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L'evoluzione normativa sul falso in bilancio




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L'evoluzione normativa sul falso in bilancio[1]


La prima normativa di riferimento relativa al falso in bilancio era quella presente nel codice del commercio del 1882, precisamente negli artt. 246 e 247. In essa si stabiliva che il bilancio dovesse dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti e le perdite subite, senza specificare, in accordo con l'ideologia liberista del tempo, alcuna regola sul contenuto minimo del bilancio e sui criteri di valutazione da applicare.


Questa situazione è cambiata, prima con l'introduzione di regole più precise nel codice civile del 1942, e in seguito con la riforma delle società per azioni di cui alla legge n. 216 del 1974 e, poi, con il decreto legislativo n. 127 del 1991.

Quest'ultimo ha dato attuazione in Italia alla IV direttiva comunitaria volta all'armonizzazione dei conti annuali delle società nell'Unione Europea. I caratteri salienti della normativa civilistica sul bilancio sono essenzialmente riconducibili:

alle finalità attribuite al documento;

ai principi di redazione;

ai criteri di valutazione stabiliti per specifiche voci;

agli schemi obbligatori di Stato Patrimoniale e Conto Economico;

ed infine alla disciplina del contenuto della Nota Integrativa e della Relazione sulla Gestione.

Nonostante la norma sia più analitica rispetto a quelle del passato, essa non esaurisce e non copre una parte preponderante delle problematiche tecniche che il redattore del bilancio deve affrontare. Pertanto si rende necessario integrare e interpretare la normativa in questione con l'applicazione dei principi contabili[2].


L'art. 2621 del codice civile, rimasto sostanzialmente immutato fino al 2001, puniva con la reclusione da uno a cinque anni gli amministratori i quali nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali esponevano fraudolentemente fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle condizioni economiche della società. Bastava una difformità anche trascurabile perché il reato fosse consumato in quanto non era prevista alcuna soglia minima.

A completare la situazione c'era l'articolo 303 del codice di procedura penale che prevedeva che gli imputati potevano essere condannati fino a due anni di reclusione.


Dalla lettura della norma è possibile evincere i due elementi tipici della struttura di ogni reato:

a.      l'elemento oggettivo (fatto materiale);

b.     l'elemento soggettivo (atteggiamento psicologico).

Il primo, cioè la condotta sanzionata, era costituito dall'esposizione di fatti non rispondenti al vero o dal nascondimento di fatti riguardanti la società.

Il secondo era racchiuso nell'avverbio fraudolentemente, che indicava il dolo specifico[3].

La formulazione della norma in esame ha lasciato spazio a differenti e multiformi interpretazioni sia riguardo all'elemento oggettivo sia a quello soggettivo.


La situazione cambia dal 1993 dopo le frequenti indagini per falso in bilancio nei confronti di amministratori di società indagati, oltre che per tale reato, anche per corruzione o finanziamenti illeciti di partiti (tangentopoli).

In questi anni si è assistito ad un'estensione dell'applicazione della fattispecie criminosa di cui all'art. 2621 c.c., a causa dalla genericità della formulazione della norma.

L'interpretazione dell'elemento oggettivo, che ha favorito l'aumento dei casi di reato, si è spostata da una prospettiva originaria in cui il bene protetto era la rappresentazione complessiva delle condizioni economiche dell'azienda, ad una visione più specifica in cui il bene protetto sono le informazioni elementari del bilancio, a prescindere dal peso e dal ruolo che hanno.

Questo nuovo orientamento ha inevitabilmente condotto a identificare e punire falsità di entità anche marginali rispetto alle dimensioni strutturali e operative delle società.

L'estensione della fattispecie criminosa in oggetto si è realizzata anche sul piano dell'atteggiamento psicologico che costituisce il fondamento soggettivo del reato.

La norma del 1942, infatti, associa l'esistenza del reato al comportamento fraudolento dell'attore e dunque al dolo da parte dello stesso.

Tradizionalmente, ai fini della verifica della sussistenza del dolo si richiedevano:

l'intento ingannatorio (animus decipiendi);

l'intento di trarre un ingiusto profitto ( animus lucrandi o lucri faciendi);

l'intenzione di nuocere al soggetto ingannato o l'accettazione dell'eventualità di poter causare un danno (animus nocendi).

Quindi, l'articolo 2621 c.c. aveva suscitato una lunga controversia dottrinale circa l'offensività del reato di false comunicazioni sociali. Le teorie contrapposte erano due:

a.      la monoffensivista, che partiva dal principio secondo il quale il bene giuridico nella fattispecie penale ricopriva una imprescindibile funzione di garanzia, per cui si sarebbe dovuto identificare il bene giuridico protetto senza che si presentasse la possibilità di altre alternative;

b.     la plurioffensivista che, invece, individuava diversi beni giuridici: innanzitutto il bene della società, dei soci e dei creditori, ma anche di tutti coloro che avrebbero potuto avere interesse ad investire nella società, confidando sulla solidità di questa, dedotta dalle comunicazioni fatte dagli amministratori e dagli altri soggetti individuati dalla norma.

Il reato era configurato come reato di pericolo[4] e, quindi, la giurisprudenza confermava la teoria plurioffensivista.


La legge n. 366 del 2001 ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi riguardanti al riforma della disciplina delle società di capitali e cooperative, nonché la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali.

Pertanto con gli artt. 2621 e 2622[5] c.c. si vuole raggiungere lo scopo di rendere inequivoca e proporzionale la lesività della condotta e l'illecito si trasforma in reato di danno, ossia quel reato che si configura quando l'evento giuridico si sostanzia nella effettiva lesione del bene giuridico tutelato dalla norma "incriminatrice".

La nuova normativa supera la genericità della vecchia formulazione facendo delle specificazioni sia sul fronte oggettivo sia su quello soggettivo.

Viene previsto che l'illiceità si realizza con l'esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni. Inoltre i fatti falsi devono essere idonei ad indurre in errore i destinatari sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società e sono tali solo se le informazioni false od omesse sono rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione di tale situazione.

Il legislatore sceglie di fare riferimento a parametri quantitativi per identificare le fattispecie potenzialmente espressive dell'illecito; in particolare prevede che il reato di falso in bilancio non possa in alcun caso essere giudicato punibile se:

in primo luogo, è frutto di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta;

in secondo luogo (esclusivamente qualora una o più delle singole valutazioni eccedano la predetta soglia, ovvero il reato non sia riconducibile interamente a valutazioni estimative), se l'insieme delle falsità e omissioni determinano una variazione dell'utile civilistico prima delle imposte non superiore al 5%, oppure una variazione del patrimonio netto non superiore all'1%.


Per di più, la condotta, secondo la norma, deve essere rivolta a conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto. In altre parole, si riprendono degli elementi dell'interpretazione tradizionale dell'avverbio fraudolentemente, ovvero:

l'intento ingannatorio e

il fine di trarre un ingiusto profitto .


Il legislatore, in osservanza del principio di proporzionalità della pena, prevede due figure autonome di reato: una mite nel caso in cui nessun danno patrimoniale sia stato arrecato ai soci o ai creditori ed una più grave nel caso in cui, invece, il danno è stato causato[6].


Nella norma del 2001 il danno, non è circostanza costitutiva del reato di falso in bilancio, ma è condizione atta a qualificarne la figura, la gravità e, di conseguenza, la sanzione. Pertanto la natura del reato e la pena si diversificano in presenza o meno del danno e del tipo di società in cui è cagionato.


Il reato può essere contestato solo dai soggetti indicati dalla norma, i quali sono responsabili penalmente nel caso in cui dovesse verificarsi la fattispecie in esame. Essi sono:

amministratori;

direttori generali;

dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari[7];

sindaci;

liquidatori.


Fino al 2001 era, inoltre, escluso che le società commerciali rispondessero direttamente o indirettamente degli illeciti commessi nel loro interesse, ma con il D.Lgs. 8 giugno del 2001 n. 231 ("Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica"), prende vita il principio secondo il quale le volontà dei soggetti ai quali la società ha conferito mandato di agire sono quelle delle società per conto delle quali tali soggetti hanno operato. In altre parole significa che sarà la società stessa a rispondere del reato commesso nel suo interesse.

Tale orientamento viene confermato e rinvigorito dall'articolo 3 del D.Lgs. 11 aprile del 2002 n. 61[8], con il quale vengono previste specifiche sanzioni pecuniarie per la società, ma solo se la realizzazione dei reati previsti in materia societaria sono commessi nell'interesse della società stessa.

In sostanza la responsabilità amministrativa della società opera:

se il reato è commesso da amministratori, direttori generali, dirigente preposto o liquidatori della società, a condizione che venga provato l'interesse della società nell'effettuazione dell'illecito;

se il reato è commesso da dipendenti o altre persone soggette alla vigilanza degli amministratori, direttori generali, dirigente preposto o liquidatori della società, a condizione che venga provato:

l'interesse della società nell'effettuazione dell'illecito;

e, inoltre, il mancato esercizio di un'adeguata attività di controllo da parte degli amministratori, direttori generali, dirigente preposto o liquidatori della società.

Un'altra importante innovazione riguarda la disciplina riservata ai cosiddetti amministratori di fatto: sono definiti tali quei soggetti che, essendo sprovvisti di una formale investitura per l'esercizio di un determinato potere, lo esercitano comunque ed in modo continuativo. Per dottrina e giurisprudenza era pacifico che gli amministratori di fatto venissero equiparati a quelli legalmente nominati.

Il legislatore ha, dunque, introdotto una nuova norma[9] con la quale ha colpito direttamente questo soggetto; a tale scopo, però, devono sussistere due condizioni fondamentali:

la continuità nel tempo dell'attività svolta;

un rapporto significativo rispetto alla gestione complessiva della società.


Pertanto cambia poco in riferimento alla responsabilità degli organi collegiali. La dottrina a tal proposito si è divisa tra due teorie:

I. da una parte si ritiene che la responsabilità degli amministratori non si estenda a quello tra essi che sia dissenziente o assente, purché questo senza ritardo faccia annotare il suo dissenso sul libro delle adunanze e lo comunichi al collegio sindacale;

II. dall'altra parte si considera il reato collegiale come un concorso di persone nel medesimo reato.


Contro il reato di false comunicazioni sociali si può procedere:

- d'ufficio, se esso è relativo a:

1. società non quotata e non ha cagionato un danno patrimoniale a soci, creditori sociali o altri soggetti privati;

2. società non quotata e ha cagionato un danno patrimoniale allo Stato, ad altri enti pubblici o alle Comunità europee;

3. società quotata (in tutti i casi);

- su querela della parte offesa se esso è relativo a società non quotata ed ha cagionato un danno patrimoniale a soggetti diversi dallo Stato, altri enti pubblici o Comunità europee.


Il reato di false comunicazioni sociali è punito:

con l'arresto fino a un anno e sei mesi, se non cagiona un danno patrimoniale a terzi;

se, invece, cagiona un danno patrimoniale a terzi:

a) e relativo a società non quotate, con la reclusione da sei mesi a tre anni;

b) e relativo a società quotate, con la reclusione da uno a quattro anni.


Gli articoli 2621 e 2622 c.c prevedono delle circostanze che determinano la non punibilità del reato di false comunicazioni sociali, valevoli in modo identico in tutti i diversi casi (a prescindere dunque che il reato arrechi o meno un danno patrimoniale, oppure se è relativo a società quotata o non quotata).

La punibilità del reato di false comunicazioni sociali è esclusa quando le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società (o del gruppo al quale essa appartiene) ed è comunque esclusa se:

la falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5%, oppure una variazione del patrimonio netto non superiore all'1%;

il reato è conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta.


L'ampiezza dei termini di prescrizione dei reati, fissati dall'art. 157 del codice penale, è proporzionale:

alla natura del reato (contravvenzione o delitto);

alla natura della pena (ammenda, arresto o reclusione);

alla misura massima della pena applicabile.

In particolare è stabilito un termine di prescrizione:

triennale, per i reati puniti con l'arresto;

quinquennale per i reati puniti con la reclusione per un periodo non superiore a cinque anni.

Ne consegue, pertanto, che il reato di false comunicazioni sociali cade in prescrizione:

se non cagiona un danno patrimoniale a terzi, in tre anni;

se cagiona un danno patrimoniale a terzi, in cinque anni.


Nell'art. 2621 c.c è, infine, previsto che nei casi di non punibilità ai soggetti indicati nel primo comma (amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili, sindaci e liquidatori) sono irrogate la sanzione amministrativa da 10 a 100 quote e l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese da sei mesi a tre anni, dall'esercizio dell'ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché da ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell'impresa.



TABELLA RIEPILOGATIVA della NORMATIVA sulle

FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI (artt. 2621 e 2622)

PRIMA DELLA RIFORMA SUL RISPARMIO

Il reato di false comunicazioni sociali è integrato quando nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, con l'intenzione di ingannare i destinatari e al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri:

vengono esposti fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni;

oppure omesse informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo cui essa appartiene, in modo idoneo a indurre in errore i destinatari.

Il reato di false comunicazioni sociali è integrato anche quando i fatti e le informazioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.

Il reato di false comunicazioni sociali può essere contestato ad amministratori;direttori generali, dirigente preposto, sindaci e liquidatori.

Procedibilità

Contro il reato di false comunicazioni sociali si procede:

- d'ufficio, se esso è relativo a :

società non quotata e non ha cagionato un danno patrimoniale a soci, creditori sociali o altri soggetti privati;

società non quotata e ha cagionato un danno patrimoniale allo Stato, ad altri enti pubblici o alle Comunità europee;

società quotata (in tutti i casi);

- su querela della parte offesa se esso è relativo a società non quotata ed ha cagionato un danno patrimoniale a soggetti diversi dallo Stato, altri enti pubblici o Comunità europee.

Pena applicabile

Il reato di false comunicazioni sociali è punito:

se non cagiona un danno patrimoniale a terzi con l'arresto fino a un anno e sei mesi;

se cagiona un danno patrimoniale a terzi:

a)     ed è relativo a società non quotate, con la reclusione da sei mesi a tre anni;

b)     ed è relativo a società quotate, con la reclusione da uno a quattro anni.

Cause di non punibilità

La punibilità del reato di false comunicazioni sociali è esclusa quando le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società (o del gruppo al quale essa appartiene).

Essa è comunque esclusa se:

- la falsità o le omissioni determinano:

1. una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte non superiore al 5%;

2. oppure una variazione del patrimonio netto non superiore all'1%;

- il reato è conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% di quella corretta.

Prescrizione

Il reato di false comunicazioni sociali cade in prescrizione:

o      se non cagiona un danno patrimoniale a terzi, in tre anni;

o      se cagiona un danno patrimoniale a terzi, in cinque anni.



Infine, il 31 ottobre 2007 il Consiglio dei Ministri ha emanato 72 misure urgenti in materia di sicurezza dei cittadini e contrasto all'illegalità diffusa, contenute in cinque distinti disegni di legge relativi a:

  1. criminalità organizzata;
  2. Trattato di Prun;
  3. falso in bilancio;
  4. microcriminalità;
  5. reati gravi e prescrizione.

La nostra attenzione, ovviamente, si focalizza sul decreto relativo al terzo punto.


La nuova disciplina per il reato di falso in bilancio sembra condurre alla vecchia formulazione del codice civile. Infatti il disegno di legge  modifica gli articoli in materia di falso in bilancio ripristinando in parte la vecchia disciplina.

Per comprendere le differenze e il significato delle modifiche è utile fare uno schema riepilogativo degli articoli presi in esame[10].


Articoli interessati dalle modifiche


Situazione precedente

Nuova situazione

Art. 2621

False comunicazioni sociali

False comunicazioni sociali

Art. 2622

False comunicazioni sociali in danno della società, dei soci e dei creditori

False comunicazioni sociali nelle società quotate in borsa

Art. 2622-bis

Non previsto

Circostanze aggravanti



L'art. 2621 c.c. rivisto cancella la differenza tra falso in bilancio senza danno a soci e creditori e falso con danno. In esso si prevede la reclusione fino a cinque anni per amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori, i quali al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo da indurre in errori i destinatari sulla predetta situazione.


La riforma modifica la distinzione tra reato con danno e reato senza danno a favore di una nuova situazione fondata sulle caratteristiche della società quotata e non quotata.

Il falso in bilancio torna ad essere un reato di pericolo e il mercato un valore da tutelare in sé, indipendentemente dall'esistenza di una lesione di interessi specifici.

Se la società non è quotata in borsa il falso rimane delitto e viene sanzionato con pene che possono arrivare al massimo fino a quattro anni e viene soppressa (rendendo più agevole l'azione ella pubblica accusa, anche l'attuale necessità che la condotta illecita sia stata realizzata con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico.

Se, invece, il reato è commesso da una società quotata la pena può arrivare sino a sei anni e anche in questo caso cade l'intenzione di frodare i soci e il pubblico.

Rimane sempre esclusa la necessità della querela.

Altra decisione fondamentale è quella di cancellare le soglie di punibilità previste ripristinando una punibilità totale.


È stato poi previsto l'art. 2622-bis c.c. che ha introdotto un'aggravante: il grave nocumento, che può essere inflitto alla società e/o ai risparmiatori, la cui conseguenza è un aumento delle pene fino ad un terzo. Non è, però, definito cosa si intende con tale locuzione.





Tratto da "La nuova disciplina del reato di falso in bilancio" di Comoli M., Provasoli A., in  Rivista dei Dottori Commercialisti, fascicolo 2,

I principi contabili sono definibili come un complesso di regole di corretta rilevazione e rappresentazione degli accadimenti d'impresa.

La dottrina distingue tra dolo generico, nel quale è sufficiente la volontà di porre in essere il fatto descritto dalla norma incriminatrice, e il dolo specifico, il quale richiede che il soggetto che commette il fatto agisca per un fine particolare.

Per reato di pericolo si intende quel reato il cui scopo è proteggere interessi diffusi, costituiti non solo dai diritti propri delle persone fisiche, ma anche da esigenze proprie della collettività.

Tali norme sono state aggiornate con il d.lgs n. 37 del 6/2/04, il d.lgs n. 310 del 28/12/04 e con la legge n. 262 del 28/12/05. Pertanto quanto riportato si riferisce all'ultimo aggiornamento citato.

Nella realtà, poi, si è discusso molto sulla possibilità della sussistenza in concreto di un falso in bilancio che non recasse danno e, la maggior parte degli studiosi, ha concluso che tale ipotesi ha significato solo teorico.

Figura introdotta con l'aggiornamento della norma in esame, dalla legge 262 del 2005.

"Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366".

L'articolo 2639 c.c. "Estensione delle qualifiche soggettive".       

Tratto da "Il «nuovo» falso in bilancio: analisi e prospettive" di R. Bauer, in Amministrazione & finanza, fascicolo 23, 2007.

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