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Iqbal MASIH è un nome che purtroppo è diventato tristemente famoso, poiché legato ad una storia orribile di sfruttamento minorile. Iqbal era un bimbo pakistano nato nel 1982, venduto dal padre per 12 dollari USA, a soli 4 anni, ad un fabbricante di tappeti di Punjab; il piccolo, picchiato, sgridato e incatenato al suo telaio, tesseva anche per 12-13 ore giornaliere, costretto ad incrociare migliaia di nodi per creare meravigliosi tappeti. Il suo salario era di 1 rupia al giorno (poco più di 25 centesimi di euro!). A 10 anni, stanco - certo, stanco a dieci anni! - della vita che stava conducendo, trovò il coraggio di uscire allo scoperto e raccontare a tutti la sua vicenda che non è soltanto la sua storia, ma quella di migliaia di bambini pakistani e di tutto il mondo. Nel 1995 la mafia dei tappeti, dopo aver deciso che Iqbal era diventato un testimone troppo scomodo dei loro sporchi affari, lo uccise. Il suo sogno, rivelatosi un'utopia, era quello di diventare un avvocato per difendere i mille e mille bambini sfruttati nel mondo.
Spesso accade di dimenticare troppo in fretta un evento drammatico, come l'esempio di Iqbal, ma, in questo caso, non si tratta di una vicenda isolata, bensì di una piaga in scala mondiale che dovrebbe servire a riflettere e ad adottare drastiche misure atte alla salvaguardia dei diritti del fanciullo, vale a dire una tutela assoluta per colui il quale è l'erede della vita.
Testimonianza di un gruppo di volontari italiani a Zakpota (BENIN)
"Usciamo dalla scuola e incontriamo tre ragazzini. Erano stati avvertiti della nostra visita e sono felici di fare una chiacchierata con noi. Si chiamano ERNEST, BASCUSS e HYACINTHE: i primi due fanno la quinta classe (nostra primaria), il terzo è in sesta. Ci raccontano la loro storia, senza esitazione, anche se con una certa timidezza":
"Siamo stati solo 8 mesi in Nigeria. - esordisce Hyacinthe - Chi ci ha portato via da casa è stato il marito della nostra zia (siamo tutti parenti), con una moto. Lavoravamo tutto il giorno, dalle 5 del mattino alle sette della sera, niente era bello, ma niente proprio..avevamo sempre fame..mangiavamo solo un unico cibo sempre quello: mais, a volte col peperoncino. La sera, quando andavamo a casa, avevamo sempre sonno, ci lavavamo e ci mettevamo a dormire, solo la domenica non lavoravamo. Sono passati 3 anni da allora, ma non dimenticherò mai; quando siamo tornati a Zakpota ero felicissimo. Ho visto i miei genitori che non sapevano nulla, non erano informati e non volevano credere alle nostre parole, dicevano che non era vero, capisci? Non accettavano, ma piangevano, prima sommessamente, poi piangevamo tutti, io raccontavo e piangevo, si piangevo; eravamo così felici che ci abbracciavamo tutti quel giorno, non lo scorderò più! Da grande voglio fare il professore, non so se ci riuscirò". " Anch'io voglio fare il professore, interviene Ernest, lavorerò duro per riuscirci." "No, io voglio fare il medico, afferma Bascuss, curare le persone che stanno male e poi fare teatro; mi piacerebbe vedere al televisione, non l'ho mai vista, la gente dice che ci sono un sacco di cose belle da vedere. E poi mi piace fare teatro, qui abbiamo un grande maestro di teatro, si chiama Renè." "Io, invece, voglio guidare una moto, grida Hiacinthe, ma non ce l'ho e così gioco a calcio, sono bravo a calcio." " A me, invece, piace la bicicletta, conclude Ernest, quello che vorrei è una bicicletta!"
Ho trovato molto significativa questa testimonianza, perché porta alla luce una realtà purtroppo attuale e che spesso è dimenticata dalla massa, da una società moderna ricca e frenetica, dei "quattro salti in padella", del benessere e dei centri abbronzatura. I veri valori della vita, quelli di un tempo, dove con poco si viveva e una bicicletta era un sogno segreto, spesso irraggiungibile, proprio come per Ernest, stanno scemando sempre più per lasciare posto alla realtà dell'apparenza esteriore, che maschera un contenuto sempre più scarno e privo di valori interiori.
I tre ragazzi protagonisti di questa storia - UNICEF Italia/2006/E.Noviello
E' praticamente impossibile quantificare il
numero dei rom presenti in Italia, poiché la maggior parte di essi, non stanziale,
è priva di qualsiasi documento atto alla loro identificazione e, soprattutto,
ad un preciso censimento. I "rom", conosciuti anche come "gitani, zingari,
nomadi e zigani", provengono non solo dalla loro terra di origine,
Purtroppo, nonostante questa "apertura", seppur in lentissima evoluzione, verso l'abbandono di alcune tradizioni, la realtà appare ancora preoccupante. E' un dato di fatto vedere zingare ai semafori, con i bimbi spesso neonati in braccio e il pancione indice di una nuova gravidanza, che chiedono l'elemosina agli automobilisti; bimbi che mai piangono, che mai si lamentano e che vengono utilizzati, sotto l'effetto di potenti narcotizzanti, per colpire la sensibilità altrui.
Bimbi che vengono messi al mondo con un unico scopo: quello di portare a casa un profitto, sin dalle più tenere età; bambini che già a 5/6 anni sono costretti a rimanere, su ordini ben precisi, 10/15 ore al giorno in mezzo al traffico a lavorare e, se dovessero ribellarsi o tornare a casa la sera con pochi soldi, vengono picchiati selvaggiamente dai loro padri padroni. Le loro mamme che sono ancora bambine (quante ne vediamo di 12-13 anni incinte!) succubi dei mariti che spesso sono cugini, anche di primo grado. Questa realtà fa rabbrividire e ciò che rimane inspiegabile è come le Autorità competenti ancora non abbiano attuato un piano, una misura legislativa idonea, per fronteggiare il dramma che coinvolge i bambini rom e tutelarli di conseguenza.
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