Il teatro rinascimentale e barocco ('500-'700)
Col Rinascimento italiano si afferma, sia
contro il teatro più o meno ingenuamente religioso sia contro quello goffamente
buffonesco, il teatro erudito. Nato dallo studio dei classici greci e latini
che tra la fine del sec. XV e il principio del XVI, a Roma, Firenze e altrove
furono riportati su scene improvvisate, davanti a un pubblico raffinato,
talvolta addirittura nel testo, ma assai più spesso tradotti il teatro del
Rinascimento foggia le sue tre forme tipiche: il dramma pastorale, creazione
italiana che fra i secoli XVI e XVII invade molti paesi europei; la commedia
umanistica, che trasmette all'Europa l'eredità comica dei Greci e dei Latini;
e, assai più frigida e meno imitata, la tragedia, ricalcata su Euripide e
specie su Seneca. Il teatro diviene, allora, divertimento di signori e di
principi, di cardinali e addirittura di papi (Leone X); insomma, senza
escludere il gran pubblico, è per eccellenza fenomeno di corte. Dapprima i suoi
interpreti sono gentiluomini, accademici, studenti; eccezionale è un caso come
quello del cardinale Ippolito d'Este, che fa recitare a Roma dai suoi
domestici, cuochi e stallieri, una commedia del Molza e del Tolomei, del reato
con tale afflusso di pubblico che si deve trattenerlo con le guardie. A ogni
modo si tratta sempre di attori dilettanti; e gli spettacoli del genere sono
promossi non da impresari, ma da mecenati o da enti culturali, come accademie e
simili. Ma già nella prima metà del sec. XVI s'è rivelato il fenomeno nuovo,
l'apparizione degli attori professionali, detti perciò comici a dell'arte.
Da molti storici si è parlato di costoro come
di genialissimi ma rozzi improvvisatori, emersi dalla farsa plebea; in realtà,
essi o almeno i più famosi, quelli cioè che già nella seconda metà del secolo
avevano avuto enorme successo in quasi tutti i paesi d'Europa erano
metodicamente esperti nell'arte loro (in cui dovevano avere gran parte le doti
mimiche, acrobatiche, coreografiche, musicali, ecc., dato che recitavano davanti
a spettatori la massima parte dei quali non ne intendeva la lingua). Interpreti
acclamati di opere regolari (Aminta e Pastor Fido furono per la prima volta
recitati da loro), essi conseguirono però la massima fama, come si sa, nella
cosiddetta commedia improvvisa, dove i personaggi erano stilizzati in
altrettanti tipi fissi, o maschere. Ma queste non erano se non la
trasformazione dei caratteri della commedia classica; alla quale erano di
regola attinti anche i loro 'scenari', o intrecci. Si aggiunga che i
più famosi comici dell'arte erano quasi tutti colti e letterati (al punto che
recentemente il Pirandello, in uno scritto polemico, ha voluto addirittura
considerarli come autori che facevano anche gli attori); e si comprenderà come
e perché, pur non avendo creato opere di poesia in quanto rinunciarono a
scrivere, essi adempirono tuttavia al compito di trasmettere dall'Italia a
tutta l'Europa, oltre i principi dell'arte dell'attore moderno, le formule e i
modi dell'eterna sostanza comica ereditata dalle letterature classiche (Roma,
Magna Grecia, Grecia). Interessante è poi la commedia dell'arte anche come
documento sociale e morale, in quanto la sua abituale sconcezza, che sollazzava
principi, re e regine, può dare un'idea del costume dell'alta società nei secoli
XVI, XVII e XVIII. Questo, e la vita nomade e irregolare dei comici - fra cui
non mancarono gli scapestrati e i delinquenti, mentre per la prima volta, dopo
la millenaria parentesi medievale, riapparvero in scena le donne - provocò
contro la professione dell'attore i rigori della Chiesa, con censure e
scomuniche la cui applicazione variò di paese in paese, ma che più o meno
durarono sino e oltre la fine del sec. XVIII. Gli attori, sia italiani sia
quelli che sul loro esempio si erano educati negli altri paesi, si difesero
riparandosi dietro lo scopo morale o religioso o benefico (in Spagna, ottennero
la protezione della Chiesa col dare una parte degli introiti ai poveri e si
malati), e ricorrendo alla protezione dei sovrani. Questi dal canto loro, sia
cattolici sia (ma più di rado) protestanti, accordarono spesso (non sempre; ci
furono periodi di severità, e anche di persecuzione) la loro protezione al
teatro. Ma, in cambio, ne regolarono la vita e l'organizzazione con leggi e
privilegi che, concessi a qualche compagnia, si tradussero in ferree
restrizioni per le altre, e spesso in un vero e proprio regime di monopolio:
altrove si è esposto come i re di Francia e d'Inghilterra abbiano disciplinato
questa materia delle licenze per recitare concesse a un dato numero di teatri e
di compagnie e non più, e delle sovvenzioni ad essi accordate. Intanto, nel
nuovo tipo di teatro a palchetti che gli architetti italiani hanno creato dopo
la nascita di un nuovo spettacolo genuinamente italiano, il melodramma, si rispecchia
lo spirito d'una società gerarchica e fastosa, che anche a teatro vuole la
separazione delle classi: i principi e gli ottimati ai posti d'onore, i
gaudenti nei palchi dove si fa conversazione, si amoreggia, e all'occorrenza si
mangia e ai beve, e infine gli umili (quando ci sono) negli infimi posti. La
sala illuminata (malgrado le raccomandazioni in contrario di qualche
scenografo) non meno sfarzosamente del palcoscenico, e popolata, specie nelle
grandi rappresentazioni liriche e coreografiche, da un pubblico in costumi
fulgidissimi, è già uno spettacolo essa stessa. Sovente le stampe dell'epoca,
fatte per documentare lo splendore d'una messinscena, si danno cura di
riprodurre anche il teatro e gli spettatori. Più lentamente tutto ciò si
diffonde negli altri paesi, dove ancora in parte del sec. XVII il teatro rimase
spesso affidato ad artisti girovaghi e avventurieri, se non lestofanti e ladri:
chi voglia farai un'idea di ciò che fossero, per esempio, gli artisti spagnoli,
via via accampati nelle piazze e nei cortili dove recitavano davanti a folle di
spettatori che lanciavano frutta e sassi, legga il Viaje entratenido del De
Rojas; o, per i francesi, il Rosnan comique di Scarron; o le descrizioni del
pubblico incredibilmente eterogeneo che frequentava gli spettacoli drammatici
dell'età elisabettiana. Con un pubblico di tal genere furono alle prese Lope de
Vega e Calderòn, Shakespeare e Molière. Ed è solo fra il Sei e il Settecento
che, sotto l'impulso italiano, ai corrales di Madrid, ai teatri di tipo popolare
come il Globe shakespeariano, e a quelli misti come l'Hôtel de Bourgogne di
Parigi dove il pubblico grosso stava in piedi nel parterre e i signori nella
galleria o addirittura in poltrona suul proscenio, si sostituiscono via via i
nuovi e belli teatri all'italiana. Ciò, s'intende, non impedisce la insistente
sopravvivenza degli spettacoli plebei, più o meno irregolari; a Parigi i
théatres de la Foire, e in tutte le metropoli, e in provincia, guitti e
saltimbanchi, sempre cari al popolino e spesso anche alla piccola borghesia,
continuano come possono il loro mestiere. D'altra parte, in periodo di
Controriforma, quando più si acuisce la guerra che alcune chiese protestanti e,
anche per reazione, la cattolica, fanno al teatro (comprese le degenerate rappresentazioni
religiose: contro le recite del famoso mistero del Vieux Testametzt in Francia,
riboccante di indecenze, dové intervenire il parlamento), si delinea il
fenomeno del teatro edificante che si rifugia nei collegi. La tradizione si può
far risalire a Rosvita; ma le sue origini prossime sono italiane (le laudi del
Savonarola nel chiostro di San Marco, l'oratorio di San Filippo a Roma).
Essa è coltivata specialmente dai gesuiti e,
sul loro esempio, dagli altri ordini religiosi che si dedicano
all'insegnamento, maschile e femminile. Eccezionalmente, produce anche opere di
gran classe, come l'Esther e l'Athalie, scritte da Racine per le educande di
Saint Cyr. Ma in genere i trionfi del teatro gesuitico riguardano soprattutto
la messinscena, che specie in Francia, e più ancora in Germania e in Austria,
raggiunge grandi splendori. La moda dei teatrini di corte, o addirittura di
salotto, si diffonde pure nell'alta società del Settecento. E si può dire che
solo a questo tipo appartiene, dalla metà del sec. XVII a tutto il XVIII, il
nascente teatro russo; dove Pietro il Grande accoglie però anche il pubblico
estraneo, e a cui Caterina Il dà nuovo impulso. Come si vede, a veri e propri
spettacoli d'arte la folla è tuttavia ammessa solo in parte, e nelle massime
città: l'autentica arte drammatica è, salvo rari periodi, inaccessibile alla
maggioranza della popolazione. Le battaglie letterarie di un Corneille e d'un
Racine, le lotte di più vasta portata sostenute da un Molière, o, in Italia,
quelle di un Goldoni, che pure sono seguite da un certo pubblico borghese nelle
città dove si svolgono, interessano soprattutto un élite; le gazzette le
descrivono e le commentano, ma ilcerchio degli spettatori è sempre ristretto.
Quanto agli attori, il contegno della società a loro riguardo è incerto e
contraddittorio. Sospetti all'autorità civile, e respinti, come si è detto,
dalla Chiesa, che almeno in certi paesi li considera viventi in peccato e non
li ammette ai sacramenti neanche in punto di morte se non rinnegano l'arte
loro, spesso però sono idolatrati dal pubblico, e divengono familiari agli
Stessi sovrani. Per citare solo gli esempi più noti, si ricorderanno i re di
Francia che proteggono e ammettono alla loro intimità alcuni famosi comici
italiani dell'arte, e particolarmente Luigi XIV, regalmente benevolo verso
l'attore-autore Molière; sebbene l'Accademia creata dal cardinale di Richelieu
rifiuti d'ammettere nel suo seno, appunto perché esercita un mestiere
'infame', l'autore de L'Avare, e alla sua morte pressoché improvvisa
il parroco stenti a concedergli i funerali religiosi, che hanno luogo solo per
l'intervento, sollecitato dalla corte, dell'arcivescovo di Parigi, e in forma
pressoché clan- destina, senza nessuna pompa. Incidenti analoghi si verificano,
del resto, anche in morte d'altri attori, e specialmente attrici, celebri.
Difatti, se taluna di queste è celebrata per le sue virtù non solo d'artista ma
di donna - come nel 1604 Isabella Andreini, Cantata dal Tasso, dal Marino, dal
Chiabrera, e da altri poeti italiani e francesi - la più parte menano vita
dissoluta, e il loro nome ai mescola agli scandali del tempo: dalla Duparc,
l'amica di Racine, morta in circostanze tragiche, per le quali caddero sospetti
fin sull'insigne poeta, alla Lecouvreur, la cui esistenza avventurosa e morte
pietosa hanno poi dato origine, come ai sa, a racconti e melodrammi
romanticheggianti. Ma accade pure che l'arte giunga a redimere qualche grande
attore, almeno agli occhi della società intellettuale, dai pudori o dai
pregiudizi del secolo. Nel sec. XVIII, Garrick diverrà l'idolo del più eletto
mondo britannico, al punto che non ai esiterà a seppellirlo nell'abbazia di
Westminster, accanto a Shakespeare (che pure era Stato attore di mestiere);
onore poi concesso a un altro autore-attore, Sheridan, malgrado gli stravizi
che avevano inquinato la sua esistenza e addirittura, si dice, causato la sua
morte.Chi riporta il gran pubblico a teatro, anche con l'idea di tornare agli
esempi delle democrazie classiche, è la rivoluzione francese. Essa vuol fare il
teatro non più per le élites, ma per il popolo; proclama di voler trasformarlo,
da scuola di corruzione a uso delle classi gaudenti e corrotte, a scuola di
virtù. I teatri di Parigi diventano, allora, una specie di succursale dei
comitati rivoluzionari; quel che vi ai rappresenta, è di gusto assai
discutibile; gli autori, incerti fra gli ideali delle decantate virtù
greco-romane (che li riportano alla tragedia classicista e alla sua morale), e
le proclamate libertà nuove (talché si provano in una quantità di lavori di
propaganda, fra i quali non uno e rimasto nella storia dell'arte), invitano gli
spettatori alla discussione, alla disputa, al tumulto; gli spettacoli si
svolgono tra roventi entusiasmi, e incidenti clamorosi. Al tempo del consolato
e poi dell'impero, Napoleone amico personale del grandissimo Talma, che dopo la
sua caduta lo ripagò con notevole ingratitudine - si fa protettore del teatro,
promovendone l'incremento, e disciplinandone l'attività pratica, con leggi
insieme amorose e severe. L'ultima è, come si sa, quella per la riforma della
Comédie-Francaise, a tutt'oggi il più antico teatro d'Europa, che vanta le sue
origini dalla troupe di Molière sussidiata dalla cassetta privata di Luigi XIV,
e che Napoleone riorganizza col famoso 'decreto di Mosca', firmato
nel momento più critico della sua vita, dalla reggia degli zar da lui occupata.
Sennonché il rinnovamento del teatro, non solo francese ma europeo, si deve al
Romanticismo. Per esso il dramma vuol diventare l'agitatore dei grandi problemi
proposti dagli spiriti più vigili all'anima delle folle.
Da esso muoverà il teatro dell'Ottocento, la
cui caratteristica essenziale sarà appunto il suo profondo desiderio di creare
una nuova morale, e di esercitare una profonda influenza sociale. I primi bandi
e squilli in questo senso erano partiti dalla seconda metà del sec. XVIII, in
Italia grazie all'Alfieri, in Francia grazie al Diderot, e soprattutto in
Germania grazie al Lessing, e al movimento intitolato dal famoso dramma del
Klinger, Sturm und Drang: le speranze in una nuova e libera umanità, la vita
giustificata in sé, l'ansia d'una perpetua ricercca proposta non più come mezzo
ma come fine, il culto dell'io, della sensibilità e della passionalità, il
ripudio delle vecchie regole così etiche come estetiche, il ritorno al senso
della natura e dell'infinito, l'adorazione per Shakespeare campione di tutte le
virtù, l'attesa d'una grande arte nuova e d'un grande teatro tedesco e
universale che ne sia la suprema espressione, sono via via i sogni del Herder,
del cenacolo degli Schlegel, e dello stesso Goethe che, particolarmente
riguardo al teatro, ne fa oggetto del suo Wilhelm Metster, e consacra gran
parte della vita all'attività non solo di drammaturgo ma anche di direttore di
teatro, istruttore d'attori e regista. L'influenza del teatro nella Germania di
quell'epoca è, effettivamente, immensa. Schiller è salutato non solo poeta
drammatico, ma maestro di vita; dopo il trionfo dei suoi Masnadieri, giovani
della buona società abbandonano il tetto familiare per farsi banditi.In Francia
il teatro romantico, specie per opera di colui che ne vien ritenuto il profeta,
Victor Hugo, non tanto s'effonde nei fremiti della fede tra melanconica e
vagamente religiosa dei romantici tedeschi, quanto si fa accusatore del passato
monarchico e cattolico, e propagandista d'un ottimismo laico, demagogico e
umanitario. Certo non entrano in queste formule il breve teatro del Vigny, ch'è
intimamente aristocratico, né quello più dovizioso del Musset, che però dopo un
infelice esordio scenico rimane per lunghi de- cenni estraneo alla ribalta e
confinato nel libro. Ma, dalla prima dell'Hernani in poi, le grandi battaglie
teatrali, con polemiche e zuffe fra gli spettatori, si combattono intorno ai
drammi di Hugo (sebbene il poeta non abbia certo dato in essi i frutti migliori
del suo ingegno). Né vogliono esser battaglie soltanto estetiche; ma concretare
in qualche modo un aspetto della lotta fra tradizione e rivoluzione, reazione e
libertà. Caratteri più bonari ebbe il romanticismo inglese, fatta eccezione per
gli atteggiamenti fra satanici e immoralisti del Byron, il cui teatro del resto
fu un fenomeno soprattutto letterario. In Italia il teatro romantico - che
diede i suoi massimi fiori nei due capolavori essenzialmente mancati, ma ricchi
di particolari stupendi, d'Alessandro Manzoni - presto dai cauti accenti
religiosi, di carità e giustizia cristiana, passò a quelli nazionali. Le sale
degli spettacoli italiani ospitarono, travestiti e compressi, gli inni alle
idee del Risorgimento; successo in gran parte politico fu quello della
Francesca del Pellico; interamente politico quello delle tragedie del
Niccolini; patrioti gli autori, gli attori, le attrici, tanto che alla più
grande fra essi, la Ristori, il Cavour si rivolgeva come ad 'ambasciatrice
d'Italia'.