perso, bruciando il suo stesso corpo per evitare che altri "apprendisti stregoni" possano da esso trarre ispirazione per nuove mostruose creazioni. Mary Shelley affronta, così, la problematica del rapporto tra doveri morali e scienza, ma lo fa ancora con una veduta piuttosto ristretta, può ancora solo immaginare a quali grandi capacità distruttive possano giungere le scoperte scientifiche, non può certo sapere a cosa arriveranno gli apprendisti stregoni di cui parla Jungk nel suo saggio. Ed è, infatti, proprio il secolo scorso, cresciuto attorno al valore della libertà della ricerca scientifica, diviso fra la fede nel progresso a cui dalla stessa veniva trascinato ed un sempre più forte orrore per alcune strade intraprese, quello che più di tutti l'ha messa in dubbio per il carattere spesso disumanizzante che tale ricerca ha assunto. Esempi come quelli della bomba atomica, delle armi chimiche, potranno sembrare scontati, ma sono senza dubbio il risultato maggiore dell'uso distorto delle capacità scientifiche a cui si è arrivati. Inoltre, in particolar modo negli ultimi anni, la pratica scientifica è stata continuamente messa in discussione in campi, come quello della ricerca biomedica, in rapido e continuo sviluppo. Se da un lato, infatti, alla possibilità di modificare la struttura biologica, si riconoscono indubbi vantaggi, come la cura di malattie genetiche, la possibilità di migliorare l'agricoltura e di ridurre il problema della fame nel mondo con spese minime, si intravede anche il rischio di creare forme di vita anomale, dannose per l'uomo, come batteri resistenti ai moderni antibiotici, oppure di permettere, proprio come aveva fatto il Frankenstein di Mary Shelley, di manipolare, in questo caso attraverso i geni, la vita umana.

Cosa si può fare, allora, per evitare che uno scienziato oggi diventi, come si autodefinì con tristezza Oppenheimer, il fisico a guida del progetto americano per la costruzione della bomba atomica, "Morte, il distruttore dei mondi"?

Diverse sono le risposte che si è provato a dare a questa domanda, così frequente proprio dopo la deflagrazione della stessa bomba, concepita come lo strumento "di pace" che avrebbe potuto da sola porre fine alla guerra nei confronti della Germania, e poi utilizzata con un inutile dimostrazione di forza contro un Giappone già vinto, seppure non ancora domo. Einstein, da scienziato, cercava la risposta non nella scienza stessa, in cui aveva ovviamente una totale fiducia, ma nell'erroneo uso che di

essa si è sempre fatto. Conscio che "entro mura misteriose si perfezionano con fretta febbrile i mezzi di distruzione collettiva", affermava la necessità, in un suo discorso pronunciato proprio davanti agli scienziati italiani, di "ammonire ora e sempre", per evitare che "al termine del cammino si profili sempre più distinto lo spettro della distruzione completa". Ma probabilmente creare strumenti potenzialmente mortali, consegnarli in mano a chi può permettersi di usarli e poi ammonire sulla loro portata distruttiva non è sufficiente, se non ipocrita. O almeno così affermerebbe il Mobius, protagonista della commedia I Fisici dello svizzero Friedrich Durrennmatt, scopritore della fantomatica "formula universale del sistema per tutte le scoperte". In tale opera teatrale, infatti, viene nuovamente portata avanti la problematica della coscienza degli scienziati, ma con un'ottica diversa, quasi paradossale. Il fisico, infatti, piuttosto che divulgare e sfruttare la sua scoperta, preferisce nascondersi, fingersi pazzo, per evitare che la sua creazione finisca nelle mani sbagliate e diventi un nuovo strumento di distruzione;


Oggi il genio deve restare misconosciuto.


È questo il motto che egli ripete continuamente.

Ma è davvero questa la soluzione? Può davvero oggi il genio restare misconosciuto? È davvero possibile e auspicabile che un uomo di scienza si comporti come Mobius, o come l'Ettore Majorana che romanzescamente Sciascia ci racconta nel suo La scomparsa di Majorana? Il fisico, che anche qui, in stile pirandelliano, decide di sparire per sottrarsi alla sua scienza, forse spaventato dallo spettro dell'atomica che aveva intravisto tra i possibili risultati delle sue ricerche, preferendo vivere nascosto, rinunciando al suo genio, pur di non dover diventare strumento di morte, è davvero l'esempio da seguire? O lo sono forse Fermi, Oppenheimer ed i suoi seguaci, o lo stesso Frankenstein che, forse ingenuamente, rinunciarono alla loro coscienza, entusiasti delle scoperte a cui andavano incontro? La risposta che ci dà Sciascia, è quasi scontata, ed è rappresentata dalla figura di Heisenberg, il fisico tedesco, che, nella storia, forse leggenda, avrebbe deciso di non condurre gli scienziati hitleriani alla creazione dell'atomica:


"In un mondo più umano, più attento e più giusto nella scelta dei suoi valori, dei suoi miti, la figura di Heisenberg più dovrebbe e nobilmente aver spicco di altre che nel campo della fisica operarono negli stessi suoi anni - più di coloro che la bomba la fecero, la consegnarono, con esultanza accolsero la notizia degli effetti e soltanto dopo (ma non tutti) ne ebbero smarrimento e rimorso"


Ma la risposta del letterato Sciascia, non è completa, come non lo era quella dello scienziato Einstein. Resta legata a dei valori, quelli della letteratura, che la scienza non sarà mai in grado di possedere. E lo dimostrano proprio questi tre fisici "con una coscienza", che Durrenmatt e lo stesso Sciascia ci descrivono, alla fine, come degli sconfitti. Mobius è costretto a veder vano ogni tentativo di nascondere la sua scoperta, Majorana a fuggire dalla sua scienza e Heisenberg, proprio lui, schiavo di un regime, a guardare i suoi colleghi "liberi" realizzare, oltre l'Atlantico, di loro stessa volontà, quella bomba da cui egli si era tenuto con coraggio lontano.

Pur da sconfitti, essi restano comunque le figure più nobili, gli esempi da seguire. Per evitare il loro fallimento, però, non bisogna certo cercare di fermare la scienza, come oggi, soprattutto nel campo delle biotecnologie, in molti considerano necessario, ma piuttosto, mirare, memori, ma non bloccati dalle loro paure, a fare un uso sapiente dell'enorme potenziale che la scienza pone nelle nostre mani, senza permettere che esso possa distruggere ciò che dovrebbe, invece, esaltare, ovvero l'umanità.

























La Scienza nel passato: Seneca e le Naturales Quaestiones




Parlare di scienza riferendosi ad un passato remoto come quello dell'Impero Romano è senza dubbio arduo se pensiamo che la scienza moderna, come oggi noi la vediamo, è nata solo tra il XVI ed il XVII secolo. Ugualmente però, un'opera di Seneca come quella delle Naturales Quaestiones, può, sotto molti aspetti, essere considerata moderna. Con questo lavoro, composto negli ultimi anni di vita del filosofo, l'autore intende approfondire la conoscenza di quella che egli definisce la meteorologia, ovvero la scienza dei fenomeni che si svolgono fra cielo e terra.

In realtà, sebbene ovviamente quella di Seneca sia un'analisi dai risultati tutt'altro che scientifici, e pensiamo a riguardo alla sua teoria sui terremoti, la cui causa erano considerati soffi d'aria che, entrati all'interno della crosta terrestre, ne sconvolgevano l'assetto, ciò che caratterizza l'opera, sono le finalità che l'autore si pone.

Egli, ovviamente, cerca di subordinare la ricerca tecnica ad una finalità superiore, riconducendo tutto alla teologia. Finalità della scienza e dei suoi studi è quella di rivelare la razionalità del mondo, per dimostrare l'esistenza di una mens divina, garante dell'esattezza e del carattere provvidenziale di fondo all'interno della natura. La conoscenza scientifica pura è svalutata rispetto a quella filosofica, ai cui scopi ogni sapere deve essere ricondotto. A riguardo Seneca compie un'importante distinzione tra sagacitas e sapientias, ovvero fra un sapere che si ferma a guardare verso il basso, frutto di un animo inferiore, ed uno che cerca di ricondurre tutto ad un ordine superiore, innalzando così l'uomo verso una prospettiva divina. Ed, infatti, è proprio dal regresso delle ricerche che deriva, nell'ottica del filosofo, il moltiplicarsi dei vizi nella società romana. Il progresso scientifico, è, infatti, in quanto strumento di avvicinamento alla divinità, in ogni sua forma portatore di virtù, di miglioramenti innanzitutto etici, prima ancora che tecnici.

Se da un lato, comunque, questo forte intento moralistico sembra di fatto ridurre il valore della conoscenza scientifica, affermando la superiorità di una mente filosofica rispetto ad una pratica, dall'altro, in realtà, forte è la volontà in Seneca di spingere l'uomo alla ricerca tecnica, alla ragione, alla scienza. Egli intende, infatti, liberare gli uomini dalla paura dei fenomeni naturali, paura dovuta soltanto alla loro ignoranza a riguardo degli stessi. La conoscenza scientifica del mondo, infatti, è in grado, spiegando le leggi della natura, di mostrare all'uomo come sottrarsi ai suoi pericoli. È qui già presente, sebbene in chiave molto filosofica, quella che sarà la fiducia nei riguardi della scienza e della ragione umana caratteristica di periodi come il XVII secolo, il Positivismo, o di larga parte del Novecento. La scienza è, in parte, già vista come lo strumento attraverso il quale l'uomo possa liberarsi della sua sottomissione alla natura e dominarla.

La stessa fiducia nel continuo progredire delle conoscenze umane sul mondo è totale; nonostante Seneca dia un giudizio generalmente negativo sullo stato delle ricerche contemporanee, egli è convinto che ugualmente esse siano destinate a progredire continuamente. Non è possibile, ne mai lo sarà, affermare di essere giunti ad un sapere completo, la ricerca scientifica è infinita, portatrice di conoscenze sempre nuove e mai definitive. È tutto ciò è espresso in maniera chiarissima in un passo, riportato in parte anche nell'introduzione a questo lavoro, tratto dalla conclusione del trattato:


Molte cose che noi ignoriamo saranno conosciute dalle genti dell'evo futuro; molto è riservato a generazioni ancora più lontane da noi nel tempo, quando di noi anche il ricordo si sarà cancellato. Il mondo sarebbe una ben piccola cosa se in esso tutto il mondo non trovasse materia per le sue ricerche.




























L'elogio moderno: Comte e il Positivismo



"Sapientia est potentia"

Francis Bacon   



Il Positivismo, sebbene sia stato caratterizzato al suo interno da molteplici correnti, è nel complesso un movimento fondato su una generale esaltazione della scienza e del suo metodo, l'unico davvero positivo. Questo termine deve essere inteso con un duplice significato, da un lato indica ciò che è reale, concreto, sperimentale, e dall'altro ciò che è fecondo, efficace, in totale opposizione alla metafisica, stigmatizzata come la conoscenza dell'astratto e la più inutile possibile.

Il vero fondatore del Positivismo fu senza dubbio il francese August Comte, che partendo da quello che egli definì:


Il bisogno fondamentale d'una rigenerazione universale, ad un tempo politica e filosofica


arrivò a trovare nella scienza l'esempio da seguire per l'umanità, nel tentativo di risolverne ogni problematica.

Scopo della filosofia deve essere quello di introdurre e rafforzare lo spirito positivo all'interno della società, l'unico attraverso il quale possa essere trovata la soluzione alla anarchia intellettuale e alla crisi politica della contemporaneità. In questo senso risulta così necessario creare un'enciclopedia delle scienze, che riassumendo e riorganizzando il sapere scientifico in ogni suo campo, ne crei un prospetto generale, stabilendo quali e quante siano le scienze davvero positive. E tutto ciò deve essere finalizzato alla creazione di una nuova scienza, alla quale tutte le altre siano subordinate, ovvero la sociologia. Ciò che questa dovrebbe, nel pensiero di Comte, riuscire a fare è:


percepire nettamente il sistema generale delle operazioni successive, filosofiche e politiche, che devono liberare la società dalla sua fatale tendenza alla dissoluzione imminente e condurla direttamente ad una nuova organizzazione


E tutto ciò deve partire proprio dalla scienza, dal suo metodo, che indagando i fatti e le loro relazioni, permette di arrivare a leggi invariabili e universalmente valide. Solo in questo modo è possibile, nel pensiero di Comte, trainare il mondo in quello che egli definisce lo stadio positivo.

Aldilà della finalità di rinnovamento politico e sociale che egli si prefigge, ciò che della filosofia comtiana più ha avuto importanza all'interno del pensiero ottocentesco è la sua dottrina della scienza in senso stretto. Egli intende portare a compimento il pensiero di Bacone e Cartesio, definendo il dominio dell'uomo sulla natura il fine della conoscenza scientifica.



Sapientia est potentia


usava dire Bacone, Comte, riallacciandosi al principio generale di questo aforisma, afferma che lo studio della natura deve condurre all'azione dell'uomo. La capacità della scienza di formulare leggi sul comportamento del mondo deve essere utilizzata dall'uomo per regolare, sulla base di essa, i principi del suo agire.


Scienza, donde previsione; previsione, donde azione: tale è la formula semplicissima che esprime in modo esatto la relazione generale tra la scienza e l'arte, prendendo questi due termini nella loro accezione totale.


Partendo dall'osservazione dei fenomeni e delle loro relazioni, compito della scienza è dunque la formulazione di leggi. E questo perché proprio attraverso tali leggi l'uomo è poi in grado di prevedere il verificarsi dei fenomeni stessi, avendone stabilito le cause e le motivazioni. Solo in questo modo è possibile realizzare il dominio dell'uomo sulla natura, riuscendo, conoscendoli, a volgere a proprio vantaggio i fatti, come li definisce lo stesso Comte.

La fiducia nella scienza è così totale. Essa viene considerata come l'ancora di salvezza a cui aggrapparsi per uscire dal moderno interregno anarchico, se vista nel suo lato più speculativo, e come lo strumento di affermazione naturale dell'uomo, nei suoi aspetti tecnico-pratici. Comte, a differenza, ad esempio, dell'Illuminismo e di autori come Kant, con i quali in maniera evidente condivide la fiducia nella razionalità e nella conoscenza verificabile, dà per scontata la validità assoluta del sapere scientifico. Egli, infatti, non sente alcun bisogno di indagarne la capacità, di scoprirne i limiti, perché tali limiti non li vede. Il compito della filosofia non è quello di trovare la fondazione gnoseologica del sapere, ma bensì, semplicemente, di unificarne i risultati, e di guidare, sulla scorta di essi, l'umanità alla sua perfezione.












La Mancanza di Fiducia: Leopardi e Verga



"E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce"

Giovanni, III, 19

Leopardi, "La ginestra, o il fiore del deserto"



Se il diciannovesimo è in larga parte il secolo dell'esaltazione del progresso, della scienza e della sua infinita possibilità di migliorare le sorti dell'umanità, in realtà, sebbene non numerose, autorevoli sono le voci di forte dissenso che si scagliano con determinazione contro questa fiducia imperante. In Italia, in particolare, sebbene in due fasi diverse, sono proprio Verga e Leopardi, due fra i maggiori letterati del secolo, a rifiutare una simile concezione del progresso scientifico e della sua portata.

I due, in realtà, non rivolgono la loro critica direttamente alla scienza, nel tentativo di fermarla o di limitarla per ragioni sociali o morali, quanto piuttosto alla eccessiva fiducia attorno alla sua capacità o ai risultati spesso contrastanti a cui aveva condotto nel mondo contemporaneo agli autori in questione.

Il poeta recanatese in particolare, nella generale ottica pessimistica che dimostra nei confronti dell'umanità, rifiuta totalmente ogni possibile fiducia nell'opportunità di migliorarne la condizione attraverso la tecnica e la scienza. L'uomo è un essere portato sin dalla sua nascita a soffrire, e in quanto tale egli non è in grado in nessun modo di affrancarsi dal destino di sventure a cui la Natura matrigna lo ha indirizzato. Ed è questo pensiero che porta il poeta a confutare le ideologie ottimistiche dominanti nel suo periodo, ideologie che vedevano la storia come una totalità processuale necessaria, un continuo ed instancabile progredire e migliorarsi dell'umanità. E l'attacco a queste illusioni e alla civiltà a lui contemporanea, già presente in una delle prime fasi del pensiero leopardiano, non a caso definita del pessimismo storico, viene ripreso con forza in quel componimento che, non a torto, viene spesso considerato il testamento poetico dell'autore, ovvero La ginestra, o il fiore del deserto.

Osservando il Vesuvio, simbolo per eccellenza di morte e di distruzione, dove, unico rimasuglio di vita, resiste appunto una piccola ginestra, il poeta comincia una riflessione sulla debolezza del genere umano e sul suo eterno destino di sconfitta nei confronti di un nemico troppo forte, che la scienza non potrà mai sopravanzare, la natura stessa, le cui forze sono destinate ad un'eterna vittoria. Ed è proprio sul Vesuvio, che, con versi fortemente polemici, egli invita i "moderni", intrisi di un cieco ottimismo, a recarsi, per vedere che fine ha fatto la potenza di Roma e dell'umanità al confronto con quella della natura:






[.]E la possanza

Qui con giusta misura

Anco estimar potrà dell'uman seme.

Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

Con lieve moto in un momento annulla

In parte, e può con moti

Poco men lievi ancor subitamente

Annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

Son dell'umana gente

LE MAGNIFICHE SORTI E PROGRESSIVE.


Qui mira e qui ti specchia,

Secol superbo e sciocco



L'attacco al suo tempo, e alle sue concezioni, è, da parte di Leopardi, devastante. Le illusioni di un secolo, racchiuse nelle parole moderne, come beffardamente le definisce lo stesso autore in una nota al componimento, MAGNIFICHE SORTI E PROGRESSIVE, sono rovesciate con beffarda ironia. Ogni possibile vanteria da parte dell'uomo di essersi imposto o di continuare ad imporsi come dominatore, per mezzo della scienza e della tecnica, sulla natura e sul mondo è rifiutata. Destino umano è, ancora una volta la sofferenza e la sconfitta.

In realtà, nel resto del componimento, l'autore non si limiterà ad un freddo nichilismo ed alla semplice constatazione della debolezza del genere umano, proponendo un modello di salvezza, proprio quella ginestra, unico segno di vita nel paesaggio di morte vesuviano, conscio della sua tragica sorte, e che, nobilmente, la accetta, senza crogiolarsi, come l'uomo, in effimere illusioni, o senza macchiarsi di viltà cercando continuamente scampo al suo destino.


Sicuramente di portata meno polemica e distruttiva, ma ugualmente critico ed efficace è il pensiero del siciliano Giovanni Verga, che si spinge all'analisi, con i suoi romanzi, rivoluzionari nello stile, ma anche per questo di scarso successo immediato, delle conseguenze del progresso, visto non nella grandezza del suo risultato complessivo, ma dagli occhi di chi è stato travolto da esso. Sul piano filosofico egli rivela, rifacendosi al Naturalismo francese, di seguire in linee generali quella che era la filosofia dominante del tempo, il Positivismo, credendo quella scientifica l'unica verità assoluta. Ed infatti egli è convinto che sia necessario anche per la letteratura cercare di mantenere un approccio il più scientifico possibile, inseguendo l'oggettività, per poter davvero comprendere e mostrare correttamente la realtà ed i suoi fenomeni. Di qui l'estrema ricerca dell'impersonalità della narrazione, cercata, però, differentemente dai maestri Flaubert e Zola, non con un racconto esasperatamente freddo ed acritico, ma cercando di trovare una forma inerente al soggetto. Ogni classe sociale, qualunque essa sia, deve presentarsi da sola, dagli occhi di un narratore che ne abbia la stessa ideologia di fondo, lo stesso linguaggio, rendendo in questo modo possibile un'eclissi totale dell'autore, nascosto dietro i propri personaggi, incapace di intervenire ed esprimere direttamente il suo parere. Egli, non a caso, esprimendo questo ideale di fondo, definisce il suo romanzo I Malavoglia:


Uno studio sincero e spassionato


Ma aldilà della rivoluzione stilistica, che segna un'avanguardistica rottura con la tradizione manzoniana, ciò che caratterizza la poetica verghiana è che, accanto a questa fiducia nell'approccio della scienza alla realtà, egli dimostri un pessimismo di fondo nei riguardi delle conseguenze che essa aveva a livello sociale.  

Sono i vinti che interessano a Verga, coloro che del continuo e necessario sviluppo dell'umanità, trainato dal progredire di scienza e tecnica, rappresentano il lato più oscuro:


Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano [.] e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire al più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopraveggenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.

Dalla prefazione a "I Malavoglia"


Nella darwiniana lotta per la vita, per resistere, sono gli sconfitti, travolti dalla fiumana del progresso quelli ai quali bisogna volgere la propria attenzione. Se da un lato l'ottimismo verso il destino dell'umanità appare evidentemente espresso dal suo risultato globale, esso in realtà finisce per essere negato dalle figure dei vinti. La scienza, il cui metodo è comunque entusiasticamente adattato alla letteratura, nonostante i suoi progressi enormi, non è a tutti che porta i suoi benefici. L'egoismo individuale, la volontà di autoaffermazione, che sono poi le vera molle del progresso, generano un'infinita serie di vittime ed orrori. E il compito dell'artista è di portare alla luce questi orrori, di mostrare il doloroso costo del progresso, ma è lo stesso artista ad essere, agli occhi di Verga, la prima vittima della società che lo circonda, alla quale egli non può in alcun modo appartenere, e che lo esclude perché uomo di lusso, emarginato ed inutile.





The problem of conscience: Victor Frankenstein



"Now that I had finished,

The beauty of the dream vanished,

And breathless horror and

disgust filled my heart."

Mary Shelley, Frankenstein



The English novel Frankenstein, by Mary Shelley, probably is one of the first works representing the theme of responsibility of science towards mankind. The protagonist, Victor, is a new kind of hero, he is a scientist, who embodies the Romantic character of the overreacher, but in a modern way. The author calls him also the Modern Prometheus, because his intentions are to sacrifice himself in order to improve the conditions of humanity. But his results are a complete disaster, his ambition destroys him. What he aims at is a forbidden knowledge, which, when obtained, can only create enormous dangers.

Mary Shelley was aware of the latest scientific theories and experiments of her period, and was frightened by researches like those on galvanism, which used the electricity to provoke muscle movements in dead tissues. And this fear is just embodied by her most famous character, the scientist Victor Frankenstein. He, in fact, using electricity and chemistry creates life, with no respect for the rules imposed by morality and nature. His researches lead him to damnation, making him a lonely, sad, individualist who has lost the real contact with reality. Knowledge, which, in his initial purposes should have been his exaltation, becomes an obsession, conducting him to his final tragic end. He commits the error that, in Mary Shelley's view a scientist shouldn't make, the one to lose contact with morality and ethic, showing no sense of responsibility towards mankind. Although his positive intentions, he is not able to keep control on his creature, and so, the monster, who should have been a sort of Adamus for him, ends to be his devil. Victor, thanks to science, aimed at becoming similar to God, able to create life, but the only results are the deaths of his relatives, of his friends, and finally of himself.

Because of his being an overreacher, he becomes an outcast, alienated by his

knowledge. Even the creature, who can be considered Rousseau's natural man, originally good, is progressively changed by the discoveries made about society and civilisation. He would like only to be loved, but his desires are destined to be finally disappointed. Then, the creature and Victor are complementary figure, they share a similar condition and that is the reason why they chase each other until they die. But, in the end, the monster shows to be more responsible.



Frankenstein, losing in his scientific researches contact with reality and morality, had created something able to destroy mankind, instead of helping it, and the creature wants to avoid similar consequences, deciding to burn his body, so that no other ambitious scientist could make another monster like him.

Paradoxically, is the creature the one who proves to have a strong conscience, and consider the possible consequences of his action, trying to prevent others from living a life full of sadness and desperation like the one he had been forced to live. Both Victor and the monster finally die punished for their action, but anyway Mary Shelley clearly sympathizes for the creature, who is only a victim of civilisation and of his creator ambition.


































La Lotta con la Morale: da Galileo a Keplero e Newton



"Questo non è paese da venire a disputare sulla

luna, né da volere, nel secolo che corre,

sostenere né portarci dottrine nuove"

Piero Guicciardini, Lettera a CosimoII




Fino al XVIII secolo la concezione comune, formulata inizialmente dagli antichi greci e poi resa sistematica, sulla base della Fisica aristotelica, da Tolomeo, era che la Terra fosse un corpo immobile al centro dell'Universo e che fosse il Sole, insieme agli altri pianeti, a ruotargli intorno.

Già nel Seicento l'astronomo polacco Nicolò Copernico aveva formulato, sulla base di puri calcoli teorici, un modello rivoluzionario, quello eliocentrico, nato dalla sua esigenza di semplificare i complicatissimi meccanismi che il sistema tolemaico, per poter sostenere la propria validità aveva dovuto postulare. Pur rimanendo ancorato ad una ideologia di fondo di stampo aristotelico, il modello copernicano rappresentava un enorme progresso per le concezioni dell'epoca. E sebbene non completamente, la sua validità teorica fu in seguito dimostrata, ed in parte anche perfezionata, dai lavori di Galileo Galilei e Giovanni Keplero, che partivano perlopiù da dati empirici.

In particolar modo, il primo di questi due grandi scienziati, sulla base dei suoi studi con il cannocchiale, era riuscito a confutare alcune delle tesi di fondo del modello tolemaico, avendo notato che:

La superficie lunare, ricca di asperità e crateri non è in nessun modo perfettamente uniforme e sferica come postulato da Tolomeo;

Il Sole presenta sulla sua superficie alcune macchie, che col tempo variano e si generano in luoghi differenti, in contrasto con la teoria dell'immodificabilità dei corpi celesti;

Alcuni pianeti, come Giove, possiedono dei satelliti, osservazione che apertamente confuta l'idea che tutti i corpi celesti ruotino attorno alla Terra.


L'aver notato tutto ciò, aveva portato Galileo a rendere molto più plausibile una teoria come quella copernicana, fornendo così le prime importanti prove a favore di tale modello, che comunque, nonostante l'importantissimo ruolo svolto dallo scienziato italiano, avrebbe trovato una sua totale conferma solo nel XVIII secolo.

Ma le verità galileiane, verità scientifiche, frutto del neonato metodo della scienza moderna, erano considerate nel senso comune scomode ed inaccettabili e per questa ragione egli fu dapprima invitato, nel 1616, da parte della Chiesa cattolica, a sospendere le sue ricerche, e poi, nel 1633, ormai più che settantenne, sottoposto a processo e condannato a pubblica abiura. Inutile fu ogni tentativo di mostrare personalmente quanto egli avesse potuto osservare, tramite il cannocchiale, ai suoi accusatori. Ciò che Galileo non fu in grado di capire è che, in realtà, il problema, agli occhi della Chiesa, in un mondo ancora incapace di distinguere davvero fra scienza della natura e teologia, stava soprattutto nel profondo carattere sovversivo di un modello come quello copernicano. Prima che una teoria astronomica e fisica, quella sostenuta dallo scienziato italiano, era vista come un vero e proprio attacco all'idea cristiana del cosmo e della realtà, ricca di una grande simbologia, in grado di spiegare il funzionamento di ogni singolo aspetto della natura e della vita umana. Un tale sovvertimento non poteva essere accettato. Inoltre, sebbene ciò fosse un pretesto per rimanere ancorati alle loro posizioni anacronistiche, Galileo, di fatto con le sue osservazioni, non aveva ancora potuto completamente trovare prove, ad esempio, dei moti della Terra stessa, le cui definitive dimostrazioni sarebbero arrivate solo nel 1726, lasciando, in un certo modo, ancora almeno beneficio del dubbio ai suoi detrattori.

Eppure, ciò che la Chiesa ottenne, fu, con questa totale opposizione alle rivoluzionarie scoperte galileiane, di spingere la ricerca ad approfondire sempre più tale campo, arrivando, così, con le teorie di Giovanni Keplero, a delineare con precisione i reali movimenti dei pianeti, teorie, ovviamente, in quasi generale accordo con quanto postulato da Copernico. Come quelli galileiani, i postulati di Keplero, si basavano soprattutto sulla raccolta di dati empirici. Egli, in particolare, ebbe la fortuna di ereditare, dal suo maestro, l'astronomo danese Tyco Brahe, dei precisissimi dati sul movimento dei pianeti e di altri corpi celesti, raccolti da questi durante tutta la sua vita. Ma aldilà di questa ottima base di partenza, Keplero diede un enorme contributo, poiché riuscì, a differenza del suo maestro, a dare un senso ad una così impressionante mole di dati. Egli, infatti, trovò una spiegazione cercando di sostenere il modello copernicano, ma, in realtà, finì per superare anche molti dei limiti di fondo dello stesso che rimaneva ancorato ad alcuni principi base enunciati da Tolomeo.

Keplero, infatti, primo nella storia della scienza, elimina dall'astronomia le sfere celesti, teorizzando, sebbene solo su basi empiriche, l'esistenza di orbite non circolari. Il risultato di questo fondamentale pensiero è la prima legge di Keplero:


L'orbita descritta da un pianeta è un ellisse, di cui il Sole occupa uno dei due fuochi.


Nella sua prima legge, Keplero dà un ottimo esempio del metodo scientifico della scienza moderna; egli, infatti, se non avesse saputo di avere a disposizione delle osservazioni così accurate come quelle di Brahe, avrebbe potuto tranquillamente ignorare i piccoli margini di errore che riscontrava nel tentativo di trovare delle orbite sempre perfettamente circolari. Ma non lo fece, decidendo di negare una concezione radicata nel pensiero del suo tempo, ma che, in quanto scorretta, andava estirpata.

La necessaria conferma matematica della legge sarebbe arrivata con Newton, il quale, applicando la sua teoria della gravitazione universale, che possiamo sintetizzare nella formula:


dimostrò che, poiché la forza gravitazionale, responsabile dei movimenti dei pianeti, diminuisce con il quadrato della distanza, è necessario che un'orbita chiusa sia un ellisse, o al limite, nel suo caso particolare di coincidenza dei due fuochi, una circonferenza.

A causa della forma ellittica, così, la distanza dal Sole dei pianeti in movimento non è costante, ma cambia continuamente, ed il punto dell'orbita più vicino è detto perielio, quello più lontano afelio. La linea che congiunge tali punti è la cosiddetta linea degli apsidi. Ecco una delucidazione grafica della prima legge:





Tracciando le posizioni dei pianeti sulla loro orbita, e studiandole con il passare dei mesi, Keplero fece un'altra importantissima osservazione, che sarebbe poi diventata la seconda legge che porta il suo nome:


Il raggio vettore che unisce il centro del Sole con il centro del pianeta, descrive aree uguali in tempi uguali.


Come è evidente questa seconda legge riguarda la velocità del movimento dei pianeti lungo la loro orbita, ed,  infatti, da questa consegue che tale velocità varia durante il movimento di rivoluzione, assumendo i suoi valori maggiori quando il pianeta è in perielio, e quelli minori presso l'afelio. Infatti, essendo l'orbita ellittica, il cosiddetto raggio vettore, non ha lunghezza costante, e da ciò consegue, che dovendo essere l'area dei triangoli da esso descritti sempre costante, necessariamente sarà che il pianeta percorrerà archi di orbita minori lì dove ha raggio vettore più lungo, cioè nei pressi dell'afelio, e viceversa. Ecco un disegno riguardante questa seconda legge:




Le aree dei triangoli descritti dagli archi AB e CD, sebbene siano molto differenti fra loro, saranno così sicuramente uguali.


Nell'ultima parte della sua vita inoltre, sempre su base sperimentale, Keplero cercò di mettere in relazione la distanza media che un pianeta ha dal Sole, con il tempo necessario a percorrere la sua orbita. Da ciò egli si accorse che per ottenere un risultato in accordo con i dati raccolti, fosse necessario un rapporto via di mezzo fra una diretta proporzionalità del tipo T = (costante)r o una relazione quadratica

T = (Costante)r2

Keplero arrivò così a formulare la sua terza legge:


Il periodo T, di rivoluzione di un pianeta intorno al Sole è proporzionale alla distanza media dal Sole elevata a 3/2. Cioè:


T=(costante)r3/2



Questo risultato può essere ottenuto anche applicando la legge della gravitazione di Newton, che ne dà una dimostrazione matematica. Se pensiamo ad un pianeta con orbita circolare che gira intorno al Sole, su di esso sicuramente agirà una forza centripeta diretta verso il centro della circonferenza, ovvero verso il Sole stesso. Questa forza centripeta, in tale caso è proprio quella di gravità che si viene a generare fra i due corpi. Dette m e MS le masse del pianeta e del Sole, tale forza sarà:


F = GmMS / r2


Questa forza genera l'accelerazione centripeta del pianeta, acp, che deve essere:


acp = v2 / r


Perciò la forza centripeta che mantiene il pianeta all'interno della sua orbita, per la seconda legge della dinamica, sarà:


F = macp = mv2 / r


Essendo inoltre la velocità v, in quanto rapporto di spazio su tempo, uguale al rapporto tra la lunghezza della circonferenza, 2∏r, e il periodo T, avremo:


F = mv2/r = [m(2∏r / T)2] / r = 4∏2r / T2


Uguagliando questa forza centripeta a quella di gravità, sarà:


4∏2r / T2 = GmMS  / r2


E quindi, eliminando m, avremo:


T2= (4∏2/GMs)r3


Cioè, a conferma della legge enunciata da Keplero:


T = (2∏ / √G√MS)r3 = (costante)r3


È inoltre interessante notare che utilizzando le leggi di Newton abbiamo anche ottenuto il valore della costante postulata da Keplero, valore che non dipende dalla massa del pianeta che ruota, ma solo da quella del corpo attorno al quale di stia orbitando. Questa equazione, quindi, che vale per ogni pianeta in maniera indifferente, può essere anche applicata nel caso di satelliti e lune che orbitino attorno ad un pianeta qualunque. L'unica differenza sarà il dover sostituire a Ms, ovvero la massa del Sole, la massa del pianeta al centro dell'orbita.





I Crimini della Scienza: Hiroshima e Nagasaki



"L'unica consolazione nell'utilizzo della bomba

è che l'effetto deterrente prevarrà"

Albert Einstein, "Carteggio"



Nell' agosto del 1945 la seconda guerra mondiale ormai volgeva al termine. Solo il Giappone, tra le potenze dell'asse, non si era ancora definitivamente arreso. La stessa Germania, che, ancor più che nel primo conflitto mondiale, era stata la nazione ad aver scatenato l'immane scontro, il 7 maggio aveva firmato la propria capitolazione senza condizioni. Hitler, anima della guerra, era morto suicida il 30 aprile. In Europa, dopo quasi 6 anni, il conflitto era ormai praticamente concluso.

La potenza nipponica, che nel primo biennio del conflitto aveva potuto, quasi indisturbata, occupare un'area territoriale immensa in tutto il Sud- Est asiatico, tanto da essere diventata minacciosa persino per l'Australia e l'India, sin dalla primavera del 1942, assisteva ad un rapido declino della propria forza. L'ingresso in guerra statunitense, con le due vittorie nel maggio e nel giugno di quello stesso anno, rispettivamente nel Mar dei Coralli e presso le isole Midway, ne aveva arrestato la quasi incontenibile espansione. La successiva battaglia per l'isola di Guadalcanal, vinta ancora una volta dagli americani, aveva sancito la definitiva svolta per il conflitto nell'area orientale, svolta confermata ulteriormente dai due scontri, negli anni seguenti, nel golfo di Leyte, e nella conquista statunitense dell'importante città di Okinawa, nel giugno del 1945.

Nonostante la capitolazione del Giappone fosse ormai certa, essa, però, avrebbe richiesto ancora un lungo e grosso sforzo da parte degli Stati Uniti. L'esercito nipponico, infatti, poteva contare ancora su ben 3 milioni di uomini, dislocati in tutto il Sud-Est asiatico. Per questa ragione, già dalla conferenza di Jalta nel febbraio del 1945, Stalin, su richiesta di Roosevelt, si era impegnato ad entrare nello scontro, 2 o 3 mesi dopo la capitolazione tedesca.

Ma questo, evidentemente, a Harry Truman, presidente americano dopo la morte di Roosevelt, non bastava. La guerra si profilava ancora troppo lunga e costosa, soprattutto di vite umane, e per questa ragione egli decise, nonostante fosse stata concepita come un'arma di protezione contro Hitler, di far utilizzare la bomba atomica, sperimentata nei mesi precedenti nel deserto del Nevada, nell'ambito del Progetto Manhattan.

Il 6 agosto, il bombardiere statunitense soprannominato Enola gay, sganciò Little boy, come era stato chiamato l'ordigno, sulla città di Hiroshima, provocando la morte istantanea di 66mila persone e la distruzione, si stima, del 90% degli edifici della città. Migliaia di individui morirono nelle settimane successive, vittime dell'avvelenamento della zona, portando il totale dei decessi a circa 90mila. Tre giorni dopo, il 9 agosto, le truppe sovietiche invasero la Manciuria, tenendo fede ai patti stabiliti a Jalta.

Ma in Giappone le forze al governo spingevano ancora per una  disperata resistenza, rifiutando ogni resa e questa fu vista come una giustificazione per l'utilizzo di un secondo ordigno nucleare. Proprio la mattina del 9 agosto la bomba atomica Fat man fu sganciata sulla città di Nagasaki, mancando di quattro chilometri l'originale bersaglio della missione, ma provocando ugualmente ben 80mila decessi se considerate anche le morti dovute all'esposizione alle radiazioni.

Il Giappone, vista l'impossibilità di continuare il conflitto in simili condizioni, firmò l'armistizio il 2 settembre, ponendo così fine alla seconda guerra mondiale.


Sebbene senza dubbio l'uso della bomba atomica abbia accelerato di alcuni mesi lo svolgersi del conflitto, risparmiando in questo modo, con ogni probabilità, un enorme numero di vite umane tra soldati statunitensi e giapponesi, appare chiaro come esso sia stato ugualmente, soprattutto nel caso di Nagasaki, un grande crimine. In realtà non furono certo gli unici massacri su grande scala compiuti con dei bombardamenti, se pensiamo che proprio a Tokio, qualche mese prima, 100mila persone erano morte in una sola notte sotto le bombe incendiarie, ma l'aver voluto volontariamente sperimentare gli ordigni colpendo direttamente la popolazione civile, sebbene ciò rientrasse nella logica di quel conflitto, ed inoltre contro una nazione la cui sconfitta era ormai certa, fu sin da subito considerata, a livello mondiale, una decisione moralmente indifendibile





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