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Panorama italiano: Alda Merini




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Panorama italiano: Alda Merini

"La casa della poesia non avrà mai porte."




Nella scena letteraria italiana spiccano due nomi: Dino Campana, il poeta maledetto del Bel Paese, e Alda Merini, considerata una tra le più grandi figure femminili della letteratura del Novecento.

Nata a Milano, dove tutt'ora vive, il 21 marzo 1931, si avvicina alla poesia all'età di sedici anni, quando viene per la prima volta internata per un mese nella clinica "Villa Turro". Questa esperienza si rivela essere fonte di ispirazione e porta alla produzione di una grande quantità di testi. Inoltre usa i propri testi poetici per rivolgere ringraziamenti ai medici che la aiutarono, dedicando loro diverse raccolte, come La gazza ladra, dedicata a Michele Pierri, ex medico che si prende cura di lei dopo l'esternazione dal manicomio Paolo Pini, nel quale passa un lungo periodo e dal quale esce definitivamente solo nel 1972. Questi anni travagliati sono ancora una volta fonte di ispirazione e portano alla produzione di quello che sarà il capolavoro della Merini, La terra santa, vincitrice del Premio Librex Montale nel 1993.

Tra i destinatari delle proprie poesie troviamo anche Salvatore Quasimodo, per il quale scrive Due poesie per Q., edite ne Il volume del canto.

L'esperienza dell'internamento, tema ricorrente, viene espressa anche in un testo in prosa, L'altra verità, diario di una diversa.

Questi anni di apparente tranquillità vengono però deturpati dal riaffacciarsi del demone della follia e la Merini sperimenta nuovamente le torture dell'ospedale psichiatrico a Taranto, nel quale rimane fino al 1986.

Dieci anni più tardi, Alda Merini viene proposta per il Premio Nobel per la Letteratura dall'Académie française.



La poesia è dunque fortemente impregnata della biografia che molte volte risulta amara, è un modo per far uscire tutte quelle immagini che affollano mente ed anima. Non tutti però riescono a cogliere quello che il poeta scrive, ma questo non deve stupirci e non è un caso che si limita alla scrittrice milanese. Fin dall'antichità lo scrittore ha goduto di una condizione privilegiata, in contatto con la natura, con parti del proprio Io che solitamente si nascondono nell'inconscio.

Se non avesse vissuto tutti questi tormenti che rendono la propria vita cosi difficile e sregolata, chi sarebbe oggi Alda Merini?

Molte poesie non avrebbero mai visto la luce se non fosse stato per i ripetuti internamenti, per la condizione in cui la scrittrice si trovava.





Testimoni di questa esperienza sono i versi de "Il dottore agguerrito nella notte":


Il dottore agguerrito nella notte

viene con passi felpati alla tua sorte,

e sogghignando guarda i volti tristi

degli ammalati, quindi ti ammannisce

una pesante dose sedativa

per colmare il tuo sonno e dentro il braccio

attacca una flebo che sommuova

il tuo sangue irruente di poeta.

Poi se ne va sicuro, devastato

dalla sua incredibile follia

il dottore di guardia, e tu le sbarre

guardi nel sonno come allucinato

e ti canti le nenie del martirio.



La condizione di vita negli ospedali psichiatrici trova espressione in questa, come in tante altre opere di Alda Merini, scritte in seguito alle esperienze vissute e che danno corpo a raccolte tra le quali spicca La terra santa, ritenuta il capolavoro della scrittrice milanese.

In particolare, Il dottore agguerrito nella notte tratta il rapporto, o meglio la sua assenza, tra paziente e medico, rapporto in cui quest'ultimo è visto come antagonista del malato. Il dottore è la figura che si contrappone perfettamente, almeno all'apparenza, al paziente ed alla sua condizione instabile, mostrando sicurezza e decisione, atteggiamenti beffardi e sprezzanti, quasi diabolici pur stando in mezzo ad una massa di persone sofferenti.

Si tratta dunque di un rapporto strettamente professionale, freddo, che non ha nulla a che fare con i rapporti umani e che addirittura preclude ogni possibilità di istaurarne alcuno a causa della freddezza con la quale il medico svolge le sue mansioni.

Il paziente è dunque visto solamente come soggetto da analizzare, curare, quasi come un peso per il dottore costretto ad effettuare la ronda giornaliera. La figura del medico appare insensibile ed indifferente.

Nella seconda parte della poesia avviene però un rovesciamento dei ruoli, una fusione tra la follia del paziente e quella del dottore: dopo la notte passata tra i letti dei malati fa ritorno a casa portandosi però dentro una briciola della follia dei propri pazienti.

In questo modo il lettore entra in sintonia con l'autrice, faticando a riconoscere lo stato di malattia o di salute, la realtà dalla parvenza di realtà: il paziente con la flebo attaccata ed "il sangue irruento di poeta" che scorre nelle vene non è meno sano del dottore che "se ne va devastato dalla sua follia". La contraddizione dei due mondi è riportata alla luce dal finale della poesia: "e tu le sbarre guardi nel sonno come allucinato e ti canti le nenie del martirio", parole che spezzano l'atmosfera di momentanea confusione creata dai versi precedenti. Il manicomio diventa dunque un carcere ("sbarre") dal quale non si può evadere se non attraverso un canto lamentoso e sommesso.


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