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La cavalleria è una delle più belle istituzioni nate dal seno della Chiesa nel medioevo. La cavalleria ebbe inizio in Europa nel secolo X, fiori nel XIII e si esauri nel xvi. Inizialmente designò soltanto i combattenti a cavallo, il nerbo degli eserciti dell'epoca. Col tempo, però, il termine designò, praticamente, la nobiltà perché la stragrande maggioranza dei nobili e dei baroni feudali veniva addestrata nel combattimento a cavallo, aveva i mezzi per pagarsi cavallo, armatura e scudiero e passava buona parte della vita a combattere.Resta il fatto che la nobiltà non era condizione assolutamente indispensabile per diventare cavaliere: vi erano casi di servi armati cavalieri, mentre certi nobili non giunsero mai ad appartenere a questa istituzione.
I figli dei nobili venivano mandati fin da piccoli presso un signore affinché si impratichissero nelle armi; poiché vigeva quasi ovunque la legge del maggiorascato, in base alla quale il feudo veniva ereditato dal primogenito, solo i figli primogeniti potevano poi diventare cavalieri liberi e potenti, proprietari di terre e uomini. I figli cadetti ricevevano dal padre una piccola parte di eredità, spesso insufficiente per mantenersi; una volta divenuti cavalieri, essi rimanevano allora al servizio di un signore in attesa di conquistarsi titoli e terre con le proprie forze.
La cavalleria, però, non era solo questo. Col tempo si trasformò in un'istituzione con leggi e regole proprie, con un codice d'onore che legava tutti coloro che vi appartenevano, indipendentemente dalla nazionalità, dal rango, dalla ricchezza di ciascuno. Il cavaliere giurava fedeltà, prima che al suo signore, al codice cavalleresco.
Intorno al 1090 Bonizone di Sutri redasse il codice del cavaliere cristiano in base al quale egli era tenuto alla devozione fino al sacrificio della vita al signore che l'aveva investito del titolo, alla guerra contro gli eretici, alla difesa dei poveri, delle vedove e degli orfani, alla protezione delle donne; i suoi ideali dovevano essere l'onore e il coraggio; le sue virtù la fortezza, la giustizia, la prudenza e la temperanza.
Le regole del codice cavalleresco dovevano, naturalmente, essere sempre rispettate e la letteratura esaltò le virtù di eroi puri e senza macchia in poemi che, come la Chanson de Ro/and, narrano le imprese dei cavalieri.
Non tutti i cavalieri, però, erano senza macchia. Se infatti numerosi furono coloro che tennero fede ai loro giuramenti, furono onesti e leali, apprezzarono le arti e coltivarono il loro intelletto, numerosi furono pure coloro che sfruttarono i servi che lavoravano le loro terre, compirono sopraffazioni e crudeltà, disprezzarono le classi socialmente inferiori, le arti, la cultura, i deboli. A loro giustificazione si può forse dire che tutto ciò che avevano era stato, nella maggioranza dei casi, ottenuto a fatica combattendo; era difficile conservarsi senza macchia in un periodo in cui vinceva il più forte, cosi come non tutti riuscivano, tolta la corazza, a suonare il liuto e a comporre versi per la propria dama.
Le dame ebbero però una parte importante nell'ingentilire la primitiva rozzezza dei cavalieri, cosi come importante fu la Chiesa, che incanalò la loro aggressività in guerre sante e Crociate. La Chiesa diede un nemico dichiarato contro cui combattere, le dame pretesero di avere anche dai cavalieri quella cortesia di modi e quelle attenzioni che ricevevano dai poeti e dai trovatori ospitati nei castelli.
Come tutti gli ordinamenti medievali, anche l'istituzione cavalleresca ha una gerarchia.
L'educazione dell' aspirante cavaliere iniziava in tenera eta': già a sette o otto anni i figli dei nobili (i paggi) s'industriavano a compiere semplici attivita' nella dimoras paterna, ma la loro vera e propria formazione iniziava verso i dieci anni, quando erano inviati alla corte di un'altra famiglia nobile dove aiutavano i servitori a portare acqua legna, facevano acquisti per la castellana, rimanevano vicino alla tavola principale, dove banchettavano il signore e gli ospiti, con acqua e asciugamani puliti, dormivano insieme a molte altre persone sulla paglia del salone.Imparavano anche a badare al cavallo e a combattervi sopra.
Se l'aspirante cavaliere era un bel ragazzo, ammirato dalle dame, gli si insegnava a cantare, a suonare il liuto, il flauto o la viola perche' fosse in grado di distrarle piacevolmente, aiutandole a trascorrere senza noia le lunghe giornate. Il cappellano gli insegnava a masticare un po' dilatino, gli forniva i rudimenti di base della cultura e i precetti fondamentali della religione. In genere, però, gli studi letterari non erano tenuti in gran conto; solo i nobili italiani e bizantini tenevano molto all'istruzione e alla cultura. Gli impiegati del castello, intendenti, ciambellani e balivi, gli insegnavano come si amministra un feudo.
Il giovane trascorreva quasi tutta la giornata all'aperto perché un cavaliere doveva, innanzitutto, essere un combattente esperto d'armi e di cavalli. Sotto la guida di un garzone di scuderia imparava a strigliare e curare i palafreni e i robusti destrieri da combattimento. Gli armieri gli insegnavano come lustrare scudi, elmi e spade e come togliere la ruggine da una cotta di maglia di ferro.
Nel primo periodo di apprendistato il ragazzo veniva chiamato donzello.
Più o meno a 14 anni, il paggio diventa scudiero. A questo punto egli viene iniziato al maneggio delle armi, apprende le regole del combattimento e porta le armi e lo scudo del suo signore quando va in guerra poteva allora assistere il signore nei tornei e accompagnarlo nelle sue imprese. L'aspirante cavaliere si irrobustiva fisicamente e psichicamente partecipando a corse, lottando a mani nude, combattendo col bastone e praticando la scherma. Per allenarsi a combattere nei tornei correva la quintana, cioè galoppava a briglia sciolta contro un fantoccio di legno e tentava di colpirlo fra gli occhi con un unico colpo; il fantoccio, montato su un perno girevole, reggeva un bastone:
quando veniva colpito da una mano maldestra, ruotava appioppando un formidabile colpo sul dorso del cavaliere.
Giunto a 21 anni viene armato cavaliere.
In un romanzo inglese del XIII secolo, Bionde d'Oxford, vengono tratteggiati con spirito e finezza i doveri di uno scudiero.
Dopo aver servito prima come valletto e poi come scudiero, il giovane nobile era ormai pronto per vivere il momento più importante della sua giovinezza: verso i vent'anni, infatti, riceveva l'investitura di cavaliere. La cerimonia dell'investitura, detta anche 'ordinazione cavalleresca', si svolge generalmente in una chiesa, altre volte in un castello feudale o, ancora, in pieno campo di battaglia. Il giovane Don Enrique, ad esempio, fu armato cavaliere sul campo di battaglia per aver compiuto atti di valore straordinari nella conquista di Ceuta.
Il novello cavaliere di solito "cingeva la spada" durante una cerimonia celebrata dal signore al cui servizio aveva compiuto l'apprendistato. Dopo un bagno rituale, simbolo della purificazione dai peccati, collocava la spada e la nuova armatura sull'altare della cappella del palazzo, poi trascorreva la notte genuflesso in preghiera: era la veglia d'armi. L'indomani, subito dopo la messa, veniva rivestito d'un abito di velluto ricamato; gli venivano consegnati gli speroni dorati, la cintura di cavaliere e la spada. L'ordinazione del cavaliere giunse ad essere considerata come un ottavo sacramento ma la Chiesa la considerò sempre al massimo come un sacramentale. La cerimonia comincia con la celebrazione del Sacrificio Eucaristico. Nell'omelia il sacerdote ricorda gli obblighi che il cavaliere sta per assumere, poi benedice le armi che fra poco gli saranno consegnate. Di solito il padrino è il signore feudale della regione, che, seduto col futuro cavaliere davanti a sè in ginocchio, lo interroga in merito alle sue disposizioni nell'assumere gli obblighi che la sua condizione di cavaliere gli impone; Prosternato ai piedi del signore, pronunciava i voti del cavaliere: combattere per la fede, essere sottomesso al feudatario, mantenersi fedele alla parola data, proteggere i deboli, le vedove e gli orfani, combattere l'ingiustizia, essere coraggioso e generoso con gli amici, rifuggire dai tradimenti, rinunciare al male, servire lealmente il signore, adempiere i doveri religiosi.Poi riceve il giuramento di obbedienza e quindi gli veniva consegnata pezzo per pezzo l'armatura, lasciando per ultima la spada. Veniva quindi il momento della collata, uno schiaffetto che il signore dava con la mano o col piatto della spada sulla spalla o sul collo del candidato: sarebbe stata l'ultima offesa che questi doveva lasciare invendicata. Il giovane quindi si alzava in piedi; ormai cavaliere, poteva possedere un destriero e armi personali. Il resto della giornata trascorreva in festeggiamenti.
Col volgere dei decenni la Chiesa ebbe un'influenza sempre maggiore sulla cerimonia dell'investitura che assunse un carattere morale e religioso sempre più accentuato: dopo la veglia d'armi il giovane, a cavallo, alla testa di una processione, si recava alla cattedrale dove riceveva la collata dal vescovo in persona. In via eccezionale un monarca sul campo di battaglia aveva la facoltà di compiere investiture di cavalieri: naturalmente il rituale era assai più semplice e rapido.
L'investitura di solito avveniva in occasione delle più solenni feste religiose, come Pasqua o Pentecoste; proprio il giorno di Pentecoste del 1086 Guglielmo il Conquistatore conferi' personalmente l'investitura al figlio Enrico. Un altro rampollo di sangue reale, Luigi, figlio primogenito di Filippo Augusto, divenne cavaliere nel 1209 durante una cerimonia in cui ricevettero l'investitura altri cento giovani. Queste cerimonie erano sempre solenni; nel 1252 Enrico III d'Inghilterra armò cavaliere suo genero Alessandro III di Scozia e altri venti giovani tutti vestiti assai lussuosamente. Naturalmente per abiti e addobbi della chiesa occorreva molto denaro: nel bilancio di re Giovanni si trova annotato che vennero spese trentatré sterline, una somma enorme per quei tempi, per« tre vesti scarlatte, tre verdi, due baldacchini, un materasso e altri oggetti indispensabili a un solo
cavaliere ». I sovrani e i feudatari più ricchi potevano permettersi queste spese, ma i signorotti ambiziosi si riducevano talvolta in pochi anni sul lastrico offrendo banchetti luculliani, regali principeschi e splendidi tornei: tutto per suscitare invidia e ammirazione negli altri nobili.
Quando uno scudiero aveva finalmente ottenuto l'investitura, poteva mettere alla prova la sua abilità nei tornei e durante le battute di caccia cavalcava dietro il destriero del signore. Poteva anche aspirare, ed era certo la cosa più importante, a possedere un feudo, un castello e un seguito personale; se non riusciva ad ottenere tutto questo, andava a vivere presso il signore: ormai poteva dimostrargli il suo valore e la sua fedeltà e ricompensarlo per le ingenti spese che aveva sostenuto per prepararlo, fin da fanciullo, a divenire un valoroso cavaliere.
I poeti medievali fanno la descrizione del cavaliere ideale. Deve essere 'puro di cuore, sano di corpo, generoso, dolce, umile e poco chiacchierone'. In lui sono presenti le due massime qualità morali richieste ai nobili dell'epoca: coraggio e generosità. In qualsiasi circostanza il cavaliere deve difendere la fede. Il giuramento di sostenere la fede in Gesù Cristo, trova la sua origine nell'abitudine di sguainare la spada alla lettura del Vangelo, in uso ai primordi della cavalleria. Con ciò si intendeva manifestare la disponibilità a spargere il proprio sangue in difesa della dottrina della Chiesa. Ruolo storico del cavaliere.
Questa magnifica istituzione contribuisce molto alla fioritura di una delle virtù essenziali dell'epoca: il rispetto fra gli uomini. Il signore deve amare i suoi vassalli ed essi devono amarlo a loro volta; in questo modo, secondo l'espressione di un famoso storico, 'mai il precetto divino 'amatevi gli uni gli altri' penetrava in modo tanto profondo il cuore degli uomini'. La fama delle straordinarie virtù del cavaliere corse anche al di fuori dei confini della Cristianità: mentre San Luigi IX, Re dei francesi, si trovava prigioniero dei mussulmani, uno dei loro capi, minacciandolo con le armi, chiese al santo di essere ordinato cavaliere: 'Fatti cristiano', rispose il Re. Tale episodio spiega l'ammirazione che i nemici della Cristianità avevano per questa splendida istituzione.
Se un cavaliere violava le leggi della cavalleria, mancava al suo onore o tradiva il suo giuramento, veniva degradato. La cerimonia della degradazione era terribile. Il cavaliere indegno veniva condotto sulla piazza principale della città da un corteo di cavalieri vestiti a lutto. Ogni tanto il corteo si fermava e un araldo proclamava ad alta voce il crimine commesso. Giunti sul luogo della cerimonia, il reo veniva posto su un cavallo di legno dove gli si toglievano, uno ad uno, tutti i pezzi dell'armatura dinanzi al popolo riunito, che lo copriva di scherno. Un cavaliere degradato si riduceva in uno stato tale che finiva col cambiare città, non trovando più in alcun ambiente degli aiuti per vivere.
La parola "torneo" evoca l'immagine di due cavalieri in armatura che si affrontano in campo chiuso, caricandosi a vicenda con la lancia, rivali per la gloria e per l'onore. Tuttavia le giostre, cioè i combattimenti individuali, iniziarono in tempi posteriori. Nel XII e XIII secolo i tornei erano un "gioco" generico tra due squadre rivali di cavalieri che talvolta si espandeva fin nelle più lontane campagne e non si svolgeva quindi su un terreno limitato. In questo gioco, denominato mischia, quasi tutto era permesso: unica regola obbligatoria era quella di smussare le armi (si combatteva con la lancia cortese) perché non si doveva uccidere l'avversario, ma solo sbalzarlo da cavallo. Si trattava però sempre di gare violente, per cui i morti non erano rari.
Durante le feste per l'incoronazione di Filippo Augusto, avvenuta nel 1179, il fior fiore della cavalleria francese disputò un torneo divenuto leggendario: gli avversari non solo si inseguivano tra le vigne e i campi coltivati, ma combattevano anche sulle strade dei villaggi e il giovane re per ben due volte corse il rischio di cadere prigioniero. In quello stesso anno il papa disapprovò pubblicamente la violenza di queste gare e decretò che i cavalieri uccisi in occasione di un torneo non potessero essere seppelliti con rito cristiano; questa minaccia cadde, però, nel vuoto, come del resto tutti gli ordini dei monarchi al riguardo; pochi anni dopo, nel 1186 in Francia, veniva ucciso durante un torneo Goffredo, figlio di Enrico Il d'Inghilterra. Suo maestro d'armi era stato William Marshall, il più celebre combattente di torneo dei tempi, che aveva fatto fortuna giostrando nelle mischie; infatti l'avversario disarcionato doveva consegnare al vincitore cavallo e armi e rimanere suo prigioniero fino al pagamento di un riscatto. Ebbene, William Marshall in soli due anni catturò ben 103 cavalieri, incassando quindi somme ingentissime. Risparmiare la vita dell'avversario era quindi molto più redditizio che ucciderlo, tuttavia non sempre venivano rispettate le regole che avrebbero dovuto rendere incruenti i tornei: per esempio a Colonia, nel 1240, ben sessanta cavalieri persero la vita, alcuni calpestati dai cavalli altri perché feriti da armi non smussate. Undici anni dopo un gruppo di cavalieri francesi mise in rotta a Brackley un gruppo di inglesi; l'anno dopo, a Rochester, questi si presero la rivincita: un cavaliere disarcionato durante lo scontro dell'anno prima riconobbe l'avversario e lo uccise con una lancia non regolamentare. Nel 1274, il re inglese Edoardo I, appassionatissimo di tornei, organizzò uno scontro fra i suoi cavalieri e quelli borgognoni del conte di Chàlons: non fu un torneo, ma una vera e propria guerra, anche se di minuscole proporzioni.
Il priore Matteo, un monaco erudito, faceva una netta distinzione fra « quel volgare passatempo denominato torneo e i nobili giochi cavallereschi detti della Tavola Rotonda ». Si riferiva all'evoluzione che si verificò nel XIII secolo e che prese il nome dalle leggendarie imprese dei cavalieri di re Artù. Ridotta l'estensione del terreno di scontro, fu possibile ai giudici controllare i combattenti e obbligarli a rispettare le regole stabilite: essi attribuivano punti ai contèndenti, tenendo conto dei colpi ammessi che si scambiavano. I cavalieri caricavano da angoli opposti del campo chiuso e cercavano di disarcionarsi a colpi di lancia: poiché si riparavano con gli scudi, spesso le lance andavano in pezzi. Dopo aver spezzato tre lance, i cavalieri armati alla leggera potevano continuare il combattimento a piedi.
Il romanzo 'don Chisciotte' di Cervantes, descrive una cavalleria decadente, romantica e sentimentale, dell'epoca dell'autore, allo scopo di ridicolizzare l'ideale del suo tempo. Nel XVII secolo, infatti, gran parte del nobile ideale di servizio alla società e alla verità, proprio dell'autentica cavalleria medievale, era già stato perduto. Il più bel frutto della cavalleria fu la nascita degli ordini religiosi militari, o monastico-guerrieri, avvenuta nei primi anni del 1100, dei quali il grande S. Bernardo di Chiaravalle, scrisse:'Un nuovo genere di milizia, dico, mai conosciuta prima di ora: essa combatte senza tregua e nello stesso tempo una duplice battaglia, sia contro i nemici in carne e sangue, sia contro le potenze spirituali del male nelle regioni dello spirito. Ed io, invero, non giudico tanto degno di ammirazione che resista valorosamente ad un nemico corporeo con le sole forze del corpo, ritenendola, anzi, cosa frequente. Ma anche quando col valore dell'anima si dichiari guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora dirò che questo è degno di ammirazione, sebbene sia degno di lode dal momento che si vede il mondo pieno di monaci. Ma quando il guerriero e il monaco si cingono con vigore ognuno della sua spada e nobilmente vengono insigniti della loro dignità, chi non potrebbe ritenere un fatto del genere veramente degno di ogni ammirazione, fatto che appare del tutto insolito?. Ecco un combattente veramente intrepido e protetto da ogni lato, che come riveste il corpo di ferro, così riveste l'anima con l'armatura della fede. Nessuna meraviglia se, possedendo entrambe le armi, non teme nè il demonio nè l'uomo; non teme la morte, anzi la desidera. Difatti cosa potrebbe temere in vita o in morte colui per il quale Cristo è la vita e la morte un guadagno? Certamente sta saldo con fiducia di buon grado per il Cristo, ma desidera ancor più ardentemente che la sua vita sia dissolta per esistere in Cristo: perchè questa è in verità la cosa migliore. Pertanto, avanzate sicuri, combattenti, e con animo intrepido respingete i nemici della Croce del Cristo, stando certi che nè la morte, nè la vita, potranno separarvi dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù; ripetendo a voi stessi a ragione in ogni pericolo: 'Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore' (Rom. XIV, 8). Con quanta gioia tornano i vincitori dalla battaglia! Quanto fortunati muoiono i martiri in combattimento! Rallegrati, o forte, se vivi o vinci nel Signore: ma ancor più esulta e sii glorioso nella tua gloria se morirai e ti riunirai al Signore. La vita è certo fruttuosa e la vittoria gloriosa: ma a buon diritto è da preporre a entrambe la morte sacra. Infatti, se sono beati coloro che muoiono nel Signore, quanto più lo saranno quelli che muoiono per il Signore!' (S. Bernardo, 'De laude novae militiae ad milites templi', scritto fra il 1128 - data del concilio di Troyes, in cui fu approvata la Regola dei Templari- e il 1136, il testo completo si trova nella 'Patrologia Latina' del Migne).
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