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Mary Shelley - Frankenstein ovvero il moderno Prometeo




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Mary Shelley

Frankenstein ovvero il moderno Prometeo



INTRODUZIONE DELL'AUTRICE




Ti ho chiesto io, creatore, dal fango

Di farmi uomo? Ti ho chiesto io

Di trarmi dal buio?

J. Milton, Il Paradiso perduto, X, vv. 743-45


Gli editori delle Standard Novels, scegliendo Frankenstein per una delle loro collane, hanno manifestato il desiderio che io fornissi qualche ragguaglio sull'origine del racconto. Mi fa piacere accontentarli, per dare finalmente una risposta comune alla domanda che mi è stata posta tanto di frequente: come giunsi io, allora fanciulla, a concepire e a sviluppare una storia così terrificante? È vero che sono contraria a parlare di me pubblicamente, ma siccome questa narrazione apparirà solo in appendice a uno scritto già composto e riguarderà me esclusivamente in quanto autrice, difficilmente potrò accusarmi di intrusioni personali.

Non è strano che io, quale figlia di due note personalità letterarie, abbia pensato sin da giovanissima di scrivere. Bambina, già scrivevo; e il mio passatempo preferito durante le ore lasciate allo svago era metter giù storie. Ma avevo un diletto più caro di questo: costruire castelli in aria, indulgere in sogni a occhi aperti, inseguire folle di pensieri, interminabili successioni di avvenimenti immaginari. I miei sogni erano, all'inizio, più fantasiosi e piacevoli dei miei scritti. In questi ero una pura imitatrice, ripetevo quanto altri avevano già fatto piuttosto che assecondare le impressioni della mia mente. Ciò che scrivevo cadeva almeno sotto gli occhi di un'altra persona: il compagno e amico della mia fanciullezza. I sogni no; essi erano tutti e solo miei. Non ne parlavo a nessuno, erano il mio rifugio nella tristezza, il più dolce piacere della libertà.

Da fanciulla vissi soprattutto in campagna e trascorsi lungo tempo in Scozia e ne visitai i luoghi più pittoreschi, ma la mia residenza abituale era nei pressi di Dundee, sulle spiagge settentrionali del Tay, tristi e abbandonate. Tristi e abbandonate le chiamo ora nel ricordo, ma tali non erano per me, allora. Erano, anzi, il recinto sacro della libertà, la felice regione dove, inosservata, potevo comunicare con le creature della mia fantasia. Scrivevo, ma in uno stile alquanto banale. Sotto gli alberi del parco che circondava la nostra casa, o sui fianchi aridi dei nudi monti vicini, lì nascevano e si accrescevano le mie vere invenzioni, slanci aerei della mia fantasia. Non ero io l'eroina dei miei racconti. La mia vita mi appariva troppo insignificante. Non mi figuravo di certo che romantiche avventure ed eventi meravigliosi si sarebbero verificati nel mio futuro, ma non ero chiusa in me stessa, nel mio io, e sapevo popolare il tempo di creature molto più interessanti per me, a quell'età, delle mie personali sensazioni.

In seguito la vita reale, sempre più densa di avvenimenti, prese il posto della finzione. Mio marito, tuttavia, fin dall'inizio si mostrò molto ansioso che io mi misurassi con i miei genitori e iscrivessi il mio nome sul registro della fama. Mi incitava senza tregua a guadagnarmi una reputazione letteraria, ciò che ora mi è infinitamente indifferente, ma che allora desideravo anch'io. Voleva che scrivessi non già nella convinzione che avrei prodotto qualcosa di notevole, ma per poter giudicare se io fossi una speranza per il futuro. Ma non facevo nulla. Ero allora tutta presa dai viaggi e dalle cure per la famiglia e le letture e le conversazioni con lui, tanto più colto di me, assorbivano tutta la mia capacità di studio.

Nell'estate del 1816 ci recammo in Svizzera dove fummo vicini di Lord Byron. Dapprima trascorremmo ore felici sul lago o passeggiando sulle sue rive e Lord Byron, che stava componendo il terzo canto del Childe Harold, era l'unico che riuscisse a mettere i suoi pensieri sulla carta. Poi, quando ce li fece leggere, rivestiti di luce e di armonia, ci sembrò che consacrassero col sigillo della divinità le glorie del cielo e della terra che noi avevamo condiviso con lui. Ma il tempo umido, un'estate inclemente, una pioggia incessante, ci confinarono in casa per lunghe giornate. Ci vennero tra le mani alcuni volumi di storie di fantasmi, tradotte in francese dal tedesco; tra queste c'era L'amante infedele, dove l'eroe, quando cerca di stringere a sé la sposa con la quale ha scambiato voti solenni, si accorge di avere tra le braccia il cereo spettro di colei che aveva tradito. C'era il racconto di un peccatore, capostipite della propria stirpe, che un crudele destino condannava a baciare, con un bacio di morte, i figli della sua infausta casata, proprio quando costoro arrivavano all'età delle promesse. Allora la sua gigantesca, inconsistente immagine racchiusa, come il fantasma di Amleto, in una completa armatura, ma con la visiera sollevata, compariva a mezzanotte tra i bagliori incerti della luna e avanzava lenta lungo il viale buio. L'apparizione si perdeva nell'ombra delle mura del castello, ma d'improvviso un cancello si schiudeva. Si udivano dei passi. Si apriva la porta di una camera; lo spettro si avvicinava al giaciglio del giovane immerso in un sonno tranquillo. Un inestinguibile dolore si stampava sul suo viso nel momento in cui si chinava a deporre il bacio sulla fronte del giovane che, da quell'istante stesso, appassiva come un fiore falciato. Da allora non ho più letto quei racconti, le cui vicende sono però incise nella mia memoria come le avessi lette ieri.

«Ciascuno di noi scriverà una storia di fantasmi», disse Lord Byron e la sua proposta fu accettata. Eravamo in quattro. Il nobile scrittore cominciò un racconto, un frammento del quale fu stampato alla fine del suo poema Mazeppa. Shelley, più adatto a ricoprire di splendore e di scintillanti fantasie idee e sentimenti e a donar loro la musica del più melodioso dei versi della nostra lingua che a mettere a punto la struttura di una storia, ne iniziò una ricordando alcuni avvenimenti della sua infanzia. Il povero Polidori elaborò l'atroce idea di una dama dalla testa ridotta a teschio, così punita per aver spiato attraverso il buco di una serratura. Cosa vi avesse visto l'ho dimenticato; qualcosa di sconvolgente e sconveniente, certo. Ma quando ella fu ridotta così, molto peggio del ben noto Tom di Coventry, Polidori non seppe più cosa farne e fu costretto a relegarla nella tomba dei Capuleti, l'unico luogo degno di lei. Anche gli illustri poeti, stanchi della banalità della prosa, abbandonarono ben presto un compito così poco congeniale.

Io continuavo ad arrovellarmi per trovare una storia all'altezza di quelle che ci avevano spinti all'impresa. Una storia che testimoniasse i misteriosi terrori della nostra anima, che ci scuotesse con brividi di orrore. Una storia che facesse temere al lettore di guardare dietro di sé, che gli gelasse il sangue nelle vene e gli facesse balzare il cuore in gola. Se non fossi riuscita a ottenere tutto ciò, la mia storia di fantasmi sarebbe stata indegna di tale nome. Riflettei, ponderai: invano. Provavo quella totale incapacità di inventare che è la più grande disperazione di uno scrittore, allorché il puro Nulla risponde alle sue ansiose invocazioni. «Hai trovato la tua storia?», era la domanda che mi si poneva a ogni risveglio, e a ogni risveglio ero costretta a una mortificante risposta negativa.

Ogni cosa deve avere un inizio, per dirla con Sancho, e questo inizio deve essere legato a qualcos'altro che viene prima. Gli Indu hanno posto il mondo su un elefante ma hanno messo l'elefante su una tartaruga. L'invenzione, bisogna ammetterlo con umiltà, non consiste nel creare dal nulla, ma dal caos. Prima di tutto si deve trovare il materiale; noi possiamo dar forma a una sostanza oscura e inerte, ma non possiamo creare la sostanza stessa. In tema di scoperte e di invenzioni, anche quelle che appartengono al regno dell'immaginazione, torniamo continuamente alla storia di Colombo e dell'uovo. L'invenzione consiste nella capacità di cogliere le possibilità di un soggetto e nel saper dar forma e attrattiva alle idee che contiene in sé.

Lunghe e numerose furono le conversazioni tra Lord Byron e Shelley, e io vi prendevo parte come devota ma pressoché muta ascoltatrice. Durante una di queste si discusse di varie dottrine filosofiche, della natura dell'origine della vita e della possibilità di scoprirne e decifrarne la vera essenza. Si parlò anche degli esperimenti del dottor Darwin (non di ciò che egli ha realmente fatto o affermato di aver fatto, ma di quanto si diceva allora che avesse fatto, cosa molto più interessante per il mio intento), il quale aveva conservato sottovetro un segmento di vermicello finché non si era mosso, sospinto da un'energia di origine ignota. Ma dopotutto ciò non significava «dare la vita». Forse un cadavere poteva essere rianimato: con il galvanismo si era ottenuto qualcosa del genere; forse le diverse parti di un corpo potevano essere manipolate, riunite e animate da un nuovo soffio vitale.

Scese la notte su questi discorsi ed era già trascorsa l'ora delle streghe allorché ci ritirammo per dormire. Ma quando poggiai la testa sul guanciale non potei prendere sonno e neppure potrei dire che stessi pensando. L'immaginazione, senza che lo volessi, si impadronì di me guidandomi: le immagini si susseguivano nella mia mente vivide come non mi era mai accaduto prima, travalicando i confini consueti della fantasticheria. Vedevo - a occhi chiusi ma con la mente ben desta - lo studioso di una scienza sacrilega, pallido, inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme. Vedevo l'orrida forma di un uomo disteso, poi una macchina potente entrava in azione, il cadavere mostrava segni di vita e si sollevava con movimento difficoltoso, solo parzialmente vitale. Doveva essere terrificante: come terrificante sarebbe l'effetto di qualsiasi opera umana che riproducesse lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. L'artefice è atterrito dal proprio successo. Pieno d'orrore fugge da quella sua spaventosa creatura. Forse spera che, abbandonata a se stessa, la debole scintilla di vita che vi ha acceso si spegnerà; che quella cosa cui ha dato un'animazione così imperfetta sarà risucchiata nella morte. Potrebbe addormentarsi, certo che il silenzio eterno della tomba calerà sull'attimo di vita di quell'essere orrendo al quale egli aveva guardato come alla cuna della vita. Scivola nel sonno, poi si scuote, riapre gli occhi: la cosa è lì, in piedi, accanto al suo letto, ne sta aprendo le cortine e lo fissa con occhi giallastri e acquosi, ma penetranti.

Io aprii i miei per il terrore. La visione mi possedeva a tal punto da darmi brividi di paura; volevo sostituire quelle fantasie orripilanti con la rassicurante realtà che mi circondava. La rivedo ancora adesso nei particolari: la stanza, il parquet scuro, la luna che tentava di penetrare attraverso le persiane chiuse, e la consapevolezza del lago ghiacciato e delle alte cime innevate delle Alpi al di fuori. Non riuscivo a scacciare quel fantasma pauroso, mi perseguitava. Dovevo cercare di pensare ad altro. Mi aggrappai all'idea della mia storia di fantasmi, la mia noiosa, sfortunata storia! Oh, poterne concepire una che spaventasse il lettore come io mi ero spaventata quella notte!

Improvvisa come la luce e come questa benvenuta, giunse l'idea: «L'ho trovata! Come ha terrorizzato me terrorizzerà anche gli altri! Non ho che da descrivere lo spettro che si è posato sul mio cuscino a mezzanotte». La mattina seguente annunciai di aver trovato una storia. Cominciai lo stesso giorno con le parole: Fu in una notte tetra di novembre, e mi limitai a trascrivere il nero terrore del mio incubo da sveglia.

All'inizio pensavo a un racconto breve, appena poche pagine, ma Shelley insisté perché sviluppassi l'idea in forma più ampia. Se non debbo a mio marito alcun suggerimento né per la storia né per il filo delle emozioni, certo gli debbo molto per l'incoraggiamento e lo stimolo senza i quali la mia vicenda non avrebbe mai assunto la forma nella quale è stata presentata al mondo. Da questa affermazione devo escludere l'introduzione. Per quanto ricordo, essa fu scritta interamente da lui.

E ora, una volta di più, licenzio la mia mostruosa progenie perché segua la sua strada e prosperi. Nutro un affetto particolare per essa, nata nei giorni felici della mia primavera, quando morte e dolore non erano per me che parole, suoni privi di echi interiori. Le sue molte pagine mi parlano di numerose passeggiate, gite in carrozza, conversazioni appartenenti a un tempo in cui non ero sola e il mio compagno non era qualcuno che non incontrerò più su questa terra. Ma ciò ha un significato solo per me, tali associazioni non concernono affatto i lettori.

Voglio solo aggiungere qualche parola a proposito di alcune variazioni che ho apportato in seguito e che riguardano principalmente lo stile. La storia è immutata, né vi ho introdotto nuove idee o avvenimenti. Ho corretto il linguaggio là dove era così povero da sminuire l'interesse della vicenda, e questi interventi riguardano quasi esclusivamente l'inizio del primo volume; tutti sono confinati in parti secondarie della narrazione e ne lasciano intatto il nucleo e la sostanza.


M.W.S.


Londra, 15 ottobre 1831


PREFAZIONE




Gli eventi su cui si basa questa storia sono stati giudicati dal dottor Darwin e da alcuni fisiologi tedeschi non impossibili a verificarsi. Spero non si deduca da ciò che io presti la benché minima fede alla veridicità di questo parto della fantasia. D'altro canto, quando ho preso questo spunto per un'opera di fantasia, non mi figuravo solo di tessere una serie di trame soprannaturali e terrificanti. La vicenda da cui dipende l'interesse della narrazione non presenta gli svantaggi che s'incontrano nei racconti di spettri o di incantesimi. Appariva, invece, suggestiva per l'originalità delle situazioni che sviluppa e, per quanto impossibile nella realtà fisica, offre comunque all'immaginazione un punto di osservazione più alto e incisivo nel lumeggiare le passioni umane, di quello normalmente offerto dai rapporti tra eventi reali.

Ho così cercato di rimanere fedele alla verità dei principi fondamentali della natura umana, anche se non mi sono fatta scrupolo di innovarne le possibili combinazioni. L'Iliade, la poesia tragica greca, Shakespeare nella Tempesta e nel Sogno di una notte di mezza estate e soprattutto Milton nel Paradiso perduto seguono la stessa regola. E il più modesto dei romanzieri che cerchi di divertirsi e di divertire con le proprie fatiche può, senza arroganza, permettersi nella prosa una libertà, o piuttosto una regola, assumendo la quale si sono già realizzate tante delicate alchimie di sentimenti umani nei più alti capolavori della poesia.

La circostanza su cui si basa la mia storia fu suggerita da una conversazione casuale. Iniziai il racconto in parte per diletto e in parte per mettere alla prova le risorse inespresse della mia mente. A questi motivi altri se ne aggiunsero via via che l'opera si evolveva. Non sono indifferente all'impressione che le tendenze morali insite nei sentimenti o nei personaggi della vicenda possono suscitare nel lettore, tuttavia la mia principale preoccupazione in tal senso è stata di evitare gli effetti snervanti dei romanzi contemporanei e di mostrare la dolcezza degli affetti familiari e il valore della virtù su un piano universale. Le opinioni che sono connaturate al carattere del protagonista o che derivano dalla sua particolare situazione non vanno assolutamente considerate come mie: né sarebbe giusto scorgere nelle pagine che seguono una posizione in contrasto con filosofie di qualsiasi genere.

Un ulteriore motivo di interesse per l'autrice è che questa storia fu concepita nelle maestose regioni dove si svolgono le vicende principali e in compagnia di persone che non si può cessare di rimpiangere. Trascorsi l'estate del 1816 nei pressi di Ginevra. La stagione era fredda e piovosa e la sera ci riunivamo intorno al caminetto acceso, a volte dilettandoci con la lettura di racconti tedeschi di fantasmi, capitatici per caso tra le mani. Questi risvegliarono in noi il desiderio di imitarli, per gioco. Io e due altri amici (un racconto uscito dalla penna di uno di loro sarebbe assai più gradito al pubblico di qualunque cosa possa mai sperare di produrre io) decidemmo di scrivere ognuno una storia imperniata su un qualche evento soprannaturale.

Ma all'improvviso il tempo ritornò sereno. I due amici mi lasciarono per compiere un'escursione sulle Alpi, e tra quei magnifici panorami montani persero ogni ricordo delle loro spettrali visioni. Il racconto che segue è l'unico che sia stato portato a termine.


M.W.S.


Marlow, settembre 1817


PRIMA LETTERA




Alla signora Saville, Inghilterra


Pietroburgo, 11 dicembre 17**

Sarai felice di sapere che nessuna disavventura ha accompagnato l'inizio dell'impresa che tu hai sempre considerato con tanta apprensione. Sono arrivato qui ieri e il mio primo pensiero è rassicurare la mia cara sorella sul mio stato di salute e sulla crescente fiducia che nutro verso il mio progetto.

Sono già ben più a nord di Londra; passeggio per le vie di Pietroburgo e la brezza fredda che mi pizzica le gote mi delizia e rinvigorisce i miei nervi. Puoi comprendere questa sensazione? È la brezza che viene dalle regioni verso le quali io mi dirigo, il primo assaggio, per me, di quei climi gelidi. Ispirati da questo vento di speranza, i miei sogni a occhi aperti si fanno di giorno in giorno più accesi e vividi. Cerco invano di convincermi che il Polo è il regno desolato dei ghiacci: si ripresenta sempre ai miei occhi come il luogo della bellezza e della felicità. Laggiù, Margaret, il sole è sempre visibile; il suo disco, che appena sfiora l'orizzonte, emana un perpetuo splendore. Laggiù - perché, col tuo permesso, cara sorella, voglio credere a coloro che vi si sono già spinti - laggiù, neve e freddo sono banditi e, navigando su un mare calmo, si può giungere a una terra che supera in meraviglia e bellezza ogni parte conosciuta del globo. I suoi prodotti e le caratteristiche sono forse senza eguali, come lo sono di certo i fenomeni dei corpi celesti in quelle inesplorate solitudini. Che cosa non ci si può aspettare da un paese di luce perpetua? Vi potrei scoprire la forza sconosciuta che attrae l'ago della bussola, e compiere centinaia di osservazioni su fenomeni celesti che attendono solo questo viaggio per rivelare come la loro eccentricità è soltanto apparente. Sazierò la mia ardente curiosità con la vista di una parte del mondo mai raggiunta prima, e procederò forse su una terra che non conosce impronta d'uomo. Ecco ciò che mi attrae e basta a farmi superare ogni paura di pericolo o di morte e a spingermi a preparare questo viaggio difficile con la gaiezza di un bambino che sale con i suoi compagni su una barchetta, alla scoperta avventurosa del fiume natio. Anche ammettendo che le mie supposizioni si rivelino errate, non puoi negare l'inestimabile beneficio che costituirebbe per l'umanità, fino all'ultima generazione, la scoperta di un passaggio dal Polo a queste terre, per raggiungere luoghi ora resi lontani da tanti mesi di viaggio; o la scoperta del segreto del magnete che, seppure è possibile, lo è solo intraprendendo un viaggio come il mio.

Queste riflessioni hanno dissipato l'agitazione con cui avevo cominciato a scrivere; il mio cuore batte ora con un entusiasmo che lo solleva al cielo. Niente tranquillizza l'uomo quanto un fermo proposito: un punto sul quale l'animo possa fissare la sua vista interiore. Questa spedizione è stata il sogno più caro della mia fanciullezza. Ho letto avidamente tutti i racconti di viaggi compiuti col proposito di arrivare all'Oceano Pacifico settentrionale attraverso i mari che circondano il Polo. Forse ricordi che l'intera biblioteca del caro zio Thomas si componeva di libri che raccontavano di tutte le spedizioni fatte con l'intento di nuove scoperte. La mia istruzione è stata trascurata, ma io amavo appassionatamente la lettura. E, giorno e notte, leggevo quei libri. La mia familiarità con essi accrebbe il rammarico che, ancora fanciullo, avevo provato venendo a sapere che nostro padre, sul letto di morte, aveva fatto giurare allo zio di non permettermi di intraprendere la vita di mare.

Furono visioni che impallidirono soltanto quando mi imbattei in quelle dei poeti, che incantarono la mia anima portandola fino al cielo. Divenni poeta anch'io e per un anno vissi in un paradiso di mia invenzione. Sognai di ottenere una nicchia nel tempio consacrato ai nomi di Omero e di Shakespeare. Tu sai bene che fu un fallimento; e sai quanto mi fu duro accettare la delusione. Proprio allora ereditai la fortuna di mio cugino e i miei pensieri ripresero il loro vecchio corso.

Sono trascorsi sei anni dal giorno in cui decisi di intraprendere la mia spedizione. Ricordo ancora il momento in cui mi consacrai a questa grande avventura. Cominciai con l'assuefare il fisico alle privazioni. Mi unii ai cacciatori di balene in diversi viaggi nel Mare del Nord. Sopportai fame, sete, freddo, mancanza di sonno. Spesso lavoravo più duramente degli altri durante il giorno e dedicavo la notte a studiare matematica, medicina e tutte le branche della fisica da cui chi si avventura per mare può trarre i maggiori vantaggi pratici. Due volte mi imbarcai come aiutante su una baleniera groenlandese e mi comportai benissimo. Confesso che ebbi un sussulto di orgoglio quando il capitano mi offrì di diventare il suo secondo e insisté con calore perché restassi, tanto aveva apprezzato il mio lavoro.

E ora, cara Margaret, non dovrei sperare di raggiungere qualche grande meta? Avrei potuto trascorrere la mia vita tra agi e lussi, ma ho preferito la gloria ai richiami che la ricchezza ha disseminato sulla mia strada. Oh, se una voce incoraggiante mi desse una risposta affermativa! Il mio animo è fermo e risoluto, ma la speranza fluttua e lo spirito a volte si deprime. Mi accingo a un viaggio lungo e difficile, i cui imprevisti potrebbero richiedere tutta la mia risolutezza. Non solo dovrei tener alto il morale degli altri ma, talvolta, anche il mio, quando il loro si abbatte.

Questo è il periodo migliore per viaggiare in Russia. Qui si vola veloci sulle nevi con le loro slitte dal movimento piacevole e, a mio parere, molto più comode delle diligenze inglesi. Il freddo non è eccessivo se ti avvolgi in pellicce, abbigliamento che del resto io ho già adottato, perché c'è una bella differenza tra il muoversi sul ponte di una nave e il restare seduto, immobile per ore, senza possibilità di movimento a impedire che il sangue si geli letteralmente nelle vene. E io non ambisco assolutamente di lasciar la vita sulla strada tra Pietroburgo e Arcangelo!

Partirò per quest'ultima tra due o tre settimane; la mia intenzione è di noleggiare lì una nave, cosa facilmente realizzabile pagando ai proprietari un'assicurazione, e di ingaggiare i marinai che riterrò necessari scegliendoli tra quelli esperti di caccia alla balena. Non intendo salpare fino a giugno. Quando tornerò? Ah cara sorella, come posso rispondere a questa domanda? Se avrò successo mesi e mesi, forse anni, dovranno passare prima di rincontrarci. Se fallirò, mi vedrai di nuovo presto, o mai più.

Addio mia cara, mia adorata Margaret. Che il cielo faccia scendere su di te ogni benedizione e protegga me, così che io possa ancora e sempre testimoniarti la mia gratitudine per il tuo amore e la tua dolcezza.

Il tuo affezionato fratello

R. Walton


SECONDA LETTERA




Alla signora Saville, Inghilterra


Arcangelo, 28 marzo 17**

Come passa lentamente il tempo per me qui, stretto come sono nella morsa del ghiaccio e della neve! Eppure ho compiuto il secondo passo per l'attuazione della mia impresa. Ho noleggiato un vascello e sto raccogliendo i marinai. Quelli che ho già ingaggiato sembrano uomini sui quali posso fare affidamento e di certo possiedono un coraggio indomito.

Mi resta un desiderio che non sono riuscito a soddisfare e questo vuoto mi sembra il male peggiore. Non ho un amico, Margaret: quando l'entusiasmo del successo s'impadronirà di me, nessuno parteciperà alla mia gioia. Se sarò assalito dalla disperazione non ci sarà alcuno a sostenermi. Potrò affidare i miei pensieri alla carta, è vero, ma è ben povera cosa per comunicare dei sentimenti. Desidero la compagnia di un uomo capace di sentire come me, i cui occhi rispondano ai miei. Mi dirai che sono un romantico, cara sorella, ma io sento amaramente l'assenza di un amico. Non ho nessuno accanto a me, gentile quanto coraggioso, intelligente e aperto, i cui gusti somiglino ai miei, che approvi o corregga i miei piani. Come saprebbe smorzare, un tale amico, le manchevolezze del tuo povero fratello! Sono troppo impetuoso nell'azione e insofferente nella difficoltà. Ma la mia carenza più grave sta nell'essere un autodidatta: per i primi quattordici anni della mia esistenza non ho fatto che correre per i prati e non ho letto nulla, se non i libri di viaggi dello zio Thomas. A quell'età scoprii i maggiori poeti del nostro paese; ma solo quando ormai non potevo più trarne giovamento compresi la necessità di apprendere altre lingue oltre a quella materna. Ora ho ventotto anni e sono di fatto più ignorante di uno studente di quindici. È vero: ho riflettuto di più e i miei sogni a occhi aperti hanno orizzonti vasti, magnifici. Ma a essi manca ciò che i pittori chiamano «senso delle proporzioni». E io sento il profondo bisogno di un amico abbastanza sensibile da non disprezzare il mio romanticismo e che nutrisse affetto sufficiente per sforzarsi di tenere a freno la mia fantasia.

Lamentele inutili. Di certo non troverò un amico sull'oceano infinito né qui ad Arcangelo, tra mercanti e marinai. Eppure alcuni sentimenti che si distaccano dalla feccia della natura umana albergano anche in questi duri petti. Il mio secondo, ad esempio, è uomo dotato di coraggio e intraprendenza straordinari. La sua unica ambizione è la gloria; o, per dirla più propriamente, il successo nella sua professione. È inglese e, a dispetto dei pregiudizi nazionali e professionali, che nessuna istruzione ha smussato, ha mantenuto alcuni dei più nobili sentimenti umani. Lo conobbi a bordo di una baleniera e, trovatolo qui senza lavoro, l'ho ingaggiato senza difficoltà per la mia impresa.

Il nostromo è persona di eccellente carattere e fa spicco a bordo per il modo gentile e pacato con cui tiene la disciplina. Queste caratteristiche, unite alla sua riconosciuta integrità e a un coraggio intrepido, mi hanno fatto desiderare di averlo con me. Una giovinezza trascorsa in solitudine e i miei anni migliori vissuti sotto la dolce guida della tua femminilità, hanno reso così sensibile il mio temperamento che provo un insopportabile disgusto di fronte alla brutalità normalmente praticata a bordo. Non l'ho mai ritenuta necessaria e quando ho sentito parlare di un marinaio egualmente noto per la sua gentilezza e per il rispetto e l'obbedienza che riesce a ottenere, mi sono convinto che sarei stato molto fortunato ad assicurarmi i suoi servigi. Ne sentii parlare per la prima volta, in modo piuttosto romantico, da una signora che deve a lui la propria felicità. In breve, questa è la storia. Alcuni anni fa si era innamorato di una giovane russa di discrete condizioni e poiché aveva accumulato una somma considerevole con i premi di viaggio, il padre della ragazza acconsentì alle nozze. Rivide la promessa sposa ancora una volta prima della data fissata e la ragazza si sciolse in lacrime e si gettò ai suoi piedi pregandolo di liberarla dalla promessa e confessandogli di amare un altro. Ma questi era povero e il padre non avrebbe mai consentito a tale unione. Il nostro generoso amico la rassicurò, le chiese il nome dell'innamorato e rinunciò al suo proposito all'istante. Col denaro guadagnato aveva già acquistato una fattoria, con l'intenzione di passarvi il resto della vita: ebbene, donò tutto al rivale, insieme al denaro rimastogli, perché comprasse del bestiame, poi lui stesso chiese al padre della ragazza che acconsentisse alle nuove nozze. L'altro rifiutò recisamente, pensando di aver ormai impegnato il suo onore. Allora, vistolo così irremovibile, il giovane lasciò il paese e non vi ritornò prima di aver saputo che la sua innamorata di un tempo si era sposata con l'uomo che amava. «Che nobile carattere!», esclamerai tu. Davvero lo è. Eppure è un essere totalmente incolto e silenzioso come un Turco, con una tale noncuranza nei modi, che non permette di affezionarsi a lui o di dimostrargli pienamente la simpatia dovuta, mentre, al contempo, rende ancor più stupefacente il suo comportamento.

Ma non credere, perché mi lamento un poco o perché confido per le mie pene in una consolazione che forse non verrà mai, che io non sia saldo nei miei propositi. Questi sono ormai inesorabili come il destino e il mio viaggio è solo rimandato fino a che il tempo lo permetterà. L'inverno è stato terribilmente rigido, ma la primavera promette bene e pare anzi che sia in anticipo. Così, forse, salperò prima del previsto. Non farò nulla di affrettato: mi conosci abbastanza per poter confidare nella mia prudenza e nella mia oculatezza quando è in gioco l'incolumità di altri.

Non posso descriverti i miei sentimenti alla prospettiva ormai vicina della mia spedizione. Non so descriverti il senso di trepidazione, di paura e di piacere che mi accompagna mentre mi accingo a partire. Sto andando verso regioni inesplorate: le «terre della nebbia e del gelo». Ma io non ucciderò l'albatro, quindi non temere per la mia salvezza. E se tornassi da te desolato e disperato come il «Vecchio Marinaio»? Sorriderai di questa mia allusione, ma ti rivelerò un segreto: ho spesso attribuito il mio amore, la mia passione entusiastica per i pericolosi misteri dell'oceano, proprio a quel testo, al frutto del più fantasioso dei poeti moderni. C'è qualcosa nel mio animo che non riesco a conoscere. Sono un uomo pratico, industrioso; un uomo che lavora, con perseveranza e fatica. Ma, più in fondo, c'è questa spinta verso il meraviglioso, una vera fede nel meraviglioso, che si intreccia a ogni mio progetto e mi porta lontano, verso strade sconosciute agli uomini, verso il mare selvaggio e le terre inesplorate che sto per scoprire.

Ma torniamo a ciò che più mi sta a cuore. Potrò rivederti dopo aver solcato mari sconfinati ed essere tornato, doppiando il capo meridionale dell'Africa o dell'America? Non posso né sperare in simili successi, né al contrario sopportare la vista dell'altra faccia della medaglia. Continua per ora a scrivermi a ogni occasione. Potrei ricevere le tue lettere in circostanze in cui avrò il massimo bisogno di un sostegno morale. Ricordami con affetto, se non dovessi avere più mie notizie.

Il tuo affezionato fratello

Robert Walton


TERZA LETTERA




Alla signora Saville, Inghilterra


7 luglio 17**

Mia cara sorella,

scrivo soltanto poche righe di fretta per dirti che sto bene e il viaggio procede. Questa lettera ti raggiungerà in Inghilterra grazie a un mercante che vi fa ritorno da Arcangelo: più fortunato di me che potrei non rivedere la terra natia per molti anni ancora. Tuttavia sono di buon umore: i miei uomini sono coraggiosi e sembrano fermi nel loro proposito: neppure i lastroni di ghiaccio che ci passano continuamente accanto, primi minacciosi avvertimenti dei pericoli ai quali andiamo incontro, riescono a sgomentarli. Abbiamo ormai raggiunto una latitudine molto alta ma siamo in piena estate e i venti del sud, anche se meno caldi che in Inghilterra, soffiano più tiepidi di quanto mi aspettassi e ci spingono veloci verso le coste che desidero ardentemente poter toccare.

Non si è fin qui verificato alcun avvenimento degno di figurare in una lettera. Un paio di bufere o l'aprirsi di una falla sono incidenti che di rado a un navigatore esperto viene in mente di riferire e sarò davvero soddisfatto se durante il viaggio non accadrà nulla di peggio.

Adieu, mia cara Margaret. Sii certa che per il mio bene come per il tuo non affronterò sconsideratamente i pericoli. Sarò freddo, perseverante, prudente.

Il successo deve coronare i miei sforzi. Perché no? Mi sono spinto così lontano tracciando una via sicura attraverso mari mai solcati. Chiamo le stelle a testimoniare il mio trionfo! Perché non spingersi oltre su questo incontrollabile eppure docile elemento? Cosa può fermare un cuore determinato e il ferreo volere di un uomo?

Il mio cuore gonfio trabocca senza che lo voglia. Ma ora basta. Il cielo benedica la mia amata sorella!

R.W.


QUARTA LETTERA




Alla signora Saville, Inghilterra


5 agosto 17**

Ci è capitato un caso così strano che non posso far a meno di raccontartelo, anche se è molto probabile che mi rivedrai prima che queste righe ti giungano.

Lunedì scorso (31 luglio), eravamo quasi completamente circondati dai ghiacci che serravano la nave da tutti i lati lasciando a stento libero il tratto di mare sul quale galleggiavamo. La nostra situazione era piuttosto rischiosa, anche perché eravamo avvolti da una fitta nebbia. Di conseguenza ci mettemmo alla cappa sperando in un mutamento di tempo e visibilità.

Verso le due la nebbia si sollevò e scorgemmo distendersi in tutte le direzioni ampie e irregolari pianure di ghiaccio, senza fine. Alcuni miei compagni ebbero un gemito e anch'io cominciavo a provare una certa ansietà quando, d'un tratto, uno strano spettacolo attrasse la nostra attenzione, distogliendola dai nostri problemi. Distinguemmo un piccolo veicolo, fissato su una slitta trainata da cani, che procedeva verso nord, alla distanza di mezzo miglio. Un essere che aveva l'aspetto umano, ma era di statura gigantesca, sedeva sulla slitta e guidava i cani. Osservammo la rapida corsa del viaggiatore con i nostri cannocchiali, finché scomparve tra le anfrattuosità del ghiaccio.

Quest'apparizione ci provocò un enorme stupore. Noi eravamo, o così credevamo, a centinaia di miglia dalla terra più vicina, ma la figura intravista pareva indicare che non eravamo forse distanti come avevamo ritenuto. Bloccati dal ghiaccio, ci era impossibile seguirne la traccia che avevamo osservato con estrema attenzione.

Circa due ore dopo avvertimmo un sommovimento del mare e prima che fosse notte il ghiaccio si ruppe. La nave era libera. Rimanemmo tuttavia alla cappa fino al mattino, per timore di scontrarci nel buio con uno di quei massi di ghiaccio che vanno alla deriva quando il pack si spezza. Ne approfittai per riposare qualche ora.

Al mattino, non appena vi fu luce, salii sul ponte e trovai tutti i marinai affollati su un lato della nave: sembravano parlare con qualcuno in mare. C'era in effetti una slitta simile a quella del giorno prima, che era stata trascinata verso di noi durante la notte su un largo lastrone di ghiaccio. Solo uno dei cani era vivo, ma sulla slitta c'era un essere umano che i marinai cercavano di convincere a salire sul vascello. Non era un selvaggio abitante di isole sconosciute, come l'altro viaggiatore, ma un europeo. Quando fui sul ponte il nostromo disse: «Ecco il nostro capitano. Non permetterà che la morte vi sorprenda in mare aperto!».

Nel vedermi lo sconosciuto mi parlò in inglese, anche se con accento straniero: «Prima che io salga a bordo volete avere la cortesia di informarmi sulla vostra direzione?».

Puoi immaginare la mia sorpresa nel sentirmi fare una simile domanda da un uomo sull'orlo dell'abisso. Avrei immaginato che la mia nave fosse l'estrema occasione per un naufrago, da non scambiare con tutte le ricchezze di questa terra. Gli risposi comunque che eravamo in viaggio di scoperta verso il Polo Nord.

Udendo ciò apparve soddisfatto e acconsentì all'invito di salire a bordo. Buon Dio, Margaret! Se tu avessi visto l'uomo che aveva così mercanteggiato la sua salvezza, la tua meraviglia sarebbe stata senza limiti: gli arti erano quasi congelati e il suo corpo incredibilmente emaciato per lo sfinimento e la sofferenza. Non avevo mai visto un essere umano in condizioni così disastrose. Cercammo di trasportarlo in cabina, ma quando fu all'interno svenne. Lo riportammo sul ponte, cercando di rianimarlo frizionandolo con del brandy e inducendolo a inghiottirne qualche sorso. Non appena diede segni di vita lo avvolgemmo in coperte e lo sistemammo presso la stufa della cucina. A poco a poco si rianimò e mangiò un po' di minestra che lo ristorò immediatamente. Trascorsero due giorni prima che fosse in grado di parlare, e spesso temetti che avesse perduto la ragione per i patimenti subiti. Quando si fu un po' ripreso lo portai nella mia cabina e ne ebbi cura, per quanto i miei impegni me lo permettevano. Non ho mai visto un individuo così interessante. I suoi occhi hanno un'espressione selvaggia e addirittura folle, ma ci sono momenti in cui, se qualcuno accenna a un atto di gentilezza o gli rende un favore, anche minimo, tutto il volto gli si illumina come di un raggio di benevolenza e dolcezza quale non ho visto mai. Più spesso è malinconico, disperato, e a volte digrigna i denti, come schiacciato dal peso di un dolore insostenibile.

Quando lo sconosciuto fu in grado di camminare, non mi fu facile tenere lontani gli uomini che ardevano dalla voglia di fargli mille domande. Non potevo permettere che venisse tormentato da futili curiosità perché nel suo stato fisico e mentale la guarigione dipendeva dall'assoluto riposo. Una volta però il secondo gli chiese come mai si fosse spinto così lontano, sui ghiacci e su un così strano veicolo.

All'improvviso assunse un'espressione profondamente desolata e replicò: «Per prendere qualcuno che mi sfugge!».

«L'uomo che inseguivate viaggia su una slitta come la vostra?».

«Sì».

«Allora ho l'impressione che l'abbiamo visto, il giorno prima di raccogliervi. Avvistammo dei cani che trascinavano attraverso i ghiacci una slitta su cui c'era un uomo».

La rivelazione scosse lo straniero. Cominciò a fare domande su domande circa la direzione presa da quel demonio, così lo definiva. Poi, quando fummo soli, disse:

«Senza dubbio ho suscitato la vostra curiosità, come quella di questa brava gente. Ma voi siete troppo discreto per fare domande».

«Certamente, sarebbe inopportuno e inumano da parte mia affaticarvi con un interrogatorio!».

«Però mi avete tratto da una situazione strana e pericolosa. Mi avete benevolmente riportato alla vita!».

Poco dopo mi chiese se a mio parere la rottura dei ghiacci avesse distrutto l'altra slitta. Replicai che non ero in grado di rispondere con sicurezza perché il ghiaccio non si era spezzato fino a mezzanotte e il viaggiatore poteva nel frattempo aver raggiunto un riparo. Non potevo dare un giudizio certo.

Da quel momento un nuovo soffio di vita ha rianimato le membra affrante dello sconosciuto. Mi ha chiesto con insistenza di salire sul ponte per vedere se la slitta fosse ricomparsa, ma l'ho persuaso a rimanere in cabina perché era ancora debole e non avrebbe potuto sostenere l'aria gelida. Gli ho promesso che qualcuno resterà in vedetta per lui e lo avvertirà immediatamente se dovesse apparire qualcosa.

Questa la cronaca, fino a oggi, della strana vicenda occorsami. Lo straniero migliora, ma è molto taciturno e sembra a disagio quando qualcuno che non sia io entra in cabina. Per altro i suoi modi sono così affabili e gentili che tutti i marinai si preoccupano per lui, anche se hanno avuto ben pochi contatti. Quanto a me, comincio a volergli bene come a un fratello e il suo sordo e profondo dolore mi suscita simpatia e partecipazione. Deve essere stato davvero una nobile creatura nei suoi giorni migliori se anche ora, nella disgrazia, è così affascinante e amabile.

Ti dissi in una lettera, cara Margaret, che non avrei trovato amici sul vasto oceano; ora ho trovato un uomo che sarei stato felice di avere come fratello d'elezione, prima che la sventura fiaccasse il suo spirito.

Continuerò a intervalli il mio resoconto sullo straniero se avrò nuovi fatti da raccontare.



13 agosto 17**

Il mio affetto per l'ospite cresce di giorno in giorno. È capace di suscitare in sommo grado contemporaneamente la mia ammirazione e la mia commiserazione. Come si può vedere a tal punto distrutta una creatura così nobile senza sentirsi affranti dalla pena? È così gentile e saggio, e talmente colto che, quando parla, le sue parole, benché scelte ad arte, fluiscono con un'eloquenza e una scioltezza ineguagliabili. Ora si è ripreso e trascorre molto tempo sul ponte cercando, si direbbe, la slitta che precedeva la sua. Nonostante la sua infelicità si interessa ai progetti altrui mettendo da parte un poco del suo dolore. Conversa spesso con me del mio piano, che gli ho esposto senza reticenze. Ha analizzato attentamente gli argomenti favorevoli al mio eventuale successo e tutte le misure che ho preso per conseguirlo. La simpatia che mi mostra mi ha indotto a parlargli a cuore aperto e a dar voce all'ardore bruciante della mia anima: gli ho detto con tutta la passione che mi pervade quanto volentieri sacrificherei la mia fortuna, la mia esistenza e ogni speranza alla riuscita dell'impresa. La vita o la morte di un uomo sarebbero piccolo prezzo da pagare in cambio della conoscenza che cerco, del dominio che potrei acquisire e trasmettere alla razza umana. Mentre parlavo un'ombra cupa è calata sul volto del mio interlocutore. All'inizio mi avvidi che cercava di reprimere la sua emozione; si pose le mani sugli occhi. La mia voce tremò, poi mi mancò quando scorsi le lacrime scivolargli tra le dita. Gli sfuggì un gemito dal petto. Tacqui. Con voce rotta infine disse: «Infelice! La mia pazzia è anche vostra? Anche voi avete bevuto la pozione tossica? Ascoltate, lasciate che vi narri la mia storia e allontanerete subito la coppa dalle labbra!».

Queste parole, come puoi immaginare, solleticarono la mia curiosità; ma il parossismo di dolore che si era impadronito delle sue deboli forze fu tale che gli occorsero diverse ore di riposo e di tranquilla conversazione per ricomporsi.

Arginata la piena dei sentimenti, sembrò quasi disprezzarsi per la debolezza rivelata e, soffocata la cupa tirannia della disperazione, mi indusse a parlargli ancora di me. Mi interrogò sul mio passato. Il racconto fu rapido, ma provocò una serie di riflessioni. Parlai del mio desiderio di trovare un amico, della mia sete inesausta di stringere un contatto profondo con uno spirito più affine al mio di quanto mi fosse mai stato dato di incontrare. Espressi la convinzione che chi non ha goduto di questa felicità può ritenersi ben poco fortunato.

«Sono d'accordo con voi», replicò lo straniero. «Siamo tutti creature incomplete, dimezzate, se qualcuno più saggio, migliore, più caro a noi di noi stessi - e tale è un amico - non ci aiuta a perfezionare la nostra debole, imperfetta natura. Vi è stato un tempo in cui ho avuto un amico ed era la più nobile delle creature, e perciò posso ben valutare l'amicizia. Voi avete davanti la speranza e il mondo, non avete ragione di disperare. Ma io, io ho perso tutto e non posso ricominciare una nuova vita».

Dopo queste parole, il suo volto mostrò un pacato, calmo struggimento che mi toccò nel profondo. Ma rimase silenzioso e poco dopo si ritirò nella sua cabina.

Anche distrutto com'è nello spirito, nessuno avverte con maggiore intensità di lui la bellezza della natura. Il cielo stellato, il mare, ogni veduta di questa straordinaria regione sembrano ancora avere il potere di elevare la sua anima al di sopra della terra. Un uomo così ha una duplice esistenza: può sopportare le infelicità ed essere sopraffatto dalle sventure ma allo stesso tempo, quando si ritrae in se stesso, si trasforma in uno spirito celestiale circondato da un'aura nel cui cerchio magico né follia, né dolore possono penetrare.

Sorriderai del mio entusiasmo per il divino viandante? Non lo faresti se lo avessi veduto. Tu sei stata alimentata dai libri e ti sei affinato lo spirito lontano dal mondo, di conseguenza sei di gusti difficili, ma proprio questo ti rende adatta ad apprezzare i meriti straordinari di quest'uomo sublime. Talvolta ho tentato di scoprire quale delle qualità che possiede lo elevi così incommensurabilmente al di sopra di ogni altro uomo. Credo sia il discernimento: una capacità intuitiva di giudizio rapido ma infallibile. Una facoltà ineguagliabile di percepire le ragioni degli eventi, con chiarezza e precisione. Aggiungi a ciò la facilità di espressione e una voce le cui infinite tonalità musicali soggiogano l'anima.



19 agosto 17**

Ieri lo straniero mi ha detto: «Avrete senz'altro capito, capitan Walton, che ho sofferto grandi e incomparabili disgrazie. In un primo tempo ero determinato a portare la memoria di questi dolori nella tomba; ma voi mi avete convinto a mutare proposito. Voi cercate sapienza e saggezza, come anch'io ho fatto un giorno; spero ardentemente che l'esaudimento dei vostri desideri non si trasformi in un serpente che vi aggredisca, come è accaduto per me. Non so se la narrazione delle mie sciagure vi sarà utile; eppure, quando rifletto che voi state seguendo il mio stesso cammino, che vi state esponendo agli stessi rischi che hanno reso me quale oggi sono, immagino che voi possiate trarre una morale dal mio racconto. Una morale che vi guidi nel successo e vi conforti nel caso di un fallimento. Preparatevi ad ascoltare cose generalmente ritenute fantastiche. Ci trovassimo in ambienti naturali più ospitali, avrei timore di scontrarmi con la vostra incredulità, con lo scherno forse. Ma molte cose che provocherebbero il riso in quanti non hanno sperimentato l'infinita mutevolezza della natura appaiono possibili in queste regioni selvagge e misteriose. Né dubito che la mia storia contenga prove sufficienti a testimoniare la veridicità dei singoli eventi che la compongono!».

Puoi ben immaginare quanto sia stato gratificato da questa offerta di confidenza. Ma al tempo stesso non potevo sopportare che rinnovasse la sua pena rivivendo le proprie sfortune. E sentivo una profonda ansia di ascoltare la storia promessa. Per curiosità, certo; ma anche per alleggerire il peso del suo destino, se mai fosse stato in mio potere. Gli espressi questi sentimenti nella mia risposta.

«Vi ringrazio», disse, «per la vostra simpatia. Ma è inutile. Il mio fato è compiuto. Manca un solo accadimento, poi verrà l'ora di riposare in pace. Comprendo i vostri sentimenti», continuò, accorgendosi che volevo interromperlo, «ma vi sbagliate, amico mio, se mi permettete di chiamarvi così. Nulla può mutare il mio destino: ascoltate la mia storia e capirete quanto sia irrevocabilmente segnato».

Aggiunse che avrebbe iniziato il racconto il giorno successivo, quando fossi stato libero. Lo ringraziai con calore. Ho deciso di registrare ogni sera, quando i miei doveri non mi reclamano imperiosamente, ciò che mi narra durante il giorno, riportando per quanto possibile le sue stesse parole. Se sarò troppo impegnato, ne prenderò almeno degli appunti. Il manoscritto ti darà sicuramente grande piacere; ma anch'io, che lo ascolto dalle sue stesse labbra, con quale interesse e affetto lo rileggerò un giorno, nel futuro! Già ora, all'inizio di questo compito, la sua voce ben modulata mi risuona all'orecchio; i suoi occhi lucidi si fissano su di me, con dolce malinconia. Vedo la sua mano elegante che si agita, i lineamenti che si illuminano. Strana, ossessiva deve essere la sua storia, e spaventose le tempeste che hanno sorpreso questo prode vascello, trascinandolo nel naufragio.


CAPITOLO I




Sono ginevrino di nascita e la mia famiglia è tra le più illustri di quella repubblica. I miei antenati sono stati per anni e anni consiglieri e magistrati e mio padre ha ricoperto diverse cariche pubbliche con onore. Era rispettato da tutti coloro che lo conoscevano per la sua integrità e per la sua infaticabile devozione all'interesse pubblico. Trascorse la giovinezza sempre dedito agli affari del suo paese; una serie di circostanze gli aveva impedito di sposarsi e soltanto sul declinar della vita divenne marito e padre.

Non posso resistere alla tentazione di narrare le circostanze del matrimonio poiché illuminano molto bene i tratti del suo carattere. Uno dei suoi più intimi amici era un commerciante, il quale precipitò per una catena di sventure dall'agiatezza nella povertà. Questi, il cui nome era Beaufort, era di tempra orgogliosa e inflessibile, tale da non rendergli tollerabile una vita di squallore e di oblio nella città stessa che aveva visto il suo prestigio e il suo splendore. Dopo aver fatto onorevolmente fronte ai suoi debiti si ritirò con la figliola a Lucerna, dove visse in miseria, a tutti ignoto. Mio padre era legato a Beaufort dalla più sincera amicizia e soffrì profondamente del suo ritiro in circostanze così sventurate. Deplorava molto il falso orgoglio che aveva indotto l'amico a un comportamento del tutto incurante dell'amicizia che li univa. Senza perdere tempo tentò di rintracciarlo, nella speranza di persuaderlo a rifarsi una vita accettando l'aiuto del suo credito e della sua assistenza.

Beaufort aveva preso efficaci misure per far perdere le proprie tracce e occorsero dieci mesi prima che mio padre riuscisse a ritrovarlo. Pieno di felicità per la sua scoperta si affrettò verso la casa, situata in una piccola strada vicino al Reuss. Ma quando entrò, solo miseria e disperazione lo accolsero. Beaufort aveva salvato dal disastro finanziario appena un'esigua somma che gli era stata sufficiente a tirare avanti per qualche mese, e nel frattempo sperava di riuscire a procurarsi un impiego dignitoso presso qualche ditta commerciale. Così quell'intervallo di tempo era trascorso nella più completa inazione; intanto, però, la riflessione ingigantiva e incupiva sempre più il suo dolore e, da ultimo, si impadronì a tal punto della sua mente che, in capo a tre mesi, giaceva malato, senza la forza di reagire.

La figlia lo accudiva teneramente mentre si accorgeva angosciata che i loro pochi soldi diminuivano e non esistevano altre prospettive di aiuti. Ma Caroline Beaufort possedeva una forza d'animo non comune e un coraggio che la sorresse nelle avversità. Si procurò umili lavori: intrecciò paglia e fece mille altre cose pur di raggranellare quei pochi denari sufficienti a mantenerli in vita.

Trascorsero così lunghi mesi. Suo padre stava sempre peggio; lei ormai doveva dedicarsi quasi esclusivamente a lui e i mezzi di sussistenza diminuivano. Al decimo mese il padre spirò tra le sue braccia lasciandola orfana e in miseria. Quest'ultimo colpo la sopraffece. Quando mio padre entrò nella stanza stava piangendo amaramente, inginocchiata presso la bara di Beaufort. Egli giunse come uno spirito salvatore per lei, che gli si affidò completamente. Dopo la sepoltura dell'amico, mio padre la condusse a Ginevra e l'affidò alla protezione di una parente. Due anni dopo questi avvenimenti Caroline divenne sua moglie.

C'era, tra i miei genitori, una considerevole differenza di età, ma questa circostanza sembrava stringerli con legami di devozione ancor più saldi. C'era un sentimento di giustizia nella natura integra di mio padre che rendeva necessario che egli rispettasse altamente per amare profondamente. Forse, in anni precedenti, aveva sofferto per aver compreso troppo tardi l'indegnità di una persona amata; questo doveva averlo predisposto ad attribuire grande valore a una virtù provata. Vi erano gratitudine e devozione nel suo attaccamento a mia madre, profondamente diverso dalle moine degli anziani, e che egli era ispirato dalla stima per le sue qualità e dal desiderio di ricompensarla in qualche modo per le sofferenze patite; ciò conferiva una dolcezza inesprimibile al suo atteggiamento verso di lei. Ogni cosa era fatta per secondare i suoi desideri e le sue inclinazioni. Egli si sforzava di difenderla come un giardiniere difende un elegante fiore esotico da ogni vento impetuoso, e la circondava di tutto ciò che poteva suscitare emozioni piacevoli alla sua anima mite e benevola. La salute e la serenità dello spirito pur forte di lei erano state scosse dagli eventi attraverso cui era passata. Durante i due anni che avevano preceduto il loro matrimonio, mio padre aveva gradualmente lasciato tutte le cariche pubbliche, e immediatamente dopo la loro unione essi cercarono il bel cielo d'Italia, dove il cambiamento di paesaggio e di interessi, che si accompagna a un viaggio in quel paese delle meraviglie, agì come un tonico sul fisico indebolito di mia madre.

Dall'Italia passarono in Germania e in Francia. Io, loro primogenito, nacqui a Napoli e, in fasce, li seguii nei loro vagabondaggi. Rimasi per molti anni figlio unico. Più essi si amavano l'uno con l'altro, più amavano me, traendo il loro affetto da una miniera che sembrava inesauribile. Le tenere carezze di mia madre, il sorriso benevolo di mio padre quando mi guardava: questi i miei primi ricordi. Ero il loro giocattolo e il loro idolo e molto di più ancora: il figlio, la creatura innocente e indifesa che il cielo aveva loro affidato perché la allevassero nel bene, e il cui futuro era nelle loro mani. Felicità e dolore dipendevano da come avrebbero saputo assolvere i loro doveri verso di me. Con la profonda consapevolezza delle responsabilità verso l'essere cui avevano dato la vita e con la sollecita tenerezza che li animava entrambi, è facile immaginare come ricevessi in ogni istante della mia infanzia lezioni di pazienza, carità e autocontrollo; ero guidato da briglie di seta, cosicché il mondo mi sembrava una giostra di felicità.

Per lungo tempo fui l'unico oggetto delle loro cure. Mia madre desiderava molto una bambina, ma io restavo ancora l'unico rampollo. Quando ebbi circa cinque anni, durante una gita in Italia, passarono una settimana sul lago di Como. La loro generosità faceva sì che spesso entrassero nelle più povere casupole. Questo per mia madre era più che un dovere: era una necessità, una passione. Ricordava quanto aveva patito e come fosse stata soccorsa: ora era venuto il suo turno di angelo custode degli afflitti. Durante una passeggiata una misera casetta tra gli anfratti di una valle attrasse la loro attenzione per la sua intensa desolazione e per i numerosi bambini seminudi: tutte cose che parlavano di una miseria giunta all'ultimo stadio. Un giorno che mio padre si era recato a Milano, mia madre mi condusse a visitare il casolare: trovò un contadino e sua moglie, distrutti dalla fatica e dalle preoccupazioni, segnati dal duro lavoro, che distribuivano uno scarno desinare a cinque piccoli affamati. Tra questi una colpì profondamente mia madre. Sembrava appartenere a una stirpe diversa. Gli altri quattro erano piccoli monelli dagli occhi scuri e di costituzione robusta; la bimba era esile e biondissima. I capelli erano color oro splendente e, a dispetto della povertà dei vestiti, sembravano crearle una corona di nobiltà sul capo. La fronte era ampia e candida, gli occhi azzurri e limpidi, le labbra e la forma del viso esprimevano una sensibilità e dolcezza che nessuno poteva guardare senza vederla come appartenente a una specie diversa, un essere mandato dal cielo che recava in ogni suo tratto l'impronta celeste.

La contadina, accorgendosi che mia madre fissava con ammirazione e stupore la deliziosa bambina, gliene raccontò subito la storia. Non era figlia sua, ma di un nobile milanese. La madre, tedesca, era morta nel darla alla luce. La bimba era stata data a balia a quella brava gente, che all'epoca era in condizioni migliori. Erano sposati da poco ed era appena nato loro il primogenito. Il padre della bambina era uno di quegli italiani nutriti della memoria dell'antica grandezza d'Italia, uno degli schiavi ognor frementi che si battono per ottenere la libertà del loro paese. La debolezza dell'Italia ne aveva fatto una vittima. Non si sapeva se fosse morto o chiuso in qualche segreta austriaca. Le sue proprietà erano state confiscate e la bambina era divenuta una povera orfana. Aveva continuato a vivere con i genitori adottivi, fiorendo nella loro misera dimora come una rosa tra i neri rovi.

Quando mio padre tornò da Milano trovò, nell'atrio della nostra villa, una bambina che giocava con me: più soave di un cherubino dipinto, una creatura che sembrava emanare luce propria, i cui movimenti e la cui figura erano più agili di quelli di un camoscio sulle vette. L'apparizione fu presto spiegata. Con il suo consenso mia madre aveva convinto i rustici guardiani ad affidargliela. Questi amavano molto la dolce orfanella, la sua presenza era considerata una benedizione, ma trovarono ingiusto costringerla alla povertà quando la Provvidenza le offriva una protezione più sicura. Essi consultarono il prete del villaggio e il risultato fu che Elizabeth Lavenza divenne parte della nostra famiglia e per me più che una sorella: la meravigliosa e adorata compagna di ogni mia occupazione e svago.

Tutti amavano Elizabeth. L'appassionato e quasi reverenziale attaccamento che tutti le mostravano divenne, poiché lo condividevo, il mio orgoglio e la mia delizia. Il pomeriggio precedente al suo arrivo in casa nostra, mia madre mi aveva detto giocosamente: «Ho un piccolo dono per il mio Victor, domani lo vedrai». E quando, l'indomani, mi presentò Elizabeth come il dono promesso io, con infantile serietà, interpretai le sue parole alla lettera e guardai a Elizabeth come a una cosa mia, mia da proteggere, da amare, di cui prendermi cura. Tutte le lodi che le venivano tributate io le ricevevo come tributate a qualcosa che apparteneva a me. Ci chiamavamo familiarmente a vicenda cugini. Ma non esiste parola, non esiste espressione, che possa spiegare davvero il rapporto tra noi. Mia più che una sorella, dato che fino alla morte sarebbe stata mia soltanto.


CAPITOLO II




Crescemmo insieme: non avevamo neanche un anno di differenza. Non ho bisogno di dire che qualsiasi disaccordo o litigio ci furono estranei. L'armonia era la nota dominante del nostro legame e la diversità dei nostri caratteri non faceva che renderci più vicini. Elizabeth era di natura più calma e riflessiva, mentre io, con la mia passionalità, ero capace di maggiore concentrazione ed ero animato da una più ardente sete di conoscenza. Ella si lasciava rapire dalle aeree costruzioni dei poeti per le quali trovava scenari meravigliosi nella maestà del paesaggio che circondava la nostra casa in Svizzera: i profili sublimi delle montagne, il mutare delle stagioni, le tempeste e il sereno, i silenzi invernali e la turbolenza delle nostre estati alpine. Mentre la mia compagna contemplava, seria e appagata, le meravigliose apparenze delle cose io preferivo investigarne le cause. Il mondo era per me un mistero da scoprire. Curiosità, bruciante volontà di impadronirmi delle leggi segrete della natura, e una felicità vicina all'estasi quando esse mi si svelavano: queste sono le prime sensazioni che riesco a ricordare.

Alla nascita del secondogenito, più giovane di me di sette anni, i miei genitori misero fine alla vita errabonda e si stabilirono nel loro paese natio. Avevamo una casa a Ginevra e una in campagna, a Belrive, sulla riva orientale del lago, a circa una lega della città. Era in quest'ultima che abitavamo più spesso e i miei genitori conducevano un'esistenza molto appartata. Era nel mio temperamento evitare la folla e attaccarmi ardentemente a pochi. Per questo ero indifferente ai miei compagni di scuola nel loro insieme, ma strinsi i più saldi vincoli di amicizia con uno di loro. Henry Clerval, figlio di un mercante di Ginevra, era un ragazzo di singolare talento e immaginazione. Gli piacevano le imprese difficili e i pericoli per se stessi. Era appassionato di romanzi cavallereschi. Componeva poemi eroici e cominciò a scrivere una quantità di storie, di incantesimi e di avventure cortesi. Cercò di farci recitare in commedie e mascherate i cui personaggi erano gli eroi di Roncisvalle, della Tavola Rotonda di re Artù e tutta la schiera di cavalieri che aveva sacrificato il proprio sangue alla riconquista del Santo Sepolcro caduto in mani infedeli.

Nessuna creatura ha mai trascorso un'infanzia felice come la mia. I miei genitori erano la gentilezza e l'indulgenza personificate; li percepivamo non come tiranni che danno e tolgono a capriccio, ma come promotori e artefici di ogni nostra delizia, di ogni piacere. Mi rendevo conto della mia fortuna soprattutto quando andavamo in visita presso altre famiglie, e la gratitudine faceva crescere l'amor filiale.

Il mio temperamento era talvolta violento, le mie passioni scatenate. Ma, per una qualche legge che presiedeva alla mia natura, esse non m'ispiravano occupazioni fanciullesche, piuttosto un profondo desiderio ben distinto dall'apprendere indiscriminatamente qualsiasi cosa. Confesso che né la struttura delle lingue né i codici, né la politica degli stati esercitavano alcuna attrattiva su di me. I segreti della terra e del cielo, quelli bramavo scoprire. Sia che si trattasse della sostanza apparente delle cose o dello spirito recondito della natura o dei misteri del cuore dell'uomo, sempre le mie ricerche prendevano una direzione metafisica o, nel senso più elevato, miravano al mistero fisico dell'universo.

Nel frattempo Clerval si occupava, per così dire, del significato etico delle cose. La vita, le virtù degli eroi, le azioni degli uomini, erano il suo tema dominante; il suo sogno e la sua speranza erano di iscrivere il proprio nome tra quelli che la storia ricorda come prodi e avventurosi benefattori dell'umanità. L'anima santa di Elizabeth splendeva come una candela votiva nella nostra serena dimora. La sua simpatia era sempre con noi, la sua voce sommessa, lo sguardo dolce dei suoi occhi celestiali erano sempre là, per benedirci o per incitarci. Era la fiaccola splendente dell'amore che lenisce e attrae; io sarei forse diventato tetro a causa dello studio, e brusco per l'impulsività del mio carattere, ma c'era lei ad addolcirmi, donandomi qualcosa della sua gentilezza. E Clerval? Poteva qualcosa di vile albergare nella nobile natura di Clerval? Eppure egli non sarebbe stato così perfettamente umano, così intuitivo nella sua generosità, così ricco di delicatezza e di tenerezza pur nella sua passione per le avventure, se lei non gli avesse svelato l'autentica bellezza del fare il bene, e non gli avesse fatto capire che questo era il vero fine, l'obiettivo ultimo, della sua elevata ambizione.

Provo un piacere struggente nel riandare alla mia infanzia, prima che la sventura inquinasse la mia intelligenza, mutando le sue luminose visioni di un bene universale in cupe e distorte riflessioni su se stessa. Inoltre, nel tracciare il profilo dei miei primi anni, registro quegli eventi che mi condussero, con passi quasi impercettibili, al mio miserabile destino. Quando cerco di spiegarmi come nacque quella passione che in seguito travolse la mia vita, trovo che essa scaturì, come un ruscello di montagna, da una sorgente piccola e quasi dimenticata, ma che, nel suo corso, si ingrossò fino a trasformarsi nel torrente impetuoso che ha sradicato ogni mia gioia e speranza.

La filosofia naturale è il genio che ha guidato il mio fato. Desidero perciò, in questo racconto, menzionare i fatti che mi portarono a prediligere questa scienza. Quando avevo tredici anni andammo tutti in vacanza ai bagni di Thonon; l'inclemenza del tempo ci costrinse per un'intera giornata al chiuso. Nella locanda mi capitò di trovare un volume delle opere di Cornelio Agrippa. Lo sfogliai distrattamente; la teoria che cerca di dimostrare e i fatti meravigliosi che narra mutarono presto la mia indifferenza in entusiasmo. Fu come se si fosse accesa una luce nuova nella mia mente e, saltando di gioia, corsi a comunicarlo a mio padre. Mio padre guardò distrattamente il frontespizio del libro e disse: «Ah! Cornelio Agrippa! Caro Victor, non perderci tempo, sono assurdità!». Se, invece di limitarsi a questa osservazione, mio padre si fosse preso la briga di spiegarmi che i principi di Agrippa erano completamente confutati e che i metodi della scienza moderna erano molto più validi, in quanto più concreti, di quelli, chimerici, della scienza antica, io avrei certamente gettato via Agrippa rivolgendo verso studi più formativi la mia grande passione. È anche possibile che il corso dei miei pensieri non avrebbe ricevuto l'impulso fatale che mi portò alla rovina. Ma l'occhiata frettolosa che mio padre aveva dato al volume non mi lasciò convinto che egli ne conoscesse davvero il contenuto, e continuai a leggerlo con la più grande avidità.

Quando tornai a casa il mio primo pensiero fu di procurarmi l'opera omnia di questo autore; poi fu la volta di Paracelso e di Alberto Magno. Lessi e studiai con piacere le disordinate fantasie di questi scrittori. Ho già detto come avessi sempre nutrito un invincibile desiderio di penetrare i segreti della natura. A dispetto dell'intensa fatica e delle meravigliose scoperte degli scienziati moderni, lo studio delle loro opere mi lasciava sempre scontento e insoddisfatto. Si dice che Sir Isaac Newton abbia confessato di sentirsi come un bambino che raccoglie conchiglie lungo la riva del vasto e inesplorato oceano della verità. Quelli tra i suoi successori che io avevo avuto occasione di conoscere apparivano al mio intelletto infantile come apprendisti della stessa arte.

Il contadino incolto osserva gli elementi intorno a sé e impara come usarli. Il più sapiente filosofo non ne sapeva molto di più. Egli aveva parzialmente disvelato il volto della Natura, ma i suoi immortali lineamenti restavano avvolti nell'oscurità e nel mistero. Egli poteva dissezionare, anatomizzare e dare nomi ma, senza parlare della «causa ultima», le cause di secondo e terzo grado gli erano del tutto ignote. Io avevo alzato lo sguardo sulle fortificazioni e gli impedimenti che sembravano escludere il genere umano dalla cittadella della natura e, sconsideratamente e da ignorante, me n'ero afflitto.

Ma ecco dei libri, ecco degli uomini che erano penetrati più a fondo e sapevano di più. Accettai ogni loro parola come definitiva e divenni loro discepolo. Può sembrare strano che ciò sia potuto accadere nel diciottesimo secolo ma, per quanto seguissi il normale corso di studi in una scuola di Ginevra, al tempo stesso ero sostanzialmente un autodidatta per quanto concerneva i miei studi favoriti. Mio padre non era un uomo di scienza, e io, lasciato a me stesso, ero preda di una giovanile cecità cui si aggiungeva una sete di conoscenza da studioso. Sotto la guida dei miei nuovi precettori mi misi, con la più grande diligenza, alla ricerca della pietra filosofale e dell'elisir di lunga vita, e su quest'ultimo ben presto si accentrò tutto il mio interesse. La ricchezza era un obiettivo meschino, ma quale gloria avrebbe coronato la mia scoperta se fossi riuscito a cancellare la malattia dal corpo umano, a rendere l'uomo invulnerabile alla morte, eccettuata quella violenta!

Né queste erano le mie uniche visioni. L'evocazione di fantasmi e di demoni era un altro dei favori che i miei amati autori mi promettevano con generosità, e che io perseguivo con grande ardore; e, se i miei incantesimi restavano sempre senza successo, attribuivo il fatto piuttosto alla mia inesperienza e ai miei errori che a una mancanza di sapere o di veridicità dei miei maestri. Così per un certo periodo mi dedicai a sistemi superati, mescolando da inesperto centinaia di teorie contraddittorie e sguazzando in un vero pantano di conoscenze farraginose, guidato da una fantasia fervida e da una logica infantile, finché un avvenimento mutò di nuovo l'indirizzo dei miei pensieri.

Ero sui quindici anni quando ci ritirammo a vivere nella casa presso Belrive, dove assistemmo a un tremendo, violentissimo temporale. Avanzava dalle montagne del Giura, e il tuono scoppiò all'improvviso, con un fragore spaventoso, da varie parti del cielo. Io rimasi a osservare con curiosità e delizia il temporale che infuriava. Ero lì, in piedi vicino alla porta, quando una lingua di fuoco si levò da una vecchia, magnifica quercia, a una ventina di yarde dalla nostra casa; svanita la vampa di fuoco, disparve anche la vecchia quercia e non ne restò che un ceppo bruciacchiato. Il mattino seguente, quando andammo a vedere, l'albero era squarciato in maniera singolare. Non era stato spaccato dalla scarica, ma ridotto in sottili strisce di legno. Non avevo mai visto nulla in uno stato di così totale distruzione.

Già prima mi ero familiarizzato con le leggi elementari dell'elettricità. In quell'occasione era con noi un uomo che aveva condotto profondi studi di filosofia naturale e questi, stimolato dalla catastrofe, si lanciò nella spiegazione di una teoria da lui elaborata sull'elettricità e sul galvanismo, che subito mi parve nuova e sorprendente. Tutto quanto diceva gettava forti ombre su Cornelio Agrippa, Alberto Magno e Paracelso, i dominatori della mia fantasia; per qualche fatalità il tracollo di questi personaggi mi fece passare la voglia di continuare i miei studi. Mi sembrava che nulla si potesse mai imparare. Tutto ciò che aveva così a lungo occupato la mia attenzione improvvisamente divenne spregevole. Per uno di quei capricci della mente cui si è particolarmente soggetti nella prima giovinezza, d'un tratto gettai alle ortiche la mia antica passione; giudicai deforme e abortiva la storia naturale e tutta la sua progenie, e concepii un gran disdegno per la pretesa scienza che non era neppure in grado di muovere un passo per varcare la soglia della vera conoscenza. In questo stato d'animo mi rivolsi alla matematica e alle scienze a essa attinenti, costruite su fondamenta sicure e quindi degne della mia considerazione.

Così è il cuore degli uomini, e sono questi i fili sottili che ci legano alla felicità o alla rovina. Quando guardo indietro, mi sembra che questo mutamento miracoloso mi fosse stato suggerito direttamente dal mio angelo custode: l'ultima possibilità offertami dall'istinto di conservazione per stornare la tempesta che era scritta nelle stelle e già incombeva sul mio capo. La sua vittoria fu annunciata da un'insolita tranquillità e felicità d'animo che seguì all'abbandono dei miei antichi e tormentosi studi. Fu così che imparai ad associare l'inferno con la loro prosecuzione, e la serenità con il loro abbandono.

Fu l'estremo sforzo dello spirito del bene; ma non ebbe effetto. Troppo potente è il destino, e le sue leggi immutabili avevano decretato per me la totale e terribile distruzione.


CAPITOLO III




Quando giunsi a diciassette anni i miei genitori decisero che sarei andato all'università di Ingolstadt. Fino ad allora avevo frequentato le scuole di Ginevra, ma mio padre riteneva necessario al completamento della mia istruzione che io entrassi in contatto con una civiltà diversa da quella del nostro paese natale. La partenza fu fissata per una data molto prossima ma, prima che arrivasse il giorno stabilito, si verificò la prima disgrazia della mia vita: quasi un presagio di quelle a venire.

Elizabeth aveva preso la scarlattina: la malattia era grave e lei correva seri pericoli. Durante la malattia si erano usati tutti gli argomenti possibili per dissuadere mia madre dal prendersi cura di lei. Dapprima aveva ceduto alle nostre insistenze ma, quando seppe che la vita della sua prediletta era in pericolo, non poté dominare oltre la propria ansia e prese posto al capezzale della malata. Le sue amorevoli attenzioni trionfarono della malignità delle febbri. Elizabeth fu salva, ma le conseguenze di questa imprudenza furono fatali alla sua salvatrice. Il terzo giorno mia madre si ammalò; la febbre era accompagnata dai sintomi più allarmanti e, dall'espressione dei medici, pronosticammo il peggio. La forza e la bontà non disertarono il letto di morte della migliore delle donne. Ella congiunse le mani di Elizabeth e le mie.

«Figli miei», disse, «le mie più care speranze di felicità futura erano riposte nella prospettiva di una vostra unione. Sarà questa, ora, la consolazione di vostro padre. Elizabeth, tesoro mio, tu devi prendere il mio posto presso i più piccoli. Ahimè! Come rimpiango di essere strappata a voi! E, felice e amata come sono stata, non è duro per me lasciarvi? Ma questi pensieri non mi si confanno; avrò la forza di rassegnarmi serenamente alla morte aggrappandomi alla speranza di rincontrarvi in un altro mondo».

Morì tranquilla, e, anche nella morte, il suo volto esprimeva affetto. Non ho bisogno di descrivere i sentimenti di coloro che vedono recisi dal più irreparabile dei mali i loro legami più cari, il vuoto che si forma nell'animo, la disperazione che si fissa sul volto. Occorre molto tempo prima che la mente si persuada che colei che vedevamo ogni giorno e la cui esistenza ci sembrava parte della nostra è scomparsa per sempre; che lo sguardo di quegli occhi amati si è spento e il suono dolce e familiare di quella voce tacerà ormai definitivamente. Sono queste le riflessioni dei primi giorni, ma quando il trascorrere del tempo dimostra tutta la realtà della perdita, solo allora comincia il vero, amarissimo dolore. E tuttavia c'è qualcuno cui quella mano brutale non abbia strappato un caro affetto? Perché descrivere una sofferenza che tutti abbiamo provato e dobbiamo provare? Alla fine arriva il momento in cui il cordoglio non è più una necessità, ma vi si indulge comunque; e il sorriso che riappare sulle labbra, anche se è quasi sacrilego, non viene più bandito. Mia madre era morta, a noi restavano dei doveri da assolvere: continuare a vivere con i sopravvissuti e imparare a considerarci fortunati poiché ci rimaneva qualcuno che la predatrice non ci aveva rapito.

La mia partenza per Ingolstadt, rimandata dagli eventi, fu nuovamente fissata. Ottenni da mio padre un rinvio di qualche settimana. Mi sembrava un sacrilegio abbandonare così presto il silenzio, simile alla morte, di quella dimora in lutto per gettarmi tra il tumulto del mondo. Ero nuovo al dolore, ma non per questo mi spaventò meno. Ero restio ad allontanarmi da coloro che mi restavano e desideravo vedere la mia cara Elizabeth un po' meno sconsolata.

In verità ella nascondeva il proprio dolore e tentava di confortarci. Guardava con fermezza alla vita e ne accettava gli obblighi con coraggio e zelo. Si dedicò a coloro che chiamava zio e cugini. Non fu mai così incantevole come in quel periodo, quando, cercando di ritrovare il sorriso, ne riversava tutto lo splendore su di noi. Dimenticò persino la sua pena per farci dimenticare la nostra.

Alla fine arrivò il giorno della mia partenza. Clerval passò l'ultima sera con noi. Aveva fatto ogni sforzo per convincere il padre a farlo venire con me, come compagno di studi, ma invano. Suo padre era un commerciante dalle idee ristrette e vedeva solo ozio e rovina nelle aspirazioni di suo figlio. Henry soffriva profondamente di essere privato di un'educazione liberale. Parlò poco, ma quando parlò lessi nei suoi occhi brillanti e nel suo sguardo ardente la ferma risoluzione di non restare incatenato alle meschinità del commercio.

Restammo in piedi fino a tardi. Non sapevamo risolverci a separarci, a pronunciare la parola «Addio». Infine la parola fu detta e ci ritirammo col pretesto di riposare, ciascuno illudendosi di aver ingannato l'altro. Quando all'alba scesi verso la carrozza che mi avrebbe portato via, erano tutti lì: mio padre per benedirmi di nuovo, Clerval per stringermi ancora una volta la mano, la mia Elizabeth per farmi rinnovare la promessa che avrei scritto spesso, e per offrire gli ultimi, femminili gesti di affetto al suo compagno di giochi e amico.

Mi gettai nella carrozza abbandonandomi alle più malinconiche riflessioni. Io, che ero sempre stato circondato da persone che mi amavano, sempre impegnate nello sforzo di darsi reciproca gioia, adesso ero solo. All'università, dove stavo andando, avrei dovuto farmi nuovi amici e tutelarmi da solo. La mia vita, fino ad allora, si era svolta tra le pareti domestiche e provavo una forte ripugnanza per i volti nuovi. Amavo i miei fratelli, Elizabeth e Clerval; erano «vecchie facce familiari» ed io mi sentivo totalmente inadatto alla compagnia di estranei. Queste erano le mie riflessioni all'inizio del viaggio ma, con il procedere di questo, spirito e speranze si risollevarono. Desideravo ardentemente acquisire il sapere. Avevo pensato spesso, a casa, che era duro dover passare la giovinezza segregato nel medesimo luogo e avevo aspirato a entrare nel mondo e prendere il mio posto tra altri esseri umani. Ora i miei desideri si compivano e sarebbe stata follia rammaricarmene.

Ebbi tempo sufficiente per queste e molte altre considerazioni durante il viaggio per Ingolstadt, che fu lungo e faticoso. Infine scorsi l'alto e bianco campanile della città. Scesi e fui condotto nel mio solitario alloggio per trascorrere la serata come più mi piacesse.

La mattina seguente consegnai le mie lettere di presentazione e feci visita ad alcuni dei docenti più importanti. Il caso - o piuttosto l'influsso maligno dell'Angelo della Distruzione, che esercitava il suo influsso onnipotente su di me da quando avevo abbandonato, con passi riluttanti, la casa paterna - mi condusse per prima cosa dal signor Krempe, professore di filosofia naturale. Era un uomo rozzo ma profondamente addentro ai segreti della sua scienza. Mi fece molte domande sui miei progressi nelle varie branche della filosofia naturale. Risposi con noncuranza, e con un certo disprezzo, facendo i nomi dei miei alchimisti come degli autori da me più approfonditi. Il professore spalancò gli occhi: «Davvero avete passato il vostro tempo studiando simili insensatezze?».

Risposi affermativamente. «Ogni minuto», continuò il signor Krempe accalorandosi, «ogni istante che avete speso su questi libri è stato inutilmente, interamente sprecato. Avete gravato la vostra memoria di sistemi superati, di termini fuori uso. Buon Dio! In quale landa deserta avete vissuto, se nessuno si è premurato di informarvi che le fantasticherie di cui vi siete tanto avidamente imbevuto sono vecchie di mille anni e sono ammuffite, tanto sono vecchie? Mai avrei immaginato, in questa epoca illuminata e scientifica, di incontrare un discepolo di Alberto Magno e Paracelso. Mio caro signore, dovrete ricominciare i vostri studi da capo».

Così dicendo si allontanò, compilò una lista di trattati che desiderava mi procurassi e mi congedò, dopo avermi informato che, all'inizio della settimana seguente, avrebbe cominciato un corso sui principi generali della filosofia naturale e il signor Waldman, suo collega, a giorni alterni, avrebbe tenuto un corso di chimica.

Tornai a casa; non ero sorpreso perché, come ho detto, da lungo tempo anch'io consideravo inutili quegli autori che il professore disapprovava; ma neppure volevo riprendere, in qualsiasi forma, quel genere di studi. Il signor Krempe era un ometto tarchiato, dal tono burbero e l'aspetto ripugnante; l'insegnante non mi ispirava, quindi, a seguire la sua scienza. Sul modo in cui ero giunto, fanciullo, a certe conclusioni in merito a essa ho dato, forse, un resoconto troppo filosofico e articolato. Allora non mi ero accontentato dei risultati promessi dai moderni professori di scienze naturali. Con una confusione di idee che si può giustificare solo con la mia estrema giovinezza e l'assenza di una guida in tali materie, avevo disceso a ritroso la scala della conoscenza percorrendo all'inverso i sentieri del tempo, e rifiutato le moderne ricerche in cambio dei sogni di alchimisti dimenticati. Disprezzavo le finalità della moderna filosofia naturale. Era ben diverso quando i maestri della scienza ricercavano immortalità e potere; questi obiettivi, seppure vani, erano grandiosi; ma adesso la scena era mutata. L'ambizione dei ricercatori sembrava limitarsi all'annullamento di quelle visioni sulle quali si fondava il mio interesse per le scienze. Mi si chiedeva di scambiare chimere di illimitata grandezza con realtà di poco valore.

Questi i miei pensieri per i primi due o tre giorni trascorsi a Ingolstadt, che furono dedicati a familiarizzare con i luoghi e le persone più interessanti della mia nuova residenza. Ma all'inizio della settimana successiva ripensai alle informazioni che il signor Krempe mi aveva dato circa le lezioni. E, benché non intendessi affatto andare ad ascoltare le concioni di quell'ometto borioso, ricordai ciò che mi aveva detto di Waldman, che ancora non avevo incontrato poiché era stato fuori città.

Spinto in parte dalla curiosità e in parte dal non aver nient'altro da fare, andai nell'aula dove quasi subito arrivò il signor Waldman. Questi era totalmente diverso dal collega. Sembrava sulla cinquantina: il suo volto esprimeva grande bonomia; radi capelli grigi gli coprivano le tempie, mentre quelli sulla nuca erano quasi neri. Era basso di statura ma con il portamento eretto, e la sua voce era la più dolce che avessi mai udito. Cominciò la lezione ricapitolando la storia della chimica e dei progressi compiuti da diversi studiosi, e pronunciava i nomi dei più eminenti tra costoro con grande fervore. Quindi compì un rapido giro di orizzonte sullo stato presente della scienza spiegando una buona parte della terminologia più elementare. Dopo avere compiuto alcuni esperimenti introduttivi concluse con un panegirico della chimica moderna, le cui espressioni non dimenticherò mai più:

«Gli antichi maestri di questa scienza», disse, «promisero l'impossibile e non giunsero a nulla. I moderni maestri promettono davvero poco; sanno che i metalli non possono essere trasmutati e che l'elisir di lunga vita è una chimera. Ma questi filosofi, le cui mani sembrano fatte solo per frugare nel fango, i cui occhi sembrano fissarsi solo sul microscopio, o sul crogiuolo, hanno compiuto miracoli. Essi penetrano nei recessi della natura e ne rivelano l'opera segreta. Si librano verso il cielo; hanno scoperto la circolazione del sangue e la natura dell'aria che respiriamo. Hanno acquisito nuovi e quasi illimitati poteri, possono comandare al fulmine nel cielo, simulare il terremoto e prendersi gioco del mondo invisibile con le sue ombre».

Tali furono le parole pronunciate dal professore o piuttosto, lasciatemelo dire, scagliate dal fato per la mia rovina. Mentre lui proseguiva io provavo la sensazione che la mia anima stesse lottando contro un nemico in carne e ossa. Uno dopo l'altro venivano toccati i meccanismi che formavano il mio essere, tutte le corde della mia mente vibravano e presto in me non ci fu che un pensiero, un'idea, uno scopo. Molto è stato fatto - gridava l'anima di Frankenstein - ma molto, molto di più farò io! Ripercorrendo le strade già battute mi farò pioniere di una nuova via, esplorerò forze sconosciute e svelerò al mondo i misteri insondabili della creazione.

Quella notte non chiusi occhio. Tutto il mio essere era in preda all'agitazione e al tumulto. Sapevo che ne sarebbe nato un nuovo ordine ma non era in mio potere produrlo. Lentamente, dopo l'alba, il sonno giunse. Al risveglio i pensieri della notte appena trascorsa parevano sogni. Restava la decisione di tornare ai miei vecchi studi e di dedicarmi interamente a una scienza per la quale ero sicuro di possedere un innato talento. Quello stesso giorno resi visita al signor Waldman. In privato i suoi modi erano ancor più suadenti e affascinanti che in pubblico, perché l'aura di solennità accademica veniva sostituita dalla più grande affabilità e cortesia. Gli diedi più o meno lo stesso resoconto sui miei studi precedenti che avevo fatto al suo collega. Mi ascoltò con attenzione e sorrise ai nomi di Cornelio Agrippa e Paracelso, ma senza il disprezzo mostrato dal signor Krempe. Egli disse: «Questi sono stati uomini al cui infaticabile zelo i moderni filosofi sono debitori di molti fondamenti del loro sapere. Essi hanno lasciato a noi il più facile compito di dare nuovi nomi e riunire in sistematiche classificazioni i fatti che in gran misura erano già stati da loro portati alla luce. Le fatiche di uomini di genio, anche se volte in direzioni sbagliate, non mancano quasi mai di produrre alla fine un progresso per il genere umano». Ascoltai queste parole, pronunciate senza presunzione né affettazione, poi gli comunicai che la sua lezione aveva rimosso i miei pregiudizi contro la chimica moderna; usai espressioni misurate, con la modestia e la deferenza dovute da un giovane al suo insegnante, senza lasciar trapelare (mi sarei vergognato di mostrare la mia inesperienza) nulla dell'entusiasmo che mi aveva acceso per lo studio che volevo intraprendere. Gli chiesi consigli sui testi che avrei dovuto procurarmi.

«Sono felice», replicò il signor Waldman, «di aver conquistato un discepolo; e, se la vostra applicazione eguaglierà il vostro talento, non dubito del vostro successo. La chimica è la branca della filosofia naturale in cui sono stati fatti, e ancora si possono fare, i maggiori progressi; è in questa prospettiva che ne ho fatto il mio specifico campo di studio; ma, allo stesso tempo, non ho trascurato gli altri rami della scienza. Sarebbe un chimico ben meschino chi si occupasse solo di questo settore del sapere umano. Se voi desiderate diventare un vero uomo di scienza e non un semplice sperimentatore, vi consiglio di dedicarvi a ogni disciplina della filosofia naturale, inclusa la matematica».

Quindi andammo nel suo laboratorio, dove mi spiegò il funzionamento di vari apparecchi, dandomi istruzioni su quali dovevo procurarmi e promettendo di lasciarmi usare i suoi quando fossi stato abbastanza competente da non danneggiarli. Mi fornì anche la lista di libri che avevo chiesto, dopo di che mi congedai.

Così si concluse una giornata per me memorabile e che decise la mia sorte.


CAPITOLO IV




Da quel giorno la filosofia naturale, e in particolare la chimica nell'accezione più ampia del termine, divennero quasi la mia sola occupazione. Lessi avidamente le opere, piene di genialità e di perspicacia, scritte dai ricercatori moderni su questi argomenti. Frequentai le lezioni e strinsi rapporti con i professori di scienze dell'università, e scoprii che anche il signor, Krempe possedeva profonde e solide conoscenze, unite, è vero, a una fisionomia sgradevole quanto i suoi modi, ma non per questo meno valide. Nel signor Waldman trovai un vero amico. La sua gentilezza non recava tracce di dogmatismo, e impartiva i suoi insegnamenti con una franchezza e una bonarietà che escludevano ogni pedanteria. In mille modi mi aprì i sentieri della conoscenza e mi rese comprensibili e chiare le questioni più astruse. La mia assiduità nello studio fu inizialmente incerta e fluttuante, ma si rinvigorì via via che procedevo fino a divenire febbrile, a tal punto che spesso le stelle impallidivano alla luce del mattino quando io ero ancora all'opera nel mio laboratorio.

Con un'applicazione così intensa è facile capire come i miei progressi fossero rapidi. Il mio slancio era motivo di stupore per gli studenti, il mio profitto per gli insegnanti. Il professor Krempe mi chiedeva spesso con un sorriso sornione: «Come va Cornelio Agrippa?», mentre il signor Waldman esultava di cuore per i miei successi. Trascorsero così due anni durante i quali non mi recai mai a Ginevra, impegnato anima e corpo in ricerche che miravano a giungere a nuove scoperte. Nessuno, se non chi ne abbia fatta esperienza personale, può capire le seduzioni della scienza. In altri ambiti si procede fin dove altri sono giunti prima di noi, e al di là non c'è nulla; ma in campo scientifico c'è sempre spazio per la scoperta e il meraviglioso. Un'intelligenza media che si impegni assiduamente in un'unica materia, infallibilmente giungerà a conseguire una profonda competenza in essa e io, che mi impegnai senza sosta per il conseguimento di un unico obiettivo, e che solo su questo mi concentravo, feci progressi così rapidi che in capo a due anni giunsi a perfezionare alcuni strumenti chimici, il che mi guadagnò grande stima e ammirazione all'università. A quel punto mi ero familiarizzato con la teoria e la pratica della filosofia naturale quanto era possibile con gli insegnamenti dei professori di Ingolstadt, perciò la mia permanenza lì non mi avrebbe fatto progredire oltre; decisi quindi di tornare dai miei, nella mia città natale, ma un avvenimento nuovo protrasse il mio soggiorno.

Uno dei fenomeni che avevano fortemente attirato la mia attenzione era la struttura dell'organismo umano, anzi, di qualsiasi organismo dotato di vita. Da dove, mi chiedevo spesso, deriva il principio della vita? Era un interrogativo ben arduo, uno di quelli che sono sempre stati considerati senza risposta, e tuttavia di quante cose potremmo venire a conoscenza se codardia e negligenza non ostacolassero la nostra ricerca! Dibattei a lungo tra me e me questi ragionamenti e risolsi di dedicarmi in particolare alla fisiologia. Se non fossi stato animato da un entusiasmo quasi sovrumano, lo studio di queste materie sarebbe risultato tedioso, fino al limite dell'intollerabile. Per esplorare il principio della vita bisogna prima far ricorso alla morte. Divenni esperto di anatomia, ma non era sufficiente; dovevo osservare anche la naturale corruzione e dissoluzione del corpo umano. Mio padre, nell'educarmi, aveva preso le massime precauzioni perché la mia mente non fosse suggestionata da orrori soprannaturali. Non ricordo di aver mai tremato per una favola di sortilegi, né di aver temuto l'apparizione di uno spirito. Il buio non produceva alcun effetto sulla mia fantasia, e i cimiteri erano per me solo il ricettacolo di corpi privi di vita i quali, dopo aver albergato bellezza e forza, divenivano pasto per i vermi. Ora dovevo esaminare le cause e il progredire di questo decadimento, e fui costretto a trascorrere giorni e notti in cripte e ossari. La mia attenzione si concentrava su tutto ciò che più è insopportabile per la delicatezza dei sentimenti umani. Vidi come il bel sembiante dell'uomo si guasta e si degrada, vidi come la decomposizione della morte succede al fiorire della vita; vidi come il verme eredita lo splendore degli occhi e del cervello dell'uomo. Mi soffermai e analizzai nei più minuti dettagli la legge della causalità che presiede al passaggio dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, finché dalle tenebre nacque, improvvisa, una luce; una luce accecante e straordinaria, eppure tanto semplice che, mentre provavo un senso di vertigine per le prospettive che illuminava, mi sorprendevo che tra tanti uomini di genio che si erano dedicati a questa stessa scienza, a me solo fosse stato riservato di scoprire un segreto così sbalorditivo.

Badate, non vi sto raccontando le visioni di un pazzo. Il sole non ha una luce più certa nei cieli di quanto sia certo ciò che affermo. Può essere stato frutto di un miracolo, ma le fasi della scoperta erano chiare e convincenti. Dopo notti e giorni di lavoro e fatiche immani pervenni a scoprire le cause della generazione e della vita; no, di più, fui in grado di dare vita alla materia inanimata.

Allo stordimento che seguì tale rivelazione presto si sostituì una felicità esultante. Dopo tante lunghe fatiche, arrivare d'un tratto all'apice dei miei desideri era la conclusione più gratificante per i miei sforzi. La scoperta era talmente importante e soverchiante da farmi dimenticare tutti i passaggi che gradualmente mi avevano portato a essa, e contemplavo solo il risultato. L'oggetto del desiderio e dello studio degli uomini più saggi, sin dal tempo della creazione del mondo, era adesso tra le mie mani. Non che tutto si spalancasse davanti a me come in una scena magica; ciò a cui ero pervenuto poteva indirizzare i miei sforzi sull'oggetto della ricerca, ma non darmi l'oggetto stesso già realizzato. Ero come l'Arabo sepolto con i morti al quale una luce fioca e tremolante apre la via del ritorno alla vita.

Leggo nei vostri occhi brillanti di meraviglia, mio caro amico, la speranza che io vi sveli il mistero di cui sono a conoscenza, ma ciò non può essere; se ascolterete fino in fondo la mia storia capirete i motivi di questa reticenza. Non sarò io a trascinarvi, ingenuo e pieno di slancio come ero anch'io a quel tempo, alla ineluttabile infelicità e alla rovina. Imparate dal mio esempio, se non dalle mie parole, quanto sia pericoloso acquisire la conoscenza e quanto sia più felice l'uomo convinto che il suo paese sia tutto il mondo, di colui che aspira a un potere più grande di quanto la natura non conceda.

Quando mi ritrovai in possesso di una facoltà così strabiliante, esitai a lungo sul come utilizzarla. Avevo la capacità di infondere la vita, tuttavia preparare un corpo, con i suoi intrichi di vene, muscoli e fibre, atto a riceverla restava pur sempre un'impresa difficile, una fatica improba. Mi domandai dapprima se dovessi tentare la creazione di un essere come me o di struttura più semplice, ma la mia immaginazione, infiammata dal successo, non mi faceva dubitare di riuscire a dar vita a un animale complesso e meraviglioso come l'uomo. Anche se i materiali a mia disposizione in quel momento sembravano inadeguati a questa ardita impresa, ero fiducioso che sarei arrivato alla meta. Mi preparai ad affrontare una quantità di rovesci: i miei tentativi potevano risultare vani e la mia opera alla fine rivelarsi imperfetta ma, considerando i progressi che si verificano ogni giorno in campo scientifico, mi sentivo incoraggiato a tentare; avrei, se non altro, gettato le basi per un successo futuro. Neppure la vastità e la complessità del progetto erano argomentazioni sufficienti a farmi considerare inattuabile quanto mi proponevo. Con questi sentimenti intrapresi la creazione di un essere umano. Poiché le piccole dimensioni costituivano un grave intralcio alla rapidità del mio lavoro decisi, contrariamente alla mia prima intenzione, di costruire un essere gigantesco, alto circa otto piedi e di corporatura in proporzione. Stabilito questo punto, e dopo alcuni mesi impiegati a radunare e predisporre il materiale occorrente, cominciai.

Nessuno può immaginare il turbinio di sentimenti che, simile a un uragano, accompagnò i miei primi successi. Vita e morte erano solo barriere ideali da infrangere per riversare un fiume di luce sul nostro mondo immerso nelle tenebre. Una nuova specie mi avrebbe venerato come suo creatore e sorgente di vita; molti esseri perfetti e felici avrebbero dovuto a me la loro esistenza. Nessun padre avrebbe potuto aspettarsi una devozione così totale dalla propria prole quale io avrei meritato dalla mia. Procedendo in queste riflessioni giunsi a pensare che, se potevo dar vita a ciò che ne era privo, sarei riuscito col tempo (anche se al momento non ne vedevo il modo) a ridare alla vita i corpi che la morte aveva destinato alla corruzione.

Siffatti pensieri mi sorreggevano mentre procedevo nella mia impresa con fede inesauribile. Il mio volto si era fatto pallido per lo studio, il mio corpo era consumato dalla segregazione. A volte, sull'orlo del successo, fallivo; ma continuavo ad aggrapparmi alla speranza di ciò che il giorno o l'ora successivi avrei potuto attuare. Mi ero votato a un segreto, noto a me solo, e di notte la luna vegliava sulle mie incessanti fatiche mentre, col cuore in gola, cercavo di carpire alla natura il suo mistero. Chi potrà mai immaginare l'orrore del mio lavoro furtivo, allorché violavo empiamente le umide tombe, o torturavo un animale palpitante di vita per animare una materia inerte? Le membra mi tremano e mi si offusca la vista al ricordo, ma allora un impulso irresistibile, quasi frenetico, mi obbligava a procedere; sembrava che anima e sensi fossero dedicati ormai unicamente al conseguimento del mio fine. Fu, in verità, una sorta di trance passeggera che valse a ridarmi una più acuta sensibilità non appena quello stimolo cessò e io tornai alle mie normali abitudini. Raccolsi ossa dalle tombe e frugai, con dita profane, tra i segreti recessi del corpo umano. In una stanzetta solitaria, quasi una cella, all'ultimo piano della mia casa, sepatato da una rampa di scale e da un lungo passaggio dal resto dell'edificio, avevo il laboratorio per la mia oscena creazione: gli occhi mi schizzavano dalle orbite mentre curavo i dettagli del mio lavoro. Gran parte del materiale proveniva dall'aula di anatomia e dal mattatoio. Talvolta quanto era rimasto in me di umano si ritraeva con disgusto da ciò che facevo ma, spinto da una brama sempre crescente, portavo la mia opera verso la conclusione.

L'estate passò mentre io mi davo anima e corpo a quest'impresa. Fu un'estate bellissima: i campi e le vigne lussureggiavano per i raccolti, mai ricchi come quell'anno, ma i miei occhi erano insensibili alle bellezze della natura. E gli stessi sentimenti che mi facevano trascurare quanto mi circondava mi fecero dimenticare gli amici lontani, che non vedevo da tanto tempo. Sapevo che il mio silenzio li inquietava, e ricordavo bene le parole di mio padre: «So che finché sarai soddisfatto di te stesso penserai a noi con affetto, e noi avremo regolarmente tue notizie. Mi devi scusare se considererò ogni interruzione nella tua corrispondenza come un segno che anche gli altri tuoi doveri sono ugualmente negletti».

Capivo bene, perciò, quali potevano essere i pensieri di mio padre; ma non riuscivo a strapparmi da quel compito, in sé orripilante, che, tuttavia incatenava la mia volontà. Desideravo, per così dire, rimandare tutto ciò che concerneva i miei affetti a quando avessi portato a compimento l'impresa che aveva cancellato tutte le abitudini in me connaturate.

Pensavo allora che mio padre sarebbe stato ingiusto nell'ascrivere la mia negligenza a qualche vizio o colpa, ma ora sono convinto che fosse giustificato nel ritenermi degno di biasimo. Un essere umano in possesso di tutte le sue facoltà dovrebbe sempre mantenere serena la mente e non permettere alle passioni o a desideri transitori di sconvolgerla. Neppure la ricerca della conoscenza può sfuggire a questa regola. Se lo studio al quale ci si dedica tende ad affievolire i nostri affetti, a distruggere i piaceri semplici che nulla può inquinare, allora quello studio è di certo malsano, indegno della natura umana. Se questa regola venisse osservata, se nessun uomo permettesse ai propri progetti di interferire con la serenità degli affetti familiari, la Grecia non sarebbe stata sottomessa, Cesare avrebbe risparmiato la sua patria, l'America sarebbe stata scoperta in modo più graduale e gli imperi del Messico e del Perù non sarebbero stati distrutti.

Ma io sto facendo della morale proprio nel punto più interessante della mia storia e la vostra espressione mi sollecita e proseguire.

Mio padre non mi rimproverò mai nelle sue lettere, reagì ai miei silenzi solo facendomi più domande del solito sulla mia attività. Inverno, primavera, estate erano trascorsi, ma io non avevo visto i rami fiorire, né le foglie infittirsi - cose che un tempo mi avevano riempito di gioia - immerso com'ero nella mia opera. Le foglie di quell'anno erano ormai ingiallite e il mio lavoro non era ancora prossimo al compimento, ma ogni giorno mi mostrava più chiaramente i miei progressi. L'entusiasmo era oscurato dall'ansia, e io sembravo più uno schiavo condannato alla miniera, o a qualche altro lavoro insalubre, che un artista che crea liberamente la sua opera. Ogni notte mi opprimeva una leggera febbre e divenni estremamente nervoso; trasalivo a ogni cader di foglia e sfuggivo i miei simili come se fossi colpevole di qualche reato. Talvolta mi spaventavo per il cambiamento che stava avvenendo in me; l'unica forza mi veniva dal mio obiettivo: le mie fatiche erano quasi terminate, dopo di che l'esercizio fisico e un po' di svago avrebbero allontanato il male incipiente; e mi ripromettevo tali cose per quando la mia creazione fosse giunta a termine.


CAPITOLO V




Fu in una tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche. Con un'ansia simile all'angoscia radunai gli strumenti con i quali avrei trasmesso la scintilla della vita alla cosa inanimata che giaceva ai miei piedi. Era già l'una del mattino; la pioggia batteva lugubre contro i vetri, la candela era quasi consumata quando, tra i bagliori della luce morente, la mia creatura aprì gli occhi, opachi e giallastri, trasse un respiro faticoso e un moto convulso ne agitò le membra.

Come posso descrivere la mia emozione a quella catastrofe, descrivere l'essere miserevole cui avevo dato forma con tanta cura e tanta pena? Il corpo era proporzionato e avevo modellato le sue fattezze pensando al sublime. Sublime? Gran Dio! La pelle gialla a stento copriva l'intreccio dei muscoli e delle vene; i capelli folti erano di un nero lucente e i denti di un candore perlaceo; ma queste bellezze rendevano ancor più orrido il contrasto con gli occhi acquosi, grigiognoli come le orbite in cui affondavano, il colorito terreo, le labbra nere e tirate.

La vita non offre avvenimenti tanto mutevoli quanto lo sono i sentimenti dell'uomo. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo avevo rinunciato al riposo e alla salute. L'avevo desiderato con intensità smodata, ma ora che avevo raggiunto la meta il fascino del sogno svaniva, orrore e disgusto infiniti mi riempivano il cuore. Incapace di sostenere la vista dell'essere che avevo creato, fuggii dal laboratorio e a lungo camminai avanti e indietro nella mia camera da letto, senza riuscire a dormire. Alla fine lo spossamento subentrò al tumulto iniziale e mi gettai vestito sul letto, cercando qualche momento di oblio. Invano! Dormii, è vero, ma agitato dai sogni più strani. Mi sembrava di vedere Elizabeth, nel fiore della salute, per le strade di Ingolstadt. Sorpreso e gioioso, l'abbracciavo; ma come imprimevo il primo bacio sulle sue labbra queste si facevano livide, color di morte; i suoi tratti si trasformavano e avevo l'impressione di stringere tra le braccia il cadavere di mia madre, avvolto nel sudario. I vermi brulicavano tra le pieghe del tessuto. Mi risvegliai trasalendo d'orrore; un sudore freddo mi imperlava la fronte, battevo i denti e le membra erano in preda a un tremito convulso quando - al chiarore velato della luna che si insinuava attraverso le persiane chiuse - scorsi la miserabile creatura, il mostro da me creato. Teneva sollevate le cortine del letto e i suoi occhi, se di occhi si può parlare, erano fissi su di me. Aprì le mascelle emettendo dei suoni inarticolati mentre un sogghigno gli raggrinziva le guance. Forse aveva parlato, ma non udii; aveva allungato una mano, come per trattenermi, ma gli sfuggii precipitandomi giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa e vi passai il resto della notte, continuando a percorrerlo, agitatissimo, e tendendo l'orecchio a ogni rumore che annunciasse l'arrivo del diabolico cadavere al quale avevo sciaguratamente dato vita.

Oh! Nessun mortale avrebbe potuto sostenere l'orrore del suo aspetto! Una mummia riportata in vita non sarebbe risultata raccapricciante come quell'essere repulsivo. Lo avevo osservato quando non era ancora ultimato: anche allora era sgradevole, ma quando i muscoli e le giunture avevano assunto capacità di moto era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire.

Trascorsi una nottata infernale. A volte il polso batteva così rapido e violento che potevo sentire il palpitare di ogni arteria; altre volte l'estrema debolezza e il languore quasi mi facevano crollare a terra. Insieme all'orrore provavo l'amarezza della disillusione: sogni che a lungo erano stati il mio cibo e il mio ristoro si erano trasformati in incubi; e il rovesciamento era stato così rapido, così completa la disfatta!

Sorse il mattino, triste e piovoso, e mostrò ai miei occhi insonni e dolenti la chiesa di Ingolstadt, il suo bianco campanile e l'orologio che segnava le sei. Il guardiano aprì i cancelli del cortile che era stato il mio asilo quella notte e uscii nelle strade percorrendole a passo svelto come per sfuggire al mostro che temevo mi si parasse dinanzi a ogni angolo. Non avevo il coraggio di tornare al mio alloggio, mi sentivo sospinto a camminare nonostante la pioggia che cadeva da un cielo nero e sconfortante mi bagnasse fino alle midolla.

Continuai così, sperando che l'esercizio fisico alleggerisse il peso che mi opprimeva la mente. Traversavo strade senza avere idea di dove fossi, di cosa facessi. Sentivo il cuore stretto nella morsa dell'angoscia, e mi affrettavo con passo irregolare, senza osare guardarmi attorno:


Come uno che, per strada deserta,

cammina tra paura e terrore

e guardatosi intorno una volta, va avanti

e non volta mai più la testa

perché egli sa, un orrendo demonio

a breve distanza lo segue.


In questo modo giunsi infine di fronte alla locanda in cui fanno sosta diligenze e carrozze. Qui mi fermai, non so perché; rimasi per alcuni minuti a fissare una vettura che veniva verso di me dall'altro capo della strada. Quando fu più vicina, mi accorsi che era la diligenza svizzera; si fermò giusto dov'ero io e, quando si aprì lo sportello, riconobbi Henry Clerval che, vedendomi, all'istante balzò a terra. «Mio caro Frankenstein», esclamò, «come sono felice di vederti! E che fortunata coincidenza che tu sia qui proprio al momento del mio arrivo!».

Niente avrebbe potuto eguagliare la mia gioia nel vedere Clerval; la sua presenza riportò i miei pensieri a mio padre, a Elizabeth, a tutte le scene domestiche così care al mio ricordo. Gli afferrai la mano e in un attimo dimenticai orrori e disgrazie: sentii all'improvviso, e per la prima volta dopo molti mesi, una felicità pacata e serena. Diedi il benvenuto all'amico nel modo più cordiale, e ci incamminammo verso la mia abitazione. Clerval parlò a lungo dei nostri comuni amici e della fortuna di avere ottenuto il permesso di venire a Ingolstadt. «Puoi ben capire», raccontò, «quanto sia stato difficile convincere mio padre che la nobile arte di tenere i conti non racchiude tutta la cultura necessaria; e, in verità, credo di averlo lasciato incredulo fino all'ultimo, perché la sua invariabile risposta alle mie insistenti richieste era sempre quella del maestro di scuola olandese nel Vicario di Wakefield. 'Ho diecimila fiorini l'anno senza il greco, mangio di gusto senza il greco'. Ma il suo affetto per me alla fine ha vinto la sua scarsa stima per lo studio, e mi ha concesso di intraprendere questo viaggio di esplorazione nella terra del sapere».

«È una grande gioia vederti; ma ora dimmi, come stanno mio padre, i miei fratelli ed Elizabeth?».

«Molto bene e sereni, solo un po' preoccupati perché hanno tue notizie così di rado. A proposito, ho intenzione di farti una bella ramanzina in merito Mio caro Frankenstein», continuò, fermandosi e guardandomi in faccia, «non l'avevo notato prima, ma hai un'aria disfatta, così magro e pallido sembra che tu non abbia dormito per molte notti».

«Hai indovinato; sono stato così assorbito da un impegno, negli ultimi tempi, che non mi sono concesso un sufficiente riposo, come vedi; ma spero, spero sinceramente, che questo sia ormai concluso e di essere finalmente libero!».

Tremavo violentemente. Non riuscivo a pensare, né tanto meno ad alludere, agli avvenimenti di quella notte. Camminavo svelto e presto giungemmo al mio alloggio. Allora cominciai a riflettere e un pensiero mi raggelò: l'essere che avevo lasciato nel mio appartamento forse era ancora là, vivo, ad aggirarsi per le stanze. Temevo di rivederlo, ma ancor più temevo che lo vedesse Henry. Lo pregai perciò di aspettarmi ai piedi delle scale e corsi di sopra. La mia mano già stringeva la maniglia quando riuscii a ricompormi. Mi fermai e un brivido freddo mi percorse. Spalancai di colpo la porta, come usano fare i bambini quando temono che un fantasma li stia aspettando dall'altra parte, ma non apparve nulla. Entrai pieno di paura: l'appartamento era deserto e anche la mia stanza da letto era libera dal suo odioso ospite. Quasi non riuscivo a credere alla mia fortuna ma, quando mi fui assicurato che il nemico si era davvero allontanato, battei le mani per la gioia e scesi da Clerval.

Salimmo in camera mia e poco dopo il domestico portò la colazione; io non riuscivo a contenermi. Non era solo la gioia a pervadermi: mi sentivo percorso da un formicolio, come per un eccesso di sensibilità, e il polso batteva all'impazzata. Ero incapace di star fermo un attimo allo stesso posto, mi alzavo e tornavo a sedermi, battevo le mani e ridevo forte. Dapprima Clerval attribuì quell'umor bizzarro al piacere del suo arrivo; ma quando mi osservò più attentamente scorse nei miei occhi una luce fanatica per la quale non c'erano giustificazioni; e la mia risata alta, irrefrenabile, secca, lo spaventò e lo stupì.

«Mio caro Victor», esclamò, «per amor di Dio, cos'hai? Non ridere in quel modo. Tu stai male! Qual è il motivo di tutto questo?».

«Non chiederlo a me», gemetti posandomi le mani sugli occhi, perché mi sembrava di vedere l'orribile spettro scivolare nella stanza, «lui può dirtelo Oh, salvami, salvami!». Ebbi l'impressione che il mostro mi afferrasse; mi dibattei furiosamente, poi svenni.

Povero Clerval! Quali possono essere stati i suoi sentimenti? L'incontro da lui pregustato con tanta gioia si trasformava in amarezza! Ma io non fui testimone del suo dolore poiché ripresi i sensi molto, molto più tardi.

Questo fu l'inizio di una febbre nervosa che mi tenne segregato per molti mesi. Durante tutto quel periodo Henry fu il mio solo infermiere. Appresi più tardi che, data l'età avanzata di mio padre e la sua impossibilità di affrontare un viaggio così lungo, e sapendo quanto la mia malattia avrebbe impressionato Elizabeth, egli aveva voluto risparmiare loro ogni angustia nascondendo la gravità del mio male. Sapeva anche che nessuno avrebbe potuto assistermi con maggiore attenzione e sollecitudine e, fermo nella speranza che mi sarei rimesso, era certo non solo di non agire male, ma di compiere l'atto più premuroso verso di loro.

In realtà ero molto malato; e certo solo le illimitate e instancabili cure del mio amico avrebbero potuto restituirmi alla vita. Avevo sempre dinanzi agli occhi la forma del mostro cui avevo dato esistenza e deliravo incessantemente su di lui. Senza dubbio le mie parole sorpresero Henry; dapprima credette che si trattasse dei vaneggiamenti di una mente alterata ma l'insistenza con cui tornavo sempre sullo stesso soggetto lo persuase che il mio disordine mentale traeva origine da qualche fatto straordinario e terribile.

Per gradi, e con frequenti ricadute che allarmavano e addoloravano il mio amico, mi ristabilii. Ricordo che la prima volta che fui in grado di guardarmi intorno con un certo piacere, mi accorsi che le foglie morte erano scomparse, e le gemme nuove stavano spuntando sugli alberi che ombreggiavano la mia finestra. Fu una primavera dolcissima e la stagione contribuì molto alla mia convalescenza. Sentimenti di allegria e di affetto mi rinascevano in petto; l'umore cupo scomparve e, in poco tempo, tornai sereno come ero stato prima che quella fatale passione mi possedesse.

«Carissimo Clerval», esclamai, «come sei stato affettuoso e gentile con me! Invece di studiare come ti ripromettevi hai consumato l'intero inverno nella mia stanza di malato. Come potrò mai ripagarti? Provo un grande rimorso per il dispiacere che ti ho cagionato, ma tu mi perdonerai, non è vero?».

«Mi ripagherai ampiamente se non ti agiterai e guarirai al più presto. E, poiché mi sembri in così buone condizioni di spirito, posso affrontare con te un certo argomento?».

Tremai. Quale argomento? Che cosa poteva essere? Forse ciò a cui io non osavo neppure pensare?

«Stai calmo», disse Clerval notando che avevo cambiato colore, «non ne parleremo se questo ti agita, ma tuo padre e tua cugina sarebbero lieti di ricevere una lettera scritta di tua mano. Non immaginano quanto sei stato malato e sono preoccupati per il tuo lungo silenzio».

«Tutto qui, mio caro Henry? Come puoi credere che il mio pensiero non voli verso quei cari, cari amici che amo e che sono così degni del mio affetto?».

«Se questa è la tua disposizione d'animo, amico mio, forse sarai lieto di leggere la lettera che attende lì ormai da diversi giorni; è di tua cugina, credo».


CAPITOLO VI




Clerval mi mise questa lettera tra le mani. Era della mia cara Elizabeth:


Carissimo cugino,

sei stato malato, molto malato, e neppure le frequenti lettere del nostro caro Henry sono sufficienti a rassicurarmi sul tuo stato. Ti è proibito scrivere, prendere in mano la penna; eppure, caro Victor, una tua parola è necessaria per tranquillizzarci. Per tanto tempo, a ogni arrivo della posta, ho sperato che mi giungesse una riga da parte tua; e i miei argomenti persuasivi hanno trattenuto lo zio dall'intraprendere un viaggio per Ingolstadt. Sono riuscita a evitargli le fatiche e, forse, i pericoli di un così lungo viaggio. Ma quanto ho rimpianto di non poterlo compiere io stessa! Mi figuro che il compito di assisterti sia stato affidato a qualche anziana governante a pagamento, che certo non può indovinare i tuoi desideri, né prevenirli con la sollecitudine e l'affetto della tua povera cugina. Ma ora tutto è finito: Clerval assicura che ti stai rimettendo, e spero che tu confermerai questa notizia scrivendoci subito di tuo pugno.

Guarisci e torna da noi. Qui troverai una casa felice e tranquilla e amici che ti amano teneramente. La salute di tuo padre è vigorosa, ed egli chiede solo di vederti per essere certo che tu stia bene. Quanto saresti lieto di vedere com'è diventato il nostro Ernest! Ha sedici anni ormai ed è nel pieno del rigoglio e della forza. Desidera essere un vero svizzero e arruolarsi in un esercito straniero; ma non sappiamo separarci da lui, almeno fintanto che il fratello maggiore non tornerà. Allo zio non piace l'idea di una carriera militare lontano, in un altro paese, ma Ernest non ha mai avuto la tua capacità di applicazione. Guarda allo studio come a una detestabile pastoia; trascorre il suo tempo all'aria aperta, arrampicandosi sulle colline e remando sul lago. Temo che diventerà un buono a nulla se non cediamo permettendogli di abbracciare la professione che si è scelto.

Non c'è stato alcun cambiamento da quando sei partito, se non la crescita dei ragazzi. Il lago azzurro e le montagne innevate sono cose che non cambiano mai e credo che anche la serenità della nostra dimora e l'appagamento dei nostri cuori rispondano alla stessa, immutabile legge. Molte piccole faccende occupano tutto il mio tempo e mi allietano, e ogni mia fatica è ricompensata dal vedere solo volti felici e sorridenti attorno a me. Da quando ci hai lasciati c'è stata solo una novità in casa. Ricordi le circostanze in cui Justine Moritz entrò a far parte della nostra famiglia? Forse no, perciò ti riassumo la storia in poche parole. La madre, Madame Moritz, era vedova con quattro figli; Justine era la terzogenita. Era stata la preferita del padre ma, per qualche strana perversione, sua madre non la poteva soffrire e, dopo la scomparsa di M. Moritz, cominciò a maltrattarla. La zia aveva osservato la cosa e, quando Justine ebbe dodici anni, convinse la madre ad affidargliela. Le istituzioni repubblicane del nostro paese hanno prodotto dei costumi più semplici e felici di quelli delle grandi monarchie che ci circondano. Tra noi le differenze di classe sono meno sentite e i ceti inferiori non sono altrettanto poveri e disprezzati così che hanno modi più civili e morali. Un domestico a Ginevra non è la stessa cosa che in Francia o in Inghilterra. Justine, accolta in famiglia, vi imparò i doveri di una cameriera, condizione che, nel nostro fortunato Paese, non implica ignoranza o sacrificio della propria dignità di essere umano.

Justine, come ricorderai, era la tua prediletta, e rammento che una volta dicesti che se eri di cattivo umore ti bastava guardarla per fartelo passare, per la stessa ragione che Ariosto indica a proposito della bellezza di Angelica: ella appariva sempre spensierata e felice. Mia zia concepì un grande attaccamento per lei, perciò le diede un'istruzione superiore a quanto inizialmente si riprometteva. Questa generosità fu pienamente ripagata: Justine era la persona più grata di questo mondo. Non che lo esprimesse apertamente, non ho mai udito una parola da lei a questo riguardo, ma le si leggeva negli occhi l'adorazione per la sua protettrice. Nonostante il suo temperamento gaio, a volte spensierato, prestava la massima attenzione a ogni gesto della zia. La considerava il modello di ogni virtù e cercava di imitarne il modo di esprimersi e i gesti, al punto che ancora oggi spesso me la ricorda.

Quando la zia morì, tutti eravamo talmente chiusi nel nostro dolore da non far caso alla povera Justine che l'aveva curata durante la malattia con affettuosa ansietà. La povera Justine si ammalò, ma ben altri prove le erano riservate.

Uno dopo l'altro i fratelli e la sorella morirono, e sua madre rimase senza figli, tranne questa da lei sempre negletta. La sua coscienza era turbata; cominciò a pensare che la scomparsa dei suoi prediletti fosse un castigo del cielo per punire la sua parzialità. Era cattolica e credo che il suo confessore confermasse quei dubbi. Perciò, pochi mesi dopo la tua partenza, la madre pentita richiamò a casa Justine. Poverina! Singhiozzava quando dovette lasciare la nostra casa; la morte della zia l'aveva molto cambiata; la sofferenza aveva affinato i suoi modi donandole una delicatezza e una seducente malinconia che il suo carattere vivace prima non conosceva. Né la convivenza con la madre fu tale da renderle la gaiezza. La povera donna vacillava spesso nel suo pentimento: talvolta scongiurava Justine di dimenticare la sua crudeltà, ma più spesso l'accusava di essere la causa della morte dei suoi fratelli. Questo perpetuo oscillare provocò in Madame Moritz un declino inesorabile che dapprima accrebbe la sua irritabilità, ma ora ella riposa in pace per sempre. Si è spenta l'inverno scorso, ai primi freddi. Justine è tornata con noi, e ti assicuro che nutro per lei un profondo affetto. È intelligente, gentile ed estremamente graziosa: inoltre, come ti ho detto, i suoi modi e le sue espressioni mi ricordano continuamente la cara zia.

Voglio aggiungere qualche parola, caro cugino, sul nostro adorato William. Se tu potessi vederlo! È molto alto per la sua età, ha occhi azzurri dolci e ridenti, ciglia nere e capelli ricci. Quando sorride gli si formano due fossette sulle gote rosee di salute. Ha già avuto un paio di fidanzatine ma la sua preferita è Louisa Biron, una bella bimbetta di cinque anni.

Ora caro Victor, sono certa ti farà piacere apprendere qualche pettegolezzo sulla brava gente di Ginevra. La graziosa Miss Mansfield ha già ricevuto le visite di felicitazioni per le sue imminenti nozze con un giovane inglese, John Melbourne. La sua brutta sorella, Manon, ha sposato l'autunno scorso il ricco banchiere Monsieur Duvillard. Il tuo compagno di scuola preferito, Louis Manoir, ha subito diversi rovesci di fortuna, dopo la partenza di Clerval. Ma si è ripreso e corre voce che sposerà una graziosa e vivace francese, Madame Tavernier. È vedova e parecchio più anziana di Manoir, ma è molto ammirata e piace a tutti.

Scrivendoti mi sono rasserenata, caro Victor, ma ora che sto per salutarti mi assale di nuovo l'ansia. Scrivi, carissimo: una riga, una parola saranno un balsamo per noi. Diecimila volte grazie a Henry per la sua gentilezza, la sua affettuosità e le sue numerose lettere; gli siamo profondamente grati. Adieu; cugino mio. Abbi cura di te e, ti supplico, scrivi!

Elizabeth Lavenza

Ginevra, 18 marzo 17**


«Cara, cara Elizabeth», esclamai quando ebbi letto la sua lettera. «Risponderò all'istante e li solleverò dall'angoscia che li stringe». Scrissi e questo sforzo mi affaticò molto. Ma ormai ero in piena convalescenza e miglioravo costantemente. Quindici giorni dopo potevo lasciare la mia stanza.

Uno dei miei primi compiti, appena mi fui ristabilito, fu presentare Clerval ai diversi professori dell'università. Ciò comportò dei momenti tormentosi che mal si addicevano alle recenti ferite che la mia mente aveva subito. Da quella notte fatale che aveva segnato la fine delle mie fatiche e l'inizio delle mie disgrazie provavo un disgusto violento anche per le sole parole «filosofia naturale». Sebbene fossi quasi guarito fisicamente, la vista di un apparecchio chimico era un martirio per il mio sistema nervoso. Henry se n'era accorto e aveva eliminato tutte le mie attrezzature. Mi aveva anche fatto cambiare alloggio vedendo che provavo un forte disgusto per il locale che era stato il mio laboratorio. Ma le sue premure non poterono essermi d'aiuto quando feci visita ai miei professori. Il signor Waldman mi torturò con la cortesia dei suoi caldi elogi per i sorprendenti progressi da me conseguiti nelle scienze. Si accorse subito che l'argomento mi era sgradito ma, non conoscendone la vera causa, l'attribuì alla modestia del mio carattere, e, dai miei profitti, spostò il discorso sulla scienza in sé cercando, come notai, di trascinarmi nella conversazione. Che potevo fare? Cercava di farmi piacere e invece mi tormentava. Era come se allineasse davanti a me, in bell'ordine, tutti gli strumenti che dovevano servire poi a darmi una morte lenta e crudele. Mi torcevo sotto le sue parole, ma non potevo manifestare la mia pena. Clerval, che aveva occhi e sensi prontissimi a percepire i sentimenti altrui, lasciò cadere l'argomento con il pretesto di una sua totale ignoranza, e la conversazione assunse un tono più generico. Ringraziai l'amico in cuor mio ma non dissi nulla. Vedevo bene che era sorpreso, tuttavia non cercò mai di carpire il mio segreto. Nutrivo per lui un affetto e una stima senza limiti, eppure non sapevo decidermi a confidargli l'evento che avevo sempre davanti agli occhi, anche perché temevo che riviverlo parlandone a qualcun altro sarebbe servito solo a inciderlo più profondamente nella mia memoria.

Il signor Krempe non si mostrò altrettanto docile: i suoi encomi ottusi e rozzi irritarono i miei nervi a fior di pelle molto più della benevola approvazione del signor Waldman: «Diavolo d'un ragazzo», esclamò, «vi assicuro, signor Clerval, che ci ha superati tutti. Stupitevi pure, ma questa è la verità. Un giovincello, che fino a pochi anni fa credeva in Cornelio Agrippa come nel Vangelo, è ora al primo posto in questa università; e se non riusciamo a ridimensionarlo un poco finirà col metterci tutti in grave imbarazzo. Oh già», continuò vedendo la mia espressione di sofferenza, «il signor Frankenstein è modesto. Qualità eccellente in un giovane. I giovani non dovrebbero esser troppo sicuri di sé, sapete, signor Clerval; anch'io ero così, da giovane; ma è cosa che passa presto».

Il signor Krempe si lanciò in un elogio di se stesso che per fortuna stornò la conversazione dal soggetto che mi era così penoso.

Clerval non aveva mai avuto simpatia per le scienze, e i suoi interessi letterari differivano totalmente dai miei. Era venuto all'università con l'obiettivo di impadronirsi delle lingue orientali e di aprirsi così la strada verso la meta che si era prefisso. Deciso a non vivere ingloriosamente, guardava all'Oriente come a un orizzonte abbastanza ampio per il suo spirito di iniziativa. Il persiano, l'arabo, il sanscrito catturarono il suo interesse e io mi lasciai facilmente convincere a seguire i suoi stessi studi. L'ozio mi era sempre stato sgradevole e ora che volevo sfuggire alla riflessione e odiavo ciò che tanto avevo amato, studiare con lui era un sollievo. Non solo imparavo, ma traevo grande conforto dalla lettura degli scrittori orientali. Non tenevo, come lui, a giungere a una conoscenza critica dei loro dialetti, poiché non miravo ad altro che a una distrazione temporanea. Leggevo solo per intendere il senso, ed ero ben ripagato della mia fatica. La loro malinconia è serena e la gioia esuberante come non avevo mai trovato nella letteratura di altri paesi. Nei loro scritti la vita sembra consistere in un caldo sole e in un giardino di rose, nel sorriso o il cipiglio di una bella nemica, e nel fuoco che consuma il cuore. Quale differenza rispetto alla poesia eroica e virile di Roma e della Grecia!

L'estate passò tra queste occupazioni, il mio ritorno a Ginevra fu fissato per la fine dell'autunno; ma avendolo rimandato per via di alcuni contrattempi, inverno e neve sopraggiunsero, le strade divennero impraticabili, e il viaggio fu rinviato alla primavera. Soffrii amaramente per questo ritardo poiché bramavo rivedere la mia città natale e i miei cari. Il ritorno fu tanto procrastinato perché mi spiaceva lasciare Clerval in un paese straniero prima che vi avesse stretto qualche amicizia. L'inverno tuttavia trascorse piacevolmente e, sebbene la primavera giungesse tardiva, la sua bellezza, poi, ricompensò ogni attesa.

Maggio era già iniziato e io aspettavo da un giorno all'altro la lettera che avrebbe stabilito la data della mia partenza, quando Henry propose un'escursione a piedi nei dintorni di Ingolstadt, perché io potessi dare l'addio al paese che mi aveva così a lungo ospitato. Accettai con gioia: camminare mi piaceva e Clerval era sempre stato il compagno prediletto di tutti i vagabondaggi tra gli scenari della mia terra natia.

Girovagammo per due settimane; la mia salute e il mio spirito si erano ristabiliti da tempo e ora guadagnavano forza dall'aria salubre che respiravo, dagli imprevisti della gita e dalla conversazione con l'amico. Lo studio mi aveva isolato dal mondo rendendomi asociale: Clerval fece riemergere i miei migliori sentimenti, mi insegnò ad amare di nuovo la natura, i visi allegri dei bimbi. Che amico eccellente! Come era sincero il tuo affetto e come cercavi di sollevare la mia mente all'altezza della tua! Una ricerca egocentrica mi aveva rattrappito e raggelato, ma la tua dolcezza e il tuo affetto riscaldavano e scioglievano il mio animo; ridivenni l'individuo che ero stato fino a pochi anni prima: amato e benvoluto da tutti, ignaro del dolore e delle angustie. Quando ero felice la natura aveva il potere di far nascere in me le sensazioni più deliziose. Un cielo sereno e dei campi verdeggianti mi colmavano d'estasi. E quella stagione fu davvero divina; la primavera faceva schiudere i fiori delle siepi, mentre quelli estivi già si preparavano a sbocciare. Avevo dimenticato tutte le ossessioni che l'anno precedente mi avevano attratto con invincibile forza per quanto avessi cercato di scacciarle.

Henry si rallegrava del mio buonumore e condivideva sinceramente i miei sentimenti; faceva di tutto per distrarmi esprimendo le sensazioni che lo pervadevano. Le risorse della sua immaginazione erano sorprendenti, il suo parlare ricco di fantasia; e, molto spesso, a imitazione degli scrittori arabi e persiani sapeva creare storie avvincenti e appassionate. Altre volte recitava le mie poesie preferite, o mi trascinava in ragionamenti dove sosteneva le sue argomentazioni con grande ingegno.

Quando tornammo alla nostra città universitaria era un pomeriggio domenicale: i contadini danzavano e tutti intorno a noi manifestavano letizia e allegria. Io stesso ero di ottimo umore e camminavo sentendomi pervaso di gioia e spensieratezza.


CAPITOLO VII




Al rientro trovai questa missiva di mio padre:


Mio caro Victor,

probabilmente stavi attendendo con impazienza una lettera che definisse la data del tuo ritorno qui e in un primo tempo sono stato tentato di scrivere solo due righe per comunicarti il giorno in cui ti avrei aspettato. Ma sarebbe stata una cortesia crudele, me ne manca il cuore. Quale sarebbe il tuo sgomento, figlio mio, se, invece di un caldo e gioioso benvenuto ti trovassi davanti solo lacrime e disperazione? Ma con quali parole, Victor, posso riferirti la nostra sciagura? L'assenza non può averti reso indifferente alle nostre gioie e ai nostri dolori; e come posso dare una simile pena a mio figlio da così lungo tempo lontano? Vorrei prepararti alla terribile nuova, ma so che è impossibile: i tuoi occhi già stanno scorrendo la pagina alla ricerca delle parole che ti riveleranno il funesto annunzio.

William è morto! Quel dolce bambino i cui sorrisi deliziavano e scaldavano il mio cuore, lui, così gentile e pieno di vita, Victor, è stato assassinato!

Non tenterò di confortarti, ti racconterò semplicemente i fatti.

Giovedì scorso (7 maggio) io, mia nipote e i tuoi due fratelli siamo andati a fare una passeggiata a Plainpalais. La serata era tiepida e serena, e noi prolungammo più del solito la camminata. Era già sceso il crepuscolo quando decidemmo di tornare, e solo allora ci accorgemmo di avere perso di vista William e Ernest, che erano andati avanti. Ci sedemmo su una panchina, ad aspettarli. Ernest arrivò poco dopo chiedendo se avevamo visto il fratello. Raccontò che stavano giocando, poi William era corso a nascondersi, lui l'aveva cercato vanamente e poi atteso a lungo, ma l'altro non era ricomparso.

Questo ci allarmò e continuammo a cercarlo fino a notte, quando Elizabeth pensò che potesse essere rientrato a casa. Non c'era. Tornammo indietro, muniti di torce; io non trovavo pace al pensiero che il mio caro piccolo si fosse smarrito e si trovasse esposto all'umidità e alla rugiada notturne; anche Elizabeth era in grande pena. Verso le cinque del mattino scoprii il mio bel figlioletto, che la sera prima avevo visto florido e carico di energia, abbandonato sull'erba, livido ed esanime; sul collo recava le impronte delle dita assassine.

Fu trasportato a casa e l'angoscia che mi si leggeva in volto svelò l'accaduto a Elizabeth. Fu irremovibile nel voler vedere il corpo. Cercai di dissuaderla, ma insistette e, entrata nella stanza dove William giaceva, ne esaminò il collo e, torcendosi le mani, esclamò: Oh Dio! Ho ucciso io il mio diletto piccolo!

Svenne, e solo a fatica si riuscì a farle riprendere i sensi. Quando si fu riavuta non faceva che piangere e singhiozzare. Mi raccontò che quel pomeriggio William aveva insistito perché gli lasciasse mettere al collo una preziosa miniatura, datale da tua madre. La miniatura era sparita, ed è stata senza dubbio quella la tentazione che ha spinto l'assassino a uccidere. Finora non ne abbiamo scoperto traccia, anche se i nostri sforzi per trovarlo non conoscono sosta. Comunque non potranno restituirmi il mio adorato William!

Vieni, carissimo Victor, tu solo puoi consolare Elizabeth. Ella si dispera e accusa se stessa ingiustamente di essere la causa di questa atrocità; le sue parole mi spezzano il cuore. Qui regna lo sconforto, ma non sarà questo un motivo in più per tornare e darci consolazione? La tua cara madre! Ahimè, Victor, oggi devo ringraziare Dio che non sia più qui tra noi ad assistere alla crudele, miserevole fine del suo ultimo nato!

Vieni, Victor; non meditando pensieri di vendetta contro l'omicida, ma con sentimenti di pace e di amore, che leniscano, invece di acuire, le ferite dei nostri animi. Entra nella casa del cordoglio, amico mio, ma recando affetto e tenerezza per chi ti ama e non odio per i tuoi nemici.

Il tuo affezionato e afflitto padre.

Alphonse Frankenstein

Ginevra, 12 marzo 17**


Clerval, che mi aveva osservato mentre leggevo, rimase sgomento vedendo la disperazione sostituirsi alla gioia nel ricevere notizie dai miei. Gettai la lettera sul tavolo e nascosi il viso tra le mani.

«Mio caro Frankenstein», esclamò Henry vedendomi piangere amaramente, «sarai dunque sempre infelice? Caro amico, cosa succede?».

Gli accennai di prendere la lettera mentre cominciavo a camminare per la stanza, agitatissimo. Anche dagli occhi di Clerval sgorgarono lacrime copiose mentre leggeva il resoconto della mia sventura.

«Non posso offrirti alcuna consolazione, amico mio», mormorò, «la disgrazia è senza riparo. Che intendi fare?».

«Partire all'istante per Ginevra. Vieni con me a ordinare i cavalli, Henry». Per strada Clerval cercò di offrirmi qualche conforto; riuscì solo a esprimermi la sua più sincera partecipazione. «Povero William!», disse, «quel caro bambino ora riposa accanto a quell'angelo di sua madre. Chiunque abbia conosciuto la sua bellezza tenera, radiosa, lieta, non può non piangerne la perdita prematura. Una morte così terribile, sentendo sul collo la stretta dell'assassino. E tanto più scellerato costui per aver spento una così radiosa innocenza. Povero ragazzo! Abbiamo solo una consolazione: noi che l'amavamo siamo affranti ma lui ora riposa in pace. Finito il dolore, finite per sempre le sofferenze. Una coltre di terra ricopre il suo corpo gentile, ed egli non conosce più la pena. Non lui deve essere l'oggetto della nostra pietà, ma gli infelici che gli sopravvivono».

Così diceva Clerval mentre ci affrettavamo lungo le strade; le sue parole mi si impressero nella mente e, più tardi, quando fui solo, le ricordai. Ma in quel momento arrivarono i cavalli; salii subito in carrozza e dissi addio all'amico.

Fu un viaggio malinconico. All'inizio volevo solo correre per andare a consolare e confortare i miei cari affranti; ma, quando fui vicino alla mia città rallentai l'andatura. Potevo a malapena dominare la ressa dei sentimenti che si affollavano nel mio animo. Passavo attraverso luoghi familiari sin dalla prima giovinezza, ma che ormai non vedevo da quasi sei anni. Quante cose potevano essere cambiate in tutto quel tempo! Un cambiamento improvviso e desolante già c'era stato; ma altre mille, piccole circostanze avevano forse operato a poco a poco altre trasformazioni che, seppure verificatesi in maniera più graduale, potevano rivelarsi non meno decisive. La paura mi sopraffece, non osavo proseguire temendo mille mali senza nome, indefinibili eppure terrificanti.

Rimasi due giorni a Losanna in questa penosa condizione di spirito. Contemplavo il lago: le acque erano calme, le montagne innevate - i «palazzi della natura» - non erano cambiati. A poco a poco quel panorama sereno e paradisiaco mi placò e potei ripartire per Ginevra.

La strada costeggiava il lago che si restringeva man mano che mi avvicinavo alla città. Ora potevo distinguere le nere pendici del Giura, e la cima lucente del Monte Bianco. Piansi come un fanciullo. «Care montagne! Mio meraviglioso lago! Quale benvenuto date al vostro viandante? Le vostre cime sono luminose, il cielo e il lago azzurri e silenti. Mi presagite pace o schernite il mio dolore?».

Temo, amico mio, di annoiarvi indugiando su queste circostanze preliminari; ma quelli furono giorni di relativa serenità, e li ripenso volentieri. Paese mio, mia amata terra! Chi, se non chi vi è nato, può dire il piacere che provavo nel rivedere i tuoi torrenti, le tue montagne e, soprattutto, il tuo bel lago!

Eppure, avvicinandomi a casa, dolore e paura di nuovo mi sopraffecero. Scese anche la notte e, quando potei distinguere solo a malapena i profili scuri delle montagne, mi sentii ancora più oppresso. Il paesaggio sembrava un vasto e cupo teatro del male, e io ebbi l'oscuro presentimento che sarei divenuto il più infelice tra gli uomini. Ahimè! La profezia era veritiera, ed errava solo in un particolare: in tutte le miserie che immaginai e temetti, non potei intuire nemmeno la centesima parte dell'angoscia che ero destinato a sopportare.

Era completamente buio quando arrivai nei pressi di Ginevra; le porte della città erano già chiuse, e fui obbligato a passare la notte a Secheron, un villaggio a circa mezza lega dalla città. Il cielo era sereno e, visto che non riuscivo a trovare riposo, decisi di recarmi sul luogo in cui William era stato ucciso. Poiché non potevo passare per la città, fui obbligato a traversare il lago in barca per raggiungere Plainpalais. Durante questo breve tragitto vidi i lampi giocare sulla cima del Monte Bianco, creando meravigliose figure. Il temporale si avvicinava rapidamente e, approdato, salii su una collinetta da dove potevo seguirne il progresso. Avanzava; il cielo si era rannuvolato e presto cadde la pioggia, dapprima in grosse gocce rade, poi con violenza crescente.

Lasciai quel luogo e proseguii nonostante l'oscurità e il temporale aumentassero di intensità a ogni passo, e il tuono scoppiasse sopra di me con fragore assordante. Gli rispondeva l'eco dalla Salêve, dal Giura e dalle Alpi della Savoia. Vividi lampi mi abbagliavano e illuminavano il lago facendolo sembrare una lastra di fuoco; poi per un istante ogni cosa ripiombava nel buio, finché l'occhio non si riaveva dall'accecamento di prima. Il temporale, come accade spesso in Svizzera, infuriava contemporaneamente in varie parti del cielo. Il più violento era esattamente sulla zona settentrionale della città, in corrispondenza di quella parte del lago che va dal promontorio di Belrive al villaggio di Côpet. Un altro illuminava il Giura con lampi più deboli, e un altro ancora oscurava e a tratti rivelava la Môle, un picco a est del lago.

Mentre osservavo la tempesta, bella e terribile a un tempo, camminavo a passo veloce. Quella nobile guerra nei cieli elevava il mio spirito; giunsi le mani e esclamai ad alta voce: «William, caro angelo! Questo è il tuo funerale, questo il tuo lamento funebre!». Appena ebbi pronunciato queste parole intravvidi nel buio una figura che sgusciava via da una macchia di alberi vicino a me; rimasi immobile aguzzando gli occhi; non era possibile che mi sbagliassi. Un lampo me ne rivelò chiaramente la sagoma: la statura gigantesca e l'aspetto deforme, troppo ripugnante per appartenere a un essere umano, mi convinsero che si trattava del mostro, dell'orrido demone cui avevo dato vita. Perché era lì? Poteva essere lui (e rabbrividii al pensiero) l'assassino di mio fratello? L'idea aveva appena attraversato la mia mente e già ne ero certo; cominciai a battere i denti e dovetti appoggiarmi a un albero per non cadere. La figura mi passò davanti veloce e si perse nell'oscurità. Nessun essere umano avrebbe potuto troncare l'esistenza di quel tenero fanciullo. Lui era l'assassino! Non potevo aver dubbi. Il semplice emergere di quest'idea diveniva prova inconfutabile del fatto. Pensai di inseguire quel demonio, ma sarebbe stato vano; quando un altro lampo me lo mostrò: era aggrappato alle rocce di una parete a perpendicolo del Salêve, un colle che limita a sud Plainpalais. In breve ne raggiunse la cima e scomparve.

Rimasi immobile. I tuoni cessarono, ma la pioggia continuava e ogni cosa era avvolta da un buio impenetrabile. Riandai ai fatti che fino ad allora avevo cercato di dimenticare: l'intero mio procedere verso la creazione; la comparsa dell'opera delle mie mani accanto al mio letto; la sua scomparsa. Erano trascorsi quasi due anni da quando aveva ricevuto la vita; era quello il suo primo delitto? Ahimè, avevo mandato libero per il mondo un mostro depravato che traeva piacere dal seminare morte e dolore; non era forse lui l'uccisore di mio fratello?

Nessuno può immaginare il travaglio che mi tormentò per il resto di quella nottata che passai, infreddolito e bagnato, all'addiaccio. Ma non avvertivo i disagi; la mia mente era in preda a visioni di orrore e sciagura. Presi a considerare l'essere che avevo gettato tra gli uomini, dotato di volontà e potere di compiere atti spaventevoli, analoghi a quello che già aveva portato a effetto, come il mio vampiro, il mio stesso spirito uscito dal sepolcro e costretto a distruggere tutto ciò che a me era caro.

Il giorno spuntò e io diressi i miei passi verso la città. Le porte erano aperte e mi affrettai verso la casa di mio padre. Il mio primo pensiero fu di rivelare quanto sapevo sull'assassino e far sì che gli si desse subito la caccia. Ma esitai quando mi fermai a riflettere sulla storia che avrei dovuto narrare: nel cuor della notte mi ero imbattuto tra i precipizi di un monte inaccessibile in un essere da me stesso plasmato e animato. Pensai anche alla febbre nervosa che mi aveva assalito proprio all'epoca di quella creazione e che avrebbe fatto apparire come frutto del delirio un racconto di per sé del tutto inverosimile. Io stesso, ne ero consapevole, avrei considerato preda della follia chiunque mi avesse presentato una simile storia. Inoltre la particolare natura di quel mostro avrebbe eluso ogni inseguimento, posto che fossi riuscito a convincere la mia famiglia a intraprenderlo. E poi a quale scopo? Chi poteva fermare un essere capace di scalare gli strapiombi del Salêve? Queste riflessioni mi convinsero a mantenere il silenzio.

Erano circa le cinque del mattino quando entrai nella casa paterna. Ordinai alla servitù di non disturbare i miei e passai in biblioteca ad attendere l'ora consueta del risveglio.

Sei anni erano trascorsi come un sogno lasciando però un'orma indelebile, e io mi trovavo nello stesso luogo in cui avevo dato l'ultimo abbraccio a mio padre prima della partenza per Ingolstadt. Amato e venerato genitore! Mi restava ancora lui. Osservai il ritratto di mia madre sopra il caminetto. Rappresentava un momento della sua vita, dipinto per volere di mio padre: Caroline Beaufort affranta, inginocchiata davanti alla bara del padre. L'abito era povero e pallide le guance, ma si scorgevano in lei una dignità e una bellezza che non davano adito a sentimenti di compassione. Sotto il quadro c'era una miniatura di William e nel vederla mi sciolsi in lacrime. Così mi trovò Ernest: mi aveva sentito arrivare e si era affrettato ad accogliermi. Espresse un piacere misto a dolore nel vedermi: «Ben tornato, Victor carissimo», disse. «Ah! come vorrei che tu fossi giunto tre mesi addietro, allora ci avresti trovati tutti sereni e gioiosi. Ora arrivi per dividere un'infelicità che nulla può alleviare, ma spero che la tua presenza rianimi nostro padre, accasciato sotto il peso di questa disgrazia, e forse riuscirai a indurre la povera Elizabeth a cessare le sue ingiuste e tormentose autoaccuse. Povero William! Era il nostro diletto, il nostro orgoglio!».

Lacrime irrefrenabili sgorgarono dagli occhi di mio fratello; mi sentii invadere da uno strazio lancinante. Prima avevo solo immaginato la pena della mia casa desolata; la realtà mi veniva ora incontro come una nuova, non meno terribile, catastrofe. Mi sforzai di calmare Ernest; gli chiesi notizie più particolareggiate su mio padre e su colei che chiamavo cugina.

«Ella più di tutti ha bisogno di conforto», spiegò Ernest, «si accusava di aver cagionato la morte di nostro fratello, e questo pensiero la dilaniava, ma da quando si è scoperto l'assassino».

«Scoperto l'assassino? Buon Dio! Come può essere? Chi avrebbe tentato di inseguirlo? Impossibile; come voler catturare il vento o frenare con un fuscello un torrente di montagna. Anch'io l'ho visto, ed era libero la notte scorsa!».

«Non capisco di che stai parlando», replicò mio fratello in tono stupito, «ma la scoperta cui siamo giunti ha colmato la misura della sofferenza. Nessuno voleva crederci all'inizio, e tutt'ora Elizabeth non se ne convince malgrado le prove. E, in verità, chi è disposto ad accettare l'idea che Justine Moritz, così amabile e così attaccata alla nostra famiglia, abbia potuto, all'improvviso, essere capace di commettere un delitto così orrendo e mostruoso?».

«Justine Moritz? Povera, povera ragazza, è dunque lei l'accusata? Ma è un errore! Chiunque lo capisce; nessuno ci crede, non è vero Ernest?».

«Nessuno, all'inizio. Ma troppe circostanze sono sopravvenute che ci hanno forzato a crederlo. E il suo comportamento, così confuso, ha aggiunto all'evidenza dei fatti un peso che, temo, non lascia adito a dubbi. Ma sarà giudicata oggi, e sentirai tutto».

Egli raccontò che il giorno in cui fu scoperto l'assassinio del povero William, Justine si era ammalata ed era stata costretta a letto per diversi giorni. In quell'intervallo a uno dei servitori accadde di avere tra le mani gli abiti che ella indossava la notte del delitto e in una tasca aveva scoperto il ritratto di mia madre che era considerato il movente del delitto. Il domestico l'aveva subito mostrato a un altro e questi, senza dire una parola a nessuno della famiglia, era andato dal magistrato; sulla base della loro deposizione Justine fu arrestata. Accusata dai fatti la povera ragazza aveva confermato il sospetto con la sua confusione.

La storia era strana, ma non scosse la mia convinzione, e risposi con slancio: «Vi sbagliate tutti! Io conosco l'assassino. Justine, la povera Justine, è innocente!».

In quell'istante entrò mio padre. Lessi sul suo volto una tristezza profonda, ma egli si sforzò di darmi il benvenuto serenamente, e, dopo esserci scambiati i nostri mesti saluti, avrebbe introdotto qualche argomento diverso dalle nostre disgrazie, se Ernest non avesse gridato: «Buon Dio, papà! Victor dice di sapere chi è l'assassino di William».

«Anche noi, sfortunatamente», replicò mio padre; «ma sinceramente avrei preferito ignorarlo piuttosto che scoprire tanta depravazione e ingratitudine in chi stimavo altamente».

«Mio caro padre, sbagliate; Justine è innocente».

«Se lo è, Dio impedisca che paghi come un colpevole. Deve essere giudicata oggi, e io spero, spero sinceramente, che sarà assolta».

Questo discorso mi tranquillizzò. Dentro di me ero fermamente convinto che Justine, e qualunque altro essere umano, era senza colpa per questo delitto. Né temevo, del resto, che alcuna circostanza che potesse essere addotta sarebbe stata abbastanza convincente da farla condannare. La mia verità non poteva essere detta in pubblico; il suo sconcertante orrore sarebbe stato considerato follia dal volgo. Ed esisteva qualcuno, a parte me, il creatore, che potesse credere, senza prove tangibili, all'esistenza di quel monumento alla superbia e alla cieca ignoranza che io avevo sguinzagliato per il mondo?

Presto fummo raggiunti da Elizabeth. Il tempo l'aveva mutata; le aveva donato un fascino che la rendeva ancor più bella di quand'era fanciulla. Aveva lo stesso candore, la stessa vivacità, ma a essi si accompagnava l'espressione di una sensibilità più piena, di una più acuta intelligenza. Mi salutò con molto affetto: «Il tuo arrivo, mio caro cugino», mi disse, «mi dà nuova speranza. Tu forse saprai trovare qualcosa per discolpare la povera, innocente Justine. Ahimè! Chi si salva più se lei può essere accusata di un crimine? Credo nella sua innocenza come nella mia. La nostra disgrazia è duplice: non solo abbiamo perso quell'amato dolce bambino, ma questa povera ragazza, che io amo sinceramente, sta per esserci strappata da un fato anche peggiore. Se sarà condannata non conoscerò più gioia. Ma non lo sarà, sono certa che non lo sarà; e allora potrò di nuovo essere felice, anche dopo la crudele morte del mio piccolo William».

«Sì, ella è innocente, Elizabeth mia», dissi io , «e sarà provato; non temere, e lascia che la tua anima si plachi nella certezza della sua assoluzione».

«Come sei buono e generoso, tu! Tutti gli altri credono nella sua colpevolezza, e questo mi fa disperare, perché so che è impossibile; e vedere che tutti hanno già espresso un giudizio senza appello mi toglieva ogni speranza e ogni conforto». Scoppiò a piangere.

«Carissima nipote», disse mio padre, «asciugati le lacrime. Se è innocente, come tu credi, affidati alla giustizia e alle sue leggi, e alla cura con cui preverrò ogni più pallida ombra di parzialità».


CAPITOLO VIII




Passammo poche, tristi ore, fino alle undici, quando doveva iniziare il processo. Mio padre e il resto della famiglia dovevano comparire come testimoni, e io li accompagnai in tribunale. Durante tutta quella miserabile farsa di giustizia soffrii atroci torture. Si stava decidendo se il risultato della mia curiosità e delle mie illecite ambizioni sarebbe riuscito a causare la morte di due esseri umani a me cari: un fanciullo sorridente, pieno di innocenza e di gioia; e una persona assassinata ancor più ferocemente, con tutte le aggravanti dell'infamia che avrebbero reso quel delitto memorabile per il suo orrore. Justine era una ragazza meritevole e possedeva qualità che le promettevano una vita felice; ora tutto ciò sarebbe stato seppellito in una tomba ignominiosa; e la causa di tutto ero io! Avrei preferito mille volte confessarmi colpevole del crimine che le veniva attribuito; all'epoca in cui era stato commesso ero assente, e la mia confessione sarebbe stata considerata il vaneggiamento di un pazzo e non sarebbe servita a discolpare colei che soffriva al mio posto.

L'aspetto di Justine era calmo. Era vestita a lutto e il suo volto, sempre attraente, era, a causa della gravità dei suoi sentimenti, squisitamente bello. Sembrava fidare nella propria innocenza e non tremava sotto i molti sguardi di esecrazione; infatti tutta l'indulgenza che la sua bellezza, in altra circostanza, avrebbe suscitato, era scacciata, nella mente degli spettatori, dall'enormità del crimine che si credeva avesse commesso. Era tranquilla, ma la sua tranquillità era evidentemente voluta; poiché la precedente confusione era stata interpretata quale prova di colpevolezza, ora si imponeva un atteggiamento di coraggio. Quando entrò in aula ci cercò con lo sguardo e scopri` subito dove eravamo seduti. Una lacrima parve offuscarle gli occhi, ma si ricompose subito e con un'occhiata affettuosa e addolorata sembrò testimoniare la sua completa innocenza.

Il processo cominciò, e, dopo che il magistrato ebbe formulato l'accusa, furono chiamati alcuni testimoni. Vari fatti strani cospiravano contro di lei e avrebbero sconcertato chiunque non avesse avuto, come me, la prova della sua innocenza. Era stata fuori casa per tutta la notte del delitto e, all'alba, era stata vista da una donna del mercato non lontano dal luogo dove era stato ritrovato il corpo esanime del bambino. La donna le aveva chiesto cosa facesse lì, ma lei, che sembrava molto turbata, aveva dato una risposta confusa e inintellegibile. Era ritornata a casa verso le otto e quando qualcuno le aveva domandato dove avesse trascorso la notte aveva risposto di aver cercato il bambino e domandò insistentemente sue notizie. Quando le mostrarono il corpo fu colta da una violenta crisi isterica e rimase a letto per diversi giorni. Fu quindi portata davanti al giudice la miniatura che il domestico aveva trovato nella sua tasca e quando Elizabeth, con voce tremante, confermò che era la stessa che, un'ora prima della sua scomparsa, aveva messo al collo del bambino, un mormorio di orrore e di indignazione percorse l'aula.

Justine fu chiamata a difendersi. Man mano che il processo andava avanti;il suo contegno era cambiato: ora vi si notavano sorpresa, orrore e paura. Talvolta lottava con le lacrime, ma quando fu chiamata a deporre raccolse tutte le forze e parlò con voce udibile anche se tremante.

«Dio sa quanto sono innocente», disse. «Ma io non pretendo che le mie proteste di innocenza mi assolvano. Affido la mia purezza alla semplice e chiara spiegazione delle circostanze addotte contro di me, e spero che il mio carattere, che tutti conoscono, spingerà i miei giudici a un'interpretazione favorevole, laddove le circostanze appariranno dubbie o sospette».

Quindi narrò che, col permesso di Elizabeth, aveva passato il pomeriggio precedente la notte in cui era stato commesso il delitto in casa di una zia a Chêne, un villaggio a poche leghe da Ginevra. Al suo ritorno, verso le nove di sera, aveva incontrato un uomo che le aveva chiesto se per caso avesse visto un bambino che si era perso. A questa domanda ella si era allarmata e aveva passato molte ore a cercare questo bambino, tanto che le porte di Ginevra erano state chiuse ed ella era stata costretta a passare parte di quella notte nel fienile di un casolare, poiché non voleva svegliarne gli abitanti che conosceva bene. Aveva trascorso gran parte della notte sveglia; verso l'alba le pareva di essersi assopita per qualche minuto quando dei passi l'avevano disturbata e si era svegliata. Era quasi l'alba, e lei aveva lasciato il suo rifugio per ricominciare a cercare mio fratello. Se era andata vicino al luogo dove giaceva il corpo, ciò era accaduto senza che lei lo sapesse. Se era rimasta sorpresa alle domande della donna, questo non era strano, poiché aveva passato una notte insonne e la sorte del povero William era ancora incerta. Quanto alla miniatura non poteva dare alcuna spiegazione.

«So», continuò l'infelice ignara, «come diabolicamente e fatalmente tale circostanza pesi su di me, ma non posso proprio spiegarla; e, avendo espresso la mia totale ignoranza, non mi resta che fare congetture su chi possa avermela messa in tasca. Ma anche in questo caso, procedo alla cieca. Non credo di avere un nemico su tutta la terra, e nessuno, sicuramente, sarebbe così crudele da volermi deliberatamente distruggere. Ve l'ha messa l'assassino? Non credo di avergli offerto l'opportunità di farlo; o, se gliel'ho data, perché avrebbe rubato il gioiello per separarsene subito?

«Affido la mia causa alla giustizia dei giudici, anche se non vedo speranze. Chiedo che vengano interrogate alcune persone in merito al mio carattere e, se la loro deposizione non sarà più significativa della mia supposta colpevolezza, sarò condannata, anche se preferirei che la mia salvezza riposasse sulla mia innocenza».

Furono chiamati diversi testimoni che la conoscevano da anni, e parlarono bene di lei; ma la paura e la ferocia del delitto del quale era accusata li resero timidi e indecisi. Elizabeth vide sfumare anche questa estrema risorsa: all'accusata non erano più d'appoggio neanche la bontà del carattere e l'irreprensibilità della condotta. Violentemente agitata chiese alla corte il permesso di parlare.

«Io sono», disse, «la cugina dell'infelice bambino che è stato ucciso, o meglio, sono sua sorella, perché sono stata educata e ho vissuto con i suoi genitori ancor prima che egli nascesse. Potrebbe perciò essere giudicato inopportuno che io mi faccia avanti in questo momento, ma quando vedo una creatura amica vicina alla morte a causa della codardia di presunti amici, chiedo che mi sia permesso di parlare, di dire ciò che so del suo carattere. Conosco bene l'accusata. Ho vissuto nella stessa casa con lei, prima per cinque anni, poi per circa due. In tutto questo tempo mi è parsa la più amabile e amorevole delle creature. Ella assisté Madame Frankenstein, mia zia, nella sua malattia mortale con il più grande affetto e sollecitudine e, in seguito, si occupò di sua madre durante tutta la sua penosa malattia, in maniera tale da suscitare l'ammirazione di tutti quanti la conoscevano; dopo di che tornò a vivere in casa di mio zio, dove era benvoluta da tutta la famiglia. Ella amava teneramente il bambino che è morto e si comportava con lui come la più affettuosa delle madri. Da parte mia non esito a dire che, nonostante tutte le prove prodotte contro di lei, io credo, e affermo, la sua perfetta innocenza. Non aveva alcun movente per un'azione simile; quanto al medaglione, sul quale si fonda la prova-chiave per tutte le accuse, se ella lo avesse desiderato io glielo avrei dato volentieri; tanto la stimo, e questo è il mio giudizio su di lei».

Un mormorio di approvazione seguì il semplice e potente appello di Elizabeth, ma era provocato dal suo generoso intervento e non era favorevole alla povera Justine, sulla quale l'indignazione pubblica si abbatteva, anzi, con rinnovata violenza, caricandola anche del peso della più nera ingratitudine. Lei stessa pianse alle parole di Elizabeth, ma non aggiunse nulla. La mia agitazione e la mia angoscia si accrebbero durante il processo. Credevo nella sua innocenza, ne ero anzi certo. Poteva, il demone che aveva ucciso mio fratello (non dubitai un attimo che si trattasse di lui) poteva, nel suo sciagurato gioco, aver consegnato l'innocente alla morte e all'abominio? Non riuscivo più a sopportare l'orrore della situazione; quando l'espressione dei giudici e la voce del popolo mi dissero che la mia infelice vittima era condannata, fuggii dall'aula in agonia. Le torture dell'accusata non eguagliavano le mie; lei aveva almeno la coscienza della propria innocenza, ma il rimorso artigliava il mio petto e non lasciava la presa.

Passai una notte di indicibile sofferenza. Al mattino andai in tribunale; le labbra e la gola mi si erano inaridite. Non osavo formulare la fatale domanda, ma venni riconosciuto e il funzionario indovinò il motivo della mia visita. Le palline erano già state gettate: tutte nere. Justine era condannata.

Non posso descrivere ciò che provai allora. Avevo già assaggiato il gusto dell'orrore, e ho cercato di descriverlo, ma nessuna parola è adeguata all'idea di quello che soffrì allora il mio cuore straziato. La persona alla quale mi ero rivolto aggiunse che Justine aveva anche confessato il delitto. «Questa prova», osservò, «non era necessaria in un caso così evidente; ma in realtà, ai nostri giudici non piace condannare un criminale su prove circostanziali, neppure se così decisive, perciò ne sono contento».

Questa era una notizia strana e inattesa; cosa poteva significare? I miei occhi mi avevano ingannato? Ero davvero folle come tutti mi avrebbero giudicato se avessi svelato l'oggetto dei miei sospetti? Mi affrettai verso casa, dove Elizabeth volle conoscere il verdetto.

«Cara cugina», replicai, «è stato deciso come tu ti aspettavi: tutti i giudici preferirebbero far soffrire dieci innocenti che lasciarsi sfuggire un solo colpevole. Ma lei ha confessato».

Questo fu un duro colpo per Elizabeth, che era fermamente convinta dell'innocenza di Justine. «Ahimè!», esclamò. «Come crederò di nuovo nella bontà umana? Justine, che amavo e consideravo una sorella, come ha potuto mettere nei suoi sorrisi tanta innocenza solo per tradire? I suoi occhi teneri sembravano incapaci di durezza o di finzione, invece ha perpetrato un omicidio».

Subito dopo si seppe che la povera vittima aveva espresso il desiderio di vedere mia cugina. Mio padre si augurava che ella non andasse, ma disse che avrebbe lasciato al suo giudizio e ai suoi sentimenti decidere. «Sì», disse mia cugina, «andrò, anche se è colpevole; tu, Victor, mi accompagnerai; io non posso recarmici da sola». L'idea di questa visita era una tortura per me, ma non potevo rifiutare.

Entrammo nella tetra cella e in fondo, vedemmo Justine seduta sulla paglia; aveva le mani incatenate e la testa reclinata sulle ginocchia. Si alzò nel vederci entrare, e quando fummo lasciati soli con lei, si gettò ai piedi di Elizabeth, singhiozzando amaramente. Anche mia cugina piangeva.

«Oh, Justine!», disse. «Perché mi hai strappato la mia ultima consolazione? Io credevo in te e, nonostante tutta la mia desolazione, non ero disperata come lo sono ora».

«Così anche voi credete che io sia così perversa? Anche voi vi unite ai miei nemici per schiacciarmi, per condannarmi come un'assassina?». La sua voce fu soffocata dai singhiozzi.

«Alzati, mia povera ragazza», disse Elizabeth; «perché confessare se sei innocente? Io non sono uno dei tuoi nemici; ho creduto nella tua innocenza, al di là di tutte le prove, finché non ho sentito che tu stessa ti dichiaravi colpevole. Se la notizia, come tu dici, è falsa, sii certa, cara Justine, che nulla potrà scuotere la mia fede in te neppure per un momento, se non la tua confessione».

«Ho confessato, ma ho confessato il falso. Ho confessato, sperando di ottenere l'assoluzione; ma ora quella menzogna mi pesa sul cuore più di tutti gli altri miei peccati. Il Dio dei cieli mi perdoni! Da quando mi hanno condannata il mio confessore non mi ha dato tregua; egli mi ha minacciata, finché ho quasi cominciato a credere di essere il mostro che lui diceva che fossi. Mi ha promesso scomunica e fuoco eterno se avessi continuato a negare. Cara signora, non avevo nessuno a soccorrermi; tutti mi consideravano un mostro destinato all'ignominia e alla perdizione. Cosa potevo fare? In un dannato momento ho sottoscritto una falsità; e solo ora so di essere realmente perduta».

Fece una pausa, piangendo, e continuò: «Pensavo con orrore, mia dolce signora, che voi poteste considerare la vostra Justine, che la vostra santa zia amava tanto, e che voi stessa amavate, una creatura capace di un delitto del quale neanche il diavolo si sarebbe macchiato! Caro William! Caro benedetto bambino! Ti rivedrò presto in paradiso, dove saremo finalmente tutti felici; e questo mi consola, ora che sto per patire ignominia e morte».

«Oh, Justine! Perdonami di aver per un attimo dubitato di te! Perché hai confessato? Ma non piangere, mia cara ragazza. Non temere. Io proclamerò e proverò la tua innocenza. Intenerirò i cuori di pietra dei tuoi nemici a forza di lacrime e preghiere. Tu non morirai! Tu, compagna di giochi, amica, sorella, morire sul patibolo? No, no, io non potrei sopravvivere a una tale disgrazia!».

Justine scosse cupamente la testa. «Non temo la morte», disse; «il tormento è passato. Dio rafforza la mia debolezza e mi dà il coraggio di sopportare il peggio. Lascio un mondo cattivo, amaro; e se voi mi ricorderete e penserete a me come a una persona ingiustamente condannata, io mi rassegnerò all'avverso destino. Imparate da me, cara signora, a sopportare con pazienza i decreti del cielo».

Durante la conversazione mi ero rincantucciato in un angolo dove potevo celare la terribile angoscia che mi dominava.

Disperazione! Chi osa parlarne? La povera vittima che l'indomani doveva passare la soglia misteriosa tra la vita e la morte non provava un'agonia amara e crudele come la mia. Digrignai e strinsi i denti mentre un rantolo mi saliva dal più profondo dell'anima. Justine si fermò. Quando vide di che si trattava si avvicinò e mi disse: «Caro signore, siete molto gentile a venirmi a trovare; voi, spero, non crederete che io sia colpevole».

Non potei rispondere. «No, Justine», rispose Elizabeth, «egli è più convinto di me della tua innocenza, a tal punto che quando sentì dire che avevi confessato non volle crederci».

«Lo ringrazio sinceramente. In questi miei ultimi momenti sento con maggiore acutezza la gratitudine verso coloro che pensano a me con bontà. Come è dolce l'affetto degli altri per un'infelice come me! Questo mi libera della metà delle mie disgrazie e sento di poter morire in pace, ora che la mia innocenza è riconosciuta da voi, cara signora, e da vostro cugino».

Così la povera ragazza infelice cercava di consolare gli altri e se stessa. Ella davvero aveva acquisito la rassegnazione che agognava. Ma io, il vero assassino, sentivo agitarmisi in petto il tarlo che non muore mai, quello che non ammette speranza né conforto. Anche Elizabeth piangeva ed era infelice, ma la sua era l'infelicità di un innocente che, come una nube che passa davanti alla luna luminosa, la nasconde per un attimo, ma non può cancellarne lo splendore. Disperazione e angoscia erano penetrate nel più profondo del mio cuore; portavo in me un incendio che nulla poteva spegnere. Restammo molte ore con Justine, e fu con immensa difficoltà che Elizabeth riuscì a staccarsi da lei. «Vorrei», gridò, «morire con te; non posso vivere in questo mondo miserabile!».

Justine assunse un'aria rasserenata, mentre tratteneva a stento le lacrime. Abbracciò Elizabeth e disse, con voce appena udibile per l'emozione: «Addio, dolce signora, carissima, amata Elizabeth, mia unica amica; possa il cielo, nella sua bontà, benedirvi e proteggervi; possa questa essere l'ultima disgrazia che dovrete patire! Vivete, siate felice, e rendete felici gli altri!».

La mattina dopo Justine morì. La commovente eloquenza di Elizabeth non riuscì a smuovere la ferma convinzione dei giudici circa la colpevolezza di quella santa martire. Nulla poterono i miei appelli appassionati e indignati. Ricevetti la loro fredda risposta e udii gli aridi, insensibili ragionamenti di quegli uomini e il mio proposito di confessare mi morì sulle labbra. Sarei riuscito a farmi dichiarare pazzo, ma non a far revocare la sentenza che si era abbattuta sul capo della mia infelice vittima. Ella morì sul patibolo, come un'assassina!

Col cuore straziato mi volsi a contemplare il dolore profondo e senza voce della mia Elizabeth. Anche questo era opera mia! E il cordoglio di mio padre, e la desolazione di quella casa, un tempo felice tutto era opera delle mie mani, tre volte maledette! Sì, piangete ora, infelici, ma non sono queste le vostre ultime lacrime! Ancora leverete funerei lamenti, e il suono dei vostri gemiti sarà udito ancora e ancora. Frankenstein, vostro figlio, vostro parente, vostro antico amico, vostro amato, colui che darebbe ogni goccia del suo sangue per la vostra salvezza, colui che non conosce gioia se non riflessa sui vostri cari volti, colui che colmerebbe l'aria di benedizioni e passerebbe la sua vita a servirvi; egli vi chiede di versare infinite lacrime, felice oltre ogni speranza se così il fato inesorabile potesse essere placato e se la distruzione si arrestasse prima che la pace del sepolcro giunga a soffocare i vostri tristi tormenti!

Questo diceva la mia anima profetica, mentre, roso dal rimorso, dall'orrore e dalla disperazione, vedevo i miei cari spargere vano dolore sulle tombe di William e Justine, le prime, infelici vittime delle mie arti maledette.


CAPITOLO IX




Nulla è più penoso per la mente umana che la calma assoluta dell'inazione dopo che i fatti hanno determinato un susseguirsi tumultuoso di sentimenti, quando l'anima viene privata insieme della speranza e della paura. Justine era morta, riposava per sempre, e io ero vivo. Il sangue scorreva libero nelle mie vene, ma un peso di disperazione e rimorso opprimeva il mio cuore, e nulla poteva rimuoverlo. Il sonno aveva abbandonato i miei occhi; vagavo come uno spirito malvagio perché avevo commesso misfatti di inimmaginabile orrore, e ancor più perché (ne ero persuaso) altri ne sarebbero seguiti. Eppure il mio cuore traboccava di benevolenza e di amore per la virtù. Avevo cominciato a vivere con le migliori intenzioni in attesa del momento in cui avrei potuto mettere i miei sentimenti e me stesso al servizio del genere umano. Ora tutto era perduto: in luogo di quella tranquillità di coscienza che mi avrebbe consentito di guardare al passato con soddisfazione e di trarne speranze per il futuro, ero in preda al rimorso e al senso di colpa, che mi facevano precipitare in un abisso di torture, intense come nessuna parola può dire.

Questo stato d'animo minava la mia salute che non avevo del resto mai completamente recuperato dopo il primo colpo subito. Evitavo la vista degli uomini, ogni parola di gioia e di piacere suonava per me come una tortura; la solitudine era la mia sola consolazione: solitudine profonda, cupa, mortale.

Mio padre osservava con pena le visibili alterazioni delle mie abitudini e del mio carattere, e si sforzava, con argomentazioni tratte dalla propria esperienza di persona serena e senza macchia, di infondermi coraggio e di risvegliare in me la forza per scacciare la nube oscura che mi gravava addosso. «Tu pensi, Victor», diceva, «che io non soffra? Nessuno può aver amato un bambino più di quanto io ho amato tuo fratello» (le lacrime gli sgorgavano dagli occhi mentre parlava), «ma non è forse dovere di chi sopravvive evitare di accrescere la propria infelicità palesando un dolore smodato? È una cosa che tu devi anche a te stesso, perché una sofferenza eccessiva impedisce progresso e piacere e persino l'assolvimento dei nostri compiti quotidiani, senza cui un uomo è perso per la società».

Questi consigli, benché ottimi, erano totalmente inapplicabili al mio caso; io sarei stato il primo a nascondere il mio dolore e a consolare gli amici se il rimorso non avesse mescolato la sua amarezza, e il terrore le sue angosce, agli altri miei sentimenti. Potevo rispondere a mio padre solo con uno sguardo carico di disperazione e cercare di nascondermi alla sua vista.

All'incirca in quel tempo andammo a vivere nella nostra casa di Belrive. Questo cambiamento mi fu gradito in modo particolare. La chiusura delle porte alle dieci in punto e l'impossibilità di restare sul lago dopo quell'ora avevano reso la nostra residenza tra le mura di Ginevra molto spiacevole per me. Ora ero libero. Spesso, quando il resto della famiglia si ritirava per la notte, prendevo la barca e passavo molte ore sull'acqua. A volte, con le vele spiegate, mi facevo trascinare dal vento; altre, dopo aver remato fino in mezzo al lago, lasciavo che la barca seguisse il suo corso e davo via libera alle mie miserevoli meditazioni. Spesso ero tentato, quando tutto intorno a me era pace, e io la sola cosa inquieta che si aggirasse senza requie in quel paesaggio stupendo e paradisiaco - se si eccettuano i pipistrelli e i rospi, il cui gracidio sgradevole e intermittente si faceva sentire quando mi avvicinavo - spesso, dicevo, ero tentato di gettarmi nel lago silente, perché le acque si chiudessero per sempre su di me e sulle mie calamità. Ma mutavo parere quando pensavo all'eroica Elizabeth, che io amavo teneramente e la cui esistenza era legata alla mia. Pensavo anche a mio padre e a mio fratello: come potevo con la mia vile diserzione esporli, indifesi, alla malvagità di quel mortale nemico che io avevo gettato in mezzo a loro?

In questi momenti piangevo amaramente e speravo che la pace tornasse di nuovo in me, per poter offrire loro conforto e felicità. Ma questo non poteva essere. Il rimorso uccideva ogni speranza. Io ero stato l'artefice di inestinguibili mali, e vivevo nel terrore quotidiano che il mostro da me creato perpetrasse nuove nefandezze. Avevo un oscuro presentimento che non tutto si fosse compiuto, e che egli stesso avrebbe commesso qualche altro crimine che, con la sua enormità, avrebbe cancellato il ricordo dei precedenti. Finché esisteva qualcosa che amassi avevo motivo di temere. Non si può immaginare quanto odiassi quel demonio. Quando pensavo a lui digrignavo i denti, gli occhi mi si facevano di bragia, ardevo dal desiderio di distruggere quella vita così sconsideratamente donata. Quando ripensavo ai suoi delitti e alla sua malvagità l'odio e la sete di vendetta non avevano più limiti. Avrei compiuto un pellegrinaggio fin sulla più alta cima delle Ande, se avessi potuto, da lassù, scaraventarlo in basso. Desideravo incontrarlo di nuovo, per gridargli tutto il disgusto che sentivo per lui e vendicare la morte di William e di Justine.

La nostra era ormai la casa del lutto. La salute di mio padre era stata profondamente scossa dall'orrore dei recenti avvenimenti. Elizabeth era triste e afflitta, neanche le sue abituali occupazioni le offrivano distrazione; ogni piacere le sembrava sacrilego verso le vittime; eterno compianto e lacrime le parevano il giusto tributo da pagare all'innocenza schiacciata e distrutta. Non somigliava più alla gaia creatura che passeggiava con me sulle rive del lago nella sua prima giovinezza, parlando estasiata dei nostri progetti per il futuro. Il primo di quei dispiaceri che ci vengono mandati per toglierci le illusioni dal cuore, l'aveva visitata, e la sua distruttiva influenza aveva cancellato i suoi più dolci sorrisi.

«Quando penso, mio caro cugino», diceva, «alla misera fine di Justine Moritz, non riesco a guardare il mondo e le sue opere con gli occhi di prima. Prima pensavo alle descrizioni di vizi e ingiustizie, che leggevo sui libri o sentivo narrare, come a storie di tempi antichi e mali immaginari; in fondo erano cose remote, più familiari alla ragione che al cuore; ma ora l'infelicità è entrata in casa, e gli uomini mi paiono mostri assetati di sangue. Sarò ingiusta. Tutti credevano che quella povera ragazza fosse colpevole, e se avesse compiuto il crimine per cui ha assurdamente pagato sarebbe stata la più depravata delle creature. Per la brama di un gioiello uccidere il figlio del suo amico e benefattore, un bambino del quale si era presa cura fin dalla nascita, e che sembrava amare come suo! Non posso accettare la morte di nessun essere umano, ma in questo caso avrei pensato che una tale creatura era indegna di restare nella società umana. Ma ella era innocente. Lo so, lo sento, era innocente. Tu eri della stessa opinione, e ciò me lo conferma. Ahimè, Victor! Quando la menzogna è così simile alla verità, chi può assicurarsi una felicità duratura? Mi sento come se passeggiassi sull'orlo di un baratro, mentre un'enorme folla viene verso di me per precipitarmi nell'abisso. William e Justine sono stati assassinati, e il loro uccisore è fuggito; egli si aggira, libero, per il mondo e, forse, è rispettato. Ma anche se fossi condannata a salire al patibolo per gli stessi crimini, io non vorrei scambiare il mio posto con quello di un tale mostro».

Ascoltavo questo discorso artigliato dall'angoscia. Se non nella forma, almeno nella sostanza, ero io il vero assassino. Elizabeth lesse l'angoscia sul mio volto e, stringendomi affettuosamente la mano, disse: «Amico mio carissimo, cerca di star calmo. Dio solo sa quanto profondamente questi avvenimenti mi hanno sconvolta, eppure non sono disperata come te. C'è una tale espressione di abbattimento, e perfino di vendetta, sul tuo viso che a volte mi fa tremare. Bandisci da te simili passioni, Victor caro. Ricordati degli amici che ti circondano e che ripongono in te ogni loro speranza! Abbiamo perso il potere di farti felice? Ah! Finché ci amiamo, finché siamo leali gli uni con gli altri, qui, in questa terra di pace e di bellezza, nel tuo paese natìo, possiamo sempre raccogliere serene benedizioni: che cosa può disturbare la nostra pace?».

Perché tali parole, pronunciate da colei che consideravo come il più alto dono fattomi dalla fortuna, non potevano bastare a cacciare quel demone dal mio cuore? Ma no, persino mentre mi parlava mi stringevo più vicino a lei, nel terrore che proprio in quel momento il distruttore fosse lì per strapparmela.

Così né la tenerezza dell'amicizia, né la bellezza della terra e del cielo potevano redimere la mia anima dal dolore; anche gli accenti del vero amore restavano senza eco. Ero avviluppato da una nube che nessuna influenza benefica poteva penetrare. Un cervo ferito che trascina le sue membra a fatica nel folto degli alberi e lì, fissato lo sguardo sulla freccia che lo ha trapassato, muoia: questa era la mia immagine.

A volte riuscivo a dominare la disperazione che mi attanagliava, altre volte il vortice di passioni della mia anima mi spingeva a cercare, attraverso l'esercizio fisico e il cambiamento di luogo, un sollievo ai miei intollerabili sentimenti. Durante una di queste crisi mi allontanai improvvisamente da casa e, dirigendomi verso le valli alpine, ricercai, nella maestà e nell'eternità di quei paesaggi, di dimenticare me stesso e i miei effimeri dolori di uomo. Il mio vagabondare mi portò nella direzione di Chamonix. Ci ero stato spesso nella mia gioventù. Da allora sei anni erano trascorsi; io ero un altro, ma nulla era cambiato in quei luoghi selvaggi e immortali.

Percorsi la prima parte del viaggio a cavallo, poi noleggiai un mulo, più adatto a sopportare i disagi e le fatiche di quegli erti sentieri. Il tempo era buono; si era quasi alla metà di agosto, già due mesi mi separavano dalla morte di Justine, l'epoca miserevole da cui datavo tutti i miei mali. Il peso che gravava sulla mia anima si alleggeriva man mano che mi addentravo nella gola dell'Arve. Le montagne e i vertiginosi strapiombi che mi circondavano da ogni parte, il rumore del torrente che infuriava tra la rocce e lo scroscio delle cascate intorno mi parlavano di una forza immensa come l'Onnipotente, e io cessai di avere paura e di chinarmi al cospetto di ogni essere meno potente di colui che aveva creato e dominava quegli elementi, qui dispiegati in tutta la loro terrificante maestà. Tuttavia, salendo più in alto, la valle assumeva un carattere ancor più maestoso e sorprendente. Castelli in rovina si attaccavano ai precipizi coperti di pini, l'Arve impetuoso e le casette sparse qua e là tra gli abeti formavano un panorama di singolare bellezza. Ma la bellezza raggiungeva il sublime nelle Alpi possenti, le cui bianche e scintillanti piramidi svettavano sopra ogni cosa, come appartenessero a un altro mondo, abitazioni di un'altra razza di esseri.

Passai il ponte di Pélissier, dove la gola formata dal fiume si aprì di fronte a me, e cominciai a salire la montagna che lo domina. Poco dopo entrai nella valle di Chamonix. Questa valle è ancor più stupenda e sublime, ma non pittoresca come quella del Servox che avevo appena attraversato. Alte montagne innevate le fanno corona tutt'intorno, ma non si vedono più castelli in rovina o campi coltivati. Ghiacciai immensi sfiorano la strada; udii il rombo sordo di una valanga che cadeva, e potei distinguere la scia lasciata dal suo passaggio. Il Monte Bianco, il supremo e magnifico Monte Bianco, sovrastava le vette che lo circondano e la sua possente cupola dominava la vallata.

Un'eccitante sensazione di piacere, da tempo dimenticata, si impadronì spesso di me in quel viaggio. Le curve della strada, qualcosa che vedevo e all'improvviso riconoscevo, mi riportavano ai tempi passati e quelle sensazioni si associavano al ricordo della spensieratezza dell'adolescenza. Persino i venti sussurravano con accenti sommessi, e la natura materna mi invitava a non piangere più. Poi questi influssi benefici cessavano e di nuovo mi sentivo prigioniero del dolore e cedevo alla miseria delle mie riflessioni. Allora spronavo il mio animale, sperando così di dimenticare il mondo, le mie paure e, più di tutto, me stesso; o, con scatto disperato, smontavo e mi gettavo nell'erba, piegato dall'orrore e dalla disperazione.

Alla fine arrivai al villaggio di Chamonix. Ero esausto per la fatica del corpo e della mente. Per un po' rimasi alla finestra, a guardare i deboli lampi che danzavano sul Monte Bianco e ad ascoltare la voce dell'Arve che continuava nel suo rumoroso fluire. Questi suoni cullavano come una ninnananna i miei nervi troppo tesi e, quando misi la testa sul cuscino, il sonno piombò su di me; lo sentii arrivare e benedissi il dispensatore di oblio.


CAPITOLO X




Passai il giorno seguente aggirandomi per la vallata. Fui alle sorgenti dell'Arveiron, che prende origine da un ghiacciaio e scende lentamente dalla sommità dei monti fino a sbarrare la valle. I fianchi ripidi delle grandi montagne erano davanti a me; la grande muraglia di ghiaccio mi sovrastava; qualche gracile abete era sparso qua e là; il silenzio solenne di questa gloriosa camera delle udienze della natura imperiale era interrotto solo dal gorgogliare delle acque o dallo staccarsi di qualche blocco di ghiaccio, dal clamore di tuono delle valanghe o dagli scricchiolii, rimbombanti tra le montagne, del ghiaccio accumulatosi che, per il lavorio silenzioso di leggi immutabili, ogni tanto si rompe come un giocattolo nelle loro mani. Questo paesaggio meraviglioso e sublime mi dava il più grande conforto che io potessi ricevere. Mi elevava al di sopra di tutte le meschinità dei sentimenti, mi calmava e mi tranquillizzava e, tuttavia, non poteva eliminare il mio dolore. In qualche modo distraeva la mia mente dai pensieri che mi avevano perseguitato negli ultimi mesi. Quando, la sera, andai a riposare i miei sogni furono vegliati e assistiti, se così posso dire, da quell'insieme di grandi forme che avevo contemplato tutto il giorno. Mi si strinsero intorno; la cima innevata e immacolata, il pinnacolo scintillante, il bosco di abeti, l'arido precipizio, l'aquila che si libra tra le nubi: tutti mi circondarono e mi indussero al riposo.

Dov'erano spariti quando, al mattino, mi risvegliai? Ogni fonte di sollievo era scomparsa con la notte, e una nera malinconia velava ogni mio pensiero. La pioggia cadeva a torrenti e fitte nebbie celavano le cime delle montagne, impedendomi persino di scorgere i volti di quei potenti amici. Ma io avrei oltrepassato il loro fitto velo e li avrei cercati nel loro rifugio di nubi. Che mi importava della pioggia e del vento? Il mulo fu condotto alla porta e decisi di salire la cima del Montanvert. Ricordai l'effetto che la vista del terribile ghiacciaio sempre in movimento aveva prodotto su di me quando l'avevo avuto davanti per la prima volta. Allora ero stato invaso da un'estasi sublime, che aveva dato ali alla mia anima e l'aveva librata dalla oscura terra alla luce e alla gioia. L'orrido e sublime in natura hanno sempre avuto l'effetto di dare il senso dell'eternità alla mia mente e di farmi dimenticare le cure passeggere della vita. Decisi di fare a meno della guida; conoscevo bene la via e la presenza di un'altra persona avrebbe turbato la solitaria grandezza del paesaggio.

La salita è vertiginosa, ma il sentiero si snoda in curve strette e continue, che rendono possibile superare la perpendicolarità della montagna. È una scena terribile e desolata: ovunque si notano tracce di valanghe invernali, dove giacciono alberi sradicati e sparsi a terra, quali completamente distrutti, quali piegati sulle rocce sporgenti, quali ancora messi di traverso su altri alberi. Il sentiero, a mano a mano che si sale, è interrotto da canaloni di neve lungo i quali rotolano continuamente pietre dall'alto; uno di essi è particolarmente pericoloso perché il minimo suono, come una voce, causa uno spostamento d'aria sufficiente a distruggere chi ha parlato. Gli abeti non alti e lussureggianti ma cupi, aggiungono severità alla scena. Guardai verso la sottostante vallata: grandi banchi di nebbia salivano dai fiumi che la percorrevano, la attraversavano formando delle ghirlande intorno alle montagne, le cui cime erano nascoste da nuvole dense; la pioggia che cadeva dal cielo scuro accresceva l'impressione di malinconia che mi comunicava il paesaggio. Ahimè! Perché l'uomo ha una sensibilità superiore a quella dei bruti? Ciò lo rende solo più schiavo dei bisogni. Se i nostri impulsi si limitassero alla fame, alla sete e alla voluttà, potremmo quasi sentirci liberi, ma siamo mossi da ogni sospiro di vento, e da una parola casuale o dall'immagine che la parola ci evoca:


Dormiamo: un sogno può avvelenare un sonno.

Ci destiamo; un pensiero errante inquina il giorno.

Sentiamo, immaginiamo, o ragioniamo; riso o pianto

abbracciano il dolore o scacciano le cure,

è lo stesso: perché, sia gioia o dolore,

il sentiero per la sua partenza è sempre libero.

L'ieri dell'uomo non sarà mai come il suo domani;

niente sta fermo se non la mutevolezza.


Era quasi mezzogiorno quando arrivai in cima alla salita. Per un po' restai seduto su una roccia che domina il mare di ghiaccio. Una nebbia copriva ogni cosa e anche le montagne circostanti. A un certo momento una brezza dissipò le nuvole e io scesi sul ghiacciaio. La superficie è molto instabile, si alza come le onde di un mare agitato, poi discende ed è disseminata di crepacci profondi. Il campo di ghiaccio è largo circa una lega, ma mi ci vollero quasi due ore per attraversarlo. La montagna di fronte è una roccia scabra a strapiombo. Il Montanvert è dalla parte opposta rispetto a dove mi trovavo in quel momento, a distanza di una lega, e sopra svettava il Monte Bianco in tutta la sua bianca candida maestosità. Mi fermai in un anfratto di roccia ammirando questo paesaggio solenne e meraviglioso. Il mare, o piuttosto il largo fiume di ghiaccio, scendeva tra le montagne del massiccio, le cui aeree sommità si innalzavano su ogni insenatura. I picchi ghiacciati e scintillanti splendevano alla luce del sole, al di sopra delle nuvole. Il mio cuore, prima pieno di dolore, ora si gonfiò di qualcosa che somigliava alla gioia; esclamai: «Spiriti vaganti, se voi davvero vagate e non riposate nei vostri angusti letti, lasciatemi questa leggera felicità, o prendetemi con voi e strappatemi alle gioie della vita».

Appena ebbi pronunciato queste parole, improvvisamente apparve, a poca distanza, la figura di un uomo che avanzava verso di me a una velocità sovrumana. Saltava sui crepacci di ghiaccio sui quali io avevo camminato con cautela; la sua statura, man mano che si avvicinava, mi sembrò eccedere quella di un uomo. Ero turbato, una nebbia mi calò sugli occhi, e mi sentii mancare. Ma mi ripresi subito, grazie alla brezza gelida delle montagne. Mi accorsi, mentre la sagoma avanzava (visione esecrata e temuta) che era il mostro che io avevo creato. Rabbia e orrore mi facevano tremare; decisi di aspettare che si avvicinasse e poi di ingaggiare con lui una battaglia mortale. Si avvicinò: la sua espressione parlava di un'amara angoscia mista a sdegno e a malvagità, la sua bruttezza lo rendeva quasi troppo orribile per poterne sostenere la vista. Ma non mi ci soffermai a lungo; odio e rabbia all'inizio mi avevano lasciato senza voce; la recuperai solo per rovesciare su di lui parole di rancore e di disprezzo.

«Demonio», esclamai, «come osi avvicinarti? Non temi dunque la fiera vendetta del mio braccio levato sul tuo miserabile capo? Vattene, vile insetto! No, resta, che possa ridurti in polvere! Oh! Se potessi, spegnendo la tua miserabile esistenza, rendere la vita alle vittime dei tuoi feroci delitti!».

«Mi aspettavo quest'accoglienza», disse il demonio. «Tutti gli uomini detestano gli infelici; quanto, dunque, devo essere detestato io, il più infelice di tutti gli esseri viventi! Anche tu, mio creatore, detesti e disprezzi me, tua creatura, alla quale sei legato da un nodo che si può sciogliere solo con l'annientamento di uno dei due. Vuoi uccidermi. Come puoi giocare così con la vita? Fai il tuo dovere verso di me, e io farò il mio verso di te e il resto dell'umanità. Se accetterai le mie condizioni, lascerò loro e te in pace; ma se rifiuti, riempirò le fauci della morte finché non sarà sazia del sangue degli amici che ti restano».

«Mostro aborrito! Demonio che sei! Le torture infernali sono una lieve punizione per i tuoi crimini. Disgustoso demonio! Mi rimproveri per averti creato; vieni avanti, dunque, che io possa spegnere la scintilla che ho sconsideratamente acceso».

La mia rabbia era senza confini; mi buttai su di lui, animato da tutti i sentimenti che armano un essere umano contro un altro essere.

Egli mi schivò facilmente e disse: «Stai calmo! Ti prego di ascoltarmi prima di sfogare il tuo rancore sulla mia testa esecrata. Non ho sofferto abbastanza, perché tu voglia accrescere la mia pena? La vita, quand'anche dovesse essere solo un cumulo di affanni, mi è cara, e la difenderò. Ricordati, tu mi hai reso più forte di te; la mia statura è superiore alla tua, le mie membra più agili. Ma io non voglio lottare con te. Sono la tua creatura, e sarò docile e mansueto con il mio naturale signore e padrone, se anche tu farai la tua parte, com'è tuo dovere. Oh Frankenstein, non essere giusto con tutti mentre calpesti me solo, al quale dovresti giustizia, clemenza, e persino affetto. Ricorda che sono la tua creatura; dovrei essere il tuo Adamo, ma sono piuttosto l'angelo caduto, che tu escludi dalla gioia senza colpa alcuna da parte sua. Ovunque vedo beatitudine, e io ne sono irrevocabilmente escluso. Ero buono e benevolo; l'infelicità ha fatto di me un demonio. Rendimi felice e sarò di nuovo virtuoso».

«Vattene! Non ti ascolterò. Non può esserci alleanza tra me e te; siamo nemici. Vattene, o misuriamo la nostra forza in una lotta, nella quale uno dei due dovrà soccombere!».

«Come posso commuoverti? Nessuna preghiera ti farà volgere uno sguardo favorevole sulla tua creatura che implora la tua bontà e compassione? Credimi, Frankenstein, io ero buono, la mia anima bruciava di amore e umanità; ma non sono forse solo, disperatamente solo? Tu, il mio creatore, mi aborri; quale speranza posso dunque nutrire verso i tuoi simili, che non mi debbono nulla? Mi odiano e mi disprezzano. Le montagne deserte e i ghiacciai desolati sono il mio rifugio. Ho vagabondato qui per molti giorni; le caverne di ghiaccio, che io solo al mondo non temo, sono la mia dimora, l'unica che gli uomini non mi contendono. Questi cieli desolati io li ringrazio, perché sono più generosi con me dei tuoi simili. Se la moltitudine degli uomini conoscesse la mia esistenza, essi farebbero come fai tu, e si armerebbero per la mia distruzione. Non debbo detestare chi mi detesta? Non verrò a patti con i miei nemici. Sono un infelice, ed essi divideranno il mio destino. Eppure, tu solo hai il potere di aiutarmi e di liberarli da un male che soltanto tu puoi evitare di rendere tanto terribile da travolgere con il vortice della sua rabbia, oltre a te e alla tua famiglia, tanti e tanti altri. Lasciati muovere a compassione e non disdegnarmi. Ascolta la mia storia; quando l'avrai ascoltata, abbandonami o abbi pietà di me, come giudicherai giusto. Ma ascoltami. Ai colpevoli è concesso, secondo le leggi umane, per quanto sanguinarie, di parlare in propria difesa, prima di essere condannati. Ascoltami! Tu mi accusi di omicidio, e allora vorresti, per tranquillizzare la tua coscienza, distruggere la tua creatura. Oh, sia resa grazia all'eterna giustizia dell'uomo! Ora non ti chiedo di risparmiarmi; ascoltami, e poi, se potrai e se vorrai, distruggi l'opera delle tue mani!».

«Perché mi richiami alla memoria», replicai, «circostanze delle quali rabbrividisco, se penso che io ne sono stato l'origine e l'autore? Maledetto il giorno, aborrito demonio, in cui tu per la prima volta vedesti la luce! Maledette le mani (anche se così maledico me stesso) che ti hanno dato forma! Mi hai reso infelice al di là di ogni immaginazione! Tu non mi hai lasciato nessuna possibilità di giudicare se sono giusto verso di te o no! Vattene! Toglimi dalla vista la tua detestabile forma».

«Così te la tolgo, mio creatore», disse, e mi mise sugli occhi le sue mani odiose, che scacciai con violenza; «così ti tolgo dagli occhi una vista che detesti. Ma tu devi ascoltarmi e concedermi la tua compassione. Te lo chiedo in ricordo della virtù che ho avuto, un tempo. Ascolta la mia storia. È lunga e straordinaria, e la temperatura di questo luogo non è adatta al tuo fisico delicato; vieni nel mio rifugio sulla montagna. Il sole è ancora alto nel cielo; prima che discenda per nascondersi dietro quei precipizi innevati e vada a illuminare un altro mondo, tu saprai la mia storia e potrai decidere. Dipende da te se io lascerò per sempre la vicinanza del genere umano e menerò una vita pura, o se diventerò la frusta del genere umano e l'autore della tua immediata rovina».

Come ebbe detto queste parole, mi aprì la strada attraverso i ghiacci; lo seguii. Il mio cuore era così afflitto che non potevo rispondere; mentre procedevo soppesavo i vari argomenti che aveva adoperato e presi la decisione di ascoltare, almeno, il suo racconto. Ero in parte mosso dalla curiosità, e la compassione confermava la mia decisione. Avevo sempre pensato che fosse lui l'assassino di mio fratello, e desideravo fortemente averne la conferma o la smentita. Inoltre, per la prima volta, capivo quali fossero i doveri di un creatore verso la sua creatura, e che io avrei dovuto renderlo felice prima di lamentarmi della sua crudeltà. Tutti questi motivi mi spinsero ad accogliere la sua richiesta. Attraversammo il ghiaccio e ci arrampicammo lungo la roccia di fronte a noi. L'aria era fredda, e la pioggia aveva ricominciato a cadere; entrammo nella capanna, quel demone con un'aria di esultanza, io con il cuore greve e lo spirito depresso. Ma acconsentii ad ascoltarlo, e appena mi fui seduto accanto al fuoco che il mio detestato compagno aveva acceso, egli cominciò così il suo racconto.


CAPITOLO XI




«È solo con grande sforzo che ricordo l'origine della mia esistenza; tutti gli eventi di quel momento mi appaiono confusi e indistinti. Una strana molteplicità di sensazioni si impadronì di me, e io vidi, udii, e odorai, tutto insieme; e passò, credo, molto tempo, prima che imparassi a distinguere le diverse funzioni dei diversi sensi. Per gradi, ricordo, una luce più forte eccitò i miei nervi, tanto da costringermi a chiudere gli occhi. Allora l'oscurità calò su di me e ne fui turbato; ma ebbi appena il tempo di provare questa sensazione che, riaprendo gli occhi, come oggi so, la luce vi si riversò di nuovo. Camminai e, credo, scesi una scala; ma all'improvviso provai un grande sconvolgimento delle mie sensazioni. Prima ero stato circondato da corpi scuri e opachi che non potevo né toccare né vedere; ma dopo potei muovermi liberamente e mi accorsi che non c'erano ostacoli che non potessi superare o evitare. La luce diveniva sempre più fastidiosa e poiché il camminare e il caldo mi stancavano, cercai un posto dove godere di un po' d'ombra. Era la foresta vicino a Ingolstadt; mi sdraiai presso un ruscello per rimettermi dalla fatica, finché non sentii il tormento della fame e della sete. Questo mi riscosse dal mio stato di torpore, e mangiai delle bacche che crescevano sugli alberi o erano cadute a terra, spensi la mia sete al ruscello, poi mi sdraiai e il sonno mi sopraffece.

«Quando mi ridestai era buio; sentivo freddo e, istintivamente, ebbi paura della mia solitudine. Prima di lasciare il tuo appartamento, sentendo freddo, mi ero coperto con degli abiti, ma erano insufficienti a ripararmi dalla brina notturna. Ero povero, solo e infelice; non sapevo distinguere nulla, non conoscevo nulla; ma, assalito dal dolore, mi sedetti e piansi.

«Presto una pallida luce apparve in cielo, e ne provai un senso di piacere. Mi alzai e vidi una forma radiosa che sorgeva tra gli alberi. La osservai con stupore. Scivolava lenta, ma illuminava il mio cammino e, di nuovo, mi misi a cercare delle bacche. Avevo ancora freddo quando, sotto un albero, trovai un mantello, mi coprii, poi sedetti per terra. Non avevo alcuna idea precisa in mente. Tutto era confuso. Percepivo luce e buio, fame e sete; innumerevoli rumori mi risuonavano nelle orecchie, e mille odori mi avvolgevano da ogni parte; l'unico oggetto che riuscivo a distinguere era la luna lucente, che fissavo con occhi pieni di gioia.

«Trascorsero giorni e notti; l'astro della notte era molto calato quando cominciai a distinguere una sensazione dall'altra. Gradualmente vidi con chiarezza il limpido ruscello che mi dava da bere, e gli alberi che con il loro fogliame mi donavano l'ombra. Fui felice quando scoprii per la prima volta che il piacevole suono che mi accarezzava le orecchie veniva dalle gole dei piccoli animali alati che spesso nascondevano ai miei occhi la luce del sole. Incominciai a osservare con la massima attenzione le forme che mi circondavano, e a misurare i confini del radioso tetto di luce che mi ricopriva come un baldacchino. Talvolta provavo a imitare il bel canto degli uccelli, ma non ne ero capace. Talvolta avrei desiderato esprimere le mie sensazioni a modo mio, ma i suoni bizzarri e inarticolati che emettevo mi spaventavano e mi inducevano di nuovo al silenzio.

«La luna aveva abbandonato la notte e di nuovo si era mostrata, con una forma più sottile, e io ero sempre nella foresta. Le mie sensazioni, a quel tempo, erano ormai ben differenziate, e la mia mente riceveva ogni giorno idee nuove. I miei occhi si abituarono alla luce e a distinguere le differenti forme degli oggetti; distinguevo gli insetti dall'erba, e pian piano, un'erba dall'altra. Capii che il passero non emetteva che note aspre, mentre quelle del merlo e del tordo erano dolci e suadenti.

«Un giorno, in cui ero oppresso dal freddo, trovai un fuoco, lasciato acceso da qualche vagabondo, e fui estasiato dalla sensazione che ne ricevetti. Per la gioia misi la mano tra i carboni ardenti, ma la ritrassi di scatto, gridando di dolore. Che strano, riflettei, che una stessa cosa produca due effetti opposti! Esaminai il materiale che componeva il fuoco e con gran gioia scoprii che era fatto di legno. Raccolsi allora dei rami, ma erano umidi e non vollero bruciare. Mi dispiacque e mi sedetti a osservare come funzionava il fuoco. La legna umida che avevo lasciato vicino al calore si asciugò, e subito prese fuoco. Ciò mi fece riflettere; toccando vari rami ne compresi il motivo, e perciò mi diedi da fare per raccogliere molta legna, per farla asciugare e averne una buona scorta. Quando calò la notte, e con lei il sonno, ebbi paura che il mio fuoco morisse. Lo ricoprii con legna secca e foglie, sopra misi dei rami umidi; poi distesi in terra il mantello; mi ci sdraiai sopra e mi addormentai.

«Era mattina quando mi svegliai, e la prima preoccupazione fu di controllare il fuoco. Lo scoprii e una lieve brezza ne fece sprigionare la fiamma. Studiai anche questo fenomeno, e mi costruii un ventaglio di foglie che rianimasse la brace quando era quasi spenta. Quando venne di nuovo la notte, scopersi che il fuoco dava luce oltre che calore. E capii che la scoperta di questo elemento poteva essermi utile anche per il cibo: infatti gli avanzi arrostiti lasciati dai viandanti avevano un gusto molto migliore delle bacche che coglievo sugli alberi. Provai dunque a preparare il mio cibo allo stesso modo, mettendolo sul fuoco. Le bacche peggioravano con questa operazione, ma le noci e le radici miglioravano molto.

«Il cibo, tuttavia, scarseggiava e spesso passavo l'intera giornata cercando invano qualche ghianda per calmare i morsi della fame. Visto ciò, mi risolsi ad abbandonare il luogo in cui abitavo, per cercarne uno dove le mie poche esigenze potessero essere più facilmente soddisfatte. Durante questa migrazione lamentai enormemente la perdita del fuoco che avevo trovato per caso e non sapevo riprodurre. Passai alcune ore a pensare seriamente a questa difficoltà, ma fui costretto ad abbandonare ogni tentativo di supplire alla perdita e, avvolto nel mio mantello, attraversai il bosco nella direzione del sole che stava tramontando. Vagai per tre giorni e infine mi ritrovai in aperta campagna. La notte precedente aveva nevicato, i campi erano di un bianco uniforme; era una visione desolante, e mi trovai i piedi ghiacciati da quella fredda, molle sostanza che ricopriva il suolo.

«Erano le sette del mattino, e io volevo solo procurarmi cibo e riparo; alla fine scorsi una piccola capanna, su un leggero pendio, costruita senza dubbio per la comodità di qualche pastore. Era una novità per me, ed esaminai quella struttura con grande curiosità. Trovando la porta aperta, entrai. Dentro c'era un vecchio seduto accanto al fuoco a preparare la colazione. Si girò sentendo un rumore e, al vedermi, gridò forte e fuggì dalla capanna, correndo attraverso i campi con una velocità della quale il suo debole corpo non si sarebbe detto capace. Il suo aspetto, diverso da ogni altro che avessi visto prima, e la sua fuga mi sorpresero. Ma ero incantato alla vista della capanna: qui neve e pioggia non potevano entrare, il suolo era asciutto ed essa mi si presentò come un rifugio divino, meraviglioso come doveva essere apparsa Pandaemonium ai diavoli dell'inferno sfuggiti alle sofferenze patite nel lago di fuoco. Divorai avidamente i resti della colazione del pastore: pane, formaggio, latte e vino; quest'ultimo però non mi piacque. Quindi, distrutto dalla stanchezza, mi sdraiai sulla paglia e caddi addormentato.

«Quando mi svegliai era mezzogiorno e, richiamato dal calore del sole che brillava luminoso sulla bianca coltre, ripresi il mio viaggio; misi i resti della colazione del pastore in una sacca che avevo trovato e camminai per i campi per molte ore, finché, al tramonto, giunsi in un villaggio. Sembrava un miracolo! Le capanne, le linde casette, le dimore sontuose suscitarono a turno la mia ammirazione. Gli ortaggi nei giardini, il latte e il formaggio sui davanzali di alcune case mi risvegliarono l'appetito. Entrai in una delle case più belle, ma avevo appena varcato la soglia che i bambini gridarono e una donna svenne. L'intero villaggio fu messo a soqquadro: alcuni fuggirono, altri mi aggredirono, finché, gravemente ferito dalle pietre e da tutti gli altri oggetti di ogni genere che mi vennero lanciati contro, fuggii in aperta campagna; impaurito mi rifugiai in un capanno basso e nudo, molto squallido a confronto con i palazzi che avevo visto nel villaggio. Questo capanno era addossato a un casolare dall'aria pulita e piacevole, ma, dopo la mia ultima esperienza, pagata a caro prezzo, non osai entrarvi. Il mio rifugio era di legno e così basso che riuscivo a stento a starci seduto. Non c'era legno a formare un pavimento, ma il suolo era asciutto e, nonostante entrasse vento da molte fessure, trovai che era un asilo confortevole contro la neve e la pioggia.

«Qui, dunque, mi ritirari e mi sdraiai, lieto di avere un riparo, anche se misero, dall'inclemenza della stagione e ancor più dalla barbarie degli uomini.

«Appena nacque il giorno, strisciai fuori dalla mia cuccia, e potei guardare il casolare adiacente per scoprire se potevo restare nell'abitazione che avevo trovato. Questa era attaccata al retro della casa, e circondata, per i tre lati liberi, da un recinto per i maiali e da una polla di acqua pulita. Un lato era aperto, e di lì ero passato io, ma ora chiusi tutte le aperture attraverso le quali potevo essere visto con pietre e legno, in modo da poterle rimuovere per andar fuori; tutta la luce della quale potevo godere proveniva dal recinto, ed era sufficiente per me.

«Dopo aver così sistemato la mia dimora e avervi steso uno strato di paglia pulita, mi ritirai perché avevo visto la figura di un uomo in lontananza, e ricordavo troppo bene il trattamento della notte precedente per espormi alla sua vista. Avevo provveduto al mio sostentamento per quel giorno, rubando una forma di pane nero e una tazza con cui avrei bevuto, meglio che con il cavo della mano, l'acqua pura che scorreva vicino al mio rifugio. Il terreno era un po' rialzato, così si manteneva perfettamente asciutto e la vicinanza col camino della casa lo rendeva tollerabilmente tiepido.

«Sistemato tutto, stabilii di abitare lì, fino a che qualche avvenimento avesse mutato la mia decisione. In verità era un paradiso in confronto con la desolata foresta, mia antica residenza, con i rami che gocciavano, e la terra bagnata. Mangiai con piacere la mia colazione e stavo per togliere un'asse e andare a procurarmi dell'acqua quando udii un passo e, guardando attraverso una stretta fessura, vidi una giovane creatura, con un secchio sulla testa, che passava davanti al mio capanno. La ragazza era giovane e di gentile aspetto, diverso da quello che hanno in genere le contadine e le serventi delle fattorie. Era però vestita poveramente, una sottana blu e una giacca di lino; i capelli chiari erano raccolti in una treccia, ma privi di ornamenti; sembrava paziente ma triste. La persi di vista; dopo circa un quarto d'ora tornò con il secchio, ora quasi colmo di latte. Mentre avanzava, visibilmente affaticata dal peso, le si fece incontro un giovane, le tolse il secchio dalla testa, e lo portò in casa. Ella lo seguì e scomparve. Dopo poco rividi il giovane, con alcuni attrezzi in mano, che attraversava i campi dietro la casa; anche la ragazza era sempre affaccendata, a volte in casa, a volte in cortile.

«Esaminando la mia abitazione scoprii che una delle finestre del casolare doveva un tempo averne fatto parte, ma ora i vetri erano stati sostituiti con del legno. Su di esso c'era una fessura piccola, quasi impercettibile, che consentiva di guardare all'interno. Attraverso lo spiraglio si vedeva una stanzetta pulita, imbiancata a calce, ma con scarsa mobilia. In un angolo, accanto al caminetto, sedeva un vecchio con la testa tra le mani, in atteggiamento sconsolato. La giovane era intenta a riordinare la casa; a un certo punto tirò fuori qualcosa da un cassetto e tenendolo in mano, sedette accanto al vecchio che, preso uno strumento, cominciò a suonare, producendo note più dolci di quelle del merlo, del tordo e dell'usignolo. Era una visione dolcissima anche per me, povero disgraziato, che non avevo visto mai nulla di bello prima d'allora. I capelli d'argento e l'espressione dolce del vecchio mi ispirarono reverenza, mentre le maniere gentili della ragazza attirarono il mio amore. Egli suonò un motivo dolce e malinconico, che fece salire le lacrime agli occhi della sua soave compagna; il vecchio non se ne avvide, finché ella non prese a singhiozzare forte; allora pronunciò alcune parole e la bella creatura, lasciato il suo lavoro, si inginocchiò ai suoi piedi. Egli la fece rialzare e sorrise con tanta mitezza e affetto che provai sensazioni nuove e sconvolgenti: erano un misto di dolore e di gioia, come non avevo mai sperimentato prima, né per la fame o il freddo, né per il caldo e il cibo; mi ritrassi dalla finestra, incapace di sopportare l'emozione.

«Poco dopo entrò il giovane, con le spalle cariche di legna. La ragazza gli andò incontro sulla porta, lo aiutò ad alleggerirsi del fardello e, portata dentro un po' di legna, la mise nel camino. Poi lei e il giovane si ritirarono in un cantuccio, ed egli le mostrò una grande forma di pane e un pezzetto di formaggio. Sembrò lieta e andò nell'orto a prendere delle radici e delle piante, che mise nell'acqua e poi sul fuoco. Quindi riprese a lavorare mentre il giovane, nell'orto, pareva occupato a scavare e a estrarre radici. Dopo aver impiegato così quasi un'ora la giovane lo raggiunse ed entrarono insieme in casa.

«Il vecchio, nel frattempo, era rimasto pensieroso, ma, all'apparire dei suoi compagni assunse un'aria più distesa e tutti si sedettero a mangiare. Il pasto fu consumato in fretta. La giovane donna era di nuovo tutta presa a riordinare la casa; il vecchio passeggiava di fronte alla casa, nel sole, appoggiandosi al braccio del giovane. Nulla avrebbe potuto superare in bellezza il contrasto tra queste due eccellenti creature. Uno era vecchio, con la capigliatura argentea e un aspetto che irradiava benevolenza e affetto; il più giovane era snello, con una corporatura elegante e lineamenti ben modellati e regolari; tuttavia i suoi occhi e la sua espressione parlavano di una tristezza e di un abbattimento profondissimi. Il vecchio rientrò e il giovane, con arnesi diversi da quelli usati al mattino, si diresse verso i campi.

«La sera scese presto, ma con mia grande meraviglia, mi avvidi che gli abitanti della casa avevano un modo per prolungare la luce, usando delle candele, ed era bello scoprire che il tramonto del sole non metteva fine al piacere che provavo nel guardare i miei umani vicini. Nella serata la giovane e il suo compagno furono impegnati in varie occupazioni che io non capivo; il vecchio prese di nuovo lo strumento che produceva i suoni divini che mi avevano incantato al mattino. Appena ebbe finito il giovane cominciò, non a suonare, ma a emettere dei suoni monotoni, che non somigliavano né all'armonia dello strumento del vecchio, né al canto degli uccelli; più tardi compresi che egli leggeva ad alta voce, ma a quel tempo io non sapevo nulla della scienza delle parole e delle lettere.

«La famiglia, dopo aver continuato per un po' quest'attività, spense le luci e si ritirò, come immaginai, a dormire».


CAPITOLO XII




«Giacevo sulla paglia, ma non riuscivo a prendere sonno. Pensavo agli avvenimenti di quel giorno. Ciò che soprattutto mi aveva impressionato erano le maniere gentili di queste persone, e avrei desiderato unirmi a loro ma non osavo. Ricordavo troppo bene il trattamento inflittomi la sera precedente da quei barbari abitanti del villaggio; decisi, qualunque cosa potesse avvenire in seguito, che per il momento me ne sarei rimasto tranquillo nel mio capanno, osservando e sforzandomi di scoprire i motivi che dettavano le loro azioni.

«Gli abitanti del casolare si alzarono la mattina seguente prima del sorgere del sole. La giovane mise in ordine la casa e preparò il cibo, e il giovane partì dopo il primo pasto.

«Il giorno trascorse come il precedente. Il giovane era sempre impegnato fuori casa, la ragazza in varie, laboriose occupazioni all'interno. Il vecchio, che presto mi accorsi essere cieco, passava le ore suonando il suo strumento o in meditazione. Nulla poteva superare il rispetto e l'amore che i due giovani mostravano per il loro venerabile compagno. Essi dispiegavano in ogni piccolo gesto verso di lui tesori di amore e di gentilezza ed egli li ricompensava con i suoi sorrisi benevoli.

«Non erano del tutto felici. Il giovane e la ragazza spesso si appartavano e li vedevo piangere. Non capivo la causa della loro infelicità, ma ne ero profondamente commosso. Se tali amabili creature erano tristi, non era strano che lo fossi anch'io, essere imperfetto e solo. Ma perché erano infelici? Avevano una casetta deliziosa (tale era ai miei occhi) e ogni lusso; avevano il fuoco per riscaldarsi quando avevano freddo e deliziose vivande quando avevano fame; avevano buoni abiti e potevano godere della compagnia e della conversazione reciproca e scambiarsi ogni giorno sguardi dolci e affettuosi. Che significavano le loro lacrime? Esprimevano davvero dolore? All'inizio non sapevo risolvere questi enigmi, ma l'osservazione continua e il trascorrere del tempo mi chiarirono molte cose che mi erano prima parse oscure.

«Passò molto tempo prima che comprendessi una delle cause della tristezza di quella cara famiglia: la povertà, un male che li affliggeva duramente. Il loro cibo consisteva soltanto delle verdure dell'orto e del latte di una mucca, che ne dava molto poco d'inverno, quando i suoi padroni riuscivano a darle solo un ben scarso foraggio. Spesso, credo, sopportavano i morsi della fame, soprattutto i due giovani, che a volte offrivano al vecchio il cibo, senza tener nulla per sé.

«Questa generosità mi commosse molto. La notte avevo preso l'abitudine di rubare per me una parte delle loro provviste, ma quando compresi che così facevo loro del male, me ne astenni, accontentandomi di bacche, nocciole, radici che trovavo nel bosco vicino.

«Trovai anche un modo per sollevarli un po' dalle loro fatiche. Il giovane passava gran parte del giorno a raccogliere legna per il fuoco, e io durante la notte mi impadronivo dei suoi arnesi, del cui uso ero ormai esperto, e portavo legna sufficiente per parecchi giorni.

«Ricordo che la prima volta, la giovane, quando la mattina aprì la porta di casa, restò molto sorpresa nel vedere la gran quantità di legna accatastata lì fuori. Disse qualcosa ad alta voce, il giovane la raggiunse ed anche lui espresse meraviglia. Vidi con piacere che quel giorno non andò nel bosco e passò il tempo aggiustando la casa e coltivando l'orto.

«Pian piano feci una scoperta ancor più importante. Capii che quelle persone si comunicavano esperienze e sentimenti attraverso suoni articolati. Notai che quei suoni producevano piacere o pena, sorrisi o mestizia sul volto e nel cuore di chi li ascoltava. Questa era veramente un'arte degna degli dèi, e io desideravo appassionatamente impadronirmene. Ma restavo deluso a ogni tentativo. Parlavano velocemente, e le parole che producevano non avevano alcun rapporto evidente con gli oggetti reali, perciò io non riuscivo a trovare la chiave per penetrare il mistero delle loro corrispondenze. Tuttavia, con grande sforzo, e dopo essere stato nel capanno per molte rivoluzioni della luna, imparai i nomi che venivano associati ad alcuni degli oggetti più comuni; imparai a collegare a quegli oggetti le parole: 'fuoco', 'latte', 'pane', 'legna'. Imparai anche i nomi degli abitanti della casa. Il giovane e la sua compagna possedevano ciascuno diversi nomi, ma il vecchio ne aveva uno solo: 'padre'. La ragazza si chiamava 'sorella' o 'Agatha'; il giovane 'Felix', 'fratello' o 'figlio'. Non so dire la gioia che provai quando imparai i concetti legati a ciascuno di questi suoni e fui anche capace di ripeterli. Distinguevo diverse altre parole, senza però capirle o associarle, come 'buono', 'carissimo', 'infelice'.

«Così passai l'inverno. La gentilezza e la grazia degli abitanti della casa me li resero molto cari; quando loro erano infelici, ero infelice anch'io, quando erano allegri, lo ero anch'io. Vidi pochissimi altri esseri umani oltre a loro; quando, per caso, qualcuno entrava nel casolare le sue maniere rudi e l'incedere volgare sottolineavano ancor di più la finezza dei miei amici. Mi accorsi che il vecchio, talvolta, incitava i figli - così a volte li chiamava - a scacciare la malinconia. Parlava loro con accenti vivaci e con un'espressione di bontà che riempiva di piacere anche me; Agatha ascoltava rispettosamente, a volte con gli occhi colmi di lacrime, che cercava di asciugare di nascosto; ma generalmente la sua espressione e il suo tono si rasserenavano alle esortazioni del padre. Non così per Felix. Era sempre il più triste del gruppo, e, anche alla mia sensibilità ancora rozza, appariva come se avesse sofferto più profondamente dei suoi cari. La sua espressione era più addolorata, ma la sua voce più lieta di quella della sorella, specialmente quando si indirizzava al vecchio.

«Potrei menzionare innumerevoli casi, anche se minimi, che mostrano il carattere di queste care persone. In mezzo alla povertà e al bisogno, Felix portò con piacere alla sorella il primo, piccolo, candido fiore che spuntò dal manto di neve. La mattina presto, prima che ella si alzasse, sgomberava dalla neve il sentiero che conduceva alla stalla, tirava su l'acqua dal pozzo e prendeva legna dalla catasta che, con suo grande stupore, trovava sempre aumentata da mani invisibili. Di giorno credo che lavorasse a volte in una fattoria vicina, perché spesso usciva la mattina presto e non tornava che all'ora di cena, senza però portare con sé della legna. Altre volte lavorava nell'orto, ma nella stagione fredda, quando c'era poco da fare, leggeva ad alta voce per il vecchio e per Agatha.

«Questo leggere, all'inizio, mi aveva dato non poca perplessità; a poco a poco compresi che egli emetteva gli stessi suoni sia quando parlava che quando leggeva. Congetturai, quindi, che egli trovasse sulla carta segni che egli sapeva come esprimere, e anch'io ero ansioso di conoscerli; ma come era possibile, quando io non capivo nemmeno i suoni per i quali i segni valevano? Progredivo molto rapidamente in questa scienza, non abbastanza, però, da seguire ogni tipo di conversazione, perciò impiegavo tutta la mia intelligenza in quello sforzo, rendendomi conto che, anche se desideravo con tutto me stesso rivelarmi agli abitanti della casa, non dovevo farlo finché non mi fossi impadronito del loro linguaggio. Questa conoscenza avrebbe fatto dimenticare la deformità del mio aspetto, della quale ero divenuto consapevole per il contrasto che avevo sempre sotto gli occhi.

«Avevo ammirato le forme perfette dei miei vicini, la loro grazia, la loro bellezza, la loro figura delicata; ma come fu tremendo quando vidi me stesso riflesso in uno specchio d'acqua! Dapprima balzai indietro, incapace di credere che quello ero io riflesso in uno specchio; e quando fui pienamente convinto di essere quel mostro che sono nella realtà, provai la più amara sensazione di disappunto e di mortificazione. Ahimè! Non conoscevo ancora fino in fondo le conseguenze fatali di questa miserabile deformità!

«Intanto il sole diveniva più caldo, la luce del giorno più lunga e la neve svaniva, e gli alberi erano spogli, e la terra nuda. Da allora Felix fu più occupato, e i segni della fame incombente, che mi avevano lacerato il cuore, disparvero. Il loro cibo, come scoprii dopo, era semplice, ma sano; ed essi potevano averne a sufficienza. Nell'orto spuntarono nuove verdure, che cucinavano; questi segni di agiatezza aumentavano con l'avanzare della stagione.

«Il vecchio, appoggiandosi al figlio, faceva sempre una passeggiata a mezzogiorno, quando non pioveva, come capii che dicevano quando il cielo riversava giù le sue acque. Questo avveniva di frequente, ma un forte vento asciugava rapidamente la terra e la stagione era molto più piacevole di prima.

«Il mio modo di vivere nel capanno era sempre uguale. La mattina seguivo i movimenti dei vicini; e quando si allontanavano, impegnati in varie occupazioni, dormivo; il resto della giornata lo passavo a osservarli. Quando si ritiravano a dormire, se c'era la luna o la notte era stellata, andavo per i boschi a raccogliere cibo per me e legna per loro. Quando ritornavo, visto che spesso era indispensabile, ripulivo il loro vialetto dalla neve e compivo tutti quei servizi che avevo visto fare a Felix. Mi accorsi in seguito che questi lavori, svolti da una mano invisibile, li stupivano grandemente; e, una o due volte, li sentii pronunciare le parole 'spirito benigno', 'meraviglioso'; ma allora non capivo il senso di queste espressioni.

«Le mie facoltà mentali divenivano sempre più attive, e desideravo sempre più rendermi conto delle motivazioni e dei sentimenti che muovevano quelle belle creature. Volevo sapere perché Felix sembrava tanto infelice e Agatha tanto triste. Pensavo (povero stolto!) che fosse in mio potere restituire la felicità a quegli esseri degni di stima. Quando dormivo, o ero assente, le immagini del vecchio, venerabile padre, della gentile Agatha, e dell'eccellente Felix, mi stavano continuamente davanti. Li consideravo esseri superiori, che sarebbero stati arbitri del mio destino. Nella mia mente mi dipingevo mille scene del momento in cui mi sarei presentato a loro e di come mi avrebbero accolto. Immaginavo che sarebbero stati disgustati finché con la gentilezza dei miei modi e con parole concilianti avrei conquistato il loro favore e infine il loro affetto.

«Questi pensieri mi rallegravano e mi spingevano ad applicarmi con rinnovato ardore ad acquisire l'arte del linguaggio. I miei organi erano rozzi ma docili, e benché la mia voce fosse molto diversa dalla musica sommessa dei loro toni, sapevo pronunciare le parole che conoscevo con relativa facilità. Era come la storia dell'asino e il cagnolino da salotto; sicuramente l'asino mite, le cui intenzioni erano buone, anche se i suoi modi rudi, meritava miglior trattamento che calci e rifiuti.

«Le piogge benefiche e il tepore fecondo della primavera alterarono molto l'aspetto della terra. Gli uomini, che prima di questo cambiamento sembravano essersi nascosti nelle caverne, riemersero in ogni luogo e si impegnarono nelle varie arti della coltivazione. Gli uccelli cantavano con note più gaie e le foglie presero a spuntare sugli alberi. Felice, felice terra! Dimora degli dèi che, ancora poco prima, appariva deserta, umida e malsana. Il mio spirito si rallegrava allo spettacolo incantatore della natura; il passato era cancellato dalla memoria, il presente sereno, e il futuro era dorato dai luminosi raggi della speranza e della gioia futura».


CAPITOLO XIII




«E sono giunto ora alla parte più commovente della mia storia. Racconterò i fatti che mi hanno trasformato da ciò che ero allora in ciò che oggi sono.

«La primavera avanzava a grandi passi; il tempo metteva al bello e il cielo era sgombro di nuvole. Mi sorprendeva che tutto ciò che prima era deserto e triste fosse ora ornato dai più bei fiori e verzure. I miei sensi erano accarezzati e rinfrescati da migliaia di odori deliziosi e di immagini di bellezza.

«Fu in una di queste giornate, quando gli abitanti della casa si riposavano dal loro lavoro, il vecchio suonava la chitarra e i figli lo ascoltavano, che io osservai come la malinconia di Felix superasse qualsiasi descrizione; sospirava frequentemente e a un certo punto, suo padre smise di suonare, e io immaginai dai suoi modi che gli stesse domandando la causa del suo dolore. Felix rispose in tono allegro, e il vecchio ricominciò la sua musica, quando qualcuno bussò alla porta.

«Era una signora a cavallo, accompagnata da un contadino che fungeva da guida. La signora era vestita di un abito scuro e coperta da un fitto velo nero. Agatha le chiese qualcosa, cui la straniera rispose pronunciando, con dolci accenti, il nome di Felix. La sua voce era musicale ma diversa da quella dei miei amici. Sentendo il suo nome Felix andò rapidamente verso la donna, che, quando lo vide, sollevò il velo, lasciando scorgere il suo volto, di una bellezza e di una dolcezza angeliche. I capelli erano di un lucente nero corvino, e curiosamente intrecciati; i suoi occhi neri, gentili e vivaci, i lineamenti armoniosi e l'incarnato meravigliosamente chiaro, con le gote colorite da un'adorabile pennellata di rosa.

«Felix sembrò rapito nel vederla; ogni accenno di dolore svanì dal suo volto che espresse una gioia estatica, di un'intensità della quale non l'avrei creduto capace; i suoi occhi scintillarono e le sue guance arrossirono di piacere: in quel momento pensai che fosse bello come la straniera. Ella appariva in preda a sentimenti contrastanti; asciugando qualche lacrima dai suoi begli occhi tese la mano a Felix, che la baciò incantato e la chiamò, per quanto potei capire, la sua dolce araba. Ella sembrò non comprenderlo, ma sorrise. Egli la aiutò a discendere e, licenziata la guida, la fece entrare in casa. Una breve conversazione ebbe luogo tra lui e il padre, e la giovane sconosciuta si inginocchiò ai piedi del vecchio, e gli avrebbe baciato la mano se questi non l'avesse fatta rialzare e affettuosamente abbracciata.

«Ben presto mi accorsi che benché la straniera pronunciasse suoni articolati e sembrasse avere un suo linguaggio, ella non era capita né capiva gli altri. Si scambiavano tutti gran segni che io non riuscivo a comprendere, ma vedevo che la sua presenza riempiva la casa di gioia, fugando le loro pene come il sole le nebbie del mattino. Felix sembrava particolarmente felice e con sorrisi di felicità dava il benvenuto alla sua araba. Agatha, la sempre gentile Agatha, baciava le mani della bella straniera e, indicando il fratello, faceva segni che mi sembrò volessero dire quanto era stato infelice prima del suo arrivo. Passarono alcune ore durante le quali dai loro volti si sprigionò una contentezza della quale non sapevo indovinare il motivo. Presto capii, da alcuni suoni che ricorrevano continuamente e che la straniera ripeteva dopo di loro, che stava cercando di imparare la loro lingua, e pensai di profittare anch'io di quegli insegnamenti. Durante la prima lezione la straniera imparò circa venti parole, che per la maggior parte io già sapevo, ma altre mi servirono.

«Appena scese la notte Agatha e la giovane araba si ritirarono. Quando si separarono Felix baciò la mano della straniera e disse 'Buona notte, dolce Safie'. Poi restò alzato, e parlò lungamente con il padre e, poiché sentii ripetere spesso il nome di lei, congetturai che la bella ospite fosse l'oggetto della loro conversazione. Desideravo ardentemente comprenderli, e impegnai a questo scopo ogni mia facoltà, ma lo trovai impossibile.

La mattina successiva Felix andò al lavoro e, quando le usuali occupazioni di Agatha ebbero fine, la giovane araba si accovacciò ai piedi del vecchio e, presa la sua chitarra, suonò delle arie così trascinanti e stupende che lacrime di dolore e di gioia insieme mi caddero dagli occhi. Cantava e la sua voce fluiva in cadenze ricche, levandosi e morendo come quella di un usignolo dei boschi.

«Quando smise, passò la chitarra ad Agatha, che all'inizio declinò. Poi suonò un'aria semplice, che accompagnò con una voce dolce, ma diversa dalla stupefacente melodia della sconosciuta. Il vecchio sembrava rapito e disse alcune parole che Agatha cercò di spiegare a Safie, e che sembravano significare che con la sua musica l'aveva colmato di gioia.

«I giorni passavano tranquilli come prima, ma ora la gioia aveva preso il posto della mestizia sul volto dei miei amici. Safie era sempre allegra e felice; lei e io progredivamo rapidamente nella conoscenza della lingua, così che in due mesi io cominciai a comprendere la maggior parte delle parole dei miei protettori.

«Nel frattempo la terra brulla si era ricoperta di vegetazione, e i verdi pendii erano trapunti di fiori, dolci all'odorato e alla vista, stelle di pallida luminosità brillavano tra i boschi rischiarati dalla luna; il sole divenne più caldo, le notti chiare e odorose, e le mie scorribande notturne mi davano un piacere immenso, anche se erano più brevi perché il sole si levava più presto e calava più tardi, e io non osavo avventurarmi fuori nelle ore di luce, temendo di incorrere nello stesso trattamento che avevo subito nel primo villaggio in cui ero entrato.

«I miei giorni li impiegavo cercando di divenire rapidamente padrone della lingua; e posso vantarmi di aver progredito molto più rapidamente dell'araba che capiva assai poco e parlava con parole rotte, mentre io capivo, e sapevo imitare, quasi ogni parola che essi dicevano.

«Mentre imparavo a parlare imparavo anche la scienza della scrittura che veniva insegnata alla straniera, e questo mi aprì un nuovo ampio territorio di meraviglie e di piaceri.

«Il libro sul quale Felix istruiva Safie era Le rovine degli imperi di Volney. Non ne avrei capito il contenuto se Felix, leggendolo, non avesse dato mille minute spiegazioni. Egli aveva scelto quel libro, disse, perché lo stile oratorio era costruito a imitazione degli autori orientali. Attraverso quest'opera arrivai ad avere una sommaria conoscenza della storia e una panoramica dei diversi imperi esistenti nel mondo; mi feci un'idea dei costumi, dei tipi di governo e delle religioni delle diverse nazioni della terra. Udii parlare dei pigri asiatici, della stupefacente genialità e dell'attività intellettuale dei greci, delle guerre e dello straordinario valore degli antichi romani, della decadenza e del declino di quel potente impero, della cavalleria, della cristianità e dei re. Udii della scoperta dell'America e piansi con Safie sul tragico destino dei suoi originari abitatori.

«Questi meravigliosi racconti mi ispirarono strani sentimenti. Davvero l'uomo era così potente, virtuoso, magnifico, e tuttavia così vile e basso? Egli appariva insieme un figlio del male e tutto ciò che si può concepire di nobile e simile a un dio. Essere un uomo nobile e grande appariva il più alto onore a cui può aspirare un essere umano; mentre essere malvagio e abietto, come molti erano stati nel passato, appariva una degradazione, una condizione più bassa di quella di una cieca talpa o di un innocuo verme. Per molto tempo non riuscii a concepire come un uomo potesse uccidere un suo simile, né perché ci fossero leggi o governi; ma quando sentii i particolari del vizio e del delitto, lo stupore cessò e vennero il disgusto e la repulsione.

«Ogni conversazione dei miei vicini, ora, mi svelava nuove meraviglie. Gli insegnamenti che Felix impartiva all'araba mi fecero conoscere lo strano sistema che regola la società umana. Sentii parlare della divisione della proprietà, di immensa ricchezza e di squallida povertà, di rango, discendenza, nobiltà di sangue.

«Queste parole mi indussero a guardare me stesso. Avevo imparato che il bene più stimato dai tuoi simili è una discendenza nobile e senza macchia, unita alla ricchezza. Un uomo può essere rispettato anche se possiede uno solo di questi vantaggi, ma senza nessuno dei due egli è considerato, con rarissime eccezioni, un vagabondo e uno schiavo, costretto a sprecare le sue energie per il profitto di pochi eletti! E io, cos'ero io? Della mia creazione e del mio creatore ero assolutamente ignaro, ma sapevo di non avere denaro, né amici, né alcun genere di proprietà; per di più ero dotato di una figura disgustosamente deforme e ripugnante, e non ero nemmeno della stessa specie dell'uomo. Io ero più agile di loro, e potevo resistere con una dieta più rozza; sopportavo gli estremi del caldo e del freddo con minor danno per la mia costituzione, la mia statura di gran lunga eccedeva la loro. Quando mi guardavo intorno non vedevo e non sentivo nulla di simile a me. Ero io, dunque, un mostro, una macchia sulla faccia della terra, dalla quale tutti gli uomini sarebbero fuggiti, e che tutti avrebbero evitato?

«Non posso descriverti il tormento che mi infliggevano queste riflessioni; cercavo di scacciarle ma l'infelicità non faceva che aumentare con la conoscenza. Oh, se fossi rimasto per sempre nel mio bosco natio, senza sapere, senza sentire nulla oltre la fame, la sete, il caldo!

«Com'è strana la conoscenza! Si abbarbica alla mente, una volta che se ne sia impadronita, come un lichene a una roccia. A volte desideravo scrollar via tutti questi pensieri e sentimenti; ma avevo imparato che c'era un solo mezzo per vincere il dolore: la morte, uno stato che temevo pur senza comprenderlo. Ammiravo le virtù e i buoni sentimenti, mi piacevano i modi gentili e le amabili qualità dei miei vicini, ma ero escluso da ogni rapporto con loro, tranne quelli che riuscivo ad avere a loro insaputa, non visto e ignorato, e che aumentavano, piuttosto che soddisfare, il mio desiderio di essere un uomo in mezzo agli uomini. Le parole gentili di Agatha e i vivaci sorrisi dell'affascinante araba non erano cose per me. Le benevole esortazioni del vecchio, le animate conversazioni del caro Felix non erano per me. Povero, infelice disgraziato!

«Altre cose mi si impressero profondamente nella mente. Sentii parlare della differenza tra i sessi; di come i bambini nascono e crescono; di come il padre gioisca dei sorrisi del neonato e del suo vivace saltellare quando è più grande; come tutta la vita e la sollecitudine della madre siano dedicate a questo prezioso fardello; come una mente giovane e fresca cresca e acquisti la conoscenza; e poi sentii parlare di fratelli e sorelle, e di vari legami che stringono ogni essere umano a un altro, in comunanza di affetti.

«Ma i miei amici, i miei parenti dov'erano? Nessun padre aveva vegliato sui miei primi giorni, nessuna madre mi aveva fatto la grazia dei suoi sorrisi e delle sue carezze; o, se l'avevano fatto, tutto il mio passato era ora una macchia scura, un vuoto cieco in cui non distinguevo nulla. Se andavo indietro con la memoria mi vedevo sempre con la statura e le proporzioni che avevo ora. E non avevo mai incontrato un essere umano che mi somigliasse o rivendicasse qualche vincolo comune. Che cosa ero io? Questo interrogativo ricorreva insistentemente e l'unica risposta erano i miei gemiti.

«Ti spiegherò subito a cosa tendevano questi sentimenti; prima, però, lascia che io ritorni agli abitanti del casolare, la cui storia eccitava in me reazioni di indignazione, o di piacere o di stupore, che confluivano tutte in un amore e una reverenza sempre maggiori verso i miei protettori (così amavo chiamarli, con innocente e doloroso autoinganno)».


CAPITOLO XIV




«Passò un certo tempo prima che imparassi la storia dei miei amici. Era una storia che non poteva mancare di colpire profondamente la mia immaginazione svelando, come faceva, tutta una serie di circostanze interessanti e sorprendenti per un essere completamente privo d'esperienza com'ero io.

«Il nome del vecchio era De Lacey. Discendeva da una famiglia francese e aveva vissuto in Francia per molti anni nell'agiatezza, rispettato dai suoi superiori e amato dai suoi pari. Suo figlio era stato educato a servire il suo paese, e Agatha stava alla pari con le donne di più alto lignaggio. Pochi mesi prima del mio arrivo vivevano in una grande e lussuosa città chiamata Parigi, circondati da amici, godendo di tutto ciò che la virtù, la raffinatezza dell'intelletto e il buon gusto, accompagnati da una discreta fortuna, possono offrire.

«Il padre di Safie era stato la causa della loro rovina. Egli era un mercante turco che abitava a Parigi da molti anni; un giorno, per qualche ragione che non riuscii a comprendere, divenne inviso al governo. Fu preso e chiuso in prigione il giorno stesso in cui Safie arrivava a Parigi da Costantinopoli per riunirsi a lui. Fu processato e condannato a morte. L'ingiustizia della sentenza era flagrante; tutta Parigi era indignata; e il giudizio di tutti era che la sua religione e la sua ricchezza, piuttosto che i crimini addotti contro di lui, erano state la causa della sua condanna.

«Felix aveva per caso assistito al processo; la sua indignazione e il suo orrore, nell'udire la sentenza emessa dalla corte, erano stati incontrollabili. Egli fece in quel momento solenne giuramento di liberarlo e cominciò a cercare il modo più idoneo. Dopo alcuni infruttuosi tentativi di accedere alla prigione trovò una finestra chiusa da una pesante inferriata in un lato poco sorvegliato dell'edificio; questa finestra dava luce alla cella del povero maomettano il quale, carico di catene, ormai disperato, attendeva solo l'esecuzione della barbara sentenza. Felix si recò di notte alla grata e comunicò al prigioniero la sua intenzione di aiutarlo. Il turco, sorpreso e felice, cercò di aumentare lo zelo del suo liberatore con promesse di ricompense e di ricchezze. Felix rigettò tali offerte con sdegno, ma, quando vide la bella Safie, cui era stato permesso di visitare suo padre, e che gli espresse a gesti la sua viva gratitudine, il giovane non poté fare a meno di ammettere, tra sé e sé, che il prigioniero possedeva un tesoro che avrebbe potuto ripagarlo delle fatiche e dei rischi.

«Il turco si accorse subito dell'impressione che sua figlia aveva prodotto sul cuore di Felix, e cercò di assicurarselo completamente con la promessa di concedergli la sua mano non appena fosse stato in salvo da qualche parte. Felix era troppo delicato per accettare questa offerta, tuttavia guardava a una simile possibilità come al coronamento di ogni felicità.

«Nei giorni che seguirono, mentre i preparativi per la fuga del mercante andavano avanti, lo zelo di Felix fu accresciuto da parecchie lettere dell'affascinante ragazza, che trovò il modo di esprimere i propri sentimenti nella lingua dell'innamorato con l'aiuto di un vecchio servo di suo padre che conosceva il francese. Lo ringraziava con le parole più ardenti per ciò che intendeva fare per suo padre e, insieme, deplorava debolmente il proprio destino.

«Ho delle copie di queste lettere, perché riuscii, durante la mia permanenza nel capanno, a procurarmi il necessario per scrivere, e le lettere erano spesso in mano a Felix o Agatha. Prima di andarmene te le darò; esse provano la veridicità del mio racconto; ma ora, poiché il sole è prossimo a declinare, avrò solo il tempo di riassumertene la sostanza.

«Safie narrava che sua madre era un'araba cristiana, fatta schiava dai turchi; grazie alla sua bellezza aveva conquistato il cuore di suo padre, che l'aveva sposata. La giovane parlava in termini elevati ed entusiastici di sua madre, che, nata libera, disprezzava la schiavitù alla quale era stata ridotta. Istruì sua figlia nei dettami della sua religione e le insegnò ad aspirare ai più alti traguardi della mente e all'indipendenza dello spirito, negata alle donne maomettane. Questa signora morì, ma i suoi insegnamenti erano indelebilmente impressi nella mente di Safie, che soffriva all'idea di dover tornare in Asia e finire come una sepolta viva tra le mura di un harem, libera solo di trastullarsi come una bambina, destino che mal si adattava al temperamento della sua anima, abituata a grandi idee e alla nobile conquista della virtù. La prospettiva di sposare un cristiano e rimanere in un paese dove alle donne era consentito di occupare un posto nella società la incantava.

«Il giorno dell'esecuzione del turco fu fissato; ma la notte precedente egli fuggì dalla prigione e, prima dell'alba, era a molte leghe da Parigi. Felix si era procurato dei passaporti con i nomi suo, di suo padre e di sua sorella. Aveva precedentemente comunicato il suo piano al padre, che aveva favorito l'inganno lasciando la propria casa, con il pretesto di un viaggio e nascondendosi, insieme alla figlia, in un oscuro quartiere di Parigi.

«Felix condusse i fuggitivi attraverso la Francia, fino a Lione, poi, per il Moncenisio, a Livorno, dove il mercante voleva aspettare l'occasione favorevole per un passaggio verso qualche luogo nei domini turchi.

«Safie decise di restare con il padre fino al momento della partenza, e il turco rinnovò la promessa di darla in sposa al suo liberatore. Felix rimase con loro ad attendere gli avvenimenti e per tutto il tempo godette della compagnia dell'araba che gli manifestava il più sincero e tenero affetto. Essi conversavano attraverso un interprete, e a volte soltanto con gli sguardi; Safie gli cantava le divine arie del suo paese.

«Il turco permetteva che questa intimità avesse luogo e incoraggiava le speranze dei giovani innamorati, ma in cuor suo aveva altri piani. Detestava l'idea che sua figlia si unisse a un cristiano, ma temeva il risentimento di Felix qualora si fosse mostrato tiepido, perché sapeva di essere ancora in potere del suo liberatore, che poteva denunciarlo alle autorità di quel paese. Egli elaborava centinaia di piani per prolungare l'inganno finché fosse stato necessario e per portare con sé sua figlia al momento della partenza. I suoi piani furono favoriti dalle notizie che arrivavano dalla Francia.

«Il governo francese era furioso per la fuga della propria vittima e non aveva risparmiato alcuno sforzo per scoprire e punire il suo liberatore. Il complotto di Felix fu presto svelato, e De Lacey e sua figlia vennero gettati in prigione. La notizia raggiunse Felix e lo ridestò dal suo sogno di felicità. Il suo vecchio padre cieco e la giovane sorella languivano in una tetra prigione, mentre egli respirava libero godendo della compagnia della donna amata. Quest'idea era una tortura per lui. Si accordò rapidamente con il turco che, se questi avesse trovato un'occasione favorevole per fuggire, prima che Felix tornasse in Italia, Safie sarebbe rimasta a Livorno, in un convento; quindi, lasciata l'amata araba, corse a Parigi e si consegnò alla vendetta della legge, sperando di liberare così De Lacey e Agatha.

«Non ebbe successo. Rimasero prigionieri per cinque mesi prima che avesse luogo il processo il risultato del quale li privò dei loro beni e li condannò al perpetuo esilio dal suolo di Francia.

«Trovarono un misero asilo nel casolare in Germania dove io li avevo scoperti. Felix capì presto che il traditore turco, per il quale lui e la sua famiglia sopportavano sofferenze inaudite, avvedendosi che il suo liberatore era ridotto alla povertà e alla rovina, aveva tradito ogni sentimento di onore e aveva lasciato l'Italia insieme alla figlia mandando a Felix, come estremo insulto, una misera somma di denaro per aiutarlo, così disse, a provvedere al suo futuro.

«Questi erano i fatti che pesavano sul cuore di Felix e lo rendevano, quando lo vidi per la prima volta, il più infelice degli uomini. Avrebbe facilmente potuto sopportare l'indigenza, e quando essa era stata il premio per la sua virtù se ne era gloriato; ma l'ingratitudine e la perdita dell'amata Safie erano disgrazie più amare e irreparabili. Ora l'arrivo della giovane araba gli aveva dato una nuova vita.

«Quando la notizia che Felix era stato privato della sua fortuna e del suo rango era giunta a Livorno il mercante aveva ordinato alla figlia di dimenticare l'innamorato e prepararsi a tornare nel suo paese natale. La generosa natura di Safie si era sentita oltraggiata da questo comando; ella aveva tentato di protestare con il padre, ma questi se ne era andato furioso, reiterando il tirannico ordine.

«Qualche giorno più tardi il turco era entrato nella camera della figlia e le aveva comunicato frettolosamente che aveva motivo di credere che la sua presenza a Livorno fosse divenuta nota e che sarebbe stato subito denunciato al governo francese; perciò aveva noleggiato un vascello che lo avrebbe portato a Costantinopoli e lui stava per salpare. Era sua intenzione lasciare la figlia con un servo fidato, perché lo seguisse con maggior agio e con la gran parte dei suoi beni, non ancora arrivata a Livorno.

«Rimasta sola Safie decise il piano di condotta che le conveniva seguire in questa emergenza. L'idea di vivere in Turchia le ripugnava, la sua religione e i suoi sentimenti vi erano avversi. Da alcune carte del padre, cadute nelle sue mani, venne a conoscenza dell'esilio del suo innamorato e del nome del luogo dove si trovava. Esitò per qualche tempo, ma alla fine prese una decisione. Portò con sé alcuni gioielli che le appartenevano e una certa somma di denaro, poi abbandonò l'Italia con una compagna, nativa di Livorno, ma che capiva la lingua della Turchia, e partì per la Germania.

«Era arrivata incolume a circa venti leghe dal casolare di De Lacey, allorché la sua compagna cadde gravemente ammalata. Safie la curò con il più devoto affetto, ma la povera fanciulla morì, e la giovane araba rimase sola, senza conoscere la lingua del paese e ignorando completamente i costumi del mondo. Cadde, comunque, in buone mani. L'italiana aveva fatto il nome del posto verso cui erano dirette e, dopo la sua morte, la donna in casa della quale avevano vissuto si preoccupò che Safie raggiungesse sana e salva l'innamorato».


CAPITOLO XV




«Questa è la storia dei miei amati vicini. Mi impressionò profondamente. Imparai, dagli scorci di vita sociale che mi mostrava, ad ammirare la virtù e a deprecare i vizi degli uomini.

«Allora guardavo al crimine come a un male sconosciuto; benevolenza e generosità erano sempre davanti a me, e mi incitavano a divenire anch'io un attore di quell'affollato palcoscenico dove tante ammirevoli virtù erano chiamate a dispiegarsi. Ma, nel dar conto dei miei progressi intellettuali, non devo omettere un avvenimento che capitò all'inizio del mese di agosto di quello stesso anno.

«Una notte durante la mia abituale visita nel bosco vicino, dove raccoglievo cibo per me e legna per i miei protettori, trovai in terra una sacca da viaggio di pelle che conteneva oggetti di vestiario e alcuni libri. Afferrai avidamente la preda, e tornai al mio capanno. Per fortuna i libri erano scritti nella lingua della quale avevo appreso gli elementi. Erano: il Paradiso perduto, un volume delle Vite di Plutarco, e I dolori del giovane Werther. Questi tesori mi fecero felice; ora, mentre i miei amici erano impegnati nelle loro consuete attività, studiavo assiduamente ed esercitavo la mia mente su queste storie.

«Mi è difficile descriverti l'effetto di questi libri. Produssero in me un'infinità di nuove immagini e sentimenti che a volte mi portavano all'estasi, ma più spesso mi gettavano nel più profondo abbattimento. I dolori del giovane Werther, oltre all'interesse per la semplice e commovente storia, ha in sé tante idee e getta tanta luce su quanto fino lì era stato per me buio, che lo trovai una fonte inesauribile di riflessioni e di sorprese. I costumi gentili e familiari che descrive, combinati agli alti sentimenti che hanno per oggetto qualcosa che è altro da sé, si accordavano con le mie esperienze tra i miei protettori e con i desideri sempre più vivi nel mio petto. Ma io consideravo Werther stesso la più divina creatura che io avessi mai visto o immaginato; il suo carattere non aveva pretese ma arrivava fino in fondo. Le sue disquisizioni sulla morte e il suicidio sembravano fatte apposta per riempirmi di stupore. Non pretendevo di entrare nel merito della questione, eppure mi sentivo di condividere le opinioni dell'eroe, la cui morte piansi, senza comprenderne bene il perché.

«Ciò che leggevo, tuttavia, lo riferivo ai miei personali sentimenti e condizioni. Mi scoprivo simile, e allo stesso tempo stranamente diverso, dagli esseri dei quali leggevo e ascoltavo le conversazioni. Ero un osservatore che simpatizzava con loro e che, in parte, li capiva, ma avevo qualcosa di informe nella mia mente; io non avevo legami con nessuno, non avevo relazioni con nessuno. 'Il sentiero per la mia dipartita era aperto', e non c'era nessuno per piangere la mia scomparsa. La mia figura era ripugnante, e la mia statura gigantesca. Cosa significava questo? Chi ero io? Che cosa ero io? Da dove venivo? Dove andavo? Queste domande mi assillavano, ma non sapevo rispondere.

«Il volume delle Vite di Plutarco che possedevo conteneva la storia dei fondatori delle antiche repubbliche. Questo libro ebbe su di me un effetto del tutto diverso dai Dolori del giovane Werther. Dalle fantasie di Werther avevo appreso cosa fossero disperazione e malinconia; Plutarco mi insegnò i pensieri più alti, mi elevò al di sopra della meschina sfera delle mie riflessioni, fino a farmi amare e ammirare gli eroi del passato. Parte delle cose che leggevo sorpassava le mie capacità di comprensione e la mia esperienza. Avevo una vaga nozione di regni, di ampie estensioni di terra, di fiumi maestosi e mari sconfinati. Ma ero perfettamente ignaro di città e di grandi assembramenti umani. Il casolare dei miei protettori era stato la sola scuola nella quale avessi studiato la natura umana, ma questo libro mi schiuse nuovi e più ampi scenari d'azione. Lessi di uomini che si occupavano di affari di stato, governando o massacrando i loro simili. Sentivo bruciarmi in petto il più grande ardore per la virtù, e la ripugnanza per il vizio, per quanto io potevo capire di questi termini, relativi come essi erano per me, soltanto al piacere e al dolore ai quali li applicavo. Influenzato da questi sentimenti ero, naturalmente, un ammiratore piuttosto dei pacifici legislatori come Numa, Solone e Licurgo che di Romolo e di Teseo. La vita patriarcale dei miei protettori faceva sì che queste impressioni prendessero saldamente posto nella mia mente. Forse, se ad iniziarmi alla vita fosse stato un giovane soldato, desideroso di gloria e di avventure, mi sarei ritrovato con dei sentimenti diversi.

«Ma il Paradiso perduto mi suscitò diverse e più profonde emozioni. Lo lessi, come gli altri volumi in mio possesso, come una storia vera. Mi provocò tutti quei sentimenti di meraviglia e di terrore reverenziale che la figura di un Dio onnipotente che guerreggia con le sue creature può suscitare. Spesso riferivo certe situazioni del libro alla mia, poiché le somiglianze mi impressionavano. Come Adamo, io non ero legato a nessun altro essere visibile; ma il suo stato era completamente diverso dal mio sotto ogni altro riguardo. Egli era uscito dalle mani di Dio come una creatura perfetta, felice e fortunata, e il suo Creatore guardava a lui con un'attenzione speciale; a lui era concesso di conversare con esseri di natura superiore da cui traeva sapere, ma io ero disgraziato, infelice e solo. Molte volte pensai a Satana come a un emblema molto più appropriato alla mia situazione, poiché spesso, come lui, quando scorgevo la beatitudine dei miei protettori mi sentivo crescere dentro l'amaro fiele dell'invidia.

«Un'altra circostanza rafforzò e confermò questi sentimenti. Poco dopo il mio arrivo nel capanno, avevo scoperto alcuni fogli nella tasca del vestito che avevo preso nel tuo laboratorio. Dapprima li avevo trascurati, ma ora che ero in grado di decifrarli cominciai a studiarli diligentemente. Era il diario dei quattro mesi che avevano preceduto la mia creazione. Tu descrivevi minutamente su quei fogli ogni passo e ogni progresso del tuo lavoro; a questa storia si mischiava il resoconto di alcuni avvenimenti domestici. Tu senza dubbio ti ricordi di queste carte. Eccole. Vi è riportato tutto quanto si riferisce alla mia maledetta origine; vi sono esposti tutti i dettagli delle disgustose operazioni che l'hanno prodotta; la descrizione particolareggiata della mia persona odiosa e ripugnante è fatta in un linguaggio che dipinge bene il tuo orrore e che ha reso indelebile il mio. Stavo male mentre leggevo. 'Sia maledetto il giorno in cui ho ricevuto la vita!' esclamai in agonia; 'Maledetto creatore! Perché hai dato forma a un mostro così detestabile che persino 'tu' ne hai distolto lo sguardo disgustato? Dio, nella sua pietà, ha fatto l'uomo bello e seducente, a sua immagine; ma la mia forma è la brutta copia della tua, resa ancor più orrenda dalla rassomiglianza stessa. Satana ebbe i suoi compagni, demoni come lui, per ammirarlo e incoraggiarlo, ma io sono solo e aborrito!'.

«Queste erano le mie riflessioni nelle ore di depressione e di solitudine; ma quando contemplavo le virtù dei miei vicini, le loro amabili e benevole disposizioni d'animo, mi persuadevo che una volta venuti a conoscenza del mio amore per la loro virtù, avrebbero avuto compassione di me e avrebbero chiuso gli occhi sulla mia bruttezza esteriore. Potevano forse mettere fuori della porta un essere che, per quanto mostruoso, sollecitava la loro pietà e amicizia? Decisi per lo meno di non disperare e di prepararmi in tutti i modi a un incontro con loro che avrebbe deciso il mio destino. Posticipai di qualche mese l'evento, perché l'importanza che gli attribuivo mi ispirava un terribile timore di fallire. Inoltre la mia capacità di capire aumentava talmente con l'esperienza di ogni giorno che non volevo intraprendere iniziative prima che qualche altro mese di esercizi avesse ancora accresciuto la mia sagacia.

«Nel frattempo nel casolare erano avvenuti molti cambiamenti. La presenza di Safie aveva diffuso la gioia tra gli abitanti, e io notai che vi regnava anche un maggior benessere. Felix e Agatha trascorrevano più tempo in conversazioni e divertimenti, ed erano aiutati nelle loro fatiche da domestici. Non sembravano ricchi, ma erano soddisfatti e felici; i loro sentimenti erano sereni e pacifici mentre i miei si facevano di giorno in giorno più tumultuosi. L'accresciuta conoscenza non faceva che mostrarmi più chiaramente quale infelice 'fuori-casta' io fossi. Accarezzavo delle speranze, è vero, ma svanivano non appena coglievo la mia immagine riflessa nell'acqua o la mia ombra nella luce della luna, per quanto fragile fosse l'immagine e inconsistente l'ombra.

«Cercavo di soffocare le paure e di rafforzarmi per il giudizio che tra pochi mesi avevo deciso di affrontare; a volte lasciavo che i miei pensieri, sganciati dalla ragione, vagassero per i pascoli del paradiso, e osavo immaginare belle e amabili creature capaci di vibrare all'unisono con i miei sentimenti e di addolcire la mia tristezza; sui loro angelici volti splendevano sorrisi di consolazione. Ma era solo un sogno: nessuna Eva confortava le mie pene né ragionava con me. Io ero solo. Ricordavo la supplica di Adamo al suo Creatore; ma dov'era il mio? Mi aveva abbandonato e, nell'amarezza del mio cuore, lo maledii.

«Così passò l'autunno. Vidi con sorpresa e dolore le foglie ingiallirsi e cadere, e la natura assumere di nuovo l'aspetto tetro e desolato che le avevo visto quando avevo aperto gli occhi per la prima volta sui boschi e sulla bella luna. Tuttavia non facevo attenzione all'ingrigirsi del tempo; ero più adatto a sopportare il freddo che il caldo. Ma la mia maggior delizia erano la vista dei fiori, gli uccelli, e tutte le gaie sembianze dell'estate. Quando mi abbandonarono mi rivolsi con accresciuta attenzione agli abitanti del casolare. La loro felicità non era fuggita via con l'estate. Loro si amavano e si comprendevano l'un l'altro, e non si lasciavano distrarre dai fatti accidentali che si susseguivano intorno a loro. Più li conoscevo, più aumentava la mia brama di implorare la loro protezione e il loro affetto; il mio cuore si struggeva di essere accolto e amato da quelle care creature; che un loro sguardo benevolo si posasse su di me: questa era la mia unica ambizione. Non potevo pensare che essi si sarebbero ritratti con sdegno e orrore. Il mendicante che bussava alla loro porta non veniva mai scacciato; io chiedevo, è vero, un tesoro più grande del cibo e del riposo. Chiedevo bontà e simpatia, ma non me ne sentivo indegno.

«L'inverno avanzava e un intero ciclo di stagioni era trascorso da quando avevo aperto gli occhi alla vita. La mia attenzione, a quel tempo, era tutta concentrata sul mio piano per presentarmi ai miei protettori. Esaminai varie possibilità, ma alla fine scelsi di entrare in casa quando il vecchio cieco fosse rimasto solo. Avevo intelligenza sufficiente a capire che era stata la mia innaturale laidezza il principale bersaglio di quanti mi avevano visto prima. La mia voce, per quanto rauca, non aveva in sé nulla di terribile; pensavo quindi che se fossi riuscito a guadagnarmi la benevolenza del vecchio De Lacey, grazie a lui sarei stato accettato anche dai più giovani amici.

«Un giorno che il sole splendeva sulle foglie fulve sparse al suolo diffondendo allegria anche se non calore, Safie, Agatha e Felix uscirono per una lunga passeggiata in campagna, mentre il vecchio, per suo desiderio, fu lasciato in casa. Quando i figli se ne furono andati prese la chitarra e cominciò a suonare melodie dolci e tristi, le più dolci e tristi di quante gliene avessi mai sentite suonare. All'inizio il suo volto era illuminato di piacere, ma poi, continuando a suonare, vi si dipinse un'aria di mestizia e di malinconia; infine, lasciato da parte lo strumento, rimase assorto nei suoi pensieri.

«Il cuore mi batteva all'impazzata; questa era l'ora e il momento del giudizio che avrebbe coronato le mie speranze o sancita la mia disgrazia. I servitori erano andati a una fiera nei dintorni. Tutto era silenzioso, nella casa e intorno; era un'occasione unica, tuttavia, mentre mi accingevo a eseguire il mio piano, le gambe mi vennero meno e caddi al suolo. Mi rialzai e, raccogliendo tutte le mie forze, rimossi le assi che avevo messo davanti al capanno per nascondere il mio rifugio. L'aria fresca mi rinvigorì e con rinnovata determinazione mi avvicinai alla porta del casolare.

«Bussai. 'Chi è?', chiese il vecchio. 'Entrate'.

«Entrai. 'Scusate l'intrusione', dissi. 'Sono un povero viandante che chiede un po' di riposo; mi fareste una grande cortesia se mi permetteste di restare pochi minuti vicino al fuoco'.

«'Entrate', disse De Lacey, 'e cercherò di soddisfare i vostri bisogni; sfortunatamente i miei figli non sono in casa, e io sono cieco, quindi mi sarà difficile procurarvi del cibo'.

«'Non vi disturbate, mio cortese ospite; il cibo ce l'ho; è il calore e un luogo dove riposare che mi mancano'.

«Sedetti e cadde il silenzio. Io ero conscio che ogni minuto era prezioso per me, ma non sapevo come avviare una conversazione, quando il vecchio si rivolse a me.

«'Dal vostro modo di parlare, straniero, suppongo che siate un mio compatriota; siete francese?'.

«'No, ma sono stato educato da una famiglia francese e capisco solo quella lingua. Ora sto andando a mettermi sotto la protezione di alcuni amici, che amo sinceramente e sulla cui benevolenza ho qualche speranza'.

«'Sono tedeschi?'.

«'No, sono francesi. Ma cambiamo argomento. Io sono una creatura infelice e sola; mi guardo intorno e non vedo né un parente né un amico su tutta la terra. Queste care persone dalle quali sto andando non mi hanno mai visto prima e sanno assai poco di me. Io sono pieno di paure perché se fallirò ora, sarò per sempre un estraneo nel mondo'.

«'Non disperate. Essere senza amici è davvero un gran male, ma il cuore degli uomini, quando non sia influenzato da ovvi interessi personali, è ricco di amore fraterno e di carità. Fidate dunque nelle vostre speranze; e se questi vostri amici sono davvero buoni e amabili, non disperate'.

«'Sì, sono buoni; sono veramente le migliori creature del mondo; ma, sfortunatamente, hanno dei pregiudizi nei miei riguardi. Io ho un animo buono; la mia vita è stata sin qui senza colpa e, in qualche modo, benefica; ma un fatale pregiudizio vela i loro occhi, e dove dovrebbero vedere un amico dolce e sincero, essi vedono solo un orribile mostro'.

«'Questo è certamente un caso sfortunato; ma se voi siete davvero senza macchia, non potete disingannarli?'.

«'È ciò che cercherò di fare; ed è per questo che mi sento in preda a tanti timori. Io amo teneramente questi amici; sconosciuto, per molti mesi, ogni giorno, ho compiuto verso di loro delle gentilezze; ma essi credono che io voglia far loro del male, ed è questo il pregiudizio che spero di vincere'.

«'Dove abitano questi amici?'.

«'Non lontano da qui'.

«Il vecchio fece una pausa, poi continuò. 'Se voi voleste confidarmi senza riserve i particolari della vostra storia, potrei forse esservi utile nel dissipare il malinteso. Io sono cieco e non posso giudicarvi dal vostro aspetto, ma c'è qualcosa nel vostro modo di parlare che mi dice che siete sincero. Sono povero e in esilio, ma mi darà un grande piacere poter essere in qualche modo di aiuto a un essere umano'.

«'Uomo eccellente! Vi ringrazio e accetto la vostra generosa offerta. Voi mi sollevate dalla polvere con la vostra cortesia; e ho fede che con il vostro aiuto non sarò escluso dalla comunanza e dalla simpatia dei vostri simili'.

«'Che il ciel non voglia! Anche se foste davvero un criminale, questo potrebbe solo spingervi alla disperazione, non condurvi verso la virtù. Anch'io sono uno sventurato e la mia famiglia è stata condannata, benché innocente; giudicate, dunque, se non posso simpatizzare con le vostre disgrazie!'.

«'Come posso ringraziarvi, mio eccellente e unico benefattore? Dalle vostre labbra ho udito per la prima volta una voce di bontà diretta a me. Ve ne sarò grato per sempre; e la vostra umanità di ora mi fa sentire sicuro di riuscire con quegli amici che sto per incontrare'.

«'Posso sapere il nome di questi amici e dove abitano?'.

«Mi fermai. Questo, pensai, è il momento decisivo, quello che mi avrebbe donato o sottratto la felicità per sempre. Lottai vanamente per trovare la fermezza necessaria a rispondere, ma lo sforzo mi stremò; mi abbandonai su una sedia e scoppiai in forti singhiozzi. In quell'istante sentii i passi dei miei più giovani protettori. Non c'era un attimo da perdere, strinsi la mano del vecchio e gridai: 'Questo è il momento! Salvami, proteggimi! Tu e la tua famiglia siete gli amici che cerco! Non mi abbandonare nell'ora del giudizio!'.

«'Gran Dio', esclamò il vecchio, 'chi siete?'.

«La porta del casolare si aprì; Felix, Agatha e Safie entrarono. Chi può descrivere il loro orrore e la loro costernazione al vedermi? Agatha svenne, e Safie, incapace di aiutare l'amica, si gettò fuori del casolare. Felix si slanciò in avanti e con forza sovrumana mi strappò da suo padre, al quale cingevo le ginocchia, e in un impeto d'ira mi colpì violentemente con un bastone. Avrei potuto farlo a pezzi, come il leone strazia l'antilope. Ma il mio cuore si fermò, come per una crudele malattia, e io mi trattenni. Vidi che era sul punto di colpirmi ancora e allora, sopraffatto dalla pena e dall'angoscia, abbandonai la casa e, nel generale tumulto, mi rifugiai, non visto, nel capanno».


CAPITOLO XVI




«Maledetto, maledetto creatore. Perché sono sopravvissuto? Perché in quel momento non spensi la scintilla di vita che mi avevi stoltamente accordato? Non so. La disperazione non mi aveva ancora ghermito. Provavo solo smania di vendetta e rabbia. Avrei distrutto con piacere la casa e i suoi abitanti e avrei goduto delle loro urla e dei loro tormenti.

«Quando venne la notte lasciai il mio rifugio e vagai per il bosco; ora, non più frenato dalla paura di essere scoperto, sfogai il mio dolore con urla spaventose. Ero come una belva, una fiera che avesse spezzato le catene e distruggevo tutto ciò in cui mi imbattevo correndo per il bosco veloce come un cervo. Oh! Che notte orribile trascorsi! Le fredde stelle lucevano quasi a deridermi: alberi ignudi agitavano le braccia sopra il mio capo; a tratti la voce squillante di qualche uccello rompeva la quiete profonda. Tutti, tranne me, riposavano felici: io, come l'arcidiavolo, avevo in cuore l'inferno e non trovavo compassione. Volevo sradicare gli alberi, creare caos e desolazione intorno e poi sedermi e godermi la vista di tanta rovina.

«Ma questo eccesso tumultuoso non poteva durare. Lo sforzo fisico mi stancò e mi abbandonai sull'erba umida nella dolorosa impotenza della disperazione. Non uno solo dei milioni degli esseri viventi sulla terra mi avrebbe compianto o portato aiuto. Perché avrei dovuto essere buono con i miei nemici? No. Da quel momento dichiarai guerra eterna alla razza umana e soprattutto a colui che mi aveva formato e destinato a quest'insopportabile infelicità.

«Sorse il sole. Udii voci umane e compresi che per quel giorno era impossibile tornare al mio rifugio. Mi nascosi nel folto del bosco, decidendo di trascorrere le ore successive a riflettere sulla mia situazione.

«La dolce luce del sole e l'aria pura del giorno mi ridiedero la calma: e quando ripensai a quanto era accaduto nel casolare non potei fare a meno di dirmi che ero stato troppo precipitoso nelle mie conclusioni. Certo, avevo agito imprudentemente. Era evidente che la mia conversazione aveva conquistato il padre alla mia causa ed ero stato un folle a esporre la mia persona all'orrore dei figli. Avrei dovuto lasciare che il vecchio De Lacey si familiarizzasse con me e poi, a poco a poco, quando fossero stati preparati al mio arrivo, rivelarmi al resto della famiglia. Ma non pensavo che i miei errori fossero così irreparabili; e dopo molte riflessioni decisi di tornare alla casa, cercare il vecchio e supplicarlo fino a riottenerne il favore.

«Questi pensieri mi calmarono e nel pomeriggio mi addormentai profondamente. Ma la febbre che avevo nel sangue non mi permise di fare sogni sereni. L'orribile scena del giorno prima continuava a ripresentarsi davanti ai miei occhi: le donne che fuggivano e Felix infuriato che mi strappava dalle ginocchia di suo padre. Mi risvegliai esausto; vedendo che era già notte uscii dal mio nascondiglio in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti.

«Quando la fame fu placata mi diressi verso il ben noto sentiero che portava alla casa. Tutto tranquillo. Mi infilai nella capanna. Rimasi in attesa, silenziosamente, dell'ora in cui la famiglia si alzava di solito. L'ora passò. Il sole era alto nel cielo, ma i miei vicini non apparvero. Tremavo violentemente sospettando qualche terribile sciagura. L'interno della casa era scuro, non si sentiva nessun rumore. Non so esprimere l'angoscia di quell'incertezza.

«Ed ecco passare due contadini. Si fermarono vicino alla casa e si misero, a parlare gesticolando vistosamente. Non compresi che cosa dicevano. Parlavano la lingua del posto, così diversa da quella dei miei protettori. Subito dopo, però, si avvicinò Felix con un altro uomo. Fui sorpreso perché sapevo che quella mattina non era uscito di casa. Attendevo con ansia di scoprire dalle sue parole il significato di quegli insoliti avvenimenti.

«'Vi rendete conto', gli disse il suo compagno, 'che sarete costretto a pagare l'affitto di tre mesi e a perdere i prodotti dell'orto? Non voglio approfittarmi della situazione e vi prego dunque di attendere qualche giorno e di riconsiderare la vostra decisione'.

«'È inutile', disse Felix. 'Non possiamo più abitare nella vostra casa. La vita di mio padre corre un gravissimo pericolo, a causa del tremendo fatto che vi ho narrato. Mia moglie e mia sorella non si riavranno più dalla paura. Vi prego: non parliamone più. Riprendetevi la vostra casa e lasciatemi fuggire al più presto di qui'.

«Mentre diceva queste cose Felix era scosso da un tremito. Lui e il suo compagno entrarono in casa dove rimasero pochi minuti; poi se ne andarono. Non vidi mai più nessuno della famiglia De Lacey.

«Rimasi nel mio buco per il resto della giornata, in uno stato di totale, attonita disperazione. I miei protettori erano partiti e avevano spezzato l'unico legame che mi univa al mondo. Per la prima volta fui scosso da sentimenti di odio e di vendetta, e non cercai di frenarli; anzi mi abbandonai al loro flusso e volsi la mente a immagini di morte e distruzione. Quando pensavo ai miei amici, alla voce dolce di De Lacey, agli occhi gentili di Agatha, alla bellezza straordinaria della giovane araba, questi pensieri svanivano e un fiotto di lacrime mi placava per poco. Ma quando ripensavo a come mi avevano disprezzato e abbandonato, l'ira si riaccendeva, un'ira funesta e, incapace di fare del male ad altri esseri umani, volgevo la mia furia contro le cose inanimate. Quando scese la notte raccolsi tutto il materiale infiammabile che potei trovare intorno alla casa e dopo aver distrutto l'orto attesi, reprimendo a stento l'impazienza, il tramonto della luna. Allora avrei agito.

«Con la notte si levò un vento furibondo che disperse in un baleno le nubi che indugiavano in cielo. Come una valanga inarrestabile il turbine si scatenava inducendo in me una specie di follia che ruppe tutti i freni della ragione e della riflessione. Accesi un ramo secco. Danzai furioso attorno alla casa tanto amata, con gli occhi fissi a occidente dove la luna toccava quasi l'orizzonte. Una parte del suo globo finalmente si nascose e io agitai il ramo ardente; quando tramontò diedi fuoco urlando alla paglia, agli sterpi e ai cespugli che avevo raccolto. Il vento soffiò sul fuoco e la casa fu divorata dalle fiamme che l'avvolsero con lingue forcute e divoranti.

«Appena fui sicuro che nessun intervento avrebbe potuto salvare anche una minima parte dell'abitazione, fuggii cercando scampo nei boschi.

«E ora, con tutto il mondo davanti, dove avrei diretto i miei passi? Decisi di allontanarmi dallo scenario delle mie sventure. Ma per me, odiato e disprezzato, ogni posto era orribile quanto un altro. Poi il ricordo di te mi traversò la mente. Avevo appreso dalle tue carte che eri mio padre, il mio creatore: a chi rivolgermi se non a colui che mi aveva dato la vita? La geografia non era mancata tra le lezioni che Felix aveva dato a Safie. Avevo imparato così le posizioni dei vari paesi della terra. Tu avevi nominato Ginevra, la tua città natale. Decisi di andarvi.

«Ma come avrei trovato la strada? Sapevo che dovevo viaggiare in direzione sud-ovest. Il sole era la mia unica guida. Non conoscevo i nomi delle città che avrei dovuto attraversare, né avrei potuto chiedere indicazioni ad alcun essere umano. Ma non mi scoraggiai. Solo da te potevo sperare aiuto, anche se non provavo che odio nei tuoi confronti. Creatore insensibile e senza cuore! Mi avevi dotato di emozioni, di sensibilità e poi mi avevi scagliato nel mondo, oggetto di scherno e d'orrore per l'umanità. Ma solo su di te potevo vantare dei diritti e ottenere pietà e riparazione per i torti subiti. E a te avevo deciso di domandare giustizia, quella giustizia che invano avevo cercato dagli altri esseri dotati di forma umana.

«Il mio viaggio fu lungo e fui costretto ad affrontare stenti e disagi. Era tardo autunno quando abbandonai la zona dove avevo vissuto così a lungo. Viaggiavo solo di notte, per non dover affrontare lo sguardo degli uomini. La natura sfioriva e il sole perdeva il suo calore; pioveva, nevicava, i grandi fiumi erano gelati, la terra dura, fredda e nuda non mi offriva riparo. Oh terra! Quante imprecazioni lanciai su chi era stato causa della mia esistenza! La mitezza del mio carattere era scomparsa e tutto dentro di me era divenuto amaro fiele. Più mi avvicinavo alla tua abitazione, più sentivo la sete di vendetta divorarmi l'anima. La neve cadeva, le acque erano ghiacciate, ma io non trovavo mai riposo. Ogni tanto, per caso, raccoglievo qualche indicazione lungo la strada e avevo con me una carta geografica; ma spesso mi allontanavo dalla giusta direzione. Non avevo pace. Ero esasperato. Non c'era occasione che non alimentasse la mia rabbia e il mio dolore. Ma quando arrivai ai confini della Svizzera, quando il sole aveva riacquistato vigore e la terra energia per rinverdire, accadde qualcosa che rinfocolò violentemente la mia amarezza e la mia ira.

«In genere dormivo durante il giorno e viaggiavo di notte al riparo da sguardi umani. Una mattina però vedendo che la strada attraversava un fitto bosco corsi il rischio di proseguire anche dopo il sorgere del sole. La giornata, una delle prime di quella primavera, mi rianimò. C'era una bella luce, l'aria era profumata. Sentivo rinascere emozioni dolci dentro di me, emozioni piacevoli che sembravano morte da tempo. Sorpreso, mi abbandonai alla novità di queste sensazioni. Dimenticai la solitudine, la mia figura deforme e osai essere felice. Dolci lacrime mi rigarono le guance e con occhi umidi ringraziai il sole benedetto, che mi dava tanta gioia.

«Continuai a seguire, i sentieri del bosco, fino a che non raggiunsi i confini, limitati da un corso d'acqua veloce e profondo su cui s'incurvavano i rami di molti alberi ingemmati dalla recente primavera. Mi fermai non sapendo che sentiero seguire, quando udii un suono di voci che mi spinse a nascondermi dietro un cipresso. Mi ero appena nascosto, ed ecco una bambina arrivò correndo e ridendo, come se, per gioco, fuggisse da qualcuno, verso il mio nascondiglio. Continuò a correre lungo le sponde ripide del fiume, quando a un tratto scivolò e cadde nella corrente impetuosa. Balzai fuori e nuotando con grande fatica controcorrente la raggiunsi e la riportai a riva. Era svenuta e cercavo di rianimarla con ogni mezzo, quando fui interrotto dall'arrivo di un contadino, probabilmente la persona che inseguiva la bambina per gioco. Quando mi vide mi si scagliò contro e mi strappò la bambina dalle braccia, correndo immediatamente nel folto del bosco. Lo seguii veloce, non so neppure perché: ma quando mi vide, mi puntò contro il fucile che aveva in spalla e sparò. Caddi e il mio feritore scomparve.

«Era questo il ringraziamento per la mia bontà! Avevo salvato una vita umana dalla morte e come ricompensa mi torcevo dal dolore per una ferita che mi aveva squarciato la carne fino all'osso. I sentimenti di bontà e di dolcezza che avevo provato fino a quel momento svanirono per far posto a un'ira infernale e a un digrignare di denti rabbioso. Infiammato dall'ira, giurai odio e vendetta eterna contro l'umanità. Poi il dolore ebbe ragione di me. Il polso s'indebolì. Svenni.

«Per alcune settimane condussi una vita miserevole nei boschi, cercando di curare la ferita che avevo ricevuto. Il proiettile era entrato nella spalla e non sapevo se vi si era conficcato o l'aveva trapassata. In ogni caso non avevo modo di estrarlo. Le mie sofferenze erano acuite dall'opprimente sensazione dell'ingiustizia e dell'ingratitudine patite. Ogni giorno giuravo vendetta, una profonda, mortale vendetta che, sola, poteva lavare l'onta e il dolore subiti.

«Dopo qualche settimana la ferita si rimarginò. Le fatiche che dovevo sopportare non erano più alleviate dal sole rilucente e dalle dolci brezze di primavera. Ogni gioia sembrava una derisione, un insulto al mio animo desolato perché mi faceva sentire ancor più dolorosamente che io non ero fatto per godere alcun piacere.

«Ma ormai le mie fatiche volgevano alla fine. Dopo un paio di mesi raggiunsi Ginevra.

«Era sera quando arrivai e mi nascosi nei campi che circondano la città per riflettere su come stabilire un contatto con te. Ero tormentato dalla stanchezza e dalla fame, troppo infelice per godermi la brezza della sera o la vista del sole che calava dietro le stupende montagne del Giura.

«A questo punto un sonno leggero mi alleviò la pena di tali riflessioni, ma fui disturbato dall'arrivo di un bel bambino che correva verso il mio nascondiglio con la spensierata allegria dell'infanzia. Non appena lo vidi pensai che quella piccola creatura non avesse pregiudizi e che avesse vissuto troppo poco per aver appreso l'orrore per la deformità. Se avessi potuto prenderlo ed educarlo come amico, come compagno, non sarei stato solo su questa terra popolosa.

«Spinto da questo impulso afferrai il bambino che passava e lo tenni stretto. Appena mi vide mandò uno strillo acuto e si mise le mani davanti agli occhi. Gli tolsi le mani dal viso e gli dissi: 'Bambino che fai? Non voglio farti del male! Ascoltami!'.

«Si divincolò con forza gridando: 'Lasciami! Mostro! Miserabile. Mi vuoi mangiare! Mi vuoi fare a pezzi! Sei un orco! Lasciami o lo dico a mio padre!'.

«'Bambino, non vedrai più tuo padre. Vieni con me!'.

«'Mostro orrendo! Lasciami! Papà è un magistrato. È il signor Frankenstein! Ti punirà. Non osare trattenermi!'.

«'Frankenstein! Appartieni al mio nemico dunque! A colui contro cui ho giurato eterna vendetta. Sarai la mia prima vittima'.

«Il bambino continuava a dibattersi e m'insultava. Ogni insulto accresceva la mia disperazione. Gli afferrai la gola per farlo tacere. Un attimo dopo giaceva ai miei piedi.

«Fissai la vittima e il cuore mi si gonfiò di esultanza. Diabolico trionfo! Battendo le mani esclamai: 'Anch'io posso seminare desolazione! Il mio nemico non è invincibile. Questa morte lo farà disperare. Mille altri dolori lo tormenteranno fino a distruggerlo'.

«Mentre osservavo il corpo del bambino vidi luccicargli qualcosa sul petto. Lo presi. Era il ritratto di una donna bellissima. Nonostante la mia furia, mi placò e mi affascinò. Per alcuni minuti restai in contemplazione di quegli occhi scuri orlati da lunghe ciglia e di quelle labbra deliziose. Ma subito l'ira ruggì nel mio cuore. Ricordai che ero escluso per sempre dalle gioie, che provengono dalle belle creature; e che la donna di cui fissavo l'immagine, posando lo sguardo sul mio, avrebbe mutato in orrore e disgusto quell'espressione di soave benevolenza.

«Ti stupisce che mi travolgessero questi pensieri? Io mi stupisco solo di essermi limitato, in quell'attimo d'ira, a dare sfogo alle mie sensazioni con grida d'angoscia invece di gettarmi furioso tra gli uomini e morire nella battaglia per distruggerli.

«Sopraffatto da questi sentimenti, lasciai il luogo del delitto e, cercando un rifugio più isolato, entrai in un fienile che mi pareva vuoto. Una donna dormiva nella paglia: era giovane e non era bella come quella del ritratto che stringevo in pugno, ma era comunque graziosa, piena di salute e di vita. Ecco, pensai, uno di quegli esseri i cui sorrisi felici illumineranno gli altri, non me. E allora mi piegai su di lei e le sussurai: 'Svegliati, bella fanciulla, il tuo innamorato è vicino. Chi non darebbe la vita pur di avere un tuo sguardo languido? Svegliati mia amata!'.

«La bella addormentata si mosse: un brivido di terrore mi attraversò. Si sarebbe svegliata davvero e, vedendomi, mi avrebbe maledetto e denunciato? Certo, così avrebbe fatto, se i suoi occhi si fossero aperti e mi avessero visto. Il pensiero mi fece impazzire e risvegliò il demone sopito nel mio petto. Lei avrebbe sofferto, non io: il delitto che io avevo commesso perché ero stato privato per sempre delle gioie dell'esistenza, lo avrebbe pagato lei. Lei! La causa lontana, ma vera! Lei sarebbe stata punita! Avevo imparato a fare il male grazie alle lezioni di Felix e alle leggi sanguinarie dell'uomo. Mi chinai su di lei e nascosi la miniatura tra le pieghe della sua veste. Si mosse di nuovo e io fuggii.

«Per alcuni giorni mi aggirai sul luogo che era stato lo scenario di tali vicende. A volte sentivo una smania di vederti, a volte uno scoramento che mi faceva sognare di abbandonare il mondo e le sue miserie. Alla fine, errando, giunsi a queste montagne e le esplorai in ogni grotta, divorato da una passione bruciante che tu solo puoi soddisfare. Noi non possiamo separarci finché non acconsentirai alla mia richiesta. Sono solo e infelice. Nessuna creatura umana vuole avere niente a che fare con me. Ma un'altra creatura, deforme e orribile come me, non mi si negherebbe. La mia compagna deve essere della mia stessa specie e deve avere i miei stessi difetti. Questo essere tu me lo devi creare».


CAPITOLO XVII




L'essere tacque. Mi fissava aspettando una risposta. Ma io ero sconvolto, perplesso, incapace di riordinare le idee abbastanza da capire tutte le implicazioni della sua proposta. Egli continuò: «Devi crearmi una femmina con cui io possa vivere e scambiare gli affetti di cui ho bisogno per vivere. Tu solo puoi farlo. Te lo domando come un diritto che non mi puoi negare».

L'ultima parte del suo racconto aveva riacceso in me quell'ira che si era placata nell'udire l'evocazione della vita pacifica nel casolare. Ma quando pronunciò le ultime parole non potei più reprimere la rabbia che mi divorava il petto.

«Te lo rifiuto», risposi, «e nessuna tortura riuscirà mai a estorcermi un consenso. Puoi fare di me il più miserabile degli uomini, ma non mi renderai ignobile ai miei stessi occhi. Devo forse creare un altro essere abietto come te, la cui malvagità unita alla tua dissemini di sciagure la terra? Vattene! Ti ho dato la mia risposta. Puoi torturarmi, ma dirò sempre: no!».

«Tu sbagli», rispose quel demonio, «e invece di minacciarti preferisco ragionare con te. Io sono crudele perché sono infelice. Non sono forse sfuggito e odiato dall'intera umanità? Tu che sei il mio creatore mi faresti a pezzi con voluttà; riflettici e dimmi perché dovrei avere pietà per quegli esseri che non ne hanno per me. Tu non lo definiresti neppure un delitto se riuscissi a farmi cadere in uno di questi precipizi, distruggendo un corpo che hai plasmato con le tue stesse mani. Dovrei avere rispetto per l'uomo che mi condanna ingiustamente? Che viva con me in un reciproco affetto e invece di violenza gli offrirei aiuto, piangendo di gratitudine se lo accettasse. Ma ciò è impossibile. I sensi umani sono barriere insormontabili alla nostra concordia. Per parte mia non mi sottometterò alla vergognosa condizione di schiavo. Mi vendicherò dei torti subiti: se non posso suscitare amore, ispirerò terrore. Soprattutto a te, mio nemico tra i nemici, che sei stato il mio creatore, giuro un odio implacabile. Stai in guardia: mi adoprerò per la tua distruzione e smetterò solo quando avrò devastato il tuo cuore. Maledirai l'ora in cui sei nato!».

Un'ira funesta lo scuoteva. Mentre diceva queste parole il suo viso si torceva in espressioni così orribili che nessuno sguardo umano ne avrebbe sopportato la vista. Ma presto si calmò e riprese: «Intendevo ragionare. Questo scoppio di passione è a mio svantaggio perché tu non ti rendi conto di esserne la causa. Se un qualsiasi essere provasse per me sentimenti di benevolenza, li ricambierei cento e cento volte: per amore di quell'unica creatura mi rappacificherei con tutta la specie. Ma ecco, sto indulgendo a sciocchi sogni di felicità che non si realizzeranno mai. Quello che ti domando è ragionevole e giusto: una creatura dell'altro sesso, ripugnante come sono io. La soddisfazione è piccola ma è tutto ciò che posso ottenere e mi accontenterò. Lo so, saremo dei mostri, estranei al mondo; ma proprio per questo saremo ancora più uniti tra noi. La nostra sarà una vita triste, ma innocua e priva della sofferenza che io ora sento. Oh! Mio creatore, fammi felice; fai che provi gratitudine per te almeno per questo beneficio! Dimostrami che posso suscitare simpatia in un essere vivente. Non dirmi di no!».

Ero commosso. Rabbrividii al pensiero delle possibili conseguenze del mio consenso. Ma sentivo che c'era del giusto nelle sue parole. La sua storia e i sentimenti che adesso esprimeva mi provavano che era una creatura sensibile. Non gli dovevo forse come suo creatore tutta la felicità che era in mio potere dargli? Egli si avvide del mio mutamento e continuò: «Se acconsenti, né tu né alcun essere umano mi vedrà più: andrò nei territori selvaggi dell'America del Sud. Il mio cibo non è quello dell'uomo. Non ucciderò agnelli e capretti per saziarmi; ghiande e bacche mi daranno sufficiente nutrimento. La mia compagna avrà la mia stessa natura e si accontenterà delle stesse cose. Ci faremo letti di foglie secche; il sole splenderà su di noi come sugli uomini e farà maturare il nostro cibo. L'immagine che ti mostro è pacifica e umana e devi renderti conto che, se la rifiuti, sarà solo per capriccio o per crudeltà. Per quanto tu sia stato spietato verso di me, ora leggo compassione nei tuoi occhi; lasciami cogliere l'attimo favorevole per convincerti a promettere ciò che ardentemente desidero».

«Ti impegni», replicai, «ad abbandonare la società per abitare in regioni selvagge dove solo le fiere ti saranno compagne? Come potrai tu, che ti tormenti per avere affetto e comprensione umani, sopportare questo esilio? Ritornerai e cercherai ancora il loro favore ma incontrerai lo stesso rifiuto. Le tue passioni malvage si risveglieranno e allora avrai anche una compagna per aiutarti nella tua opera distruttrice. Non deve accadere. Smetti di insistere perché non posso acconsentire».

«Come sono incostanti i tuoi sentimenti. Solo un momento fa eri commosso dalla mia richiesta; perché ora ti irrigidisci di nuovo alle mie rimostranze? Ti giuro per la terra che calpesto che, insieme alla compagna che mi darai, rinuncerò alla vicinanza degli uomini e abiterò i luoghi più selvaggi. Le mie passioni diaboliche svaniranno perché avrò comprensione e affetto. La mia vita scorrerà tranquilla e nel momento del trapasso non dovrò maledire il mio creatore».

Le sue parole avevano uno strano effetto su di me. Provavo compassione per lui e a volte perfino il desiderio di consolarlo; ma quando lo guardavo, quando vedevo quella massa ripugnante che si muoveva e parlava, il mio cuore si rivoltava e provavo solo ribrezzo e disprezzo. Cercai di soffocare questi sentimenti: pensai che non avevo il diritto di negargli la modesta felicità che era in mio potere accordargli, anche se non avevo simpatia per lui.

«Giuri», dissi, «di non fare del male; ma non hai già dimostrato una tale dose di cattiveria da farmi ragionevolmente diffidare di te? Non potrebbe essere anche questa una finzione che aumenterà il tuo trionfo, accordandoti maggiori possibilità di vendetta?».

«Che vuoi dire? Non si scherza con me! Voglio una risposta. Se non avrò affetti e legami, odio e male saranno la mia vita. L'affetto di un altro essere annullerà invece la causa dei miei delitti e diverrò qualcosa di cui tutti ignoreranno l'esistenza. Le mie colpe sono figlie di questa forzata solitudine che odio; le mie virtù nasceranno inevitabilmente quando vivrò in comunione con un mio simile. Sentirò ciò che sente ogni essere sensibile e sarò un anello della catena dell'esistenza e della vita da cui ora sono escluso».

Feci una lunga pausa per riflettere su ciò che aveva narrato e sui vari argomenti che aveva usato. Pensai alla promessa di virtù di cui aveva dato prova all'inizio dell'esistenza e al successivo inaridirsi di ogni buon sentimento a causa del disgusto e del disprezzo che i suoi protettori gli avevano dimostrato. Nei miei pensieri non dimenticavo la sua forza e le sue minacce: una creatura che poteva vivere in caverne di ghiaccio e nascondersi, se inseguita, nelle grotte o nei precipizi inaccessibili era un essere che possedeva facoltà contro le quali era inutile lottare. Dopo lunghe riflessioni conclusi che un senso di elementare giustizia, verso di lui e verso il mio prossimo, mi obbligava ad acconsentire alla sua richiesta. Mi volsi a lui e dissi: «Acconsento alla tua richiesta a condizione che mi giuri solennemente di abbandonare per sempre l'Europa e ogni altra regione abitata dagli uomini non appena ti darò una femmina che ti accompagni nel tuo esilio».

«Lo giuro!», gridò. «Giuro per il sole e per la volta celeste e per il fuoco d'amore che mi arde in petto che se mi concedi ciò che domando non mi rivedrai mai più finché tutto ciò esisterà. Torna a casa e comincia l'opera tua: seguirò il suo progresso con inesprimibile ansia. E non aver paura: quando sarà pronta riapparirò!».

Così dicendo mi lasciò subito, temendo forse che mutassi parere. Scese dalla montagna più rapido di un'aquila in volo. Lo persi di vista presto, tra le ondulazioni del mare di ghiaccio.

La sua storia era durata l'intera giornata e quando se ne andò il sole era basso sull'orizzonte. Sapevo che avrei dovuto affrettarmi a scendere a valle: presto le tenebre mi avrebbero avvolto. Ma il mio cuore era greve e i miei passi tardi e lenti. Mi riusciva difficile scendere per i tortuosi sentieri di montagna e stare attento a poggiare il piede in modo sicuro mentre ero ancora in preda alle emozioni che gli eventi del giorno avevano provocato. Quando arrivai a metà strada, al luogo dove in genere ci si ferma a riposare, era notte fonda. Mi sedetti accanto alla fontana. Le stelle brillavano a intervalli secondo il cammino delle nubi. Abeti scuri si ergevano davanti a me. Qua e là a terra giaceva un albero spezzato. Era un paesaggio solenne, straordinario, che suscitava strani pensieri dentro di me. Piansi. Torcendomi le mani angosciato, esclamai: «Oh! stelle, nubi e venti, vi prendete gioco di me. Se avete davvero pietà distruggete ricordi ed emozioni. Mutatemi in un nulla. Altrimenti fuggite e abbandonatemi nell'oscurità».

Pazzi, disperati pensieri! Ma non so dirvi come mi ferisse la luce tremula delle stelle, come ogni respiro del vento mi mettesse in guardia, come se fosse stato un divorante scirocco.

L'alba spuntò prima che giungessi al villaggio di Chamonix; anziché riposare ritornai immediatamente a Ginevra. Neppure dentro di me riuscivo a esprimere le mie sensazioni. Mi pesavano addosso come una montagna e la loro oppressione soffocava anche la mia angoscia. Così tornai a casa ed entrando mi presentai alla mia famiglia. Il mio aspetto selvaggio e tormentato li allarmò; ma non risposi alle loro domande, quasi non parlai. Mi sentivo posto al bando, come se non avessi diritto alla loro comprensione e non potessi mai più godere della loro compagnia. Ma anche così li amavo fino all'adorazione. E, per salvarli, decisi di dedicarmi al mio ingrato compito. La prospettiva di questo impegno faceva sì che ogni altro avvenimento della mia esistenza mi passasse davanti agli occhi come un sogno. L'unica realtà vera era quel pensiero dominante.


CAPITOLO XVIII




Giorni e settimane erano trascorsi dal mio ritorno a Ginevra. Non riuscivo a trovare in me il coraggio di ricominciare il lavoro. Temevo la vendetta di quel demonio, se non l'avessi accontentato, ma ero incapace di superare il disgusto per l'impegno che mi era stato imposto. Sapevo di non poter forgiare una femmina senza dedicare mesi e mesi a studi laboriosi e ricerche. Avevo sentito dire che un filosofo inglese aveva fatto scoperte fondamentali per il mio lavoro: a volte pensavo di chiedere a mio padre il consenso per andare in Inghilterra a questo scopo. Poi prendevo una scusa qualsiasi pur di rimandare quell'impresa e mi tiravo indietro, allontanando sempre più quel compito, la cui urgenza mi sembrava sempre meno assoluta. In effetti in me c'era stato un mutamento: la mia salute, che prima era andata declinando, si era ristabilita; il mio umore, quando non ero tormentato dal ricordo della disgraziata promessa, migliorava parimenti. Mio padre osservava con piacere questi cambiamenti e cominciò a pensare al modo migliore per sradicare ogni residuo della mia malinconia, dalla quale ogni tanto venivo ripreso come un nuvolone nero che oscurasse la luce del sole nascente. In quei momenti mi rifugiavo nella solitudine totale: passavo giornate da solo, sul lago, in una barchetta, a osservare le nuvole e ad ascoltare, silenzioso e irrequieto, il rumore dell'acqua. Ma l'aria fresca e il sole luminoso riuscivano quasi sempre a ridarmi un po' di calma e tornando a casa ero in grado di ricambiare il saluto dei miei cari con un sorriso più disteso e il cuore più sollevato.

Fu al ritorno da una di queste scorribande che mio padre mi chiamò in disparte e disse: «Noto con piacere, mio caro ragazzo, che hai ripreso le tue occupazioni di un tempo e sembri quasi tornato alla normalità. Tuttavia non sei ancora felice e continui a evitare la nostra compagnia. Per un po' ho cercato di indovinare quale potesse esserne la causa, ma ieri ho avuto un'intuizione. Se è giusta dimmelo, ti prego! Sarebbe inutile nasconderci e recherebbe infelicità a tutti e tre!».

Tremai violentemente a quest'esordio e mio padre continuò: «Ti confesso, ragazzo mio, che ho sempre sospirato perché tu ed Elizabeth convolaste a giuste nozze. Questo sarebbe il degno coronamento della nostra felicità domestica e il bastone della mia vecchiaia. Sembrate fatti l'uno per l'altro; si vedeva sin da quando eravate bambini; avete studiato assieme e vi siete sempre intesi. Ma è così cieco il giudizio dell'uomo che proprio quello che pensavo fosse più utile ai miei piani può avere rovinato tutto. Forse tu ora la vedi come una sorella e non puoi desiderare che divenga tua moglie? Magari ami un'altra e ti consideri impegnato con Elizabeth. È questo che ti rende infelice?».

«Mio caro padre rassicuratevi. Amo devotamente e sinceramente mia cugina. Non ho mai conosciuto donna capace di suscitare il mio affetto e la mia ammirazione come la mia Elizabeth. Ogni mia speranza e piano per il futuro riposano sull'attesa di una nostra unione».

«Ciò che mi dici sulla tua devozione e sui tuoi sentimenti, caro Victor, mi dà una soddisfazione che non provavo da tempo! Anche se gli avvenimenti recenti hanno gettato un'ombra su di noi potremmo ancora essere felici. Ma vorrei aiutarti a scacciare queste tenebre che sembrano essersi impadronite della tua mente. Hai qualche obiezione a celebrare subito le nozze? Siamo stati sfortunati e gli ultimi avvenimenti ci hanno privato della necessaria serenità che la mia vecchiaia e le mie infermità richiederebbero. Sei ancora giovane ma, dal momento che possiedi una cospicua fortuna, non credo che sposarti presto ostacolerebbe i tuoi progetti di conseguire onori e di servire l'umanità. Però sia chiaro che non voglio importi la felicità: un rinvio da parte tua non mi arrecherebbe un serio dolore. Prendi le mie parole con serenità e rispondimi, ti prego, con sincerità e fiducia».

Avevo ascoltato mio padre in silenzio e per qualche istante fui incapace di replicare. Una folla di pensieri mi si accavallava nella mente. Cercavo vanamente di arrivare a qualche conclusione. Ahimè! L'idea di un'unione immediata con la mia Elizabeth mi riempiva di orrore e di costernazione. Ero legato da un giuramento solenne a cui non avevo ancora adempiuto e che non osavo rompere. Se l'avessi fatto, quali e quante sventure si sarebbero abbatture sulla mia affezionata famiglia! Potevo celebrare una festa così solenne con questo peso mortale appeso al collo che mi piegava fino a terra? Dovevo portare a termine il mio impegno e lasciar partire il mostro con la sua compagna, prima di concedermi la gioia di un'unione da cui mi attendevo la pace.

Rammentai anche la necessità inevitabile di un viaggio in Inghilterra o di una lunga corrispondenza con gli studiosi di quel paese, le cui conoscenze e le cui scoperte erano essenziali alla riuscita della mia impresa. Questa seconda alternativa richiedeva un tempo eccessivo e non sarebbe stata molto proficua; e poi sentivo una grande repulsione all'idea di iniziare quel lavoro orrendo in casa di mio padre, a contatto con tutti quelli che amavo. Sapevo che si sarebbero potuti verificare mille paurosi incidenti, il più insignificante dei quali avrebbe potuto scatenare i sospetti e svelare una storia da far rabbrividire d'orrore tutti quelli che mi conoscevano. E mi rendevo conto che spesso avrei perso completamente il controllo di me stesso e anche la minima capacità di nascondere le sensazioni dolorose che mi avrebbero straziato durante lo svolgimento della mia innaturale occupazione. Io dovevo star lontano da tutti quelli che amavo finché fosse durato quel lavoro. Una volta cominciato, avrei finito rapidamente e allora, tranquillo e sereno, sarei rientrato in seno alla famiglia. Adempiuta la mia promessa, il mostro sarebbe scomparso per sempre. Oppure (così mi piaceva fantasticare) sarebbe potuto accadere nel frattempo qualche incidente che, distruggendolo, avrebbe posto fine per sempre alla mia schiavitù.

Questi sentimenti mi dettarono la risposta da dare a mio padre. Espressi l'intenzione di recarmi in Inghilterra, ma nascosi la vera ragione della richiesta e mascherai i miei desideri in modo da non suscitare sospetti ma con tale insistenza e con tanta convinzione che costrinsi facilmente mio padre ad acconsentire. Dopo un così lungo periodo di profonda malinconia, simile alla follia, fu felice di vedere che ancora mi entusiasmavo all'idea di questo viaggio. Sperava che il cambiamento di ambiente e le distrazioni mi avrebbero fatto tornare del tutto in me prima del ritorno.

La durata del viaggio fu lasciata alla mia discrezione: qualche mese, un anno al massimo, fu il periodo di cui si parlò. L'unica, affettuosa preoccupazione di mio padre fu che avessi un compagno di viaggio. Senza dirmi niente, d'accordo con Elizabeth, aveva preso accordi con Clerval perché mi raggiungesse a Strasburgo. Questo interferiva in parte con la solitudine che mi era necessaria per terminare il mio compito, ma all'inizio del viaggio la presenza del mio amico non avrebbe potuto essermi d'ostacolo. Mi rallegrava la prospettiva di risparmiarmi molte ore di solitarie e logoranti riflessioni. Pensai addirittura che Henry avrebbe potuto costituire una barriera tra me e il mio nemico. Se fossi stato solo non mi avrebbe forse costretto a subire la sua digustosa presenza per ricordarmi l'impegno assunto o per controllarne lo sviluppo?

Partivo dunque per l'Inghilterra con la tacita intesa di sposarmi con Elizabeth appena fossi tornato. L'età avanzata di mio padre lo rendeva poco incline a ulteriori rinvii. Quanto a me, una sola cosa mi consolava dell'odiosa fatica e delle sofferenze inaudite che avrei subito: l'idea che un giorno, liberato da questa opprimente schiavitù, avrei fatto mia Elizabeth e avrei dimenticato il passato.

Feci dunque i preparativi per il viaggio; tuttavia mi assillava un pensiero che mi gettava nell'agitazione e nella paura. Durante la mia assenza avrei dovuto lasciare i miei cari senza protezione contro un nemico di cui ignoravano l'esistenza, proprio ora che la mia partenza avrebbe potuto suscitare la sua ira. D'altra parte aveva promesso di seguirmi ovunque: sarebbe venuto anche in Inghilterra? Questo pensiero, terribile in sé, nello stesso tempo mi tranquillizzava, perché assicurava la salvezza dei miei cari. Ero spaventato all'idea che accadesse il contrario, ma durante il periodo in cui fui schiavo della mia creatura mi lasciavo guidare dall'impulso del momento. Ora il mio istinto mi diceva che quel demonio mi avrebbe seguito e che avrebbe liberato la mia famiglia dal pericolo delle sue macchinazioni.

Era già la fine di settembre quando lasciai nuovamente il mio paese natale. Io avevo voluto il viaggio ed Elizabeth l'aveva accettato, ma ora era inquieta all'idea della mia infelicità lontano da lei. Erano state le sue premure a procurarmi Clerval come compagno di viaggio. Ma un uomo è cieco ai mille piccoli particolari che suscitano le cure attente di una donna. Avrebbe voluto implorarmi di tornare presto, ma mille emozioni contrastanti la costrinsero al silenzio. Ella mi rivolse un addio pieno di lacrime, ma senza parole.

Mi gettai nella vettura che mi portava via, senza quasi sapere dove andavo, indifferente a quello che mi circondava. L'unica cosa che mi ero preoccupato di fare era dare l'ordine di caricare i miei strumenti chimici col resto del bagaglio. Passai davanti a scenari maestosi, rannuvolato, con gli occhi fissi nel vuoto, senza vedere. Riuscivo solo a pensare allo scopo del mio viaggio e al lavoro che mi avrebbe tenuto occupato per tutto il tempo.

Dopo alcuni giorni trascorsi in un'indolenza irrequieta, durante i quali percorsi molte leghe, arrivai a Strasburgo dove attesi per due giorni Clerval. Arrivò. Ahimè! Che differenza tra noi due! Lui era pieno di gioia di fronte alla bellezza dei tramonti e più felice ancora davanti all'alba di un nuovo giorno, eccitato da ogni mutamento. Attirava la mia attenzione sui colori cangianti del paesaggio e della luce del cielo. «Questo è vivere», esclamava. «Ora sì che mi godo la vita! Ma tu, caro Frankenstein, perché sei così triste e depresso?». Io ero pieno di pensieri neri e non mi avvedevo né dell'estinguersi della stella della sera, né dello scintillio dorato dell'alba sul Reno. E voi, amico mio, sentireste più piacere a leggere i diari di Clerval, che osservava ogni paesaggio con occhi pieni di sentimento e di gioia, che ad ascoltare le mie riflessioni. Io, povero disgraziato, perseguitato da una maledizione che mi aveva sbarrato la porta della felicità.

Avevamo stabilito di scendere il Reno in battello da Strasburgo fino a Rotterdam e da lì prendere una nave per Londra. Durante il viaggio sfiorammo molte isole coperte di salici e vedemmo città meravigliose. Ci arrestammo un giorno a Mannheim e cinque giorni dopo la nostra partenza da Strasburgo giungemmo a Magonza. Oltre questa città le rive del Reno sono molto più pittoresche. Il fiume scende rapido e tortuoso tra splendide colline, basse ma scoscese. Vedemmo rovine di antichi castelli svettare sull'orlo di burroni circondati da boschi scuri e inaccessibili. Questo tratto del Reno presenta davvero un paesaggio singolare. Ora si vedono aspre colline, castelli in rovina che sovrastano orridi precipizi e il Reno scorre tumultuoso ai loro piedi; poi all'improvviso, superato un promontorio, la scena si anima di città popolose e di floridi vigneti che digradano in verdi pendii verso il fiume serpeggiante.

Viaggiammo nel periodo della vendemmia e mentre scivolavamo lungo la corrente, sentivamo il canto dei contadini. Perfino io, così depresso e turbato da opprimenti riflessioni, provavo piacere. Mi sdraiavo sul fondo del battello e fissando il cielo limpido e azzurro mi sembrava di assaporare una pace alla quale ero estraneo ormai da tempo. Se queste erano le mie sensazioni chi può descrivere quelle di Henry? Gli sembrava di essere stato portato nel paese delle fate e godeva di una felicità raramente accordata ai mortali. «Ho veduto», diceva, «i più bei panorami del mio paese: ho visitato il lago di Lucerna e di Uri, dove le montagne candide di neve scendono verso l'acqua, con un riflesso cupo e oscuro e impenetrabile alla vista, che renderebbe l'atmosfera triste se non ci fossero isolotti verdissimi che rallegrano la vista con il loro gaio colore. Ho visto quel lago agitato da un temporale, col vento che sollevava colonne d'acqua nell'aria e dava l'impressione di una tromba marina sull'oceano. Le onde si infrangevano furiose ai piedi della montagna dove il prete e la sua amante furono travolti da una valanga e dove si dice che si sentano ancora le loro voci straziate quando il vento notturno si placa. Ho visto le montagne del Vallese e del Pays de Vaud; ma questo paesaggio, Victor, mi commuove più di tutte quelle meraviglie. Le montagne della Svizzera sono più singolari e maestose, ma le sponde di questo fiume divino hanno un fascino che per me non ha uguale. Guarda il castello sull'orlo di quel precipizio, e l'altro su quell'isola, quasi nascosto dalle foglie di quei magnifici alberi, e quel gruppo di contadini di ritorno dalla vigna, e quel villaggio appena visibile nella gola della montagna! Oh! Davvero lo spirito che abita e protegge questo luogo ha un'anima più in armonia con quella dell'uomo di quanto non accada a quegli spiriti che costruiscono i ghiacciai o si ritirano sulle cime inviolate delle montagne della nostra terra!».

Clerval! Amatissimo amico! Anche ora, ricordando le tue parole, indugiando sulle lodi che tanto meriti, provo gioia. Era un uomo formato dalla «poesia stessa della natura». La sua fantasia sfrenata ed entusiastica era temperata dalla sensibilità del suo cuore, la sua anima traboccava di amori ardenti e la sua amicizia aveva tutta quella carica di devozione e di bellezza che, secondo le persone di mondo, esiste solo nell'immaginazione. Ma neppure la simpatia per gli esseri umani bastava a saziare la sua anima insaziabile. Gli scenari della natura che gli altri ammiravano, lui li amava ardentemente.


La cascata gli risuonava

ossessiva come una passione; l'alta roccia,

la montagna, il bosco profondo e cupo,

forme e colori erano solo un desiderio,

un sentimento, un amore per lui

che non cercava fascino remoto,

immaginato o qualunque interesse

non guadagnato dallo sguardo attento


E dov'è ora? Quest'essere nobile e bello è perduto per sempre? La sua mente così colma di idee, di splendide immagini fantastiche che creavano un mondo, la cui esistenza dipendeva dalla vita del suo creatore questa mente si è spenta? Esiste ora solo nella memoria? No! Non è così! La tua forma divinamente forgiata, radiosa di splendore, è consunta: ma il tuo spirito visita ancora l'amico infelice e lo conforta.

Scusate questo sfogo doloroso: le mie inette parole sono un ben miserabile tributo ai meriti insuperabili di Henry. Ma mi calmano il cuore che, a questi ricordi, trabocca di pena. Proseguirò il racconto.

Dopo Colonia scendemmo alle pianure dell'Olanda e decidemmo di prendere una diligenza per il resto del viaggio: il vento era sfavorevole e la corrente del fiume troppo debole per aiutare.

Il nostro viaggio aveva perduto l'interesse che nasce dalla visione di bei panorami; arrivammo a Rotterdam in pochi giorni e da qui ci imbarcammo alla volta dell'Inghilterra. Era una chiara mattinata, verso la fine di dicembre, quando vidi per la prima volta le bianche scogliere di Dover. Le rive del Tamigi ci offrirono un nuovo scenario: erano piatte, ma fertili; e quasi ogni cittadina recava il segno di eventi storici. Vedemmo Tilbury Fort e ricordammo l'Armada spagnola; e poi Gravesend, Woolwich e Greenwich, luoghi celebri anche nel mio paese.

Alla fine vedemmo le guglie di Londra svettare nel cielo con la cupola di San Paolo che sovrastava tutto, e la Torre, così famosa nella storia inglese.


CAPITOLO XIX




A Londra ci fermammo. Avevamo deciso di passare diversi mesi in questa splendida, celebre città. Clerval aspirava alla compagnia di uomini di genio e di talento, che allora fiorivano laggiù; io, invece, pensavo solo al modo di avere le informazioni necessarie per mantenere la mia promessa. Con le lettere di presentazione in mio possesso mi recai immediatamente dai più illustri studiosi di filosofia naturale.

Se avessi compiuto questo viaggio tanti anni prima, al tempo spensierato dei miei studi, ne avrei tratto un gran piacere. Ma ora, ora che un destino fatale si era accanito contro la mia esistenza, ora che ero costretto a visitare tante persone solo per strappare loro le informazioni che mi servivano, e per le quali nutrivo allo stesso tempo desiderio e repulsione, ora la compagnia mi deprimeva; quando ero solo potevo saziare il mio cuore con la vista del cielo e della terra. Il suono della voce di Henry mi calmava. Mi illudevo di essere in pace, la pace di un armistizio. Ma le facce occupate, allegre e stolide degli uomini mi riportavano alla mia disperazione. Un muro si levava tra me e gli altri uomini, un muro sporco del sangue di William e di Justine, e l'angoscia mi straziava l'animo al ricordo degli eventi legati a quei nomi.

Clerval era quello che ero stato io un tempo: curioso e assetato di conoscenza. Si divertiva sempre. Gli bastava osservare i costumi degli uomini, notare le loro differenze. E tra sé e sé rimuginava un piano: vedere l'India. Forse, con le sue conoscenze delle diverse lingue e con la sua cultura in materia, avrebbe potuto dare il suo contributo alla colonizzazione e al commercio europeo. Solo in Inghilterra poteva riuscire in una simile impresa. Attivo, combattivo, aveva solo un ostacolo: il mio umor nero. Cercavo di tenerglielo nascosto per non privarlo delle gioie che sono naturali per chi si trova in un ambiente nuovo, senza il peso di ricordi amari. Così, con la scusa di un impegno, cercavo a volte di lasciarlo solo, di non accompagnarlo. Inesorabile, come la goccia che tortura i prigionieri, la raccolta del materiale necessario per la mia creazione mi prendeva totalmente. Mi tremavano le labbra. Il cuore batteva all'impazzata.

Dopo alcuni mesi ricevemmo una lettera dalla Scozia da parte di una persona che era stata nostra ospite a Ginevra. Ci descriveva le bellezze del suo paese e ci domandava se non fossero un allettamento sufficiente a farci decidere a raggiungerla a nord, fino a Perth, dove abitava. Clerval ardeva dalla voglia di accettare. Quanto a me, anche se la compagnia mi faceva orrore, pensavo intensamente ai monti, ai corsi d'acqua, alle meraviglie con cui la natura adorna la terra.

Eravamo giunti in Inghilterra ai primi di gennaio, e adesso era febbraio. Saremmo partiti alla fine del mese successivo. Non avremmo preso la strada maestra per Edimburgo: saremmo passati per la via di Windsor, verso Oxford, Matlock e i laghi del Cumberland e saremmo arrivati entro luglio. Sistemai i miei strumenti, i miei materiali e tutto il resto, con l'idea di terminare il lavoro in qualche angolo oscuro degli altipiani settentrionali della Scozia.

Lasciammo Londra il 27 marzo e ci fermammo a Windsor per alcuni giorni, spesi a passeggiare nei suoi splendidi boschi. Le querce maestose, gli animali selvatici in gran numero, i grandi cervi: era tutto nuovo per noi.

Poi proseguimmo per Oxford. Entrammo in città con la mente piena delle memorie storiche, degli eventi di centocinquant'anni prima. Ecco Carlo I che raduna qui le sue schiere! Ecco la città fedele che si riunisce, dopo che tutto il paese l'ha abbandonato per inseguire gli stendardi del Parlamento e della libertà! Il ricordo dell'infelice re, dei suoi compagni, dell'amabile Falkland, dell'arrogante Goring, della regina, di suo figlio, colorava di un'atmosfera struggente tutta quella città dove potevano aver abitato. Lo spirito del passato aveva trovato asilo tra quelle mura. Noi ci divertivamo a scoprirne le tracce. Comunque, anche senza queste curiosità, la città mostrava un volto sufficientemente incantevole per conquistarci. I colleges sono vetusti e pittoreschi. Le strade maestose. Il bellissimo Isis, che fluisce accanto alle mura tra i prati verdi, si apre formando un lago dove si riflette l'immagine tremula delle torri, delle guglie, delle cupole chiuse tra i vecchi alberi.

Quel paesaggio mi rendeva felice, ma la mia gioia era insidiata dall'incombente memoria del passato e dai confusi presagi del futuro. Negli anni della mia giovinezza non avevo mai conosciuto la malinconia, e se mai la noia mi aveva stretto d'assedio, la bellezza e la natura, lo studio delle opere sublimi degli uomini, avevano avuto il potere di placare il mio cuore, di restituire scioltezza al mio spirito. Ora somiglio all'albero percorso dalla saetta: il fuoco mi è entrato nell'anima. Sono un sopravvissuto. Vivo per mostrare ciò che tra breve non sarò più: triste spettacolo di umanità alla deriva. Per gli altri oggetto di pietà, per me di disprezzo.

Trascorremmo un certo periodo di tempo a Oxford, passeggiando e tentando di riconoscere ogni luogo che mostrasse un indizio dell'epoca più tormentata della storia dell'Inghilterra. I nostri brevi percorsi a volte divenivano più lunghi a causa di novità che ci attraevano. Visitammo il sepolcro del celebre Hampden, il campo di battaglia dove aveva reso l'anima da patriota; per un istante mi sollevai al di sopra delle mie umilianti paure per contemplare le idee immortali di libertà, di sacrificio, di cui i luoghi stessi erano ara e memoria. Per un istante mi scrollai di dosso le catene e levai lo sguardo dintorno, con la mente sgombra, protesa al sublime, ma il ferro mi aveva toccato l'anima e ricaddi, tremando senza speranza, nel mio io disperato.

Abbandonammo Oxford a malincuore e proseguimmo verso Matlock, la nostra tappa successiva. Su scala ridotta, dietro colline verdeggianti prive del lucore della corona delle Alpi, il paesaggio somiglia a quello svizzero, con i monti coperti di abeti come nel mio paese. Visitammo la straordinaria caverna e le piccole collezioni di storia naturale, disposte come quelle di Servox e Chamonix. Il nome di quest'ultimo luogo mi fece impallidire quando lo udii sulla bocca di Henry e mi affrettai a lasciare Matlock, che in quel momento era venuta a collegarsi a quella terribile scena.

Dopo Derby, proseguendo verso nord, trascorremmo due mesi nel Cumberland e nel Westmoreland. Ora sì che potevo figurarmi di essere nelle Alpi svizzere! I fianchi settentrionali, ancora coperti di neve, i laghi, lo scroscio dei torrenti tra le rocce erano tutti cari suoni, care visioni. Stringemmo delle amicizie che mi diedero l'illusione di essere perfettamente felice. Clerval lo era ancora di più. La sua mente si apriva in compagnia di individui dotati ed egli scopri` nel suo carattere doti che non aveva mai immaginato di avere quando si era trovato in compagnia di esseri inferiori. «Potrei passare il resto della mia esistenza da queste parti», diceva. «La Svizzera, il Reno non mi mancherebbero tra queste montagne!».

Ma ai viaggi si accompagnano anche pene, oltre che piaceri. I sentimenti del viaggiatore sono sempre sotto tensione e quando incomincia a rilassarsi ecco che deve lasciare tutto! Il nuovo lo attende. E già assorbe la sua attenzione e già è pronto per essere abbandonato a sua volta.

Avevamo appena visitato i laghi del Cumberland e del Westmoreland e sentivamo già un certo attaccamento per qualcuno degli abitanti quando fummo costretti a riprendere il viaggio lasciando i nostri amici perché la data del nostro appuntamento scozzese era ormai vicina. Per quanto mi riguardava, la cosa non mi dispiaceva. Avevo trascurato per lungo tempo le mie promesse e ora attendevo impaziente l'arrivo della posta. Che cosa avrebbe fatto quel demonio? Forse era rimasto in Svizzera. Forse avrebbe scatenato la vendetta sui miei parenti. Quest'idea mi perseguitava, mi impediva di avere anche un momento di riposo. Se le lettere ritardavano ero disperato, vinto da mille timori; se arrivavano, se vedevo l'indirizzo scritto da mio padre o dalla mano di Elizabeth, non riuscivo neppure a leggerle per conoscere la mia sorte. A volte ero convinto che il demone mi seguisse e potesse vendicarsi uccidendo Clerval. Allora non lasciavo più solo Henry neppure per un istante. Lo seguivo come un'ombra per proteggerlo dall'ombra che mi seguiva, dall'ira del suo assassino. Mi sembrava di aver commesso un grande crimine, la coscienza del quale mi torturava! Non ero colpevole, ma mi sentivo vittima di una terribile maledizione, fatale come quella di un delitto.

Visitai Edimburgo. I miei occhi, la mia mente erano insensibili. Eppure la città avrebbe dovuto affascinare il più triste degli uomini. A Clerval non piacque come Oxford, di cui aveva amato l'antichità. Ma la magnifica simmetria della città nuova, il romantico castello, i luoghi che circondano la zona, i più smaglianti della terra, Arthur's Seat, St. Bernard's Well e le Pentland Hills finirono col ricompensare Henry del cambiamento e lo costrinsero a entusiasmarsi, a essere felice. Io ero impaziente di arrivare alla fine del viaggio.

Dopo una settimana lasciammo Edimburgo, attraversando Coupar, St. Andrew's, lungo le rive del Tay fino a Perth, dove ci aspettava il nostro amico. Non ero nello spirito di ridere e scherzare con degli sconosciuti, di interessarmi dei loro sentimenti o progetti con la cortesia necessaria. Dissi a Clerval che volevo fare il giro della Scozia da solo. «Divertiti», gli dissi. «Ci ritroveremo qui. Starò lontano un mese, forse due. Ti prego solo di lasciarmi tranquillo. Non intralciare i miei programmi. Quando tornerò vedrai che avrò il cuore più sollevato. Staremo meglio insieme».

Henry cercò di dissuadermi, ma di fronte alla mia fermezza alla fine si arrese. Mi pregò di scrivere spesso. «Preferirei esser vicino a te nella solitudine», mi disse, «e non a questi scozzesi sconosciuti. Sbrigati a tornare, mio caro, per farmi sentire a casa, a mio agio, come non può accadere quando non ci sei».

Mi congedai dal mio amico e visitai alcuni angoli sperduti della Scozia. Volevo finire il mio lavoro in solitudine. Ne ero sicuro: il mostro mi aveva seguito. Si sarebbe presentato per avere la sua compagna appena avessi finito l'opera.

Così attraversai gli altipiani settentrionali e scelsi una delle più remote isole Orcadi. Era il luogo più adatto a una simile impresa: una roccia con le coste a strapiombo, flagellate dal mare. La terra era brulla. Poche magre vacche trovavano a stento erba per il pascolo; gli abitanti vi coltivavano l'avena necessaria per sopravvivere. Erano in cinque: i loro corpi scarni e macilenti rivelavano la fame che li perseguitava. Pane e verdura, quando un lusso simile era permesso, era il loro cibo e perfino l'acqua dovevano prenderli sulla terraferma, lontana cinque miglia.

In tutta l'isola c'erano tre capanne miserande, una delle quali disabitata. La affittai. Consisteva in due stanze squallide e povere con il tetto di paglia sfondato, la porta scardinata e le pareti senza intonaco. La feci riparare. Comprai dei mobili e mi ci istallai, un evento che avrebbe colpito la fantasia degli abitanti se i loro sensi non fossero stati storditi dall'inedia e dalla desolazione. Così vivevo senza essere disturbato o spiato e venivo ringraziato a stento per qualche avanzo di cibo o qualche vestito smesso, tanto la sofferenza riesce a cancellare anche le più elementari vestigia d'umanità!

Nel mio romitaggio la mattina lavoravo. La sera, quando lo permetteva il clima, camminavo sulla riva pietrosa del mare, attento al mormorio dell'acqua che lambiva i miei piedi. Una scena sempre uguale, eppure sempre mutevole. Pensavo alla Svizzera. Quanto era diversa da quel paesaggio deserto e inquietante, con le sue colline coperte dalla vite, le pianure punteggiate dai casolari, i laghi sfiorati dal cielo sereno o dal vento che scherza con l'acqua, un gioco da bambini davanti al ruggito dell'oceano.

Avevo diviso così le mie occupazioni all'arrivo; ma poi, man mano che il lavoro andava avanti, sentivo ogni giorno più ripugnanza e vergogna. A volte, per giorni e giorni, non avevo il coraggio di entrare nel laboratorio. Altre volte mi tuffavo nel lavoro fino a notte alta, per finire tutto una volta per sempre. La mia attività era davvero disgustosa. La frenesia che mi aveva sconvolto durante il mio primo esperimento mi aveva vietato di vedere l'orrore che creavo: la mia mente era protesa verso il risultato, e i miei occhi non ne vedevano la mostruosità. Ma ora, a sangue freddo, il cuore tremava davanti all'opera delle mani.

Impegnato in un'attività odiosa, immerso in una solitudine senza distrazione, il mio equilibrio si ruppe. Divenni irrequieto, eccitabile. Ogni istante vedevo dietro di me il mio inseguitore. Tenevo gli occhi incollati a terra, per paura di rispecchiarmi sollevandoli in quelli che tanto temevo. Non osavo allontanarmi dai miei simili, perché non mi sorprendesse solo.

Lavoravo. La mia opera era a buon punto. Pensavo a quando sarebbe finita. Ero inquieto, diviso tra la speranza e il timore. Non osavo chiedermi nulla. Misteriosi presagi di sventura mi trafiggevano il cuore.


CAPITOLO XX




Una sera ero nel mio laboratorio; il sole era appena tramontato e la luna sorgeva sul mare. Non avevo luce sufficiente, e mi fermai un attimo a riflettere se per quella sera non avrei fatto meglio a fermarmi anziché affrettarmi, senza requie, per giungere alla conclusione. Mi vennero in mente, mentre sedevo assorto, una serie di pensieri che mi costrinsero a esaminare gli effetti del mio comportamento. Tre anni prima ero impegnato nella stessa impresa e avevo creato un demonio, che aveva prostrato il mio cuore con la sua inaudita crudeltà, riempiendolo del più amaro rimorso. E ora? Ora stavo per creare un altro essere di cui non conoscevo la natura: poteva dimostrarsi centomila volte più malvagio del suo compagno, uccidere, rendere infelici gli uomini per il solo piacere del male. Lui aveva giurato di abbandonare i luoghi frequentati dagli esseri umani, di sparire in un deserto. Ma lei? Lei che con tutta probabilità avrebbe avuto ragione e capacità riflessive, non aveva ancora promesso. Forse avrebbe rifiutato di accettare un patto stabilito prima della sua creazione. E se si fossero odiati, l'uno con l'altra? La creatura che già viveva aborriva la sua mostruosità: non avrebbe provato un disgusto anche più forte vedendola comparire davanti a sé in forma di donna? E lei? Lei non si sarebbe forse scostata da lui con eguale disdegno per volgersi alla bellezza superiore dell'uomo? Avrebbe potuto abbandonarlo. E il demonio, di nuovo solo, sarebbe stato esasperato da una nuova provocazione: venire trascurato da un essere della sua stessa specie.

E se pure avessero lasciato l'Europa, per vivere in uno dei deserti del Nuovo Mondo, certo uno dei risultati a cui il demonio sarebbe pervenuto era mettere al mondo figli: sulla terra si sarebbe sparsa una razza diabolica, che avrebbe terrorizzato e messo in causa l'esistere stesso della specie umana. Avevo io il diritto di infliggere una simile condanna alle generazioni future solo per la mia ambizione? Mi ero lasciato persuadere dai sofismi del mostro che avevo creato; ero rimasto stregato dal suo ricatto atroce; ma ora, per la prima volta, come in una folgorazione, mi si svelò la minaccia racchiusa nella mia promessa. Provai un brivido. Le età future mi avrebbero maledetto. Ero il loro flagello. L'essere egoista che non aveva esitato a barattare la propria pace con la sopravvivenza degli uomini.

Tremavo e all'improvviso mi sentii mancare. Un riso spettrale torceva le labbra di un viso che si stagliava alla finestra contro il chiarore della luna. Controllava il progredire dell'opera che mi aveva comandato. Sì, mi aveva seguito nei miei viaggi, nascosto nelle caverne, protetto dalla solitudine delle brughiere! E ora veniva a verificare i miei progressi, a chiedermi conto delle mie promesse.

Mentre lo guardavo il suo volto era la maschera dell'inganno e della crudeltà. Che follia creare un altro essere come quello! Feci a pezzi la «cosa» a cui lavoravo. Un urlo di rabbia e di dolore uscì da quelle labbra disperate. La creatura da cui dipendeva la sua esistenza era stata distrutta. Scomparve.

Lasciai la stanza. Chiudendo la porta a chiave giurai solennemente di non riprendere mai più quell'orribile lavoro. Poi, barcollando, andai nella mia stanza. Ero solo. Nessuno mi aiutava a squarciare le tenebre che mi circondavano, a sollevarmi dall'abisso delle orride fantasie.

Passarono molte ore. Fissavo il mare dalla finestra. Era quasi immobile. Il vento era calmo e la natura dormiva sotto l'occhio sereno della luna. Solo poche barche affioravano intermittenti sull'acqua. Una brezza leggera portava voci, gridi di marinai che si chiamavano. Sentivo il silenzio intorno a me, ma non ebbi la percezione di quanto fosse profondo fino a che un rumore di remi, chiaro, distinto, risuonò vicino alla riva e si udirono dei passi vicino la casa.

La porta cigolò. Qualcuno cercava di aprirla senza farsi scoprire. Tremavo. Presagivo chi potesse essere. Avrei voluto svegliare uno dei contadini che abitavano da presso. Ma ero paralizzato da quel senso di impotenza che si prova negli incubi, quando si cerca invano di sfuggire a un pericolo. Rimasi inchiodato a terra.

Sentii un rumore di passi nel corridoio. La porta si aprì. Apparve l'essere sciagurato che temevo d'incontrare. Richiuse la porta e, avvicinandosi, mi disse con voce rotta: «Hai distrutto il lavoro iniziato: perché? Osi mancare alla promessa? Ho affrontato patimenti e disavventure per seguirti: ho lasciato la Svizzera insieme a te, ti ho seguito di nascosto lungo il Reno, tra le sue isole coperte di salici e sulla cima delle colline. Le brughiere dell'Inghilterra, le terre desolate della Scozia sono state la mia dimora per mesi e mesi. Freddo, fame, fatica sono stati i miei compagni. E tu? Tu osi distruggere la mia speranza?».

«Vattene! Sì, spezzo il patto tra noi! Non creerò mai una donna mostruosa, con la tua stessa crudeltà e la tua stessa perfidia!».

«Schiavo! Ho cercato di ragionare con te. Ma sei indegno di ogni benevolenza! Ricordati che ho potere su di te. Ti sembra di essere infelice? Ebbene, sappi che ti posso ridurre a uno stato tale che la luce del giorno ti sembrerà spaventosa! Tu sei il mio creatore ma io sono il tuo padrone! Obbedisci!».

«La mia indecisione è finita. Provalo il tuo potere! Le tue minacce non mi costringeranno a compiere un crimine! Per questo non voglio crearti una compagna nel male! Dovrei liberare un altro demonio, a sangue freddo? Un mostro che gode a spargere la morte e la distruzione? Vattene! La tua voce esaspera la mia ira!».

Il mostro lesse la decisione sul mio volto e digrignò i denti in preda alla rabbia dell'impotenza: «Ogni uomo», gridò, «ha una moglie da abbracciare e ogni animale una compagna. Perché io devo restare solo? I miei affetti sono ripagati con odio e derisione. Uomo! Tu puoi odiare, ma attento! Timore e tremore insidieranno le tue ore! La folgore che ti priverà della felicità è sospesa sul tuo capo! Perché tu dovresti essere felice mentre io sono divorato dalla sofferenza? Puoi distruggere le mie passioni: ma la vendetta è mia! La vendetta tanto più cara della luce e del cibo! Posso morire: ma tu, tiranno, tu, tortura dei miei giorni, maledirai il sole che illumina la tua infelicità! Attento! Non ho nulla da temere. Per questo sono più potente di te! Come l'astuto serpente ti attenderò per colpirti col mio veleno. Ti pentirai delle ferite che mi infliggi!».

«Taci demonio! Non avvelenare l'aria con la malvagità delle tue parole! Ti ho detto ciò che ho stabilito: non sono un vile! Non cambierò per le tue parole le mie. Lasciami. Sono inesorabile!».

«Bene. Me ne vado. Ma rammenta le mie parole: la notte delle tue nozze io ti sarò a fianco!».

Balzai avanti gridando: «Miserabile! Prima di firmare la mia condanna a morte sta' attento alla tua vita!».

L'avrei preso alla gola se non mi fosse sfuggito. Uscì correndo a perdifiato. In un baleno era sull'acqua, veloce come un dardo. Poi la barca sparì tra i flutti.

Tutto fu silenzio. Le sue parole mi rimbombavano nelle orecchie. Ardevo dal desiderio di inseguire l'assassino della mia pace, di farlo sprofondare in fondo al mare. Scosso, sconvolto, camminavo su e giù per la stanza, mentre la mia fantasia evocava mille immagini di sciagura. Perché non l'avevo raggiunto? Perché non l'avevo stretto in un corpo a corpo mortale? Avevo permesso che se ne andasse, diretto verso terra. Chi sarebbe stata la sua prossima vittima? Rabbrividivo ripensando alle sue parole, alla sua insaziabile sete di vendetta: «La notte delle tue nozze io ti sarò a fianco!». Quello era il tempo fissato per il compimento del mio destino. A quell'ora sarei spirato, avrei saziato e insieme spento la sua crudeltà. La cosa non mi spaventò. Ma quando pensai alla mia adorata Elizabeth, alle sue lacrime, al suo dolore sconsolato trovandomi barbaramente straziato, le lacrime, le prime in molti mesi, spuntarono dai miei occhi. Decisi che non sarei caduto senza lottare duramente.

La notte passò e il sole illuminò l'oceano. Il mio animo era più calmo, se calma si può chiamare la disperazione in cui naufraga la violenza dell'ira. Lasciai la casa. Abbandonai per sempre la scena dello scontro della notte passata. Mi avviai lungo il mare, muro d'acqua tra me e i miei simili. Avrei voluto che fosse così. Avrei voluto passare il resto della mia vita abbarbicato a quello scoglio denudato dagli elementi, nella miseria forse, ma anche nella quiete. Se tornavo, era solo per immolarmi o per vedere chi amavo soffocato nella stretta mortale dell'essere diabolico che io avevo creato.

Mi aggirai per l'isola come uno spettro inquieto e infelice, separato da ogni cosa cara. A mezzogiorno, quando il sole fu alto nel cielo, caddi sull'erba in un sonno profondo. Ero stato sveglio tutta la notte. Avevo i nervi a pezzi. Gli occhi mi bruciavano per la veglia e per le lacrime. Quando mi svegliai mi sentii di nuovo un essere umano. Avevo recuperato le forze e cominciai a riflettere sull'accaduto. Come un rintocco funebre, le parole diaboliche rimbombavano ancora nelle mie orecchie: forse era un sogno, ma nitido e implacabile, coi colori della realtà.

Il sole calava. Io ero ancora sulla spiaggia e divoravo un pane d'avena per calmare i morsi della fame quando vidi una barca da pesca che attraccava e uno degli uomini che mi portava un pacchetto. Due lettere da Ginevra, e una di Clerval che mi pregava di raggiungerlo. Diceva che stava sprecando il suo tempo e che lettere di amici da Londra invocavano il suo ritorno, per completare le trattative già iniziate per la sua spedizione in India. Non poteva ritardare. E poi, forse, sarebbe partito subito per l'India. Dunque non avrei dovuto esitare a raggiungerlo, per concedergli tutto il tempo che potevo per stare insieme. Mi chiedeva di lasciare la mia isola deserta e di incontrarlo a Perth, per ripartire insieme verso sud. Decisi di lasciare l'isola entro due giorni. La lettera mi aveva richiamato, in parte, alla realtà quotidiana.

Prima di partire, comunque, c'era un lavoro da fare che mi metteva i brividi: imballare i miei strumenti chimici, ritornando nella stanza che aveva assistito al mio odioso lavoro. Quegli strumenti mi facevano star male solo a guardarli. La mattina dopo, all'alba, presi il coraggio a due mani e aprii la porta. I resti della creatura distrutta sparsi ai miei piedi mi diedero l'impressione di aver fatto a pezzi la carne viva di un essere umano. Mi fermai. Dovevo calmarmi. Entrai nel locale. Con la mano che tremava portai gli strumenti fuori della stanza. Ma mi venne in mente che non potevo lasciare così i resti del mio lavoro che avrebbero destato orrore e sospetti nei contadini. Misi quei resti in una cesta, insieme a molte pietre. L'avrei gettata in mare quella notte. Restai seduto sulla spiaggia a pulire e riordinare i miei apparecchi.

Nulla poteva apparire più totale del mutamento accaduto nel mio cuore dalla notte della comparsa del demonio. Prima consideravo con cupa disperazione la mia promessa: un dovere da compiere a qualsiasi prezzo. Ora mi sembrava che un velo mi fosse caduto dagli occhi, e per la prima volta vedevo con chiarezza. Neppure per un attimo mi balenò l'idea di riprendere l'opera mostruosa; la minaccia di morte mi pesava, ma l'idea di evitarla con una scelta criminosa non mi passò neppure per la mente. Creare un altro demone come quello - l'avevo giurato - sarebbe stata la prova più vile e atroce dell'egoismo. Ogni pensiero di farmi complice di una simile crudeltà era stato bandito.

Tra le due e le tre del mattino spuntò la luna. Uscii in mare con la cesta, su una piccola imbarcazione a vela. A circa quattro miglia mi arrestai. Il luogo era solitario: qualche barca stava rientrando, ma era ancora lontana. Avevo l'animo in tumulto come un criminale che sta per compiere un delitto ed evita di incontrare chiunque, tremando d'angoscia. All'improvviso la luna sparì dietro una nuvola. Era il momento adatto. Gettai in mare la cesta e rimasi ad ascoltare il gorgoglìo dell'acqua sotto la chiglia. Mi allontanai. Il cielo si era rannuvolato, ma l'aria era limpida anche se il vento di nord-est la rinfrescava. La brezza mi rianimò e decisi di restare in mare ancora un poco. Fissai il timone e mi sdraiai sul fondo della barca. Le nuvole nascondevano la luna. Tutto era buio e sentivo solo lo sciabordio delle onde. Carezzato da quel rumore mi assopii. Dormii profondamente.

Non so quanto tempo restai così ma, quando mi svegliai, il sole era alto. Il vento era forte e i marosi minacciavano continuamente di capovolgere la mia barca. Mi accorsi che il vento soffiava da nord-est e che mi aveva spinto lontano dalla costa. Cercai di cambiare rotta, ma scoprii subito che lo scafo si sarebbe riempito d'acqua. L'unica soluzione era farsi spingere dal vento. Confesso che ero terrorizzato. Non avevo bussola e avevo una conoscenza così limitata della geografia di questa parte della terra che l'aiuto del sole era inutile. Avrei potuto finire in mare aperto, soffrire le torture della fame o essere ingoiato dall'Atlantico selvaggio che ruggiva intorno a me. Ero già fuori da molte ore e incominciavo a provare una sete bruciante, preludio a ben altre sofferenze. Alzai gli occhi al cielo: le nuvole si rincorrevano sospinte dal vento. Il mare sarebbe stato la mia tomba. Esclamai: «Demonio! La tua opera ora è compiuta!». Pensai a Elizabeth, a mio padre e a Clerval, a tutti quelli che lasciavo dietro di me e su cui il mostro sanguinario avrebbe sfogato la sua infame passione. E caddi in una fantasticheria così disperata e tormentosa che, anche ora che il sipario sta per calare per sempre, tremo al ricordo.

Passarono alcune ore. A poco a poco, mentre il sole scivolava sul mare, il vento si quietò; divenne una brezza sottile e sul mare scomparvero i marosi diventati grosse onde. Mi sentivo male. Reggevo appena il timone. Il profilo di una costa mi balzò improvviso agli occhi.

Sfinito dalla stanchezza e dall'angoscia di quelle ore tremende, l'improvvisa certezza di essere in salvo mi fece affluire il sangue nelle vene. Lacrime di gioia mi sgorgarono dagli occhi.

Strano, mutevole cuore! Strano, tenace attaccamento alla vita anche al sommo dell'infelicità! Con un pezzo della camicia feci una vela e volsi la prua a terra. Rocciosa, selvaggia da lontano, da vicino si rivelò coltivata: vidi delle imbarcazioni vicino a riva. Ero di nuovo tra esseri civili! Scrutai attento il profilo frastagliato della costa e osservai un campanile che spuntava dietro un piccolo promontorio. Ero in uno stato di grande debolezza. Decisi di puntare verso la città, dove avrei potuto mangiare. Per fortuna avevo del denaro con me. Quando doppiai il promontorio, vidi una cittadina linda e tranquilla, e un bel porto dove entrai col cuore che mi balzava in petto per la gioia di essere finalmente in salvo.

Stavo legando la barca e ammainando la vela quando molti uomini si affollarono intorno a me. Sorpresi per il mio aspetto, invece di darmi aiuto, confabulavano tra loro, con dei modi che in altre circostanze mi avrebbero allarmato. Invece feci attenzione solo alla lingua che parlavano: era inglese e mi rivolsi a loro nella stessa lingua. «Miei buoni amici», dissi, «vorreste essere tanto cortesi da dirmi il nome di questa città? Dove sono?».

«Lo saprai subito», rispose un uomo con la voce rauca. «Ma può darsi che il posto non sia tanto di tuo gusto. E, quanto è vero Dio, non ti chiederemo l'approvazione per il posto dove ti schiafferemo!».

Fui sorpresissimo di questa risposta e del tono brusco dello sconosciuto. Ero sconcertato dai volti pieni d'ira e di tensione dei suoi compagni. «Che avete?», dissi. «Non è costume degli inglesi accogliere gli stranieri con tanta scortesia!».

«Non so che abitudini abbiano gli inglesi», disse l'uomo, «ma gli irlandesi hanno l'abitudine di odiare i banditi!».

Mentre si svolgeva questo strano dialogo, notai che la folla era aumentata. Curiosità e rabbia si leggevano sui volti di tutti. Ero irritato e in parte spaventato. Chiesi la strada per la locanda, ma non mi risposero. Mi allontanai, mentre un brontolio si levava dalla folla che mi seguì circondandomi. Un uomo con l'aria spavalda si avvicinò e mi batté sulla spalla. «Venite con me, signore. Dovete accompagnarmi da Mr. Kriwin per rendere conto di voi!».

«Chi è Mr. Kirwin? E perché dovrei seguirvi? Non è un paese libero?».

«Libero abbastanza per gli onesti. Mr. Kirwin è un magistrato. Voi dovete rispondere della morte di un gentiluomo che la notte scorsa è stato trovato assassinato».

La risposta mi fece trasalire. Mi ricomposi. Ero innocente. Non era difficile provarlo. Seguii la mia guida in silenzio e fui condotto a una delle case più belle della città. Stavo per svenire per la fame e la stanchezza. Pensai che dovevo farmi forza, perché nessuno interpretasse la mia debolezza come paura o senso di colpa. Non mi aspettavo la sventura che mi sarebbe piombata addosso pochi istanti dopo e avrebbe tramutato ogni timore di vergogna o di morte in cieco, disperato orrore.

Ma qui devo fermarmi. Mi è necessario tutto il mio coraggio per rievocare fin nei dettagli i terribili avvenimenti che sto per narrare.


CAPITOLO XXI




Fui subito introdotto dal magistrato, un vecchio dall'aria benevola, pacato e cortese. Mi guardò tuttavia con una certa severità e chiese ai miei accompagnatori chi fossero i testimoni in questo caso.

Si fecero avanti sei uomini: il magistrato ne chiamò uno e questi dichiarò che quella notte era fuori a pescare col figlio e il cognato, Daniel Nugent, quando verso le dieci di sera, notando che si stava alzando un forte vento dal nord, aveva pensato di rientrare. Era buio. La luna non era ancora sorta. Non erano sbarcati nel porto, ma, come sempre, in una piccola baia, circa due miglia più lontano. L'uomo camminava avanti con le reti e i suoi due compagni lo seguivano a distanza. Mentre avanzava lungo la riva aveva inciampato sul corpo di un uomo che pareva morto. La prima ipotesi era che fosse il corpo di un annegato, sbattuto a riva dalla forza del mare; ma, esaminandolo, osservarono che gli abiti non erano bagnati e che il corpo era ancora tiepido. Lo trasportarono nella casa di una vecchia che abitava lì vicino e cercarono inutilmente di rianimarlo. Sembrava un bel giovane di circa venticinque anni. In apparenza era stato strozzato, perché non c'erano tracce di violenza salvo dei segni sul collo.

La prima parte della deposizione non mi interessava: ma quando si parlò dei segni delle dita, ricordai l'omicidio di mio fratello e fui preso da una grande agitazione. Tremavo in tutto il corpo e gli occhi mi si annebbiarono, al punto che fui costretto a cercare il sostegno di una sedia. Il magistrato mi osservava con attenzione e ovviamente trasse un'impressione sfavorevole dal mio atteggiamento.

Il figlio confermò il racconto del padre; ma quando venne Daniel Nugent, questi giurò solennemente che poco prima che il compagno inciampasse aveva visto una barca con un uomo solo vicina alla riva e, per quel che aveva potuto distinguere alla luce delle stelle, si trattava della stessa barca con cui ero approdato io.

Una donna che viveva vicino alla spiaggia dichiarò che stava sulla porta di casa, aspettando il ritorno dei pescatori, un'ora circa prima di venire a sapere della scoperta del cadavere, quando aveva visto una barca con un uomo solo che si allontanava dalla riva proprio nel punto del rinvenimento.

Un'altra donna confermò le deposizioni dei pescatori sul fatto che il corpo era stato portato a casa sua e non era ancora freddo. L'avevano messo sul letto e lo avevano massaggiato e Daniel era corso in città dal farmacista, ma tutto era stato vano: la vita lo aveva abbandonato.

Furono interrogati molti altri uomini sul mio sbarco: e tutti concordarono nel dire che col forte vento del nord della notte era molto probabile che mi fossi aggirato là attorno per diverse ore e poi fossi stato costretto a ritornare al punto di partenza. E aggiunsero che era verosimile che avessi trasportato il corpo da un altro luogo e che, visto che non sembravo conoscere la costa, probabilmente ero entrato nella città di *** senza sapere che era a due passi dal posto dove avevo abbandonato il morto.

Mr. Kirwin ordinò allora che fossi portato nella stanza in cui giaceva il cadavere, in attesa della sepoltura. Voleva osservare l'effetto che ciò avrebbe provocato in me: l'estrema agitazione che avevo mostrato quando era stata descritta la modalità dell'assassinio lo aveva spinto a questo passo. Fui dunque condotto alla locanda, con la scorta del magistrato e di altre persone. Non potei non essere colpito dalle strane coincidenze che si erano verificate in quella notte infernale, ma mi sentivo tranquillo: a quell'ora io stavo chiacchierando con alcuni abitanti della mia isola. Sarebbe andato tutto bene.

Entrai nella stanza dove giaceva il cadavere e fui portato accanto alla bara. Come posso descrivere la mia emozione? Rimasi paralizzato. Non riesco neppure a pensare a quel momento tremendo senza sentire un brivido di raccapriccio. Henry Clerval era disteso davanti a me. L'inchiesta, il magistrato, i testimoni sparirono in un istante. Come un sogno. Mi mancò il respiro. Mi gettai sul corpo gridando: «Henry caro! Dunque anche tu sei stato privato della vita per colpa mia? Due esseri umani sono già morti, distrutti dalle mie macchinazioni: altre vittime attendono il loro destino! Ma tu, Clerval! Mio amico, mio benefattore».

La mia fibra non poté sopportare più a lungo quell'atroce sofferenza: fui portato a braccia fuori della stanza in preda a violente convulsioni.

Sopraggiunse una gran febbre. Per due mesi restai in punto di morte. Il mio delirio, come mi dissero, fu terribile: mi accusavo della morte di William, di Justine, di Clerval. Imploravo le persone che mi assistevano di aiutarmi a uccidere il demone da cui ero tormentato. O sentivo le dita del mostro che mi artigliavano il collo e urlavo in preda al terrore e all'angoscia. Fortunatamente parlavo nella mia lingua e solo Mr. Kirwin capiva ciò che dicevo. I miei gesti, le mie urla erano sufficienti a spaventare gli altri.

Perché non morii allora? Più infelice di ogni altro uomo prima di me, perché non sprofondai nell'abisso dell'oblio, nella pace eterna? La morte rapisce tanti bambini nel fiore degli anni, unica speranza di genitori affettuosi; quante spose, quanti giovani innamorati un giorno sono l'immagine della salute e il giorno dopo sono preda dei vermi nel disfacimento? Di che materia ero fatto per resistere a tante scosse che rinnovavano la mia agonia come il girare della ruota della tortura?

Ma ero condannato a vivere. Due mesi dopo mi risvegliai dall'incubo, in prigione, su un miserabile pagliericcio, circondato da carcerieri, secondini, chiavistelli e da tutte le miserie di una cella. Ricordo il momento in cui mi tornò la coscienza. Era mattina. Avevo solo la sensazione che mi fosse capitata una tremenda disgrazia. Ma quando mi guardai attorno, quando vidi le sbarre alle finestre e lo squallore nella stanza in cui ero, in un attimo rividi ogni cosa e gemetti di dolore.

Il lamento disturbò una vecchia che dormiva su una sedia accanto a me. Era un'infermiera a pagamento, la moglie di uno dei secondini; il suo viso esprimeva tutte le qualità negative che spesso caratterizzano questa categoria di individui. Il viso aveva lineamenti duri e grossolani, modellati dal cinismo con cui aveva assistito a scene di dolore e miseria. Mi parlò in inglese e riconobbi la voce che avevo inteso durante i miei deliri: «State meglio ora, signore?».

Risposi nella stessa lingua con voce debole: «Credo di sì. Ma se è tutto vero, se non ho sognato, mi dispiace di essere ancora vivo e di dover provare ancora tanta sofferenza e tanto orrore».

«Quanto a questo», disse la vecchia, «se parlate del gentiluomo che avete fatto fuori, ecco, secondo me, penso che sarebbe meglio che foste morto, perché credo che andrà a finire male per voi! In ogni caso non sono affari miei: mi hanno detto di assistervi e di aiutarvi a guarire. Io faccio il mio dovere con coscienza. Le cose andrebbero meglio se tutti facessero così!».

Disgustato, allontanai lo sguardo dalla donna, così insensibile ai sentimenti di un uomo sopravvissuto alla morte; ma mi sentivo privo di forze, incapace di reagire, di riflettere sull'accaduto. Le scene della mia esistenza mi apparivano come in sogno: a volte avevo il dubbio che fossero illusioni, perché non si presentavano a me con la forza della realtà.

Le immagini mi ondeggiavano davanti e divenivano man mano più chiare. Fui preso da un'agitazione febbrile. L'oscurità mi avvolgeva. Non avevo vicino nessuno che mi consolasse con amore, nessuna mano amica che mi sorreggesse. Venne il medico e prescrisse delle cure. La vecchia le preparò. L'uomo era l'immagine della più totale indifferenza; la donna della bestialità. A chi poteva interessare il destino di un omicida? Al boia, che si sarebbe guadagnato la paga!

Questi furono i miei primi pensieri. Più tardi appresi che Mr. Kirwin mi aveva dimostrato una strana gentilezza. Mi aveva fatto preparare la miglior cella della prigione - un autentico squallore! - ed era stato per merito suo che avevo avuto un'infermiera e un medico. Non veniva spesso a vedermi: ma la ragione stava nel suo rifiuto di assistere all'agonia o alle allucinazioni di un assassino, anche se voleva alleviare le sofferenze di ogni essere umano. Veniva saltuariamente, a controllare che non mi trascurassero. Ma le sue visite erano rare e duravano poco.

Un giorno, mentre stavo lentamente riprendendo le forze, ero seduto su una sedia, gli occhi socchiusi e le gote smunte come quelle di un cadavere. Ero oppresso dalla tristezza e dall'infelicità, e pensavo che forse avrei fatto meglio a cercare la morte piuttosto che restare in un mondo che mi riservava solo disgrazie. A un certo punto presi in considerazione l'idea di dichiararmi colpevole e di subire la pena prevista dalla legge. In fondo ero più colpevole di quanto non lo fosse stata la povera Justine! Sprofondato in queste tetre riflessioni, vidi la porta che si spalancava e Mr. Kirwin che si avvicinava. Il suo volto esprimeva simpatia e compassione. Prese una sedia, si sedette accanto a me e mi disse in francese: «Ho paura che questo sia un luogo assai penoso per voi: posso fare qualcosa per aiutarvi in qualche modo?».

«Grazie. Ma quello di cui parlate non ha interesse per me. Non c'è consolazione per me in questo mondo!».

«So che la simpatia di un estraneo può fare poco per un uomo nella vostra condizione, colpito da una sorte così strana. Ma spero che lascerete presto questo luogo di tristezza: ci sono senza dubbio delle testimonianze che vi scagioneranno dall'accusa di omicidio».

«La cosa mi preoccupa molto poco: per una serie di disavventure sono ormai il più disgraziato degli uomini. Può essere un male la morte per chi è stato perseguitato e torturato nel passato come lo sono stato io e come lo sono ancora?».

«Non ci potrebbe essere nulla di più doloroso e sfortunato delle coincidenze verificatesi recentemente. Per un capriccio della sorte siete stato gettato su queste spiagge, la cui ospitalità è proverbiale, e immediatamente accusato di omicidio. La prima cosa che vi è stata messa davanti agli occhi è il cadavere del vostro amico, morto in modo così misterioso e gettato ai vostri piedi, per così dire, da qualche demonio».

Mentre Mr. Kirwin parlava io, nonostante l'angoscia che mi dava questa sintesi delle mie passate sofferenze, provai anche una certa sorpresa nel vedere quanto sapesse sul mio conto. Il mio stupore doveva essere evidente perché Mr. Kirwin si affrettò ad aggiungere: «Appena cadeste ammalato mi portarono le vostre carte e io le studiai attentamente, per scoprire qualche traccia e per avvisare i vostri parenti della vostra sfortunata situazione e della vostra malattia. C'erano molte lettere e, tra le altre, una che, da come iniziava, doveva essere di vostro padre. Scrissi immediatamente a Ginevra. Sono passati ormai due mesi e Ma voi non state bene. Tremate. Non potete sopportare un'emozione troppo forte».

«L'attesa è peggiore della più orribile disgrazia! Avanti, vi prego! Che cosa è accaduto? Quale altro delitto? Chi devo piangere?».

«La vostra famiglia sta benissimo», disse Kirwin con dolcezza, «e qualcuno, un amico è venuto a trovarvi».

Chissà perché, mi balenò per un attimo l'immagine dell'assassino che rideva di me. Mi avrebbe tormentato col ricordo della morte di Clerval. Mi avrebbe perseguitato per costringermi a obbedire ai suoi diabolici desideri. Mi misi la mano sugli occhi e gridai pieno d'orrore:

«Oh! Via! Portatelo via! Non posso vederlo! Per amor di Dio non lo fate entrare!».

Mr. Kirwin mi guardò turbato. La mia esclamazione suonava alle sue orecchie come un'ammissione di colpa. Mi disse con severità: «Avrei creduto, giovanotto, che la visita di vostro padre sarebbe stata benvenuta, non disprezzata!».

«Mio padre!», esclamai. Ogni muscolo del viso si sciolse, passando da una smorfia di dolore a un'espressione di sollievo. «Davvero è qui? Ma dov'è? Perché non entra subito! Dio, come è generoso».

Il mutamento dei miei modi sorprese il magistrato, ma gli fece piacere: forse pensò che il mio grido di orrore fosse stato un ritorno momentaneo del delirio. Riprese il tono affabile di prima. Si alzò, uscì dalla stanza, seguito dall'infermiera. Entrò mio padre.

«Salvo! Siete salvo!», gridai con la voce rotta dall'emozione. Nulla al mondo mi avrebbe fatto più piacere del suo arrivo. Gli tesi la mano dicendo: «Ed Elizabeth? Ed Ernest?».

Mio padre mi calmò: stavano bene. Insistette su questo punto, cercando di sollevarmi dall'abbattimento. Presto, però, si rese conto che una prigione non è certo un luogo dove stare allegri.

«In che posto sei capitato, figlio mio!», esclamò spiando rattristato tra le sbarre e gettando un'occhiata allo squallore della cella. «Viaggiavi alla ricerca della felicità. Il destino sembra accanirsi contro di te. E il povero Clerval».

Mi misi a piangere. Il nome del mio povero amico assassinato rappresentava un'emozione troppo violenta, nello stato di prostrazione in cui ero.

«Ahimè! Sì, padre», risposi, «un destino tremendo grava sul mio capo. Devo vivere per vederne il compimento, altrimenti sarei spirato davanti alla bara di Henry».

Non ci permisero di parlare a lungo: la mia salute precaria richiedeva la massima cura e tranquillità. Mr. Kirwin entrò e insistette che non dovevo esaurire le mie forze affaticandomi. Ma l'arrivo di mio padre era stato come l'apparizione del mio angelo custode. Mi rimisi presto.

La malattia mi abbandonava. E mentre guarivo mi prendeva una malinconia cupa, ossessiva, che nulla riusciva a scacciare. L'immagine spettrale del corpo di Clerval mi era sempre davanti. Più di una volta il turbamento in cui mi gettavano queste visioni fece temere agli amici una ricaduta. Oh! Perché mi avevano salvato una vita così odiosa e ripugnante? Certo perché si compisse il mio destino che ora sta finalmente per conchiudersi. Presto, sì, molto presto la morte si impadronirà di questi spasimi, mi libererà dall'oppressione di questa angoscia inesorabile e, pagando il fio di una giusta condanna, mi sarò addormentato per sempre! Allora la morte sembrava lontana, anche se il desiderio di lei era sempre vivo nel mio cuore, e spesso sedevo immobile per ore, senza parlare, sperando che qualche rovinosa catastrofe trascinasse me e il mio nemico tra le rovine.

Si avvicinava il tempo della causa in tribunale. Ero già stato in prigione tre mesi e, nonostante la mia malferma salute, fui costretto a percorrere cento miglia fino al capoluogo. La corte si riuniva laggiù. Mr. Kirwin aveva organizzato la difesa e trovato i testimoni. Mi fu risparmiata l'umiliazione di comparire in pubblico come un criminale, perché il caso non fu portato davanti alla corte che decide della vita e della morte. Il gran Giurì respinse l'accusa poiché fu provato che al momento della scoperta del cadavere io mi trovavo nelle isole Orcadi. Quindici giorni dopo ero libero.

Mio padre era felice di vedermi assolto e libero di respirare l'aria pura e di tornare a casa. Io non condividevo i suoi sentimenti: per me le pareti di una cella o quelle di un palazzo erano ugualmente odiose. La coppa della vita era avvelenata. Per sempre. E anche se il sole risplendeva sul mio capo come su quello degli esseri felici, io non vedevo intorno che tenebre spaventose, dove non traspariva alcuno spiraglio di luce oltre il lampo di due occhi che mi fissavano. A volte erano gli occhi espressivi di Henry, sorpresi dal languore della morte: pupille scure, palpebre socchiuse, lunghe ciglia nere; a volte erano gli occhi torbidi e vitrei del mostro, che mi avevano folgorato la prima volta a Ingolstadt.

Mio padre cercava di risvegliare in me sentimenti di affetto. Parlava di Ginevra, che avrei presto rivisto, di Elizabeth e di Ernest: ma queste parole non facevano che strapparmi gemiti dolorosi. A volte provavo un desiderio di felicità e pensavo alla mia cara cugina, con malinconica dolcezza. O, preso da una febbrile maladie du pays, non vedevo l'ora di rivedere il mio lago smaltato e il Rodano veloce, così cari alla mia giovinezza. Ma per lo più ero sprofondato nel torpore: al punto che la prigione sarebbe stata un rifugio desiderabile quanto il più straordinario paesaggio. Angoscia Disperazione Attacchi furiosi di nostalgia In quei momenti cercavo spesso di mettere fine a una esistenza che mi ripugnava; e ci voleva una vigilanza continua per impedirmi di commettere qualche insensato atto di violenza.

Tuttavia mi restava un dovere, il cui ricordo, alla fine, trionfò sulla mia disperazione egoistica. Dovevo tornare subito a Ginevra, per vegliare sulla vita di coloro che amavo tanto, e attendere l'assassino. Se il caso mi avesse fatto scoprire dove si nascondeva o se avesse osato ancora tormentarmi con la sua presenza, avrei potuto con un colpo deciso porre fine alla mostruosa Immagine che avevo dotato di una parodia di anima ancora più mostruosa. Mio padre avrebbe voluto rimandare ancora la partenza per paura che non reggessi alla fatica del viaggio: ero un relitto alla deriva, lo spettro di un uomo. Privo di forze, con la febbre che si accaniva giorno e notte sul mio corpo, ero ridotto a pelle e ossa.

Ma visto che insistevo con tanta impazienza per lasciare l'Irlanda, mio padre finì con l'acconsentire. Trovammo posto su una nave che andava a Havre-de-Grace e lasciammo le coste irlandesi accompagnati da un vento favorevole. Era mezzanotte: sdraiato in coperta, osservavo le stelle e ascoltavo lo sciacquio del mare. Benedicevo il buio. Mi nascondeva l'Irlanda. Il mio cuore pulsava con gioia febbrile all'idea del ritorno. Il passato mi sembrava un sogno terribile. Ma la nave che beccheggiava, il vento che mi trascinava lontano da riva, il rumore del mare mi sussurravano che non ero stato vittima di una visione, che Clerval, l'amico caro, era caduto, vittima mia e della mia mostruosa creazione. Richiamai alla memoria il mio passato: la quieta serenità dell'esistenza ginevrina; la morte di mia madre; la partenza per Ingolstadt. Il folle entusiasmo - lo ricordo ancora con un brivido - che mi aveva portato a creare il mio crudele avversario. E quella notte in cui aveva dato i primi segni di vita Non potevo più assecondare l'onda delle rimembranze: i sentimenti mi tumultuavano dentro e piansi amaramente.

Da quando la febbre era cessata avevo l'abitudine di prendere del laudano: solo con questa droga riuscivo a chiudere gli occhi e a sopravvivere. Oppresso dalle memorie amare ne presi il doppio del solito. Mi addormentai profondamente. Ma il sonno non mi portò la pace. Mille sogni, mille immagini mi perseguitavano. Verso mattina ritornò persistente un incubo: sentivo la stretta del demonio sul collo e non riuscivo a liberarmi; grida, mugolii mi risuonavano nelle orecchie. Mio padre mi svegliò da quel sonno senza riposo: intorno le onde s'infrangevano e il cielo era coperto di nuvole. Il demonio non era lì: un senso di sicurezza, la sensazione che fosse stato stretto un armistizio tra l'ora presente e il disastroso e inevitabile futuro mi diedero una specie di pacato oblio, uno stato cui la mente, per sua stessa natura, va particolarmente soggetta.


CAPITOLO XXII




Il viaggio ebbe fine. Sbarcammo e proseguimmo per Parigi. Ben presto mi accorsi che avevo sopravvalutato le mie forze e che avevo bisogno di riposo per andare avanti. Le cure e le attenzioni di mio padre erano infinite: ma non mi capiva, né riusciva ad alleviare il mio male incurabile con le cure adeguate. Voleva che cercassi distrazioni e io mi disperavo all'idea di vedere altri uomini. Oh! No! Non li disprezzavo. Erano miei fratelli, miei simili e io mi sentivo attirato dal più ripugnante di loro come da un angelo dalla forma divina. Ma sentivo di non aver diritto alla loro compagnia. Avevo scatenato tra loro un nemico, che godeva a spargere il loro sangue e ad assistere alla loro agonia. Tutti, senza eccezione, mi avrebbero scacciato se avessero saputo quali atti sacrileghi avevo compiuto, e di quali crimini ero la fonte!

Alla fine mio padre cedette al mio desiderio di evitare la compagnia. Ricorse allora ad altri argomenti per combattere la mia disperazione. Cercava di farmi comprendere la futilità dell'orgoglio, convinto che risentissi delle ferite inflitte all'amor proprio per l'accusa di omicidio.

«Ahimè, padre mio!», dissi. «Quanto poco sapete di me! Se un miserabile par mio osasse provare orgoglio, gli esseri umani, i loro sentimenti e le loro passioni perderebbero senza dubbio valore. Justine, la povera, infelice Justine era innocente quanto me: e dovette affrontare la stessa accusa e fu messa a morte e io sono il vero colpevole! Io! L'ho uccisa io! William, Justine, Henry Morti per colpa mia».

Durante la prigionia mio padre mi aveva udito sovente ripetere le stesse cose; quando mi accusavo in questo modo, a volte pareva chiedere una spiegazione; altre volte sembrava che considerasse le mie esclamazioni come un frutto del delirio, come se nel corso della malattia mi si fosse presentata qualche allucinazione di cui ora, convalescente, conservavo il ricordo. Io evitavo ogni spiegazione e mantenevo un silenzio rigoroso sulla creatura che avevo fatto vivere. Mi avrebbero preso per pazzo, di sicuro: ciò era sufficiente a paralizzarmi la lingua. Ma oltre a ciò non avevo neppure la forza di parlare di un segreto che avrebbe gettato nell'angoscia chi mi ascoltava, insinuando nel suo petto la paura e l'orrore. Perciò frenavo la mia sete ardente di comprensione e restavo muto, mentre avrei dato qualunque cosa pur di rivelare il mio fatale segreto. Eppure, senza che lo volessi, parole come quelle che ho appena riferito, mi sfuggivano incontrollabilmente. Non potevo spiegarle. Ma bastava solo averle pronunciate e già la loro verità alleviava il mio tormento.

Quella volta mio padre, meravigliatissimo, disse: «Caro Victor, che ossessione è mai questa? Ti prego, non dire più una cosa simile!».

«Non sono pazzo!», urlai. «Il sole, il cielo che ha assistito ai miei atti, può testimoniare che dico il vero. Sono io l'assassino di quelle vittime innocenti: sono morte per colpa delle mie trame. Avrei versato mille volte il mio sangue, goccia a goccia, pur di salvare la loro vita, ma non potevo, padre, non potevo sacrificare l'intera umanità».

A queste parole mio padre si convinse che avevo la mente sconvolta e cambiò discorso, cercando di sviare il corso dei miei pensieri. Cercava, per quanto possibile, di cancellare il ricordo delle scene che avevano avuto luogo in Irlanda e non vi alludeva mai, impedendomi di parlare delle mie disgrazie. Col passare del tempo mi calmai: la tristezza albergava sempre nel mio cuore, ma non parlavo più dei miei delitti in modo incoerente; mi bastava averne coscienza. Facendo un grande sforzo su me stesso, trattenevo la voce imperiosa della disperazione, che avrebbe voluto proclamare i miei crimini al mondo intero. I miei modi erano più calmi di quanto non fossero mai stati dal tempo del mio viaggio al mare di ghiaccio.

Qualche giorno prima di partire da Parigi per la Svizzera ricevetti questa lettera di Elizabeth:


Mio caro amico,

mi ha fatto molto piacere ricevere una lettera dello zio da Parigi; non sei più a una distanza insuperabile e posso sperare di rivederti in meno di due settimane. Mio povero cugino, quanto devi avere sofferto! Mi aspetto di rivederti più malato di quando hai lasciato Ginevra. Quest'inverno per me è stato molto triste, torturata com'ero dall'ansia dell'attesa; spero comunque di rivedere un po' di pace sul tuo viso e di sapere che il tuo cuore non è del tutto privo di tranquillità e di conforto.

Ho paura, però, che gli stessi sentimenti che ti hanno reso così infelice un anno fa siano ancora vivi, fors'anche accresciuti dal tempo. Non ti disturberei in questo momento, conoscendo il peso delle tue tante disgrazie, se una conversazione avuta con lo zio prima della sua partenza non rendesse necessaria una spiegazione tra noi, prima di incontrarci.

Spiegazione? dirai. Cosa può avere Elizabeth da spiegare? Se dirai davvero così, le mie domande avranno avuto la loro risposta e i miei dubbi svaniranno. Ma sei lontano da me e può darsi che tu tema e, insieme, brami questa spiegazione. Nel caso che le cose stiano così, non oso rimandare e ti scrivo quello che nella tua assenza ho spesso desiderato dirti, senza mai avere il coraggio di cominciare.

Tu sai, Victor, che la nostra unione è stato il sogno dei tuoi genitori sin dalla nostra più tenera infanzia. Sin da piccoli ce ne parlarono e ci fu insegnato a considerarla un evento che si sarebbe senz'altro verificato in futuro. Durante l'infanzia siamo stati compagni di gioco affettuosi e poi, cresciuti, buoni e cari amici, credo. Ma poiché sovente fratello e sorella hanno una spiccata predilezione l'uno per l'altra, senza perciò desiderare unioni più intime, non potrebbe esser tale anche il nostro caso? Dimmelo, carissimo Victor, te ne prego, per la nostra felicità reciproca, dimmi la semplice verità: ami un'altra?

Hai viaggiato. Hai passato diversi anni della tua vita a Ingolstadt. Ti confesso, amico mio, che quando ti ho visto così triste lo scorso autunno cercare la solitudine, sfuggire qualunque compagnia, non ho potuto fare a meno di pensare che forse tu ti rammaricassi del nostro legame e che ti credessi impegnato sul tuo onore a realizzare i desideri dei tuoi genitori, contrari alle tue aspirazioni. Ma questo sarebbe un errore. Ti confesso, amico mio, che ti amo e che nei miei sogni sul futuro tu sei sempre stato il mio unico amico e compagno. Ma quando ti dico che il nostro matrimonio mi renderebbe infelice se non fosse un frutto della tua libera decisione, lo dico per il tuo bene e per il mio. Anche ora piango a pensare che, oppresso dai dardi della sfortuna, forse stai soffocando ogni speranza di quell'amore e di quella felicità che, soli, ti potrebbero restituire alla salvezza, in nome dell'onore. Proprio io, che ho per te un affetto così disinteressato, dovrei renderti dieci volte più infelice ostacolando i tuoi desideri? Ah! Victor, sii certo che la tua cugina e compagna di giochi nutre per te un amore troppo spontaneo per non sentirsi addolorata davanti a una simile ipotesi. Sii felice, mio caro e, se obbedirai a questa sola richiesta da parte mia, sta' tranquillo che nulla al mondo potrà turbare la mia pace.

Non disturbarti per questa lettera: non rispondermi domani o dopodomani o nemmeno prima di arrivare qui, se ciò ti dà pena. Lo zio mi manderà notizie della tua salute; e se, quando ci incontreremo, vedrò anche un solo sorriso sulla tua bocca, non avrò bisogno di altra felicità.

Elizabeth Lavenza

Ginevra 18 maggio 17**


Questa lettera mi ricordò quello che avevo dimenticato: la minaccia del demone. La notte delle tue nozze io sarò al tuo fianco. Questa era la mia condanna e quella notte il demone avrebbe impiegato ogni sua arte per distruggermi e strapparmi quella pallida felicità che avrebbe potuto ripagarmi delle mie sofferenze. Ebbene: che le cose seguissero il loro corso! In quel momento avrebbe avuto luogo una lotta mortale: se avesse vinto lui avrei riposato in pace e il suo potere su di me sarebbe cessato. Se avessi vinto io sarei stato un uomo libero! Ahimè! Quale libertà? Quella di un contadino a cui la famiglia è stata massacrata, la casa bruciata, la terra devastata e che è costretto ad andare per il mondo, senza casa, senza denaro, senza amore. Libero! Era questa la mia libertà: ma nella mia Elizabeth avevo comunque un tesoro, anche se gli orrori e il rimorso mi avrebbero ossessionato fino alla morte.

Dolce, adorata Elizabeth! Leggevo e rileggevo la sua lettera e i sentimenti più dolci mi scendevano nel cuore, mi bisbigliavano sogni paradisiaci di amore, di felicità; ma la mela era stata già morsa e la spada dell'angelo sguainata per scacciarmi lontano dalla speranza. Sarei morto per renderla felice. Se il mostro avesse messo in atto la sua minaccia la morte era inevitabile: mi chiedevo però se il matrimonio affrettato avrebbe accelerato il mio destino. La mia distruzione poteva avvenire qualche mese prima: d'altro canto, se il mio aguzzino avesse sospettato che rimandavo per le sue minacce avrebbe trovato altri modi, forse più spaventosi, per vendicarsi. Aveva giurato di essere al mio fianco la notte delle nozze, ma non aveva inteso questa minaccia come una promessa di tregua nel frattempo, poiché, quasi a mostrarmi che non era ancora sazio di sangue, subito dopo aveva ucciso Clerval. Decisi allora che se un matrimonio immediato con mia cugina avesse potuto fare la felicità sua e di mio padre, le mene del mio nemico non dovevano ritardarlo neppure di un'ora.

In tale stato d'animo scrissi a Elizabeth. La mia lettera era calma e affettuosa: «Temo, mia adorata fanciulla», dicevo, «che ci resti poca felicità su questa terra; ma quella che io potrò mai ottenere viene da te! Scaccia le tue inutili paure: dedico solo a te la mia vita e i miei tentativi di essere felice. Ho un segreto, Elizabeth, uno spaventoso segreto: quando te l'avrò rivelato ti farà agghiacciare. Allora, anziché sorprenderti della mia tristezza, ti meraviglierai che sia riuscito a sopravvivere a quanto ho dovuto soffrire. Ti confiderò questa storia di angoscia e orrore il giorno dopo il nostro matrimonio, perché, mia dolce cugina, tra noi ci deve essere un'assoluta confidenza. Ma fino ad allora, ti scongiuro, non ricordarmelo e non alludervi mai. È la mia più fervida preghiera e so che la esaudirai».

Circa una settimana dopo l'arrivo della lettera di Elizabeth, eravamo a Ginevra. La dolce fanciulla mi accolse con un caldo abbraccio, ma quando vide il mio volto pallido e le guance emaciate, le vennero le lacrime agli occhi. Era più magra e aveva perduto quella prodigiosa vivacità che un tempo mi aveva affascinato: ma la sua tenerezza e i dolci sguardi di compassione la rendevano la compagna più adatta a un essere distrutto e triste quale ero io.

La pace di cui godevo non durò molto. La memoria portò con sé la follia. Quando pensavo a ciò che avevo passato mi prendeva una vera e propria pazzia. A volte mi infuriavo e smaniavo di rabbia. Altre volte ero depresso e abbattuto. Non parlavo e non guardavo nessuno, sedevo immobile, annientato dalla enorme quantità di disgrazie che mi soverchiavano.

Solo Elizabeth aveva il potere di trarmi fuori da simili eccessi: la sua voce gentile mi placava quando ero travolto dalla furia e tornava a suggerirmi sentimenti umani quando ricadevo nel torpore. Piangeva con me e per me. Quando ritornavo alla ragione, mi rimproverava e cercava di ispirarmi un sentimento di rassegnazione. Ah! La rassegnazione è un bene per chi subisce la sventura, ma per il colpevole non c'è pace. Il rimorso avvelena il piacere che a volte viene dall'abbandonarsi al dolore.

Subito dopo l'arrivo, mio padre parlò di un matrimonio immediato con Elizabeth. Rimasi muto.

«Hai forse un altro legame?».

«Nessuno. Amo Elizabeth e aspetto con gioia le nostre nozze. Si fissi il giorno. Mi consacrerò vivo o morto alla felicità di mia cugina».

«Mio caro Victor non parlare così. Grandi sventure ci hanno colpito, ma teniamoci ancora più stretto ciò che ci rimane e offriamo l'amore per quelli che abbiamo perso a quelli che ancora sono in vita. La nostra famiglia sarà piccola, ma profondamente legata dall'affetto e dalla sfortuna. E quando il tempo avrà addolcito la tua disperazione, nuovi, cari oggetti di premure saranno nati. Daremo loro il posto di quelli di cui siamo stati così crudelmente privati».

Così ammoniva mio padre. Ma il ricordo della minaccia diabolica mi tornava alla mente. Non vi meravigliate se consideravo il demone invincibile: si era dimostrato onnipotente nelle sue scelleratezze e quando aveva detto 'la notte del tuo matrimonio sarò al tuo fianco', avevo sentito che il mio fato era fissato. Ma la morte non era un male per me, in confronto alla perdita di Elizabeth: per questo, allegro in volto, decisi di fissare la cerimonia entro dieci giorni, se mio padre ed Elizabeth erano d'accordo. Mi sembrava di mettere un sigillo al mio fato.

Gran Dio! Se avessi immaginato per un solo istante le vere, diaboliche intenzioni del mio demoniaco nemico, mi sarei condannato all'esilio, lontano dalla patria, bandito, senza amici, piuttosto che acconsentire a questo sventurato matrimonio. Ma il mostro - aveva forse poteri magici? - mi aveva accecato.

Mentre credevo di preparare la mia morte affrettavo quella di una vittima ben più preziosa.

Si avvicinava l'ora fissata e io, forse per vigliaccheria o forse per un presentimento, mi sentivo mancare il cuore. Tuttavia nascondevo i miei sentimenti, fingendo un'allegria che metteva gioia e sorrisi sul viso di mio padre, ma che a stento ingannava l'occhio vigile e ansioso di Elizabeth. Ella attendeva la nostra unione con serenità, non disgiunta dal timore, derivato dalle precedenti disgrazie, che quella che sembrava una felicità sicura e solida sarebbe potuta svanire a un tratto come un sogno ingannevole, senza lasciar altra traccia di sé, se non un profondo, eterno rimpianto.

Furono fatti i preparativi per il grande evento: ricevemmo visite di felicitazione e tutti sorridevano. Io celavo come meglio potevo l'ansia che mi straziava e partecipavo con slancio solo apparente ai preparativi di mio padre, anche se questi sarebbero forse serviti solo come fondale per la mia tragedia. Per interessamento di mio padre, parte dell'eredità di Elizabeth le era stata restituita dal governo austriaco. Sulle rive del lago di Como c'era una piccola proprietà che le apparteneva. Stabilimmo che subito dopo le nozze saremmo andati lì, a Villa Lavenza, per passare i primi giorni della nostra felicità sul bel lago dove essa sorgeva.

Nel frattempo presi ogni precauzione per salvaguardarmi, in caso il demonio mi avesse aggredito. Portavo sempre pugnale e pistola e stavo sempre in guardia per prevenire un agguato. Così mi sentivo più tranquillo. Anzi, man mano che la data si avvicinava, il peso della minaccia diminuiva: diveniva qualcosa di immaginario, che non avrebbe potuto turbare la mia quiete, mentre la felicità che speravo di ottenere con il matrimonio si delineava con contorni sempre più netti. Il giorno fatale si appressava: io ne sentivo parlare da tutti come di un evento che nessun incidente avrebbe potuto ostacolare.

Elizabeth sembrava felice. Il mio comportamento tranquillo calmava molto il suo cuore. Ma il giorno delle nozze, che doveva segnare il compimento dei miei desideri e del mio destino, era malinconica e come pervasa da un oscuro presagio di sventura; forse pensava anche a quel segreto tremendo che avevo promesso di rivelarle il giorno seguente. Intanto mio padre era esultante e, preso dai preparativi, non vedeva nella malinconia della nipote che le esitazioni di ogni giovane sposa.

Dopo la cerimonia, un grande numero di invitati si raccolse in casa di mio padre. Era stato deciso che saremmo partiti subito per via d'acqua, fermandoci a Evian la notte. Il tempo era bello, il vento favorevole: tutto era propizio al nostro viaggio di nozze.

Furono gli ultimi momenti della mia esistenza in cui provai una qualche felicità. Procedevamo veloci sull'acqua: il sole era caldo, ma eravamo riparati dai suoi raggi da una tenda. Ci godevamo la bellezza della scena: ora costeggiavamo una riva del lago, ammirando il monte Salève, le dolci pendici del Montalègre e, da lungi, il meraviglioso Monte Bianco, che sovrastava le cime coperte di neve inutilmente in gara con la sua bellezza; ora, costeggiando la riva opposta, scorgevamo il Giura, barriera insormontabile per l'invasore, che mostra il suo volto severo a chi abbandona il paese natale.

Presi la mano di Elizabeth: «Sei triste, amor mio? Ah! Sapessi quel che ho patito io e ciò che forse m'attende! Allora, forse, cercheresti di lasciarmi godere quest'attimo di tregua dal dolore e di serenità che questo giorno mi regala».

«Sii felice, Victor caro», replicò Elizabeth. «Non c'è nulla, spero, che ti turbi. Sii certo che, se la gioia non si legge sul mio volto, il mio cuore è appagato. Qualcosa mi sussurra di non fidarmi troppo del futuro felice che intravvedo. Ma non ascolterò una voce così sinistra. Guarda! Avanziamo veloci come le nuvole che a volte si oscurano e a volte si alzano sul Monte Bianco, rendendo più pittoresca questa scena piena di bellezza. Quanti pesci nuotano nell'acqua limpida! Si vede ogni sasso sul fondo! Che giornata divina! Com'è felice la natura!».

Così Elizabeth cercava di allontanare i suoi e i miei pensieri dalla tristezza. Ma il suo umore era mutevole: in alcuni istanti di gioia le lucevano gli occhi; in altri momenti le trascorreva nello sguardo un'accorata e trasognata malinconia.

Il sole calò. Passammo il fiume Drance e ne osservammo il corso, prima attraverso i burroni delle cime più alte, poi per le valli delle colline più basse. Le Alpi scendevano in questo punto a sfiorare il lago. Ci avvicinammo all'anfiteatro di montagne che ne formano il confine orientale. Il campanile di Evian scintillava tra gli alberi che lo circondavano, in mezzo alle catene di monti che lo sovrastavano.

Il vento che fino ad allora ci aveva spinto con straordinaria velocità, si mutò in una brezza lieve: un'aria lieve increspava appena la superfice dell'acqua e muoveva dolcemente le foglie, portando dalla riva un delizioso odore di fiori e di fieno. Quando sbarcammo il sole era sparito dall'orizzonte. Toccai terra e subito sentii rivivere in me tutta l'ansia e il terrore che ben presto mi avrebbero ghermito per non abbandonarmi mai più.


CAPITOLO XXIII




Erano le otto quando sbarcammo. Passeggiammo lungo la riva, godendoci la fuggente luce diurna. Poi ci ritirammo all'interno e ammirammo lo scenario splendido delle acque, dei boschi e dei monti scuriti dalla sera, i cui contorni incerti erano ancora visibili.

Il vento, caduto a sud, si levò con gran violenza a ovest. La luna raggiunse il culmine e iniziò la sua discesa nel cielo: più veloci di avvoltoi, nuvole nere ne offuscavano i raggi; lo spettacolo era riflesso dal lago in cui le onde senza riposo cominciavano ad alzarsi. Un violento temporale scoppiò.

Ero rimasto calmo tutto il giorno; ma appena la notte velò la forma delle cose, mi nacquero mille timori. Ero guardingo, pieno d'ansia, con la destra stretta sul calcio della pistola: qualsiasi scricchiolio mi terrorizzava, ma ero pronto a vendere a caro prezzo la vita e a non abbandonare la lotta fino a che uno dei due fosse rimasto sul terreno.

Elizabeth osservò per un po' la mia agitazione, timida, impaurita, silenziosa. Ma c'era qualcosa nei miei occhi che le trasmise il mio terrore e tremando mi chiese: «Che cos'hai, caro Victor? Che cosa temi?».

«Oh! Taci! Taci amore mio», risposi. «Ancora questa notte e poi sarà tutto finito. Ma questa notte è spaventosa. Sì, spaventosa».

Passai un'ora in questo stato d'animo, poi all'improvviso mi resi conto di come sarebbe stato terrificante per Elizabeth assistere alla lotta imminente. La pregai di ritirarsi, assicurandola che l'avrei raggiunta presto, non appena, dissi tra me, avessi capito dov'era quel demonio.

Mi lasciò. Io continuai a camminare avanti e indietro, ispezionando ogni corridoio della casa, ogni angolo che potesse offrire un nascondiglio. Non trovai traccia del mio nemico e cominciai a pensare che qualche felice coincidenza avesse sventato le minacce del mostro. All'improvviso udii un grido. Acuto. Angoscioso. Veniva dalla stanza di Elizabeth. La verità mi balenò alla mente. Le braccia mi caddero inerti lungo i fianchi. Non riuscivo a muovere un muscolo. Sentivo il sangue scorrere nelle vene e bruciarmi le membra. Non fu che un attimo. L'urlo si ripeté. Balzai nella stanza.

Dio mio! Perché non spirai all'istante? Perché sono ancora qui a raccontare la rovina delle mie speranze e la distruzione della creatura più cara della terra? Giaceva esanime, di traverso sul letto, con la testa reclinata, i lineamenti sbiancati dal pallore e contratti, seminascosti dai capelli sparsi. Braccia esangui Un corpo senza vita Vedo sempre quest'immagine dovunque mi giri Il letto come una bara, una bara nuziale Come potevo sopravvivere? La vita è ostinata e si attacca più forte a chi più la disprezza. Persi i sensi e caddi.

Quando rinvenni ero circondato da gente della locanda. Il loro viso esprimeva solo un terrore mortale: ma il loro orrore sembrava una parodia, un'ombra della passione che mi sconvolgeva. Mia moglie, un attimo prima così viva, così cara, così preziosa Mi precipitai nella stanza Era stata spostata dalla posizione precedente e ora giaceva con la testa sul braccio, e aveva un fazzoletto sul viso e sul collo. Si sarebbe detto che dormisse. Corsi verso di lei e l'abbracciai con ardore ma il gelo e la pesantezza del suo corpo mi diedero la certezza che ciò che avevo tra le braccia non era più la mia Elizabeth, che avevo amato e adorato. Sul collo il marchio del demonio. Sulle labbra mute l'ombra del sorriso svanito.

Mentre disperato mi abbandonavo su di lei, alzai gli occhi e nel riquadro della finestra spalancata, da cui entrava a fiotti la luce diafana della luna, vidi con orrore la figura più odiosa, più ripugnante: vidi un riso crudele su un viso di mostro; vidi lo scherno di un demonio che mi indicava il corpo di mia moglie. Balzai alla finestra. Subito sparai. Mi sfuggì. Sembrò una folgore che si tuffasse nel lago.

L'eco del colpo fece accorrere la gente. Indicai il punto dove era sparito. Ne seguimmo le tracce con le barche, gettando delle reti. Fu tutto inutile. Scoraggiati, dopo molte ore, tornammo indietro. I miei compagni erano convinti che si trattasse di un'allucinazione. Giunti a terra, comunque, si divisero in gruppi e cominciarono a battere i campi, i boschi, le vigne. Tentai di andare con loro e percorsi un breve tratto. Mi girava la testa e camminavo come un ubriaco. Caddi, sfinito. Un velo mi scivolò sugli occhi mentre la pelle mi bruciava per la febbre. Fui riportato indietro e messo a letto, semincosciente. I miei occhi vagavano alla ricerca di qualcosa perduto.

Dopo un po' mi alzai e mi trascinai nella stanza dove giaceva il corpo del mio amore. Intorno le donne piangevano. Mi chinai su Elizabeth e unii le mie lacrime alle loro. Nessuna idea chiara mi passò per la mente in quella circostanza. La mia mente sconvolta vagava da un'immagine all'altra, farneticando. Mi passavano davanti agli occhi, in una nuvola di stupore, di orrore, la morte di William, l'esecuzione di Justine, l'assassinio di Clerval, e infine quello di Elizabeth. Non sapevo neppure se i miei cari, ancora superstiti, erano al sicuro dalla vendetta del demonio. Mio padre si stava già torcendo sotto le sue mani? Ed Ernest? Era già morto ai suoi piedi? Quest'idea mi risvegliò con un brivido e mi richiamò all'azione. Mi alzai di scatto e decisi di tornare a Ginevra al più presto.

Non si trovava un cavallo. Dovevo tornare via lago. Il vento era sfavorevole e la pioggia cadeva a torrenti. Faceva giorno. Potevo sperare di arrivare prima di sera. Ingaggiai dei rematori, io stesso afferrai un remo: l'esercizio fisico mi era sempre servito ad alleviare i tormenti del cuore. Ma il dolore smisurato che provavo mi paralizzava. Gettai il remo. Appoggiai la testa tra le mani e diedi libero sfogo ai miei cupi pensieri. Se alzavo lo sguardo rivedevo scenari dei momenti felici: il giorno prima li avevo contemplati con colei che oggi era un'ombra, un ricordo. Piangevo. La pioggia cessò. Vidi i pesci giocare nell'acqua come poche ore prima, quando Elizabeth li aveva osservati. Niente è così doloroso per la mente umana come un mutamento drastico, immediato. Ormai, con il sole o con le nuvole, nulla mi sarebbe apparso come il giorno precedente. Un demone aveva sradicato ogni speranza di felicità futura. Nessuno ha mai sofferto tanto.

Ma perché dovrei indugiare a descrivere ciò che seguì quest'ultima sciagura? La mia è una storia di orrori: ho raggiunto lo zenith. Il resto vi sembrerà noioso. Sappiate solo che i miei cari mi furono strappati uno a uno.

Sono rimasto solo. Le mie forze si sono esaurite e vi devo narrare in poche parole il resto della mia triste vicenda.

Arrivai a Ginevra. Mio padre ed Ernest erano ancora vivi. Ma il primo cedette al peso delle sventure. Lo vedo ancora quello straordinario vecchio! I suoi occhi si guardano attorno, vuoti, privati di ogni gioia: la sua Elizabeth, sua più di una figlia, colei che aveva adorato con la tenerezza di un vegliardo che, sul declinare degli anni, si aggrappa ai pochi affetti che gli rimangono. Maledetto! Maledetto il demonio che lo condannò a morire di dolore, versando il veleno dell'infelicità sulla sua chioma canuta! Si spezzò all'improvviso. Non riuscì a resistere all'orrore. Rimase a letto per pochi giorni e spirò tra le mie braccia.

Che mi accadde allora? Non lo so. Persi ogni percezione. Sentivo solo le tenebre e lo stridore delle catene. Sognavo a volte di vagare per prati fioriti, con gli amici della mia giovinezza: mi svegliavo e mi ritrovavo in una segreta! Caddi in un'abulia totale. Poi, mi resi conto, a poco a poco, della mia condizione, delle mie disgrazie. Ero davvero in una cella solitaria. Mi avevano dichiarato pazzo. Mi avevano rinchiuso in una stanza oscura. Per mesi.

La libertà sarebbe stata però un dono inutile, se, insieme alla coscienza, non si fosse ridestato in me il desiderio di vendetta. Quanto più la rimembranza del dolore antico si ridestava tanto più chiara ne appariva la causa: il mostro, la mia miserabile creatura, il demone che per mia rovina avevo sguinzagliato per il mondo! Una rabbia pazza mi possedeva: lo avrei voluto in mio potere per far calare sulla sua testa esecrata la vendetta più singolare, più smisurata.

Né il mio odio si limitò ai vani desideri. Cominciai a studiare il mezzo migliore per catturarlo. Un mese dopo la mia liberazione andai dal giudice della città a sporgere denuncia: sapevo chi era l'assassino, lo sterminatore della mia famiglia e gli chiedevo di assicurarlo alla giustizia.

Il magistrato, attento, gentile, mi ascoltò fino in fondo. «Siate certo», mi disse, «che non risparmieremo sforzi per catturare il colpevole».

«Grazie», risposi. «Ascoltate dunque la mia deposizione. È una storia così strana che dubito la crediate. Ma nella verità c'è sempre qualcosa che vi costringe in ogni circostanza a prestare fede a chi l'espone. E poi la mia storia è troppo coerente per essere un sogno. Che motivi avrei per dire il falso?». Il mio tono era impressionante, ma calmo; in cuor mio avevo deciso di inseguire il mio distruttore fino alla morte. Così avevo spento la mia angoscia e mi ero acquietato, riconciliandomi con la vita. Raccontai la mia storia, brevemente, ma con fermezza e precisione, citando date e fatti, senza mai scadere nel rancore personale.

All'inizio il magistrato sembrava incredulo: ma mentre procedevo diveniva sempre più attento e interessato. A momenti lo vedevo rabbrividire d'orrore, altre volte gli si dipingeva sul volto una viva sorpresa, scevra di ogni incredulità.

Alla fine del racconto dissi: «Questo è l'essere che io accuso e per la cui cattura e punizione vi chiedo di esercitare ogni vostro potere. Come magistrato è vostro dovere farlo; spero anche che i vostri sentimenti di uomo non vi trattengano, in quest'occasione, dall'esercitare le vostre funzioni».

La mia conclusione provocò un notevole mutamento nel volto del mio interlocutore. Aveva seguito la mia storia con quella strana credulità che si accorda a un racconto di spettri o di esseri soprannaturali; ma quando gli fu chiesto di agire di conseguenza, tutta la sua incredulità riapparve. Mi rispose però con tono pacato: «Vi offrirei volentieri aiuto, ma la creatura di cui voi parlate sembra dotata di poteri tali da sfidare ogni mio sforzo. Chi può inseguire un essere che riesce a traversare il mare di ghiaccio o abita in grotte e anfratti ove nessuno oserebbe avventurarsi? E poi sono ormai trascorsi alcuni mesi dai suoi ultimi delitti: chi può dire dove si trovi ora?».

«Non ho nessun dubbio sul fatto che si aggiri nei pressi del luogo ove dimoro: e se invece avesse cercato rifugio sulle Alpi, gli si può dare la caccia. Come un camoscio! Lo si può uccidere come una fiera selvaggia! Ma capisco Voi non mi credete. Non intendete inseguire il mio nemico e dargli la punizione che si merita».

L'ira mi ardeva nelle pupille: il magistrato ne fu intimorito. «Vi sbagliate!», disse. «Farò certamente ogni sforzo; e se è in mio potere catturare questo mostro, siate certo che avrà una punizione adeguata! Ma temo che la cosa sia al di fuori delle mie possibilità, a giudicare dal racconto che mi avete fatto. Credo che dovrete prepararvi a una delusione, anche se verrà presa ogni misura necessaria».

«No. Non mi rassegnerò! Ma tutto quello che dico non vi interessa. La mia vendetta non vi riguarda. Eppure, anche se ammetto che ciò è male, confesso che è l'unica passione della mia vita. La mia ira è superiore a ogni immaginazione: se penso che l'assassino che io stesso ho creato è ancora vivo Voi rifiutate la mia giusta richiesta; mi resta una sola cosa da fare: vivo o morto mi consacrerò alla sua ricerca e alla sua distruzione!».

Mentre parlavo ero scosso da un tremito: c'era una frenesia nei miei gesti, quell'altera fierezza che si dice avessero i martiri. Ma per un magistrato ginevrino, in tutt'altre faccende affaccendato, questo slancio di dedizione e di eroismo aveva l'aria della follia. Cercò di calmarmi, come fa la nurse con un bambino e alluse alla mia storia come all'effetto dei miei deliri.

«Uomo», gli dissi. «Nell'orgoglio della tua sapienza sei cieco! Taci! Non sai quel che dici!».

Mi precipitai fuori da quell'edificio furioso e sconvolto, e mi ritirai a meditare un altro piano d'azione.


CAPITOLO XXIV




Nella mia situazione ogni pensiero razionale era inghiottito o cancellato. Ero incalzato dalle furie: solo la brama di vendetta mi dava forza e pacatezza, dava forma ai miei sentimenti e mi consentiva di essere calmo e calcolatore in momenti in cui non mi sarebbe rimasto altro destino che il delirio o la morte.

La mia prima decisione fu di lasciare Ginevra per sempre: il mio paese, che mi era stato così caro quando ero amato e felice, ora, nella sventura, mi era insopportabile. Presi con me una somma di denaro e dei gioielli di mia madre e partii.

E così cominciarono le mie peregrinazioni, che avranno termine solo insieme alla mia vita. Ho traversato gran parte della terra, sopportando tutti quei disagi che di solito il viaggiatore incontra nei deserti o nei paesi barbari. Non so come sia sopravvissuto: molte volte ho riposato su un letto di sabbia, invocando la morte. Ma è il desiderio di vendetta che mi dà la vita: non posso morire lasciando che il mio avversario viva.

Quando abbandonai Ginevra, la mia prima preoccupazione fu di avere qualche indizio per ritrovare traccia del mio diabolico nemico. Ma i miei progetti erano vaghi e girai per ore e ore alla periferia della città, incerto sulla strada da seguire. Al sopraggiungere delle tenebre mi trovai all'entrata del cimitero dove riposavano William, Elizabeth e mio padre. Entrai e mi avvicinai al tumulo che indicava il luogo della sepoltura. Tutto taceva. Solo le foglie mosse dal vento mormoravano. La notte era completamente nera. La scena, vista da un osservatore spassionato, sarebbe stata commovente, solenne. L'ombra dei morti fluttuava intorno avvolgendo con un alone invisibile, ma percepibile, il capo del visitatore.

Il profondo dolore che la scena aveva suscitato ben presto si mutò in rabbia e disperazione. Essi erano morti e io vivevo: anche il loro assassino era vivo. Per distruggerlo dovevo continuare a trascinare la mia miserabile esistenza. Mi inginocchiai sull'erba: baciai la terra e con le labbra che fremevano dissi: «Per la santa terra su cui sono in ginocchio, per le ombre che si aggirano inquiete intorno, per il profondo ed eterno dolore che sento per te, o Notte, per gli spiriti che a te presiedono, io giuro di inseguire il demone che ha provocato questa infelicità, fino a che io o lui periamo in una lotta mortale. A questo scopo mi manterrò in vita: per eseguire questa dolce vendetta vedrò ancora il sole e calcherò le verdi zolle, che altrimenti scomparirebbero per sempre dai miei occhi. E invoco voi, spiriti dei morti e voi, ministri errabondi della vendetta, di guidarmi e consigliarmi nella mia opera. Che quel maledetto mostro infernale assaggi il gusto dell'agonia, che senta la disperazione che sento io!».

Avevo cominciato il giuramento con solennità e con un sentimento di timore reverenziale, tanto che credetti che le ombre dei miei morti mi ascoltassero e approvassero la mia preghiera. Ma quando giunsi alla fine le furie si erano impadronite di me e la rabbia soffocava le mie parole.

Nella quiete della notte mi rispose una lunga, satanica risata. Stridula, assordante mi risuonò nelle orecchie, riecheggiata dalle montagne. Mi sembrò che tutto l'inferno mi circondasse con risate di scherno! Avrei potuto uccidermi o essere travolto dalla pazzia, ma il mio voto era stato ascoltato e io ero consacrato alla vendetta. La risata si spense e una voce odiosa, ben conosciuta, che sembrava vicina alle mie orecchie, bisbigliò sommessa: «Sono contento: povero infelice! Hai deciso di vivere e io ne sono contento!».

Corsi verso il buio da dove veniva la voce, ma quel demonio mi sfuggì ancora. La luna salì in cielo e illuminò la figura deforme, spettrale che correva a velocità disumana.

Lo inseguii e per molti mesi questo fu il mio solo scopo. Guidato da deboli indizi, seguii invano i meandri del Rodano. L'azzurro Mediterraneo mi apparve e per una strana coincidenza vidi il demonio che saliva su un vascello, nella notte, diretto al Mar Nero. Ottenni un passaggio sulla stessa nave dov'era nascosto, ma, non so come, riuscì a sfuggirmi.

Non persi le sue tracce neppure nella steppa dei Tartari e dei Russi: continuava a sfuggirmi, ma io non perdevo le sue tracce. A volte i contadini, spaventati dall'orrenda visione, mi informavano sul cammino che aveva preso; a volte lui stesso, temendo che mi sarei lasciato morire dalla disperazione, lasciava qualche indizio a bella posta. La neve scendeva e io scorgevo nella pianura l'impronta dei suoi piedi. Potete capire cosa provavo e cosa provo, voi che vi affacciate ora alla vita? Il freddo, il bisogno, la stanchezza non erano i mali peggiori: ero stato dannato da qualche demone e mi portavo sempre appresso il mio inferno. Tuttavia, un angelo benefico mi seguiva e dirigeva i miei passi e nel momento peggiore, all'improvviso, mi traeva da difficoltà insuperabili. A volte trovavo cibo nel deserto, quando già mi sentivo venir meno dalla fame. Era il cibo semplice dei contadini, ma non dubito che mi venisse preparato da qualche spirito che avevo chiamato in mio aiuto. Spesso, quando tutto era brullo intorno, il cielo senza nuvole e io ero consumato dalla sete, una nube leggera oscurava il sole, lasciando cadere qualche goccia che mi rianimava. E poi spariva.

Seguivo, quando era possibile, il corso dei fiumi, ma il demone li evitava, perché la popolazione di ogni paese si addensa sulle rive. Altrove non c'era nessuno: io in genere mi nutrivo degli animali selvatici che incontravo sul mio cammino. Avevo con me del denaro e con esso mi guadagnavo l'amicizia degli abitanti dei villaggi; oppure portavo con me la selvaggina catturata e la scambiavo con chi mi dava fuoco o utensili per cuocere la piccola parte che tenevo per me.

La vita mi era odiosa. Solo durante il sonno sentivo qualche gioia. Sonno benedetto! Spesso, nei momenti di più grande infelicità, mi abbandonavo al riposo e i sogni mi cullavano fino all'estasi. Erano i miei spiriti a proteggermi così, regalandomi momenti, anzi ore, di felicità, perché conservassi le forze necessarie a portare a termine il mio pellegrinaggio. Privo di questo sollievo sarei caduto schiacciato dalle difficoltà. Durante il giorno ero ispirato e sostenuto dall'attesa della notte, perché nel sonno vedevo i miei cari, Elizabeth, il mio paese; udivo la voce argentina di mia moglie, scorgevo lo sguardo benevolo di mio padre o di Clerval, pieno di salute, nel fiore degli anni. Spesso, durante un'interminabile marcia, mi convincevo che avrei sognato fino al calare della notte, quando sarei tornato alla realtà, tra le braccia dei miei dolci amici. Che struggente tenerezza provavo nei loro confronti! Come mi aggrappavo alle loro forme adorate, che a volte non mi abbandonavano durante tutto il giorno, e come ero convinto che fossero ancora vivi! In quei momenti la brama di vendetta che mi divorava si placava nel mio cuore, e io seguitavo il cammino verso la distruzione del demone, più come un compito ordinatomi dal cielo, un impulso meccanico di qualche arcano potere, che come un bruciante desiderio dell'anima mia.

Non so quali fossero i sentimenti di colui che inseguivo. A volte lasciava parole incise sulla corteccia degli alberi o sulla pietra, che alimentavano il mio furore. «Il mio regno non è ancora finito!», (erano le parole che si leggevano in una di queste scritte) oppure «Tu vivi, ma il mio potere su te è totale. Seguimi. Sono diretto alla volta dei ghiacci sempiterni del nord, dove troverai le sofferenze di un gelo crudele a cui io sono insensibile. Qui vicino, se mi segui, c'è una lepre morta. Mangiala e ristorati. Avanti, mio nemico: dobbiamo lottare ancora per le nostre vite, ma prima che arrivi il momento fatale dovrai sopportare molte ore dure e penose».

Diavolo beffardo! Ancora una volta giurai vendetta e lo destinai alle torture e alla morte. Infame demonio! Non avrei rinunciato mai all'inseguimento, fino alla morte di uno dei due. Poi, con quale estasi mi sarei ricongiunto alla mia Elizabeth e ai miei cari perduti, che stavano già preparando il premio al mio faticoso errare, al mio pellegrinaggio senza fine.

Mentre continuavo il viaggio verso nord, la neve diveniva sempre più alta, finché il freddo arrivò al punto da essere insopportabile. I contadini erano rinchiusi nei loro casolari e solo i più coraggiosi osavano uscire per catturare gli animali cacciati dalle tane dal bisogno di preda. I fiumi erano gelati e non era possibile procurarsi del pesce. Così restai senza il mio alimento principale.

Il trionfo del mio nemico cresceva con i miei disagi e le mie fatiche. Una delle incisioni che mi lasciò diceva: «Preparati! Le tue difficoltà sono appena iniziate. Avvolgiti in pellicce e procurati del cibo, perché presto comincerai un viaggio in cui i tuoi patimenti soddisferanno alfine il mio odio eterno!».

A queste parole di scherno, si rianimarono il mio coraggio e la mia ostinazione; decisi di non fallire nel mio proposito e, invocando il Cielo in soccorso, continuai a traversare lande sterminate con incrollabile passione, finché al confine estremo dell'orizzonte non comparve l'oceano. Oh! Com'era diverso dai mari azzurri del Sud! Coperto di ghiaccio, si distingueva dalla terraferma solo per la sua superficie più desolata e irregolare. I greci piansero di gioia scoprendo improvvisamente il Mediterraneo dalle colline dell'Asia e salutarono esultanti il termine della loro fatica. Io non piansi, ma mi inginocchiai e col cuore gonfio resi grazie agli spiriti che mi guidavano per avermi condotto in salvo al luogo dove, nonostante gli strali del mio nemico, speravo di incontrarlo e costringerlo allo scontro mortale.

Alcune settimane prima mi ero procurato una slitta e dei cani e avevo potuto attraversare le nevi a incredibile velocità. Non so se anche il demone ne avesse una, ma scoprii che mentre prima ogni giorno perdevo terreno, ora ne guadagnavo; tanto che quando scorsi per la prima volta l'oceano egli aveva solo una giornata di vantaggio e speravo di sorprenderlo prima che giungesse alla costa. Ripresi dunque il cammino con insolito vigore, e dopo un paio di giorni arrivai a un povero villaggio sulla riva del mare. Chiesi agli abitanti notizie del demone e ottenni precise informazioni. Un mostro gigantesco, dissero, era giunto la notte prima, armato di fucile e pistole. Gli abitanti erano fuggiti, impauriti dal suo aspetto terrificante, rifugiandosi in una casa isolata. Il mostro aveva rubato tutte le scorte per l'inverno e dopo aver preso una muta di cani addestrati, era ripartito la notte stessa, con gioia degli abitanti inorriditi, diretto verso il nulla sul mare ghiacciato. Ed essi ne avevano dedotto che sarebbe stato travolto dal rompersi dei ghiacci o che sarebbe rimasto imprigionato nel gelo eterno.

A questa notizia precipitai in un momentaneo accesso di disperazione. Mi era sfuggito e dovevo affrontare un viaggio pericoloso e quasi interminabile attraverso montagne di ghiaccio, con un freddo che pochi degli abitanti riuscivano a sopportare a lungo. Io, nativo di un clima mite e solatio, non potevo sperare di sopravvivere. Tuttavia l'idea che il demonio vivesse e trionfasse su di me, l'ira funesta e la bramosia di vendetta si risvegliarono e travolsero, con la furia di una marea, ogni altro sentimento. Dopo un breve riposo, in cui sentii intorno a me la presenza degli spiriti dei defunti che mi incitavano alla vendetta, mi preparai al viaggio.

Cambiai la slitta da terra con una costruita per la superficie irregolare dell'oceano gelato e, acquistata una buona scorta di provviste, abbandonai la terraferma.

Non so quanti giorni siano trascorsi da allora; ma ho sopportato sofferenze che solo l'attesa irriducibile di una giusta ricompensa che mi ardeva in petto mi mise nelle condizioni di superare. Gigantesche montagne frastagliate mi sbarravano sovente la strada e spesso sentivo il brontolio del mare in tumulto che minacciava di uccidermi. Ma il freddo scendeva di nuovo e la via del mare ritornava sicura.

Penso di aver viaggiato tre settimane, a giudicare dalle provviste consumate. La continua tensione della speranza delusa mi strappava amare lacrime di pena e di sconforto. Ormai la disperazione aveva piantato i suoi artigli sulla sua preda e presto sarei caduto, schiacciato da queste sofferenze. Un giorno, dopo che le povere bestie che mi trainavano avevano raggiunto a prezzo di fatiche indicibili la cima di una montagna scoscesa e una di loro era caduta sfinita a morte, guardavo con angoscia la distesa sotto di me, quando il mio occhio vide una macchia scura sulla pianura deserta. Aguzzai la vista per scoprire che cosa fosse e gridai di esultanza distinguendo la slitta con la ben nota figura dalle inusitate proporzioni. Oh! Con che violenza la speranza tornó a visitare il mio petto! Calde lacrime mi riempirono gli occhi. Le asciugai in fretta perché non m'impedissero la vista di quel demonio, ma di nuovo un velo di lacrime ardenti mi annebbiò lo sguardo. E allora, cedendo all'emozione, proruppi in pianto.

Ma non era il caso di indugiare. Liberai i cani dal compagno morto e diedi loro una lauta razione di cibo. Dopo un'ora di riposo, necessario per loro ma penosissimo per me, continuai la strada. La slitta era ancora visibile. Non la perdevo di vista, eccetto che nei momenti in cui una massa di ghiaccio mi si parava innanzi con le sue forme irregolari. Avevo guadagnato terreno e dopo circa due giorni vidi il mio nemico a non più di un miglio. Il cuore mi balzò in gola.

Ma proprio allora, proprio quando l'avevo sotto mano, all'improvviso ogni speranza svanì. Lo persi come mai l'avevo perso. Si udì il ribollio del mare, il rumore delle onde che crescevano sotto di me, un rombo che diveniva ogni momento più sinistro e terrificante. Mi lanciai avanti. Invano. Si alzò il vento. Il mare urlò. Come per una spaventosa scossa di terremoto il ghiaccio si divise, spaccandosi con un frastuono assordante. Finì tutto subito: in un istante un mare tumultuoso ondeggiò tra me e il mio nemico e io mi trovai alla deriva su una lastra di ghiaccio che lentamente si assottigliava preparandomi un'orrida morte.

Passarono molte ore terribili. Molti dei miei cani perirono. Io stesso stavo per venire meno, quando scorsi la vostra nave che si teneva all'ancora e mi offriva una speranza di salvezza. Non avevo idea che le navi potessero arrivare così a nord. Rimasi stupefatto. Distrussi in parte la slitta per farne dei remi e con grandissima fatica riuscii a dirigere la mia zattera di ghiaccio verso la vostra nave. Avevo deciso che se andavate a sud mi sarei lasciato portare via dal mare, piuttosto che abbandonare l'impresa. Speravo di convincervi a prestarmi una barca per inseguire il mio nemico. Ma la vostra rotta era nord: mi tiraste su, privo di forze. Temevo la morte e ancora la temo perché il mio destino non è compiuto.

Oh! Quando, permettendomi di raggiungere il demone, lo spirito che mi guida mi concederà la pace che agogno? O è destino che io debba morire e lui continuare a vivere? Se è così, giuratemi, Walton, che non scamperà; che lo inseguirete e compirete voi la mia vendetta uccidendolo. Ma come oso chiedere a voi di affrontare un simile calvario, di patire le avversità che io ho sopportato? No. Non sono così egoista. Eppure, quando sarò morto, se dovesse ricomparire, se i ministri della vendetta dovessero portarlo a voi, giurate di non lasciarlo vivo, giurate che non trionferà dei mali che si sono accumulati sopra di me, che non sopravviverà per arricchire di nuovi, neri crimini la sua lista. È eloquente, è persuasivo e le sue parole un tempo ebbero potere anche su di me, ma non fidatevi di lui. La sua anima è infernale, quanto il suo aspetto. È pieno di inganno e di malvagità diabolica. Non ascoltatelo. Invocate i nomi di William, Justine, Clerval, Elizabeth, di mio padre, del povero Victor e spingete la vostra spada fino all'elsa nel suo petto. Io vi sarò vicino e guiderò la lama.



WALTON, continuando.


26 agosto 17**

Hai letto questa storia terrorizzante e bizzarra, mia Margaret? Non ti senti gelare il sangue come io ora sento gelare il mio? Quell'uomo, preso da spasimi improvvisi, a volte non riusciva neppure a continuare il racconto: altre volte, con la voce rotta ma stridula, pronunciava con difficoltà parole cariche d'angoscia. I suoi begli occhi ora brillavano d'indignazione, ora erano vinti da una tristezza profonda e velati da un'infelicità infinita. A volte riusciva a controllare l'espressione e il tono della voce, narrando i più incredibili fatti con calma, reprimendo ogni manifestazione esteriore. Poi, come un vulcano che esplode, una rabbia selvaggia all'improvviso sconvolgeva i suoi lineamenti, mentre urlava contro il suo persecutore.

Il suo racconto è coerente e ha tutte le apparenze della verità; tuttavia devo confessarti che le lettere di Felix e di Safie che mi ha fatto vedere e la visione del mostro avvistato dalla nave, mi hanno persuaso della verità delle sue parole molto più dei suoi giuramenti o delle sue descrizioni. Un tale mostro esiste! Capisci? Non posso aver dubbi. Eppure sono pieno di stupore e di sorpresa. Talvolta ho insistito per ottenere da Frankenstein dettagli sulla fabbricazione della sua creatura, ma su questo punto è rimasto impenetrabile.

«Siete pazzo amico mio?», mi ha detto. «Dove vi trascinerà la vostra insensata curiosità? Volete creare anche voi un nemico diabolico per voi e per il mondo? Tacete! Tacete! Imparate dal mio dolore. Non accrescete il vostro».

Frankenstein ha scoperto che ho preso appunti sulla sua storia; mi ha chiesto di vederli e li ha corretti lui stesso, facendovi delle aggiunte in molti punti, soprattutto per rendere meglio lo spirito dei colloqui col suo persecutore. «Visto che avete trascritto la mia storia», ha detto, «non vorrei che ne fosse tramandata una versione alterata».

Ho trascorso così una settimana ad ascoltare la storia più strana che mai la fantasia umana abbia creato. I miei pensieri e persino i miei sentimenti sono stati assorbiti dall'interesse per il mio ospite, suscitato da questa storia e dai suoi modi nobili e gentili. Vorrei aiutarlo, ma come posso consigliare a un uomo così sconsolatamente triste di continuare a vivere? Oh no! La sola gioia che potrà ancora provare sarà quella di ricomporre la sua anima distrutta nella quiete dell'ora fatale. Tuttavia, una consolazione ce l'ha, figlia della solitudine e del delirio: crede che i suoi cari, i suoi morti, non siano un parto della sua immaginazione, ma esseri esistenti che lo incitano alla vendetta o lo confortano nel dolore, tornando da un mondo lontano. Questa fede dà alle sue fantasticherie una solennità che le rende grandiose ed emozionanti quanto la verità.

I nostri colloqui non si limitano al racconto delle sue sventure. Su qualunque argomento culturale dimostra conoscenze illimitate e un'intelligenza pronta e penetrante. La sua eloquenza è impetuosa e affascinante: non posso ascoltarlo senza versare lacrime quando narra un avvenimento patetico o cerca di suscitare pietà o affetto. Che meravigliosa creatura deve essere stato nei giorni del suo splendore, se è così nobile, così simile a un dio nella rovina! Egli sembra consapevole del suo valore e della grandezza della sua caduta.

«Quando ero più giovane», mi ha detto, «mi ritenevo destinato a qualche impresa eccezionale. I miei sentimenti sono profondi, ma possedevo una freddezza intellettuale che mi predisponeva a grandi conquiste. Questa consapevolezza del valore della mia natura mi ha sorretto dove altri sarebbero crollati, perché giudicavo un vero crimine sprecare in inutili scene di dolore quel talento che avrebbe potuto giovare ai miei simili. Quando ripensavo al lavoro compiuto, la creazione di un essere sensitivo e intelligente, non potevo annoverarmi nella schiera dei comuni inventori. Ma questa riflessione, che all'inizio della mia carriera mi elevava, ora serve a sprofondarmi ancor più nella polvere. Tutte le mie ricerche, tutte le mie speranze ora sono nulla; e, come l'arcangelo che voleva farsi dio, sono incatenato in un inferno eterno. Avevo fantasia, un ingegno vivace, ma anche le mie facoltà di analisi e di applicazione erano intense: con la sintesi di tutte queste doti concepii ed eseguii la creazione di un uomo. Anche ora non riesco a ricordare senza emozione i sogni che facevo quando il mio lavoro non era ancora terminato. Coi miei pensieri toccavo il cielo, ora in estasi per il mio potere, ora bruciando di impazienza alla prospettiva dei risultati futuri. Fin da bambino mi era stato insegnato a nutrire grandi speranze e ambizioni. Ma come sono caduto in basso! Oh! Amico mio, se mi aveste conosciuto com'ero allora, non potreste riconoscere il mio io di allora nell'abiezione di oggi. La disperazione visitava raramente il mio animo; un nobile destino sembrava sorreggermi, finché precipitai per non alzarmi mai più».

E dovrei perdere quest'uomo ammirevole? Ho tanto desiderato un amico; ho cercato qualcuno che mi comprendesse e mi amasse. Ed ecco, ne ho trovato uno in mezzo a un mare desolato. Ma temo di averlo trovato solo per imparare ad apprezzarne il valore e poi perderlo. Vorrei riconciliarlo con l'esistenza, ma respinge l'idea.

«Vi ringrazio Walton», ha detto, «per le vostre buone intenzioni verso un povero essere così disgraziato. Ma quando parlate di nuovi affetti, nuovi legami credete forse che possano sostituire quelli perduti? Chi sarà per me come Clerval? E chi come Elizabeth? E anche se non tutti gli affetti sono suscitati da una natura superiore, i compagni della nostra infanzia hanno tutti un potere irresistibile sul nostro cuore, come solo raramente ha un amico conosciuto da adulti. Essi hanno condiviso con noi ciò che non sarà mai sradicato: l'innocenza. Possono giudicare le nostre azioni arrivando a conclusioni molto più giuste sull'onestà delle nostre intenzioni. Un fratello, una sorella non possono mai sospettarsi l'un l'altro di frode o di inganno, a meno che tali sintomi siano stati precoci nel cuore; un amico, per quanto affezionato, può anche essere visto con sospetto. Io ho avuto la gioia di avere amici cari non solo per abitudine e per lunga frequentazione ma per le loro qualità: ovunque io sia, la voce rasserenante di Elizabeth, le parole di Clerval mi risuoneranno sempre nelle orecchie. Sono morti e in questa solitudine un solo sentimento può convincermi a restare in vita. Se fossi impegnato in qualche altra impresa o in un progetto che fosse di grande utilità ai miei simili, allora potrei pensare a vivere per portarlo a termine. Ma questo è il mio destino: devo inseguire, devo distruggere il mostro che ho creato. Solo allora il mio destino sulla terra sarà compiuto, e solo allora potrò morire.



2 settembre

Mia cara sorella,

ti scrivo circondato da pericoli, ignorando se sono destinato a rivedere mai la mia amata Inghilterra e i carissimi amici che la abitano. Sono stretto in un assedio di montagne di ghiaccio che non lasciano scampo: a ogni istante minacciano di squassare la nave. I più arditi che ho convinto ad accompagnarmi si rivolgono a me in cerca di aiuto. Ma io non posso darglielo. C'è qualcosa di spaventoso nella nostra situazione: tuttavia il coraggio e la speranza non mi abbandonano. È terribile pensare che la vita di tutti questi uomini è in pericolo per colpa mia. Se periremo, la causa di tutto saranno i miei piani forsennati.

E quale sarà, Margaret, il tuo stato d'animo? Tu non saprai nulla della mia fine e aspetterai con ansia il mio ritorno. Passeranno gli anni e la disperazione ti ghermirà, mentre la speranza non ti darà pace. Oh! Mia adorata! Il male più doloroso per me è la consapevolezza del totale fallimento delle tue speranze più profonde. Ma tu hai un marito, dei bambini: puoi ancora essere felice. Il cielo ti benedica e te lo conceda!

Il mio disgraziato ospite mi guarda con la più tenera compassione. Cerca di restituirmi la speranza e parla come se la vita fosse un bene cui egli dà valore. Mi ricorda quante volte incidenti simili sono accaduti ad altri navigatori che si sono spinti su questi mari. Mio malgrado, riesce a risvegliare in me buoni presagi. Anche i marinai subiscono il fascino della sua eloquenza. Quando parla non si disperano più: egli ridesta le loro energie e, mentre ascoltano la sua voce, si convincono che queste montagne di ghiaccio non sono che inoffensive colline, che svaniranno davanti alla decisione degli uomini. Questi sentimenti però hanno vita breve; ogni giorno di attesa li riempie di terrore e temo un ammutinamento dovuto alla disperazione.



5 settembre

È appena accaduta una scena così insolita e incredibile che non posso non riportarla, anche se è probabile che questa lettera non ti arriverà mai. Siamo sempre circondati dal ghiaccio, col pericolo di restarne schiacciati. Il freddo è insopportabile e molti dei miei sventurati compagni hanno già trovato un sepolcro in questo scenario desolato. La salute di Frankenstein peggiora ogni giorno: è sfinito, anche se nei suoi occhi brilla ancora un fuoco febbrile. Non può fare il minimo sforzo senza scivolare subito dopo in un'apparente insensibilità.

Nella mia lettera ti accennavo alla paura di un ammutinamento. Questa mattina, mentre me ne stavo seduto osservando il volto emaciato del mio amico - gli occhi socchiusi e le membra abbandonate - fui chiamato da una mezza dozzina di marinai che chiedevano di entrare in cabina. Entrarono e il loro capo mi disse che lui e i suoi compagni erano stati scelti dagli altri per presentarmi un'istanza che, in coscienza, non avrei potuto rifiutare. Eravamo imprigionati nel ghiaccio e in pratica non avevamo alcuna speranza di sfuggire alla sua morsa, ma se, per un caso fortunato, ciò fosse accaduto, se il ghiaccio si fosse sciolto aprendoci un passaggio che avrei fatto io? Avrei continuato nel mio folle progetto, dopo aver superato così felicemente tutto questo? Avrei continuato il viaggio? Li avrei condotti verso nuovi pericoli? Pretendevano che giurassi solennemente che se la nave si fosse liberata avrei girato la prua verso sud.

Questo discorso mi turbò. Non avevo ceduto alla disperazione e non avevo mai pensato di tornare indietro, una volta liberi. Eppure era giusto, o comunque possibile, rispondere di no a questa richiesta? Esitai prima di rispondere, quando Frankenstein, che era rimasto zitto e sembrava addirittura privo della forza di ascoltare, si riscosse; un insolito vigore gli ravvivò le guance e gli occhi mandarono scintille. Voltandosi verso gli uomini gridò: «Che significa questo? Che cosa chiedete al vostro capitano? È così facile cedere per voi? Non avete detto che questa è una spedizione gloriosa? E perché gloriosa? Non perché la via era facile e piana come un mare del sud, ma perché era piena di pericoli, perché ogni incidente avrebbe fatto appello alla vostra forza d'animo, sfidato il vostro ardimento. Pericoli e morte vi avrebbero circondato e voi avreste dovuto battervi contro di loro. Per questo era gloriosa. Per questo era un'impresa da uomini d'onore. In futuro sarete salutati come benefattori dell'umanità. I vostri nomi saranno venerati. Uomini coraggiosi, impavidi di fronte alla morte, per il loro onore e per il bene degli altri. E ora? Alla prima avvisaglia di pericolo o, se volete, alla prima grandiosa prova di coraggio, indietreggiate e vi contentate di passare alla storia come gli uomini che non ebbero la forza per affrontare rischio e gelo. Poverini! Avevano freddo! Tornarono così al calduccio del camino! Ma come! Non c'era bisogno di tanto addestramento! Non era necessario arrivare così lontano e trascinare il vostro capitano nell'onta di un fallimento, solo per dimostrare che eravate dei vigliacchi. Oh! Siate uomini, più che uomini! Siate fermi nel vostro intento, saldi come rocce! Questo ghiaccio non è fatto della materia di cui sono fatti i vostri cuori: è mutevole e non vi resisterà se voi lo volete. Non tornate alle vostre case col marchio dell'infamia sulla fronte. Tornate da eroi che hanno combattuto e vinto e che non sanno che cosa sia mostrare la schiena al nemico».

Parlava con una voce così ben modulata che si accordava ai sentimenti espressi dalle sue parole, con lo sguardo così acceso ed eroico che non ti meraviglierai se ti dico che quegli uomini ne rimasero impressionati. Si guardavano l'un l'altro, incapaci di replicare. Allora parlai io: dissi a tutti di andarsene e di ripensare alle cose udite. Non li avrei portati più a nord, se non lo volevano, ma speravo che il coraggio sarebbe ritornato dopo un'attenta riflessione.

Se ne andarono e io mi rivolsi al mio amico, ma era caduto in uno strano torpore e sembrava quasi senza vita.

Non so come finirà tutto questo ma preferisco morire piuttosto che tornare indietro ignominiosamente, senza aver raggiunto il mio fine. Ho paura però che sarà questo l'esito dell'impresa: gli uomini non possono continuare a sopportare le attuali avversità spontaneamente, se non sono sorretti dall'amor di gloria e dall'ardimento.



7 settembre

Il dado è tratto. Ho deciso di ritornare, se non saremo prima distrutti. Così le mie speranze sono vanificate. La codardia e l'indecisione hanno vinto. Torno deluso e senza le conoscenza che speravo. Sopportare con pazienza quest'ingiustizia richiede più filosofia di quanta ne abbia io.



12 settembre

È finita. Torno in Inghilterra. Ho perduto ogni speranza di gloria o di fare del bene all'umanità.

E ho perduto il mio amico. Cercherò di narrarti con dovizia di particolari queste amare circostanze, sorella cara e, mentre il vento mi spinge verso l'Inghilterra e verso di te, non mi abbandonerò allo sconforto. Il 9 settembre il ghiaccio iniziò a sgretolarsi e si udivano lontani ruggiti forti come tuoni. Le isole si incrinavano, spaccandosi in ogni parte. Il pericolo era imminente, ma potevamo solo contemplare quello spettacolo grandioso; così concentravo la mia attenzione sul mio ospite sventurato, la cui salute cagionevole era andata progressivamente peggiorando, al punto che doveva rimanere sempre a letto. Si spaccò il ghiaccio alle nostre spalle e fu spinto con forza a nord. Si levò un vento da ovest e il giorno 11 il passaggio verso sud fu libero. Quando i marinai se ne accorsero e si resero conto di poter tornare in patria, proruppero in assordanti grida di gioia. Frankenstein, assopito, si svegliò. Mi chiese il motivo del giubilo. «Gridano», dissi, «perché presto torneranno in Inghilterra».

«Dunque tornate indietro?».

«Ahimè, sì. Non posso rifiutare le loro richieste. Non posso portarli al pericolo contro la loro volontà. Sono costretto a fare marcia indietro».

«Fate come volete. Io non mi muoverò. Voi potete rinunciare al vostro sogno, ma il mio è un incubo assegnato dal fato e non oso violarlo. Sono debole, ma gli spiriti che guidano la mia vendetta mi daranno forza sufficiente». Così dicendo cercò di balzare dal letto, ma lo sforzo fu eccessivo. Ricadde supino e perse i sensi.

Ci volle parecchio tempo prima che tornasse in sé; più volte credetti che fosse finita. Poi aprì gli occhi. Respirava a fatica. Non poteva parlare. Il medico gli diede un sedativo e ordinò di lasciarlo in pace. Mi prese da parte e mi disse che il mio amico non aveva che poche ore di vita.

La sua condanna era segnata. Io potevo solo addolorarmi e attendere. Sedetti al suo capezzale. Aveva gli occhi chiusi e pensavo che dormisse. Mi chiamò all'improvviso con voce debole e mi disse di avvicinarmi: «Ahimè! Le forze su cui contavo se ne sono andate. Sento che morirò presto e lui, il mio nemico e persecutore, forse è ancora vivo. Non crediate, Walton, che alla fine dell'esistenza io provi l'odio ardente, la smania di vendetta di cui vi ho parlato. Ma mi sento nel giusto desiderando la morte del mio avversario. Durante gli ultimi giorni ho esaminato la mia vita trascorsa: non la trovo colpevole. In un raptus di follia e di entusiasmo ho creato un essere ragionevole. Avevo l'obbligo di dargli felicità e benessere quanto potevo. Sì, era mio dovere: ma ce n'era un altro superiore a questo. Il mio impegno verso gli esseri della mia specie richiedeva maggior rispetto, perché da esso sarebbe scaturito maggior dolore o maggior gioia per tutti. Per questo mi rifiutai di creare una compagna al mostro. Feci bene. Nel fare il male era stato egoista, malvagio oltre ogni misura: aveva sterminato i miei cari; aveva condannato a morte esseri dotati di sentimenti rari, felicità, saggezza. Non so quando questa spietata crudeltà finirà. Infelice lui stesso, deve morire per non rendere infelici gli altri. Il compito di distruggerlo spettava a me. Non ci sono riuscito. Spinto dall'egoismo e da motivi ambigui vi ho chiesto di addossarvi questa impresa incompiuta. Vi chiedo di farlo, ora, spinto solo dalla ragione e dalla virtù.

Tuttavia non posso chiedervi di rinunciare al vostro paese, ai vostri amici per portare a compimento questo dovere; e ora che state per ritornare in Inghilterra, avrete poche occasioni di incontrarlo. Lascio a voi di ragionare su questo punto e di valutare quale possa essere il vostro dovere: la mia capacità di giudizio e le mie idee sono alterate dall'approssimarsi della fine. Non oso chiedervi di fare ciò che ritengo giusto, perché potrei essere ingannato dalla passione.

«Mi angoscia l'idea che possa vivere per continuare a fare del male; ma d'altra parte sento che questa è l'unica ora felice che vivo da parecchi anni, attendendo l'ora fatale che porrà fine a tutto. Vedo le immagini dei miei cari perdutamente amati. Ho fretta di gettarmi nelle loro braccia. Addio Walton! Cercate la felicità nella quiete. Evitate l'ambizione, anche se si tratta solo di quella apparentemente innocente di distinguervi nella scienza e nelle scoperte. Ma perché dico così? Io sono stato maledetto nelle mie speranze. Forse un altro potrebbe avere successo».

Mentre parlava la sua voce si faceva sempre più fievole. Infine, estenuato, cadde in un torpore silenzioso. Dopo circa mezz'ora cercò ancora di parlare, ma non ci riuscì; mi strinse debolmente la mano e i suoi occhi si chiusero per sempre mentre sulle labbra passava l'ombra di un dolce sorriso.

Margaret, che cosa posso dire io sulla scomparsa prematura di quest'animo eccezionale? Cosa posso dire per farti comprendere la profondità del mio dolore? Tutto quello che potrei esprimere è poco e inadeguato. Le lacrime mi scendono sulle guance. La mia mente è ottenebrata da una nube di nero sconforto. Ma sto tornando in Inghilterra e forse lì potrò trovare consolazione. Sono costretto a interrompermi. Sento strani rumori. È mezzanotte. Il vento soffia nella direzione giusta e la guardia sul ponte si muove appena. Ecco. Sento ancora un suono, una voce umana È più rauca Viene dalla cabina di Frankenstein. Devo alzarmi per controllare. Buonanotte sorella mia.


Dio del cielo! Che scena ho veduto! Al solo ricordo mi vengono le vertigini! Non so se sarò in grado di descriverla esattamente. Tuttavia il racconto che ho registrato finora sarebbe incompleto senza questa straordinaria catastrofe finale.

Sono entrato nella cabina dove giacciono i resti mortali del mio sventurato, miserando amico. China su di lui c'era una figura che non ho parole per descrivere: gigantesca, goffa, sproporzionata. Mentre era piegato sulla bara, il volto era nascosto da lunghe ciocche di capelli disordinati. Una mano enorme, pallida come quella delle mummie, era protesa in avanti. Quando sentì il rumore dei miei passi, smise i suoi gemiti di dolore e di orrore e saltò verso la finestra. Non ho mai visto nulla di così orribile come il suo viso. Deforme, disgustoso, eppure spaventoso. Chiusi gli occhi senza volere e cercai di rammentare il mio dovere verso l'assassino. Gli gridai di fermarsi.

Si arrestò meravigliato. Poi, voltatosi di nuovo verso le spoglie del suo creatore, sembrò dimentico della mia presenza, mentre ogni suo tratto e ogni gesto erano sconvolti dalla furia di una passione selvaggia.

«Anche questa è una mia vittima», urlò. «Con la sua morte ho consumato tutti i miei crimini. Il disgraziato ciclo della mia esistenza si avvia alla fine! Oh! Frankenstein! Essere generoso e appassionato! A che serve chiederti perdono? Io ti ho irreparabilmente distrutto, distruggendo i tuoi cari! Ahimè! Il tuo corpo è freddo, e non può rispondermi».

La sua voce sembrava soffocata e, memore della promessa al morente, il mio primo impulso fu di uccidere il suo avversario. Ma mi arrestai in preda all'esitazione, in preda al timore. Mi avvicinai a quell'essere orrendo senza osare alzare lo sguardo e fissarlo negli occhi, tanto era terrificante e ripugnante. Cercai di parlare. Le parole mi morirono sulle labbra. Il mostro continuava ad accusarsi con mugolii bestiali e confusi. Alla fine, in una pausa di quel tumulto di passioni, riuscii a raccogliere le forze e gli parlai: «Il vostro pentimento», dissi, «è superfluo, a questo punto. Se aveste ascoltato la voce della coscienza e il pungolo del rimorso prima di portare la vostra infernale vendetta a tale estremo, Frankenstein vivrebbe ancora!».

«State sognando?» mi rispose quel mostro. «Credete che io non fossi torturato dal pungolo del rimorso? Lui», disse indicando il corpo, «lui non ha sofferto la decimillesima parte di quello che ho sofferto io durante l'estenuante preparazione dei miei delitti. L'egoismo mi spingeva avanti, mentre il rimorso mi rodeva. I rantoli di Clerval erano forse musica per le mie orecchie? Il mio cuore era fatto per l'amore, per la comprensione; fu il dolore a spingerlo all'odio, alla crudeltà e a questo mutamento si accompagnò un tormento che non potete neppure immaginare!».

«Dopo la morte di Clerval tornai in Svizzera col cuore a pezzi. Avevo pietà per Frankenstein e mi odiavo. Ma quando scoprii che lui, il mio creatore, il creatore del mio dolore, osava sperare di essere felice Quando scoprii che poteva provare sentimenti a me vietati per sempre, mentre su di me riversava dolore su dolore, tormento su tormento, allora un'invidia impotente, un'amara indignazione mi bruciarono il cuore, votandomi a una vendetta insaziabile. Ricordai la mia minaccia. Decisi di metterla in atto. Sapevo che mi stavo preparando a una tortura infinita, ma ero lo schiavo, non il padrone di un impulso che odiavo e al quale non potevo sottrarmi. Eppure quando lei morì No. Non fui infelice allora. Avevo calpestato tutti i miei sentimenti, messo a tacere ogni angoscia per sfrenarmi negli eccessi della mia disperazione. Da allora il male divenne il bene per me. Mi ero spinto troppo lontano, non mi restava altra scelta che adattare la mia natura alla mia scelta. Dovevo essere un demonio davvero! Era questa ormai la mia passione senza freni. E ora è finita. Ecco la mia ultima vittima!».

Fui scosso dall'infelicità delle sue parole, ma quando mi tornò in mente ciò che Frankenstein mi aveva detto sulla sua eloquenza, quando posai lo sguardo sulle spoglie dell'amico, l'ira si riaccese: «Disgraziato!», dissi. «Fai bene a piangere sulla desolazione che hai causato. Getti una torcia in un gruppo di case e quando sono bruciate ti siedi tra le rovine e ne lamenti la perdita? Demonio ipocrita! Se colui che tu piangi vivesse ancora continuerebbe a essere tua preda, l'oggetto della tua dannata vendetta. Non è pietà ciò che provi: è rabbia, perché la tua vittima ti è sottratta!».

«Oh, no! Non è così, non è così!», interruppe il mostro. «Questa è l'impressione che traete dalle mie azioni. Ma nel mio dolore non cerco conforto. Non ne avrò mai. All'inizio, quando l'ho cercato, desideravo che l'amore per la virtù, la felicità, l'affetto che traboccava dal mio petto fossero condivisi da qualcuno. Ma ora che la virtù è un'ombra, che affetto e felicità non sono che amaro disgusto e prostrazione, perché dovrei avere conforto? Finché dureranno le mie sofferenze mi basta soffrire da solo. E quando morirò, che il disprezzo e l'orrore pesino sulla mia memoria. Un tempo sognavo la fama, la dignità, la gioia; un tempo speravo invano di conoscere chi mi amasse per le mie virtù, dimenticando il mio volto. Mi pascevo di sentimenti come l'onore e la dedizione. Ma ora i miei delitti mi hanno ridotto a un livello più basso di quello di una iena. Non c'è colpa, non c'è misfatto, non c'è miseria pari ai miei. Quando scorro la lista spaventosa dei miei peccati non posso credere di essere la stessa creatura che una volta albergava in seno sublimi visioni di bellezza e di bontà. L'angelo che cade diviene un demonio crudele. È così. Eppure anche il nemico di Dio e degli uomini ha dei compagni nella sua desolazione. Io sono solo.

«Voi che chiamate Frankenstein amico, sembrate al corrente delle mie colpe e delle sue sventure. Ma nei particolari che vi ha rivelato non ha potuto darvi un'idea delle ore, dei mesi di disperazione che ho trascorso, devastato da passioni impotenti. Perché distruggendo le sue speranze non spegnevo la mia sete ardente, inestinguibile. Cercavo amore, compagnia. E venivo sempre respinto. Non è ingiusto? Devo essere considerato l'unico colpevole quando tutta l'umanità ha peccato contro di me? Perché non disprezzate Felix, che ha scacciato un amico dalla sua casa coprendolo di ingiurie? Perché non odiate il contadino che ha tentato di sopprimere chi aveva salvato la sua bambina? No, questi esseri sono virtuosi, puri! Io, l'infelice, l'abbandonato, sono un aborto che si rifiuta, si prende a calci, si calpesta. Anche ora il sangue mi ribolle al ricordo di quest'ingiustizia!

«Ma è vero che sono un disgraziato! Ho ucciso i buoni, gli indifesi; ho strangolato innocenti mentre dormivano, stringendo la gola a chi non aveva fatto del male a me o ad altra creatura vivente. Ho votato all'infelicità chi mi aveva creato, raro esempio di ciò che è degno di amore e ammirazione tra gli esseri umani. Io l'ho perseguitato fino alla rovina totale. Eccolo. Giace nel pallore, nel gelo della morte. Voi mi odiate. Ma il vostro odio non può superare quello che io sento per me stesso. Guardo le mani che hanno commesso questi crimini, penso al cuore che li ha concepiti, e attendo con ansia il momento in cui esse non mi staranno più davanti agli occhi, e questi spettri che mi torturano non mi danzeranno più attorno.

«Non temete che divenga strumento di qualche crimine in futuro. Il mio destino è compiuto. Non occorre né la vostra morte né quella di altri per mettere fine alla mia esistenza e per fare ciò che deve essere fatto. Solo la mia è necessaria. Non crediate che tarderò a compiere il sacrificio. Lascerò la vostra nave e, sulla zattera di ghiaccio che mi ha portato fin qui, punterò all'estremità più settentrionale del globo; costruirò la mia bara funebre e brucerò fino alla cenere questo corpo miserevole, così che i suoi resti non siano di aiuto a qualche altro disgraziato curioso e sacrilego che voglia creare un altro essere come me. Morirò. Non sentirò più le angosce che mi corrodono. Non sarò più preda dell'ansia inquieta che non mi lascia pace e che non si spegne mai. Chi mi ha creato è morto. Quando non ci sarò più, perfino il ricordo di noi due svanirà. Non vedrò più il sole e le stelle, né sentirò il vento scherzare sulle mie gote. Luce, passioni, sensazioni: sparirà tutto. Nel nulla troverò la mia felicità. Qualche anno fa, quando le immagini che questo mondo offre mi apparvero per la prima volta, quando sentii il calore lieto dell'estate, le foglie che frusciavano, gli uccelli che cantavano, e questo era tutto per me, io avrei pianto al pensiero della morte. Ora è la mia consolazione. Lordato di colpe, lacerato dai rimorsi più amari, dove posso trovare riposo se non nella morte?

«Addio! Vi lascio e con voi lascio l'ultimo essere umano che i miei occhi vedranno. Addio, Frankenstein! Se tu fossi ancora vivo e provassi ancora un desiderio di vendicarti, questo sarebbe soddisfatto più se io restassi in vita che se morissi. Ma non è stato così. Tu hai cercato la mia morte perché non fossi causa di maggiori sciagure. E se in qualche modo che ignoro non hai finito per sempre di pensare e di sentire, non potresti agognare vendetta più crudele di ciò che mi scuote in questo momento. Pur lacerato dal dolore, la mia agonia è superiore alla tua, perché la sferza implacabile del rimorso non cesserà di avvelenare le mie piaghe, fino a che la morte non le chiuderà per sempre.

«Ma presto morirò», disse con un tono solenne e triste, «e ciò che ora sento sparirà. Presto queste pene ardenti si consumeranno. Salirò come in trionfo sul rogo della mia pira ed esulterò tra gli ultimi spasimi delle fiamme lancinanti. La luce dell'incendio svanirà. Le mie ceneri si disperderanno nel mare sulle ali del vento. Il mio spirito riposerà in pace. Non più pensieri, finalmente. O, almeno, 'altri' pensieri. Addio!».

Ciò detto balzò dalla finestra della cabina sulla lastra di ghiaccio accostata alla nave. Fu subito trascinato via dai flutti e si perse lontano, nel buio.



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