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L'eutanasia
Dopo che soltanto pochi mesi fa il parlamento olandese ha autorizzato l'eutanasia, giunge in questi giorni la drammatica notizia dagli Stati Uniti del caso Terri Schiavo, la giovane donna da anni in stato vegetativo persistente, per la quale, dietro la richiesta del marito, l'autorità giudiziaria ha disposto la sospensione dell'alimentazione artificiale; in pratica una sentenza di condanna alla morte biologica definitiva e irrevocabile.
Si tratta di notizie che scuotono profondamente la nostra educazione di forte matrice cristiana, - duemila anni di storia, in un Paese che ospita il Papa conteranno pure qualcosa nello sviluppo delle coscienze -, una cultura, la nostra, tesa fino qualche anno fa a difendere strenuamente i valori della sopravvivenza e di una concezione della medicina come disciplina impegnata in una lotta a oltranza contro la morte.
Inutile aggiungere che da noi il dibattito intorno alla buona 'buona morte' e alla legittimità di sospendere in casi particolari le cure mediche si è particolarmente acceso, radicalizzando vieppiù le posizioni dei favorevoli e dei contrari.
Personalmente, credo si tratti di un problema bioetico di notevole complessità, poco adatto ai ferrei e irrinunciabili convincimenti e che dia adito, invece, sempre secondo la mia modesta opinione, a dubbi personali, ripensamenti, perplessità.
Da un lato, la nostra coscienza di individui moderni, laici e illuministi, sensibili in sommo grado ai diritti umani, ci porta a pensare che siamo legittimi proprietari della nostra vita, liberi di condurla come ci piace e perciò anche di interromperla quando l'esistenza ci appare troppo dolorosa o priva di significato.
Dall'altro, la nostra anima cristiana, cattolica, romantica, che sopravvive persino in quest'epoca di sbadata secolarizzazione, magari in forma larvata e inconscia, ma vigorosa, ci avverte che la sfera del razionale non spiega tutto, che la vita umana possiede un valore incommensurabile che nessun dolore può scalfire e un'aura misteriosa, ineffabile, sacra, di cui magari ci sfugge pienamente il senso, soltanto oscuramente intuito.
In alcuni momenti ci scopriamo a pensare, insomma, che non possiamo escludere l'esistenza di un Dio cui dobbiamo rendere conto e a cui dobbiamo la vita. Sentiamo il suicidio (e l'eutanasia è una forma di suicidio) o la soppressione di un altro essere vivente, in condizioni critiche e pur rispettando tutte le cautele del caso, come peccato.
Conciliare e armonizzare questi due poli dialettici all'interno della nostra coscienza non è compito facile. Spesso la sintesi e l'equilibrio raggiunti sono provvisori e soggetti a ripensamenti.
Il dolore e la morte, poi, sono temi con cui l'uomo contemporaneo non ama intrattenersi e preferisce rimuovere ed esorcizzare, stordendosi nell'attivismo e nel divertimento.
Paradossalmente ciò rende il nostro approccio a queste esperienze rudimentale e immaturo.
Ripetute ricerche confermano, ad esempio, che i medici, in Italia in particolare, tendono a trattare il dolore fisico dovuto alle malattie in maniera inadeguata, irrazionale, 'sottodosata'.
Altri studi sottolineano come l'esperienza della morte, sempre più spesso relegata nell'indifferenza di una corsia di ospedale, non sia mai stata così negata, respinta, impoverita come nelle moderne società affluenti.
Ecco, forse essere a favore dell'eutanasia, della 'buona morte', nella sua forma positiva significa oggi principalmente ridare significato e dignità ad esperienze come il dolore, la morte, la solidarietà fra gli uomini.
Significa farsi responsabile carico dei problemi generati dalla sofferenza dei malati terminali di cancro o di qualche altra grave patologia, di chi è costretto a condurre un'esistenza ai limiti dell'umano.
Ma i distinguo da operare sono tanti e difficilissimo è generalizzare. Gli abusi poi, sono sempre dietro l'angolo. La coscienza di familiari, medici e operatori sanitari non è sempre adeguatamente sviluppata. Gli interessi economici poi premono da ogni parte e, oggigiorno, si sa che l'onere della spesa sanitaria è giudicato insostenibile e l'assistenza a lungo termine ai malati tenuti in vita dalle prodigiose e recenti tecniche rianimatorie comporta un onere spaventoso intermini di costi, di energie, di organizzazione.
Alla società e alle singole coscienze, invece, debbono essere richiesti sensibilità e un diffuso e sviluppato senso di responsabilità. Per esempio: se la persona è incosciente, chi decide? E qual è il confine preciso fra il legittimo intervento sanitario per salvare una vita e quello che viene definito accanimento terapeutico?
In altre parole sono diffidente verso un'eutanasia affidata alla discrezione di un comitato di medici e infermieri, ai calcoli economici degli amministratori, agli interessi egoistici dei familiari.
Sì, forse, a un'eutanasia voluta in modo inequivoco e reciso dalla persona sofferente, allo stremo, senza più alcuna speranza, in grado di esprimere (o che aveva già espresso) una ferma e meditata volontà di porre fine alla propria esistenza, date determinate drammatiche condizioni.
Può succedere, più di frequente di quanto si pensi, che chi soffre, anche intensamente, sia ancora fortemente attaccato alla vita. In questo caso, penso che chi decidesse al suo posto, che è giunto il momento per l'infermo di lasciare questa terra, non gli darebbe una 'buona morte', ma commetterebbe un ingiustificabile omicidio.
Il pericolo cui ci espone l'ideologia occidentale contemporanea è di considerare umano soltanto chi è giovane, sano e produttivo.
La malattia e la morte appartengono alla sfera dell'umano come la buona salute. Sono esperienze dense di significato, non pesi che ci impediscono di consumare e divertirci, costi sociali da abbattere, inevitabili scorie di cui disfarsi al più presto.
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