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Il titolo dodicesimo del libro secondo del codice penale comprende i delitti che offendono direttamente i beni essenziali dell'individuo, e cioè i beni della vita, dell'incolumità fisica, della libertà e dell'onore. Il codice in vigore non annovera tra i delitti contro la persona l'aborto (art. 545-551, ora abrogati), il quale era collocato prima della l. 22 maggio 1978, n. 194 fra i delitti contro la integrità e la sanità della stirpe. Non vi comprende neppure il reato di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art. 552), che figura tra i delitti contro la famiglia. Quanto ai delitti contro la libertà è bene ricordare che il codice Zanardelli li contemplava in un titolo a parte, distinguendoli in delitti contro le libertà politiche, contro la libertà dei culti, contro la libertà individuale, contro l'inviolabilità dei segreti e contro la libertà del lavoro. Il codice attuale ha collocato il primo e l'ultimo gruppo di reati in altri titoli e gli altri tra i delitti contro la persona. In questa sede i residui delitti sono stati divisi in cinque sezioni:
contro la personalità individuale;
contro la libertà personale;
contro la libertà morale;
contro la inviolabilità del domicilio;
contro la inviolabilità dei segreti.
Non si è trattato solamente di un cambio di collocazione ma di una completa rielaborazione di tutta la materia. È previsto il nuovo delitto di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies) e non mancano varianti al regime della querela e delle pene accessorie ed altri effetti penali. È opportuno ricordare che ex art. 36 l. 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dall'art. 17 l. 15 febbraio 1996, n. 66, per i delitti non colposi del titolo in esame, qualora la persona offesa sia una persona handicappata la pena è aumentata da un terzo alla metà.
L'omicidio in generale è l'uccisione di un uomo cagionata da un altro uomo con un comportamento doloso o colposo e senza il concorso di cause di giustificazione. Scopo dell'incriminazione è la tutela della vita umana. Questa viene protetta dallo Stato non solo nell'interesse dell'individuo, ma anche nell'interesse della collettività. La punizione dell'omicidio del consenziente dimostra che l'ordinamento giuridico attribuisce alla vita del singolo anche un valore sociale, e ciò in considerazione dei doveri che all'individuo incombono verso la famiglia e verso lo Stato.
Oggetto materiale dell'azione criminosa è un uomo diverso dall'agente, perché la maggior parte delle legislazioni vigenti, compresa quella italiana, non punisce il suicidio, neppure nei casi in cui la sanzione potrebbe praticamente applicarsi all'individuo, e cioè nell'ipotesi di semplice tentativo. La qualità di uomo, ai fini del diritto penale, non inizia con la nascita vera e propria, vale a dire con la completa fuoriuscita del prodotto del concepimento dall'alvo materno, ma in un momento immediatamente anteriore, e precisamente nel momento in cui ha inizio il distacco del feto dall'utero della donna. Ciò si desume dal fatto che il nostro codice equipara all'uccisione del neonato l'uccisione del feto durante il parto. Senza dubbio si esige che la persona su cui cade l'azione sia viva. Il requisito della vita è sufficiente, non essendo richiesta la vitalità dell'individuo. L'opinione contraria, sostenuta in passato da qualche autore, non ha alcun punto di appoggio nel nostro diritto positivo. Il sesso, l'età, le condizioni di corpo o di mente, la nazionalità della vittima sono indifferenti ai fini dell'esistenza del reato. Si discute se anche gli esseri mostruosi nati da donna possano essere soggetti passivi del delitto in esame. La questione, dal punto di vita astratto, è interessante e delicata, perché a favore della soppressione dei monstra militano ragioni di umana pietà e di convenienza sociale. Di fronte al nostro diritto positivo non c'è dubbio che detta soppressione debba considerarsi vietata, a meno che l'essere sia così abnorme da non potersi qualificare uomo. La vita umana finisce e con la morte. Finché non si verifica questo evento la vita è tutelata. Risponde di delitto di omicidio colui che uccide un condannato alla pena capitale pochi istanti prima che abbia luogo l'esecuzione, oppure una persona affetta da malattia inguaribile che è prossima a morire.
Il fatto materiale dell'omicidio implica tre elementi:
una condotta umana;
un evento;
il nesso di causalità tra l'una e l'altro.
La condotta può estrinsecarsi nelle forme più diverse, perché la legge non indica le modalità che essa deve assumere, limitandosi a richiedere che abbia cagionato la morte di una persona. L'omicidio è esempio tipico della categoria dei reati a forma libera. Nessuno dubita che il comportamento possa consistere tanto in una azione che una omissione. I mezzi con cui viene cagionata la morte possono essere non soltanto fisici (arma, veleno, forza muscolare, gas asfissiante e così via), ma anche psichici, come il procurare uno spavento o un dolore atroce ad un cardiopatico, oppure il torturare un individuo moralmente. L'evento del delitto di omicidio consiste nella morte di una persona. Tra il comportamento dell'agente e la morte di un uomo deve esistere un rapporto di causalità. L'evento morte segna il momento consumativo del delitto di omicidio. Trattandosi di un risultato nettamente distinto, anzi, staccato dalla condotta umana, nessun dubbio è consentito sulla configurabilità del tentativo, il quale può verificarsi non solo nella forma del tentativo incompiuto, ma anche quella del tentativo compiuto.
Dal punto di vista soggettivo si distinguono tre figure di omicidio: l'omicidio doloso; l'omicidio colposo; l'omicidio preterintenzionale.
Anche in relazione alle cause di giustificazione il delitto in parola non dà luogo a speciali rilievi. Dai principi e dalle regole che sono stati esposti nella parte generale si desume che tutte le cause di giustificazione, tanto se previste espressamente dalla legge, quanto se desunta in via analogica - escluso il consenso dell'avente diritto - possono trovare applicazione nel delitto di omicidio, rendendo legittima l'uccisione di un uomo: adempimento di un dovere, esercizio di un diritto, legittima difesa, stato di necessità, trattamento medico-chirurgico, attività sportiva.
È previsto all'art. 575, il quale reca: "Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno". Il codice Zanardelli nella definizione dell'omicidio doloso conteneva l'inciso "a fine di uccidere" (art. 364), ma nel progetto definitivo del codice attuale questa formula, che figurava ancora nel progetto preliminare, venne soppressa perché ritenuta superflua, date le norme generali sull'elemento soggettivo del reato contenente nel libro primo (art. 42 e 43 comma 2). A nostro parere, la soppressione dell'inciso, merita approvazione non solo per il motivo indicato dal Ministro proponente, ma anche perché il fine di uccidere, per quanto di regola ricorra nell'omicidio doloso, non può ritenersi necessario, non riscontrandosi in quella fora di dolo che va sotto il nome di dolo indiretto o eventuale. In questa ipotesi non si ha propriamente l'intenzione di cagionare l'evento, bensì la previsione della possibilità del verificarsi dell'evento stesso, accompagnata dall'accettazione del rischio relativo. Da quanto appena detto deve dedursi che l'equazione: dolo = intenzione di uccidere, accolta dalla prevalente dottrina e giurisprudenza è inesatta. Per l'esistenza del dolo nell'omicidio basta che si verifichino le condizione indicate nella definizione generale che il codice fornisce all'art. 43, definizione che, secondo l'interpretazione più accreditata, comprende anche il dolo eventuale. Il nostro codice per graduare il delitto segue il sistema delle circostanze aggravanti. Negli art. 576 e 577 queste circostanze sono distinte secondo che importino la pena di morte, l'ergastolo o la reclusione da ventiquattro a trenta anni, ma l'abolizione della pena capitale, sancita dal d.l. 10 agosto 1944, n. 224, ha avuto per conseguenza la semplificazione della materia, rendendo anche priva di effetto la distinzione che figurava nel n. 2 dell'art. 576 e nel n. 1 dell'art. 577. Prendendo in considerazione la natura intrinseca delle aggravanti in questione, esse possono essere raggruppate, a seconda che si riferiscano all'elemento soggettivo del reato, alle modalità dell'azione criminosa o ai mezzi usati, alla connessione con altri reati, alla qualità del soggetto attivo e ai rapporti tra colpevole e offeso.
AGGRAVANTI CONCERNENTI L'ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO:
l'aver commesso il fatto con premeditazione (art. 577 n.3). Per l'esistenza della premeditazione occorre: un certo lasso di tempo tra la risoluzione criminosa e la sua attuazione; un'accurata preparazione del delitto, preparazione che spesso viene indicata col termine di macchinazione. Comunque la premeditazione si concepisca, generalmente si ammette che l'aggravante sussiste anche quando l'attuazione del proposito criminoso è condizionata, come nel caso abbastanza frequente della donna sedotta che decide di uccidere il seduttore se costui si rifiuterà di sposarla. Controverso è se la premeditazione sia compatibile col vizio parziale di mente: cioè, se essa possa ravvisarsi nel fatto di colui che è ritenuto seminfermo ai sensi dell'art. 89 del codice. L'opinione che prevale nella dottrina e per lungo tempo ha dominato nella giurisprudenza fondandosi su ragioni diverse, lo esclude. Nessuna incertezza dovrebbe invece sussistere sulla conciliabilità della premeditazione con l'attenuante generica della provocazione, perché lo stato d'ira richiesto per questa attenuante può senza dubbio permanere nel periodo di tempo che va dalla risoluzione all'esecuzione del delitto.
L'aver agito per motivi abietti o futili.
AGGRAVANTI CONCERNENTI LE MODALITA' DELL'AZIONE CRIMINOSA O I MEZZI USATI
l'aver adoperato sevizie o l'aver agito con crudeltà verso le persone (art. 577 n. 4).
L'aver commesso il fatto col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro mezzo insidioso (art. 577 n. 2). Si considerano venefiche le sostanze capaci di determinare la morte mediante azione tossica sull'organismo. Si discute se le sostanze corrosive vi siano comprese, ma a noi sembra che non sussistano valide motivazioni per escluderle. Tra gli altri mezzi insidiosi considerati dalla legge rientrano i trabocchetti, l'agguato o anche alcune forme di delinquenza, come il sabotaggio del motore di un'automobile o di un'aeroplano.
AGGRAVANTI DIPENDENTI DALLA CONNESSIONE CON ALTRI REATI
l'aver commesso il fatto per eseguire od occultare un altro reato, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il profitto o il prodotto o il prezzo ovvero l'impunità di altro reato (art. 576 n. 1, in relazione all'art. 61 n. 2).
L'aver cagionato dolosamente la morte nell'atto di commettere taluno dei delitti preveduti dagli art. 519, 520 e 521. I delitti cui si riferisce questa aggravante, prima della legge 15 febbraio 1996 n. 66 erano la violenza carnale, la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale e gli atti di libidine violenti. Oggi dovrebbero corrispondervisi gli art. 609-bis, quater e octies, ma il frettoloso legislatore non ha modificato in maniera espressa la norma in esame.
AGGRAVANTI DIPENDENTI DALLA QUALITA' DI SOGGETTO ATTIVO
Omicidio commesso dal latitante, per sottrarsi all'arresto, alla cattura o alla carcerazione, ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza (art. 576 n. 3). Il codice fornisce una definizione di latitante all'ultimo comma dell'art. 576 considerando tale chi si trova in una delle condizioni indicate nel numero 6 dell'art. 61, e cioè colui che ha commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente all'esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato. L'aggravante di cui si tratta non è applicabile all'evaso perché l'equiparazione tra latitante ed evaso sancita dall'art. 296 n. 5 del c.p.p. è da intendersi limitata ai fini processuali.
Omicidio commesso dall'associato per delinquere per sottrarsi all'arresto, alla cattura o alla carcerazione (art. 576 n. 4). Per la sussistenza dell'aggravante è necessario che la condizione di associato per delinquere sia accertata giudizialmente con sentenza di condanna divenuta irrevocabile. Non occorre che il passaggio in giudicato di tale sentenza si sia verificato prima dell'omicidio, essendo sufficiente che avvenga prima o contemporaneamente alla pronuncia definitiva per questo delitto.
AGGRAVANTI DIPENDENTI DAI RAPPORTI TRA IL COLPEVOLE E L'OFFESO
l'aver commesso il fatto contro l'ascendente o il discendente (art. 576 n. 2 e art. 577 n. 1). Trattasi della figura di omicidio aggravato che va comunemente sotto il nome di parricidio. La disposizione si riferisce ai discendenti e agli ascendenti di qualsiasi grado.
L'aver commesso il fatto contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta (art. 577 comma 2). L'uccisione dei parenti e affini contemplati dal codice nella disposizione ora richiamata generalmente si designa col nome di quasi-parricidio o parricidio improprio.
L'omicidio doloso è tra i reati per i quali, ai sensi dell'art. 16 l. 22 maggio 1975, n. 152, i termini di prescrizione sono sospesi durante la latitanza dell'imputato, per tutto il decorso dei rinvii chiesti da quest'ultimo o dal suo difensore e durante il tempo necessario per la notifica di ordini o mandati se il destinatario non ha provveduto a comunicare ogni mutazione relativa all'abitazione ovvero al domicilio dichiarato o eletto.
Notizie storiche. Già prima della "Legge delle dodici Tavole", a Roma, esistevano giudici speciali per reprimere il delitto di omicidio. Dopo Silla la legge fondamentale in materia fu la lex Cornelia de sicariis et veneficiis, la quale, però, comprendeva anche altri delitti. Con la lex Pompeia del 669 la parola parricidium assunse il significato di uccisione di prossimi congiunti. L'omicidio in origine era punito con la morte. In seguito, alle persone di condizione sociale superiore si applicò la deportazione e l'estremo supplizio rimase sancito per quelle di qualità inferiore. Nel Medioevo prevalse a lungo anche in Italia la tendenza a punire l'omicidio con la pena privata, mentre assai diffuse erano le vendette del sangue. Nell'ambito dell'omicidio doloso sorsero a poco a poco varie configurazioni. Tra queste, accanto al parricidium e al veneficium, primeggiava l'assassinium, il quale da principio indicava soltanto l'omicidio per mandato, mentre in seguito comprendeva anche l'uccisione premeditata.
Il nostro codice non contempla figure particolari di attenuanti speciali per il delitto in esame. prevede accanto ad ipotesi aggravanti, forme attenuate di omicidio doloso, che considera come figure autonome di reato. Per effetto della l. 5 agosto 1981, n. 442, sono scomparse dall'ordinamento le figure del feticidio o infanticidio per causa d'onore e l'omicidio per causa d'onore, essendo stata abrogata la seconda e interamente sostituita la prima con una nuova figura di reato che è qualificata come "infanticidio in condizioni di abbandono materiale". Per ciò che concerne l'abrogata disciplina del feticidio, dell'infanticidio e dell'omicidio per causa d'onore, occorre rilevare che queste erano figure tipiche di reato. L'elemento che determinava la degradazione dell'omicidio doloso era la causa d'onore. L'azione doveva cioè essere commessa al fine di eliminare il disonore che si riteneva derivare dalla notorietà di una gravidanza illegittima o di una illegittima relazione carnale. Ratio della tutela era il perturbamento psichico dell'agente. Si richiedeva un rapporto di relativa immediatezza tra lo stato emotivo e la condotta delittuosa e la giurisprudenza sul punto aveva mostrato una notevole tendenza ad interpretazioni suggerite dal favor rei.
Il nuovo testo dell'art. 578, abbandonato il criterio di mitigazione delle pene per l'omicidio comune rappresentato dalla causa d'onore, ha ritenuto di dovergli sostituire quello delle "condizioni di abbandono materiale o morale connesse al parto quando abbiano determinato il fatto. Questo è descritto come il comportamento della madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto. Soggetto attivo del reato è la madre soltanto. Dandosi poi carico dei compartecipi si chiarisce ora che, mentre a coloro che concorrono nel reato è di consueto applicabile la pena stessa dell'omicidio volontario, qualora gli stessi abbiano agito col solo fine di aiutare la madre tale pena può essere notevolmente diminuita. Si specifica inoltre che non si applicano le aggravanti stabilite all'art. 61 del codice penale. La formula in condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto richiede che per il fatto del futuro parto siano venuti a mancare alla donna quegli aiuti e quella solidarietà ambientale che sono consueti nella nostra società in tale evenienza: quindi sia i mezzi, sia i soccorsi psichici.
Il fatto materiale può consistere tanto nell'uccisione del feto durante il parto quanto nell'uccisione di un neonato immediatamente dopo il parto. Il feticidio presuppone che sia compiuto il processo fisiologico della gravidanza, perché in caso diverso la distruzione del prodotto del concepimento rientrerebbe nella figura dell'aborto. Secondo un'opinione corrente, il distacco del feto dall'alvo materno si desume dal verificarsi delle doglie, cioè dal travaglio del parto. Siccome il parto non è né fenomeno istantaneo né fenomeno rapidissimo, senza dubbio esiste una qualche incertezza nella determinazione del momento iniziale, ma essa è inevitabile. In caso di parto artificiale il principio dell'operazione equivale al travaglio. L'infanticidio ricorre quando l'uccisione avviene dopo il compimento del parto, e cioè dopo che il prodotto della gestazione è completamente uscito dal ventre materno. Come è naturale, si esige che l'essere sia nato vivo. La scienza medica ritiene che la prova della vita è fornita dall'avvenuta respirazione, e cioè dalla docimasia polmonare. Affinché possa parlarsi di infanticidio, è necessario che l'uccisione avvenga immediatamente dopo il parto. Essenziale è che il fatto si verifichi durante lo stato emozionale che segue il parto.
Del reato proprio in esame risponde la madre. Tutte le altre persone che pongano in essere il fatto, incorreranno nelle pene dell'omicidio comune anche se compartecipi. È ammessa però l'ipotesi di un trattamento penale più favorevole per quei concorrenti che abbiano agito al solo scopo di favorire la madre. In ogni altro caso la sanzione resterà quella consueta dell'omicidio volontario.
Al reato basta il dolo generico. Questo consiste nella coscienza e volontà di cagionare la morte del neonato o del feto, con la rappresentazione delle condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto. Qualora la morte del feto durante il parto o dell'infante subito dopo il parto sia dovuta non a dolo, ma a semplice colpa, l'autore risponderà di omicidio colposo.
Per il disposto dell'ultimo comma dell'art. 578 al colpevole di questo reato non si applicano le aggravanti comuni stabilite all'art. 61.
Il nostro ordinamento considera indisponibile il bene della vita. In base al principio generale sancito all'art. 50 del codice, perciò, il consenso del soggetto passivo non scrimina l'omicidio. Tuttavia il codice nell'art. 579 considera forma attenuata di omicidio il fatto di chi "cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui". Per l'esplicito disposto del comma 3 dell'art. in parola, questo delictum sui generis non ricorre e, in conseguenza, debbono applicarsi le norme relative all'omicidio comune, quando il fatto sia commesso:
contro una persona minore degli anni diciotto;
contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti;
contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con l'inganno.
Il consenso della vittima non implica necessariamente quella richiesta che qualche codice esige per la speciale figura delittuosa. A costituirla basta il permesso, e cioè un atto di volontà del soggetto passivo che autorizzi l'azione. Il semplice desiderio e l'indifferenza non sono sufficienti. Il consenso deve essere manifestato. L'efficacia di un consenso tacito, desumibile senza equivoci dal comportamento del soggetto, non può essere esclusa, per quanto in proposito si imponga molta cautela, dato l'alto valore del bene della vita. Nessun dubbio che il consenso può essere sottoposto a condizioni (ad es. l'uso di un determinato mezzo) ed è revocabile. Va da sé che colui che uccida con un mezzo diverso o dopo che il consenso è stato revocato risponde di omicidio comune.
L'elemento soggettivo importa, oltre a tutti i requisiti richiesti per l'omicidio doloso, la consapevolezza di agire col consenso della vittima. Se il consenso non sussiste, ma l'agente è ragionevolmente indotto dalle circostanze a credere che vi sia, l'art. 579 sarà applicabile, perché la supposizione erronea della presenza di un elemento che degrada un reato in un altro minore della stessa indole, non è né logico né equo fare un trattamento diverso da quello comunemente stabilito nell'ultimo comma dell'art. 59 del codice per le c.d. circostanze che escludono la pena. All'omicidio del consenziente non si applicano le aggravanti comuni previste dall'art. 61.
In ordine alla figura di cui stiamo trattando, la questione più importante che si presenta è quella dell'eutanasia. Si tratta di un problema che da qualche decennio è divenuto di grande attualità. La parola eutanasia, la cui origine viene attribuita a Francesco Bacone, che con essa voleva indicare la morte dolce e calma, viene alcune volte usata in senso più ampio. Quella che a noi interessa è l'eutanasia in senso stretto e cioè l'uccisione per pietà: l'omicidio misericordioso, vale a dire, la morte provocata per troncare le sofferenze di un essere colpito da un morbo inguaribile. In Italia la Chiesa Cattolica è decisamente contraria, e contraria è anche la maggioranza dei medici. Nel nostro diritto positivo solo pochi casi di eutanasia rientrano nella disposizione che regola l'omicidio del consenziente, perché, come abbiamo visto, per l'applicabilità di tale norma si richiede un vero e proprio consenso prestato da persona che abbia superato gli anni diciotto e non sia in condizioni di deficienza psichica, condizione che normalmente si riscontrano nei malati incurabili e afflitti da atroci sofferenze. La maggior parte dei casi di eutanasia, pertanto cade sotto le sanzioni dell'omicidio doloso comune. Poiché la serie di aggravanti previste ( ad es. la premeditazione, i vincoli di parentela) porterebbe all'inflizione di pene molto severe, a nostro avviso, sarebbe opportuno introdurre nella nostra legislazione una norma speciale, fissando una pena non elevata, con un minimo basso per il caso che sia cagionata per pietà la morte di una persona amata, certamente inguaribile e al solo scopo di porre termine alle sue sofferenze.
Il suicidio che per lungo tempo è stato punito, nel nostro ordinamento vigente è di per sé esente da pena. Questa tolleranza è dovuta a ragioni di politica criminale, e praticamente alla impossibilità di una repressione efficace. Siccome tale impossibilità non sussiste nei confronti dei terzi che cooperino al fatto, il codice vigente all'art. 580 punisce "chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione". La punibilità di chi concorre all'altrui suicidio, tuttavia, nel nostro diritto è condizionata. Essa è subordinata a due condizioni che sono prevedute alternativamente:
che il suicidio avvenga, e cioè che si verifichi la morte della persona;
che la morte non si verifichi, purché dal tentativo di suicidio derivi una lesione grave o gravissima (art. 583).
Non avverandosi per qualsiasi ragione né l'una né l'altra di dette condizioni, anche la partecipazione all'altrui suicidio rimane impunita. Dall'ultimo comma dell'art. 580 si desume che questo delitto speciale è escluso e si applicano le disposizioni relative all'omicidio, allorché la persona che si suicida è minore degli anni quattordici o comunque priva della capacità di intendere o di volere.
Il fatto materiale consiste in un atto di partecipazione al suicidio altrui, partecipazione che può essere fisica o psichica. È psichica quando l'agente fa sorgere nel soggetto il proposito che prima non esisteva, oppure rende più solido il proposito esistente. La partecipazione è fisica allorché l'agente concorre nell'esecuzione del suicidio rendendolo possibile fornendo, ad esempio, i mezzi necessari, o in qualsiasi altro modo agevolando l'esecuzione medesima. Contrariamente all'opinione di Manzini, si ritiene che debba esistere un nesso eziologico tra l'azione del colpevole e il risultato, perché in difetto di un contributo causale non è in genere consentito di parlare di concorso nel fatto altrui. L'agevolazione al suicidio può avere luogo anche mediante un'omissione. Occorre pertanto, ai sensi della regola generale stabilita all'art. 40, che il soggetto abbia violato un obbligo giuridico a contenuto positivo. Nel caso abbastanza frequente del suicidio doppio con la sopravvivenza di uno dei due, bisogna distinguere: se il sopravvivente è stato autore unico dell'uccisione dell'altro, egli risponde di omicidio del consenziente; se ha determinato o comunque agevolato il suicidio dell'altro, sarà responsabile del delitto ora in discussione, mentre andrà esente da pena se sarà ritenuto semplice succube di colui che è deceduto.
Trattandosi di un caso di compartecipazione ad un fatto altrui, occorre nel soggetto la volontà di cooperare al fatto medesimo.
Per il disposto del capoverso dell'art. 580 il delitto è aggravato se la persona istigata, eccitata o aiutata:
è maggiore degli anni quattordici, ma minore degli anni diciotto;
si trova in condizioni di deficienza psichica per una infermità di qualsiasi genere o per l'abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti.
Se il suicida non ha superato gli anni quattordici o comunque è privo della capacità di intendere e di volere si deve parlare di omicidio comune. Le aggravanti comuni indicate all'art. 61 sono applicabili, perché nelle disposizione in esame non figura l'esclusione che è sancita per l'omicidio del consenziente.
Per l'art. 584 risponde di tale reato "chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli art. 581 e 582, cagiona la morte di un uomo". I delitti di cui si parla sono le percosse e le lesioni personali. Pertanto l'ipotesi configurata dal legislatore consiste nel fatto dell'individuo che, ponendo in essere atti diretti a percuotere una persona o a procurarle una lesione personale, ne determina, senza volerlo, la morte.
Siccome la legge parla di atti diretti a commettere uno dei delitti di cui agli art. 581 e 582, non si richiede che questi reati abbiano raggiunto il momento consumativo, bastando che siano tentati. Così risponderà di omicidio preterintenzionale colui che in una località dirupata tenti di ferire una persona, la quale, per sfuggire alla minaccia, trovi la morte, cadendo in un precipizio. Il delitto si consuma nel luogo e nel momento in cui si verifica il decesso della vittima. Il tentativo di omicidio preterintenzionale è inconcepibile per l'ovvia ragione che in esso manca la volontà dell'evento che lo perfeziona.
L'elemento soggettivo consiste nel dolo del reato base. È fin troppo evidente che, se nel fatto si riscontrasse il dolo dell'omicidio, sia pure nella forma del dolo indiretto, non si potrebbe parlare del delitto in esame.
Per il disposto dall'art. 585 il delitto è aggravato se concorre alcuna delle circostanze previste per l'omicidio comune negli art. 576 e 577, oppure se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive.
È previsto nell'art. 589, il quale lo descrive con la semplice formula: " Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni". Per colpa si intende il verificarsi dell'evento, anche se preveduto, ma non voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. L'aggravante contemplata nel n. 3 dell'art. 61 (previsione dell'evento) può ricorrere nel delitto in esame, al quale si applicano, in quanto compatibili col reato colposo, anche le altre circostanze previste nel detto articolo, nonché le attenuanti comuni di cui all'art. 62. Va posto in rilievo che la compatibilità con la provocazione viene in generale ammessa.
Deve essere ricordata la disposizione contenuta all'art. 586 del codice, il quale, sotto la rubrica morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, reca: "Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell'art. 83, ma le pene stabilite negli art. 589 e 590 sono aumentate". Questa norma importa una aggiunta al disposto dell'art. 83 che riguarda l'aberratio delicti, in quanto sancisce un aumento di pena per il caso che il delitto diverso da quello voluto dall'agente sia la morte o la lesione personale.
Tra le norme regolanti le offese all'incolumità individuale, non è più compresa, come in passato, la lesione personale a causa d'onore, essendo stato abrogato con la l. 5 agosto 1981, n. 442 l'art. 587 comma 3.
LESIONE PERSONALE (COMUNE). Per il primo comma dell'art. 582 questa figura delittuosa, che va ordinariamente sotto il nome di "lesione personale lieve", consiste nel fatto di colui che "cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente". Se la malattia ha una durata non superiore a venti giorni e non si verificano le conseguenze indicate nell'art. 585, il delitto è perseguibile a querela della persona offesa. La forma più tenue di lesione che si desume dalla norma ora richiamata viene comunemente detta lievissima. Poiché, come vedremo, quando la malattia derivante dalla lesione si protrae oltre i 40 giorni, il fatto trapassa nella lesione grave o gravissima di cui all'art. 583, è la lesione personale comune la lesione che provoca una malattia avente durata maggiore di giorni 20, ma non superiore ai giorni 40.
Secondo il testo della legge, l'elemento oggettivo della figura criminosa in esame consiste nel cagionare una lesione da cui deriva una malattia. A nostro modo di vedere, poiché la legge non fornisce una definizione di malattia, bisogna attenersi a quella fornita dalla scienza medica. Pertanto si ritiene che la malattia consista in quel processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina una apprezzabile menomazione funzionale dell'organismo. Se il processo morboso investe l'organismo fisico, si quella che il codice definisce come malattia nel corpo; se investe l'organismo psichico, determinando un turbamento nelle funzioni dell'intelletto o della volontà, si ha malattia nella mente. Non vi rientrano, pertanto, le ecchimosi perché esse non determinano una menomazione funzionale dell'organismo degna di rilievo.
Per l'esistenza del dolo, secondo le regole generali, occorre la volontà e previsione dell'evento e cioè della malattia nel significato prima espresso. Se il fatto è stato commesso con il dolo che è proprio del delitto di omicidio, come nel caso frequentissimo della ferita inferta animo necandi, il soggetto risponderà di omicidio tentato. Il reato di lesione personale resterà in tal caso assorbito nel reato maggiore, essendo necessariamente contenuto in esso.
Il verificarsi della malattia che è il vero evento naturalistico della lesione personale, segna il momento consumativo del reato. Nessun dubbio sulla configurabilità del tentativo.
Come tutti i reati è necessario che il fatto descritto nella norma incriminatrice presenti il carattere dell'antigiuridicità, il quale resta escluso dalla presenza di cause di giustificazione.
Per disposto dell'art. 585 il delitto di lesioni personali è aggravato se concorre una delle circostanze previste per l'omicidio negli art. 576 e 577, oppure se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive.
LESIONE PERSONALE GRAVE E GRAVISSIMA. L'art. 583 recita: "La lesione personale è grave:
se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni;
se dal fatto si produce l'indebolimento permanente di un senso o di un organo.
La lesione personale è gravissima se dal fatto deriva:
una malattia certamente o probabilmente insanabile;
la perdita di un senso;
la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella;
la deformazione o lo sfregio permanente del viso.
Dottrina e giurisprudenza, sulle orme della Relazione ministeriale al progetto, ritengono che l'art. 583 non delinea autonome figurae delicti, ma semplici circostanze, perché le ipotesi prese in considerazione non implicano una modificazione dell'essenza di reato di lesioni personali, ma costituiscono soltanto delle particolarità, e più precisamente dei risultati che si aggiungono ad esso, determinandone una maggiore gravità. Gli eventi indicati nell'articolo in esame, in quanto circostanze aggravanti, per il principio generale sancito nell'art. 59, prima della riforma di cui all'art. 1 l. 7 febbraio 1990, n. 19 dovevano essere valutati a carico dell'agente obbiettivamente, e cioè anche se da lui non fossero stati previsti e persino se fossero risultati imprevedibili. Su questo punto la relazione è quanto mai esplicita. In essa si legge: "Trattandosi di circostanze oggettive, consegue che saranno in ogni caso addebitate al colpevole o alle persone che abbiano concorso nel delitto, ancorché non conosciute né volute: esse, cioè, debbono essere valutate indipendentemente da qualsiasi indagine psicologica". "Gli effetti del danno, più o meno gravi, costituiscono il rischio che corre il colpevole e che a lui è addebitato a titolo di responsabilità oggettiva". Osserviamo subito che, se si fosse accolto questo ordine di idee, non c'era davvero da compiacersi del modo in cui il nostro legislatore aveva regolato uno dei più frequenti delitti, quale è la lesione personale. A nostro avviso questo è un caso tipico in cui è possibile dare alla legge un'interpretazione diversa da quella che era nell'intendimento di quelle che l'hanno redatta. Se si riconosce, come è necessario riconoscere, che fra le ipotesi previste nell'art. 583 ve ne è qualcuna in cui si riscontra quella che è la nota essenziale del delitto configurato nell'articolo precedente, e cioè la malattia, non è possibile considerare le ipotesi stesse come circostanze della c.d. lesione tipica. Per la regola generale, infatti, tra il reato circostanziato e il reato semplice deve esistere un rapporto di species ad genus, rapporto che presuppone che nella fattispecie speciale si riscontrino tutti indistintamente gli elementi propri della fattispecie generale, con l'aggiunta di uno o più elementi particolari. La tesi qui propugnata trova conferma nel fatto che il codice esplicitamente ha conferito speciali denominazioni alle ipotesi previste nell'art. 583, designando col termine di lesione grave quelle del primo comma e col termine di lesione gravissima quelle del secondo. Si tenga presente che il codice non attribuisce mai un particolare nomen iuris a ipotesi criminose che non siano reati autonomi, ma semplici forme circostanziate di altri reati. Contro il nostro assunto sarebbe vano opporre che la rubrica dell'art. 583 parla di circostanze aggravanti, perché le rubriche non hanno valore vincolante per l'interprete.
La prima conseguenza di questo ordine di idee concerne l'elemento soggettivo del reato. Se si ammette che il nostro codice configura nell'art. 583 due autonomi tipi di reato, bisogna ritenere che per l'esistenza del dolo in ognuno di essi sia necessaria la volontà del relativo evento e, perciò, come nella lesione personale comune, il reo deve prevedere che dal suo operato derivi una malattia nel corpo o nella mente del soggetto passivo, così nella lesione personale grave deve prevedere il verificarsi di uno degli eventi indicati al comma 1 dell'art. 583. Questa conclusione contrasta nettamente con l'opinione comune, ma essa non si può evitare se si vogliono rettamente applicare i principi regolatori del nostro diritto, e particolarmente la norma fondamentale contenuta nell'art. 43 del codice, per la quale l'esistenza del dolo è in ogni reato indispensabile la volontà dell'evento. Accolta la nostra concezione, si domanda come dovrà essere regolato il caso in cui il soggetto, nell'intento di cagionare una data lesione, ne determini, senza volerlo, una di maggiore gravità. Si tratta di quella che comunemente viene denominata lesione preterintenzionale, la quale, oggetto di particolare disciplina nel codice abrogato, non è stata prevista nel codice in vigore, coerentemente al punto di vista adottato dai compilatori. Trova applicazione la norma di cui all'art. 586, la quale contempla l'ipotesi che da un fatto preveduto come delitto doloso derivi, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione personale di una persona. Nel caso in cui un soggetto voglia graffiare un altro, ma ne determina la perdita di un occhio, questi risponderà di lesione personale comune dolosa in concorso con la lesione colposa gravissima con l'aumento di pena stabilito dal citato art. 586.
Notevoli sono anche le conseguenze che derivano dalla nostra concezione in ordine al momento consumativo e al tentativo. Per noi che ammettiamo l'esistenza di tre tipi autonomi di reato, la consumazione ha luogo in momenti diversi, e precisamente quando si avverano gli eventi che caratterizzano ciascun tipo. Quanto al tentativo, la nostra concezione porta ad ammettere che esso possa verificarsi anche nei confronti della lesione grave e della lesione gravissima. Di fronte al nostro diritto positivo, dottrina e giurisprudenza opinano che non è consentito parlare di tentativo di lesione grave o gravissima, e ritengono che in ogni caso il reo debba rispondere di tentativo di lesione comune. Tale conclusione, se pur in armonia con la premessa da cui viene dedotta, non può soddisfare, non soltanto perché trascura marcate differenze che esistono nella realtà, ma anche perché assicura al tentativo di lesioni gravi o gravissime un trattamento di estrema benignità. Ci domandiamo se queste conclusioni, formulate prima della citata riforma dell'art. 59, abbiano minore rilievo ora che le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute per errore determinato da colpa inesistenti. A noi sembra che al quesito debba darsi risposta negativa.
In ordine alle varie ipotesi di lesione grave, dal punto di vista esegetico si osserva:
malattia che mette in pericolo la vita della persona, è malattia che in un dato momento mette in reale pericolo la vita del paziente;
per incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni si intende l'impossibilità di svolgere l'attività consueta. Nell'ipotesi è compresa qualsiasi attività dell'uomo, purché non in contrasto con l'ordinamento giuridico;
per quanto riguarda l'indebolimento permanente di un senso o di un organo, si premette che senso è il mezzo che è destinato a porre l'individuo in contatto con il mondo esteriore, facendogli percepire gli stimoli che ne provengono: vista, udito, olfatto, gusto ecc. Organo, ai fini del diritto, è l'insieme delle parti del corpo che servono ad una determinata funzione. A costituire la lesione grave basta l'indebolimento del senso o dell'organo, mentre se si verifica la perdita dell'uno o dell'altro si ha la lesione gravissima. In proposito deve tenersi presente che, quando le parti del corpo che provvedono alla stessa funzione sono più di una, la distruzione di una di esse in genere comporta l'indebolimento e non la perdita del senso o dell'uso dell'organo.
Rispetto all'ipotesi di lesione gravissima va notato:
malattia certamente o probabilmente inguaribile è quello stato di alterazione funzionale che, a giudizio della scienza, non può cessare, o solo in rari casi si risolve in guarigione;
la perdita di un senso si verifica allorché il senso è completamente distrutto;
la perdita di un arto è la distruzione di una delle parti del corpo destinata o alla funzione della prensione o a quella della deambulazione. Alla perdita è assimilata la mutilazione che renda l'arto inservibile;
la perdita dell'uso di un organo implica che l'insieme delle parti del corpo, che lo costituiscono, siano così danneggiate da non poter più adempiere alla funzione a cui sono destinate;
la perdita della capacità di procreare comprende non solo l'impotentia coeundi e l'impotentia generandi, ma anche l'incapacità del parto nella donna;
non si può parlare di permanente e grave difficoltà nella favella se non si verifica un profondo disturbo funzionale che ponga il leso in spiccata inferiorità nelle sue relazioni con gli altri;
premesso che per viso si intende la parte del corpo che è visibile stando di fronte alla persona, compreso il collo, si ha sfregio permanente quando le regolarità e l'armonia dei lineamenti del viso è alterata in modo notevole.
Come la lesione comune, la lesione grave e quella gravissima sono aggravate se concorre alcuna delle circostanze previste dagli art. 576 e 577 del codice, oppure se il fatto è compiuto con armi o con sostanze corrosive.
LESIONE PERSONALE COLPOSA. È prevista dall'art. 590 con formula analoga a quella adottata per l'omicidio colposo: "Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a lire seicentomila". L'applicazione di questa norma non dà luogo a questioni particolari. Occorre rilevare che è richiesta la querela della persona offesa, eccezion fatta per le lesioni gravi o gravissime relative ai fatti commessi con violazione delle norme in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro o attinenti all'igiene del lavoro e che abbiano determinato una malattia professionale. In caso di dolo, invece, la perseguibilità a querela di parte è limitata alla lesione personale lievissima.
PERCOSSE. Ai sensi dell'art. 581, risponde di tale reato colui che "percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente". Poiché percuotere significa urtare violentemente, nella previsione della norma rientrano quelle che una volta si dicevano "vie di fatto", e cioè lo schiaffo, il calcio, il pugno e altre simili manifestazioni di violenza non produttive di malattia. La percossa di regola determina una sensazione dolorosa, ma questa non è richiesta ai fini del reato in esame. per la punibilità della percossa si richiede il dolo, non essendo prevista legislativamente la forma colposa. Per il disposto dell'art. 581, e in applicazione del principio generale sancito all'art. 84 del codice, il delitto di percosse rimane assorbito in tutti i reati nei quali la violenza è considerata elemento costitutivo o circostanza aggravante di altro reato. Il delitto è perseguibile a querela della persona offesa.
Ipotesi abrogate di lesioni personali. Il codice negli art. 552 e 554 prevedeva due speciali ipotesi di lesione personale. La prima contemplava il fatto di chi avesse compiuto su altra persona, col consenso di questa, atti diretti a renderla impotente alla procreazione. La seconda perseguiva, in determinati casi, il contagio di sifilide o di blenorragia. Dopo l'abrogazione dell'intero titolo decimo del libro secondo, avvenuta con la l. n. 194 del 1978, la procurata impotenza alla procreazione è oggi colpita a titolo di lesione personale gravissima.
Per il diritto penale è aborto l'interruzione intenzionale del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del prodotto del concepimento. L'opportunità di incriminare l'aborto è stata negata in parecchi ordinamenti moderni soprattutto per quanto attiene alla interruzione della gravidanza voluta dalla gestante nei primi tre mesi. In Italia, dopo un iter laboriosissimo, la legge 22 maggio 1978, n. 194 ha adottato un criterio analogo, ma con formulazione e prescrizioni che fanno del testo legislativo una delle fonti più travagliate e discusse. È opportuno esporre alcune nozioni che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle norme incriminatrici.
Presupposto dell'aborto vero e proprio è la gravidanza della donna. Questo fenomeno ha inizio con l'annidamento dell'ovulo, fecondato mediante con l'incontro dello sperma maschile, nella mucosa uterina. Il termine della gravidanza si verifica con l'espulsione del feto. Se manca la gestazione, non può esservi aborto vero e proprio.
Il processo fisiologico della gravidanza deve essere interrotto per opera dell'agente e non per cause naturali. Poiché la legge non indica il mezzo con cui deve essere provocato l'aborto è fuori dubbio che il fatto può commettersi con qualsiasi mezzo idoneo allo scopo. Vengono in considerazione i mezzi specifici, i quali possono essere chimici e fisici o meccanici. Ma l'aborto può procurarsi anche con mezzi generici come le ferite, le percosse inferte alla donna incinta e persino con mezzi morali. A priori non si può escludere la possibilità di aborto commesso mediante omissione. Si pensi al caso della levatrice che, incaricata di assistere una donna incinta, di proposito non pratichi le cure che sono necessarie affinché la gestazione si svolga in modo regolare.
L'interruzione della gravidanza deve avere per effetto l'uccisione del prodotto del concepimento. Se il feto non muore, non si ha l'aborto, ma il mero acceleramento del parto. La possibilità di una vita autonoma sorge con il settimo mese di gestazione. La morte del feto determina il momento consumativo dell'aborto. Se in seguito alle pratiche abortive, la morte del feto non si verifica, si avrà tentativo.
Le norme incriminatrici abrogate. Prima della riforma la dottrina aveva mosso critiche alla collocazione del delitto di aborto nel capo, introdotto ex novo, "delitti contro la integrità e la sanità della stirpe". Il codice penale distingueva tre specie di aborto:
L'aborto di donna non consenziente (art. 545);
L'aborto di donna consenziente (art. 546);
L'aborto procuratosi dalla donna (art. 547).
Accanto a queste figure erano contemplate due incriminazioni ausiliari: l'istigazione all'aborto e gli atti abortivi su donna ritenuta incinta (art. 548 e 550). Erano previste: una aggravante se il colpevole avesse esercitato la professione sanitaria (art. 555) ed una diminuente se il delitto fosse stato commesso per salvare l'onore proprio o di un prossimo congiunto (art. 551).
Notizie storiche. Nel diritto romano in origine il procurato aborto non era punito. Soltanto all'epoca di Settimio Severo l'aborto fu sottoposto a pena ed assimilato al veneficium, e ciò per reagire contro la tendenza alla vita lussuriosa e dissoluta. I giureconsulti del Medioevo ammettevano la punibilità dell'aborto solo quando il feto fosse animato, e cioè quaranta giorni dopo il concepimento per i maschi e ottanta o novanta giorni per le femmine. La pena era pari a quella dell'omicidio e talora anche più grave. Nella legislazione dei secoli diciottesimo e diciannovesimo la repressione di questo delitto si mitigò, in modo notevole, tenendosi conto dei motivi determinanti, ed in specie della causa d'onore.
La disciplina prevista dalla l. 22 maggio 1978, n. 194 ha riguardo agli articoli da 17 a 21. Per quanto concerne l'aborto criminoso sono individuati tre gruppi di ipotesi: il primo ha per oggetto l'aborto di donna non consenziente ed è contemplato dall'art. 18; il secondo l'aborto di donna consenziente ed è inserito nell'art. 19; il terzo l'aborto e l'accelerazione del parto colposi ed è previsto nell'art. 17. Sta a sé l'art. 21 che introduce ex novo un'ipotesi di tutela penale del segreto sulle procedure ed interventi nella materia in oggetto, mentre l'art. 20 ha riguardo soltanto ad una circostanza aggravante.
ABORTO DI DONNA NON CONSENZIENTE. Questa ipotesi ricorre, ex art. 18, quando taluno "cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna". Come già avveniva per l'abrogato art. 546 comma 3, si considera non prestato il consenso estorto con la violenza o minaccia ovvero carpito con l'inganno. Costituiscono circostanze aggravanti la minore età della gestante e, nell'ambito della struttura dei c.d. delitti aggravati dall'evento, l'essere derivate dal fatto in esame, quali eventi non voluti, la morte o lesione gravissime o gravi. Costituisce del pari circostanza aggravante l'essere stato l'aborto provocato da chi avesse prima sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell'art. 9. La circostanza ha riguardo solo agli addetti al personale sanitario ed esercente attività ausiliarie in quanto abbiano concorso a provocare l'interruzione della gravidanza. Poiché l'obiezione, per effetto dell'ultimo comma dell'art. 9 si intende immediatamente revocata se chi l'ha espressa prende parte a procedure o interventi abortivi, sembra evidente che, ritenuta la circostanza per un primo fatto criminoso, essa non potrebbe più operante per fatti successivi.
ABORTO PRETERINTENZIONALE. Ai sensi dell'art. 18 della legge in esame è chiamato a rispondere, al modo stesso di chi cagioni l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna, chiunque tale interruzione determini con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. Se oltre all'aborto derivino alla donna la morte o lesioni gravi o gravissime, sempre nell'ambito della richiamata categoria dei delitti aggravati dall'evento, sono previsti inasprimenti di pena. È evidente che le lesioni personali sopra indicate non debbono costituire una conseguenza normale dell'aborto.
ACCELLERAZIONE DEL PARTO QUALE CONSEGUENZA DI LESIONI VOLONTARIE. Il terzo comma dell'art 18 della legge 22 maggio 1978, n. 194 contempla il fatto di chi, con azioni dirette a cagionare lesioni alla donna, provochi l'accelerazione del parto. Questa figura è stata inserita nel sistema dalla legge per supplire all'abrogazione dell'art. 583 comma 1 che considera appunto l'acceleramento del parto tra le lesioni personali gravi. La figura in esame contempla l'acceleramento preterintenzionale conseguente a lesioni volontarie sulla donna. E poiché l'art. 17 ha riguardo al parto prematuro colposo, resta scoperta la previsione specifica del parto prematuro doloso.
ABORTO VOLONTARIO COMMESSO CON VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 5 E 8 DELLALEGGE 22 MAGGIO 1978, N. 194. Ai sensi dell'art. 19 comma 1 è chiamato a rispondere chiunque cagiona l'interruzione volontaria della gravidanza senza l'osservanza delle modalità indicate agli art. 5 e 8. In questi articoli sono contemplate alcune modalità:
Obbligo degli appartenenti ai consultori ed alle strutture sociosanitarie di garantire i necessari accertamenti medici, di esaminare la donna e il padre del concepito col consenso della prima;
Obbligo del medico di fiducia della partoriente di compiere gli accertamenti sanitari necessari;
Obbligo di rilasciare, ove l'intervento si riveli urgente, una conforme attestazione;
Obbligo dei medici del servizio ostetrico di verificare l'inesistenza di controindicazioni sanitarie prima di praticare l'aborto;
Divieto di praticare l'aborto in case di cura non autorizzate dalla regione.
L'elenco delle modalità da osservare è così significativo da documentare di per sé la censura di indeterminatezza sopra espressa da chiarire perché la dottrina abbia cercato di elaborare criteri restrittivi di interpretazione. L'indagine sulla volontà della donna deve tenere conto dei principi generali che presiedono all'accertamento della validità e rilevanza delle manifestazioni del volere.
Costituiscono circostanze aggravanti l'essere derivate dai fatti sopra indicati la morte o una lesione gravissima o grave non volute dalla gestante, nonché, per chi procura l'interruzione della gravidanza, l'avere egli sollevato obiezione di coscienza.
ABORTO VOLONTARIO COMMESSO CON VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 E 7 DELLA LEGGE. Tale reato è previsto al terzo comma dell'art. 19. L'art. 6 chiarisce che dopo i primi novanta giorni l'aborto volontario può essere praticato:
Quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la donna;
Quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
L'art. 7, sempre in relazione all'interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni, prevede le seguenti modalità di intervento:
Accertamento dei processi patologici da parte di un medico del servizio ostetrico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento e relativa certificazione;
Obbligo di fornire la documentazione e di comunicare la certificazione al direttore sanitario dell'ospedale nel caso di intervento da praticarsi immediatamente;
Obbligo di salvaguardare la vita del fato quando sussista la possibilità di una esistenza autonoma di quest'ultimo;
Obbligo nel caso suddetto, di praticare l'aborto solo quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna.
Può sussistere l'aggravante dell'art. 20 (reato commesso da chi abbia sollevato obiezione di coscienza). Sono del pari contemplate le aggravanti dell'essere derivata la morte o una lesione gravissima o grave.
ABORTO VOLONTARIO SU DONNA MINORE O INTERDETTA AL DI FUORI DEI CASI DEGLI ARTICOLI 12 E 13 O VIOLANDO LE MODALITA' DA ESSI PREVISTE. L'art. 12 prescrive quali casi e modalità:
La richiesta personale della donna;
L'assenso di chi esercita la potestà o la tutela;
Se questo è impedito o sconsigliato per seri motivi, o rifiutato o segni il contrasto di opinioni tra più legittimati a darlo, gli appartenenti al consultorio o alla struttura medico-sanitaria o il medico di fiducia devono attuare gli adempimenti previsti dall'art. 5 e trasmettere, entro sette giorni, motivata richiesta al giudice tutelare;
Quest'ultimo deve sentire la donna e può, entro cinque giorni, autorizzarla a decidere l'interruzione della gravidanza;
Dopo i primi novanta giorni, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela, si applicano le procedure dell'art. 7.
L'art. 13 (relativo alle interdette) stabilisce i seguenti casi e modalità:
Obbligo di sentire il parere del tutore se la richiesta è presentata dall'interdetta o dal marito;
Obbligo di accertare la conferma della gestante nei casi richiesti dal tutore o dal marito;
Obbligo per il medico del consultorio o struttura sociosanitaria o di fiducia di trasmettere al giudice tutelare, entro sette giorni dalla richiesta, una relazione contenente ragguagli sulla domanda, su chi l'ha presentata, sull'atteggiamento della donna, sulla specie e gravità dell'infermità mentale, accompagnati dal parere del tutore se espresso.
Soggetto attivo del reato è che cagiona l'aborto senza avere accertato l'esistenza dei suddetti presupposti e modalità. Per la donna, ancorché concorrente, è prevista una causa personale di esenzione dalla pena. È applicabile la citata aggravante dell'art. 20 per chi procura la interruzione della gravidanza avendo sollevato obiezione di coscienza e persistendo in essa. Se dal fatto conseguano la morte o lesioni gravi o gravissime della donna sono previsti aumenti di pena.
ABORTO COLPOSO. Il primo comma dell'art. 17 afferma la responsabilità di "chiunque cagiona ad una donna per colpa l'interruzione della gravidanza". Anche qui il termine interruzione della gravidanza è equivalente ad aborto, come emerge, tra l'altro, in modo inequivoco, dall'esame dell'ipotesi del secondo comma dell'articolo. Valgono naturalmente i principi che disciplinano i delitti colposi. Costituisce circostanza aggravante l'essere stato il fatto commesso con violazione delle norme poste a tutela del lavoro.
PARTO PREMATURO COLPOSO. Ai sensi dell'art. 17 comma 2 è chiamato a rispondere "chiunque cagiona ad una donna per colpa un parto prematuro". Il riferimento al parto prematuro è espressione equivalente, pertanto, a quella sopracitata di acceleramento del parto. Anche in questa fattispecie valgono i principi generali formulati in materia di reato colposo e costituisce circostanza aggravante la violazione di norme a tutela del lavoro.
TUTELA DEL SEGRETO SU PROCEDURE E INTERVENTI ABORTIVI. L'art. 21 della legge in oggetto reca: "Chiunque, fuori dei casi previsti all'art. 326 del c.p., essendone a conoscenza per ragioni di professione o d'ufficio, rivela l'identità di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge, è punito a norma dell'art. 622 c.p.. Poiché la formulazione iniziale c.d. di riserva fa salve le ipotesi di rivelazione di segreti d'ufficio, con conseguente applicabilità dell'art. 326 c.p. nei confronti dei pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio che, violando i loro doveri o abusando delle loro qualità, abbiano divulgato notizie capaci di rivelare l'identità delle donne assoggettate a procedure o interventi abortivi, la figura criminosa in esame risulta assai affine a quella dell'art. 622 c.p.. Tuttavia se ne differenzia per il maggior rigore. Infatti:
Manca la nota di antigiuridicità speciale che nell'art. 622 toglie rilievo penale alla rivelazione per giusta causa;
Basta alla consumazione del reato la divulgazione di informazioni idonee a rivelare l'identità della donna o comunque di chi abbia fatto ricorso alle procedure o interventi di legge;
Non è espressamente prevista la possibilità di un nocumento;
L'interprete è di fronte a un delitto procedibile d'ufficio.
Si è voluta negare quest'ultima caratteristica con rilievi desunti dai lavori preparatori, ma la formula che rinvia all'art. 622 ha per oggetto la punibilità, non la procedibilità e consente soltanto di ritenere applicabili la pene comminate dall'articolo suddetto.
L'art. 588 punisce "chiunque partecipa ad una rissa". Il solo fatto di prendere parte ad una rissa basta per dar vita al reato, mentre il codice precedente esigeva per la punibilità la condizione che nella zuffa alcuno fosse rimasto ucciso o avesse riportato una lesione personale. Nel diritto attuale la rissa non è punita a causa della incertezza sulla responsabilità dei singoli partecipanti derivante dalle condizioni in cui di regola si verifica, ma perché il fatto espone a pericolo la vita e l'incolumità delle persone e nel tempo stesso importa la minaccia di un turbamento per l'ordine pubblico. Questa è la ratio dell'incriminazione.
Per l'esistenza della rissa occorre che vi sia una mischia violenta con vie di fatto. Si discute sul numero minimo di persone indispensabile per l'esistenza di questo delitto, il quale senza alcun dubbio appartiene alla larga categoria dei reati plurisoggettivi. Alcuni autori ritengono che siano sufficienti due persone e in questo senso si è pronunciata varie volte la Cassazione. A nostro avviso è preferibile l'opinione di chi considera necessaria la presenza di almeno tre soggetti. La legittima difesa, anche in questo reato, esclude l'antigiuridicità e, perciò, non c'è rissa se un gruppo di individui aggredisce ingiustamente un altro gruppo il quale si difenda, sia pure dando luogo ad una mischia violenta. Naturalmente la rissa sussiste se l'aggressione è reciproca.
Per l'esistenza del dolo occorre la coscienza e la volontà di partecipare alla contesa violenta.
Il codice considera come circostanza aggravante quell'evento che nel codice precedente era condizione di punibilità del reato. Dispone infatti l'art. 588: "Se nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque anni. La stessa pena si applica se l'uccisione, o la lesione personale, avviene immediatamente dopo la rissa e in conseguenza di essa". Questa disposizione configura un caso di responsabilità oggettiva, giacché l'evento è posto a carico dei corrissanti a prescindere da ogni indagine di carattere psicologico, e cioè indipendentemente dal concorso del dolo o della colpa. È indifferente per l'applicabilità dell'aggravante che l'uccisione o la lesione personale, dolosa o colposa, incida su un corrissante o un estraneo. L'aggravante si applica anche al rissante che abbia subito una lesione personale e a colui che sia intervenuto dopo che si è verificata l'uccisione o la lesione personale; non ha chi è receduto prima. La lesione produce l'aggravamento della anche se è perseguibile a querela di parte.
La rissa assorbe il reato di percosse, e ciò in base al disposto del comma 2 dell'art. 581. Tutti gli altri reati che siano commessi durante la rissa concorrono con questa, secondo le regole generali.
Tali delitti consistono in violazioni di obblighi di custodia o di assistenza, imposti dalla legge al fine di tutelare l'incolumità di individui, che per le loro condizioni d'età o per altre circostanze, si trovano esposti a pericolo.
ABBANDONO DI PERSONE MINORI O INCAPACI. Viene contemplato alternativamente il fatto di chi "abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di corpo o di mente, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia custodia o debba avere cura", e il fatto di colui che "abbandona all'estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro".
Presupposto della condotta, per ciò che concerne l'abbandono di un minore degli anni quattordici, è la preesistenza di una situazione, anche di mero fatto, a ragione della quale il minore si possa ritenere nella sfera di sorveglianza del soggetto agente. In relazione all'incapace o al minore abbandonato all'estero, il semplice fatto dell'abbandono non dà vita alla fattispecie in esame, se con esso non si viola uno specifico dovere di custodia o di cura che trovi il suo fondamento fuori dall'art. 591 o nell'affidamento per ragioni di lavoro. La custodia si riferisce al singolo e preciso dovere di sorveglianza, mentre la cura è espressione riassuntiva che comprende tutte le prestazioni e cautele protettive di cui abbia bisogno una persona incapace di provvedere a se stessa. Soggetto passivo può essere soltanto una delle persone espressamente indicate nella norma in esame. L'abbandono consiste nel lasciare la persona in balia di se stessa o di terzi che non siano in grado di provvedere adeguatamente alla custodia e cura, in modo che ne derivi un pericolo per la vita e l'incolumità della persona medesima. Se il pericolo non si verifica, il delitto deve escludersi per difetto di offesa dell'interesse tutelato. La condotta può essere così positiva o negativa. Il delitto si consuma con l'abbandono e, poiché, questo può protrarsi per un certo tempo, si tratta di un reato eventualmente permanente. Il dolo esige la coscienza del pericolo inerente all'abbandono. Il delitto è aggravato se:
Dal fatto derivi la morte o una lesione personale;
Il fatto sia commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore, o dal coniuge, ovvero dall'adottato o dall'adottante.
Naturalmente qualora la lesione o la morte siano volute il colpevole di abbandono risponderà pure del delitto di lesioni personali o di omicidio.
OMISSIONE DI SOCCORSO. All'art. 593 sono contemplate due ipotesi. La prima si ha quando taluno, "trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un'altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all'Autorità". La seconda ipotesi consiste nel fatto di "chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'Autorità". Perché possa applicarsi la norma in esame, è necessario che non sussista un dovere particolare di assistenza, penalmente sanzionato. Quando ciò si verifichi, infatti, si applica la norma speciale (ad es. l'art. 328: omissione di atti d'ufficio).
Presupposto della condotta criminosa è il trovare abbandonato o smarrito un incapace, oppure un corpo umano che sembri inanimato o una persona ferita o altrimenti in pericolo. Trovare qui significa imbattersi.
Soggetto attivo può essere anche chi con la propria azione ha posto in pericolo la persona, compreso colui che dolosamente o colposamente le abbia cagionato una lesione personale, nel quale caso egli risponderà di due reati. La condotta di cui alla prima ipotesi dell'art. 593 consiste nell'omettere di dare avviso all'Autorità del ritrovamento. Nell'ipotesi di cui al secondo comma la condotta incriminata è posta in essere con l'omettere di prestare l'assistenza occorrente o di dare immediato avviso all'Autorità. L'obbligo cessa senza dubbio nel caso in cui il soggetto per la sua età, per le sue condizioni particolari o per altre cause si trovi nell'assoluta impossibilità di adempierlo. Non cessa per il solo fatto che l'adempimento esporrebbe il soggetto ad un pericolo personale, perché la norma contenuta nell'art. 593, mirando a rafforzare il sentimento della solidarietà umana, eleva il coraggio a dovere giuridico. Il soggetto potrà sottrarsi alla responsabilità solo quando ricorrano gli estremi dello stato di necessità (art. 54), e cioè quando sia costretto all'omissione dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, non altrimenti evitabile. Il delitto si consuma nel momento dell'omissione ed ha carattere istantaneo.
Il dolo consiste nella volontarietà dell'omissione, accompagnata dalla conoscenza di tutti gli elementi compresi nella fattispecie legale. Il delitto è aggravato se dalla condotta del colpevole deriva una lesione personale o la morte.
La tutela dei beni della vita e dell'incolumità individuale è integrata nel nostro codice con alcune disposizioni che configurano dei reati contravvenzionali. Si tratta delle Trasgressioni alla disciplina delle armi che sono contemplate nel libro terzo negli articoli dal 695 al 702. La funzione sussidiaria di tali norme rispetto a quelle che prevedono i delitti esaminati è troppo evidente per richiedere spiegazioni. La nozione delle armi è data dall'art. 585 del codice, il quale nel comma 2 reca: "Agli effetti della legge penale, per armi si intendono:
quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona;
tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo".
Le armi di cui al primo comma sono dette proprie; quelle di cui al secondo comma si dicono improprie. La legge di Pubblica Sicurezza all'art. 42 vieta in modo assoluto di portare fuori della abitazione proprie e delle appartenenze di essa, le mazze ferrate o bastoni ferrati, gli sfollagente e le noccoliere, mentre vieta di portare senza giustificato motivo i bastoni muniti di puntali acuminati, nonché tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche e altri strumenti atti ad offendere.
Il nostro legislatore ha ritenuto opportuno fornire una nozione più ristretta di armi, nozione che coincide con quella offerta dell'art. 30 della legge di Pubblica Sicurezza. L'art. 704 del codice, infatti, stabilisce che agli effetti delle disposizioni relative alle dette contravvenzioni per armi si intendono:
quelle indicate nel n. 1 del capoverso dell'art. 585;
le bombe, qualsiasi macchina o involucro contenente materie esplodenti, ovvero gas asfissianti o accecanti".
È opportuno sottolineare che la sfera di efficacia è sottoposta a notevoli limiti per effetto delle citate leggi speciali. Una volta per tutte ricordiamo che sfugge ad essa la disciplina delle armi da guerra o tipo-guerra, loro parti. Munizioni, esplosivi, aggressivi chimici e congegni micidiali, nonché quelle delle armi comuni da sparo atte all'impiego, o parti di esse, di cui all'art. 2 l. 18 aprile 1975, n. 110, eccezion fatta per il porto d'armi abusivo conseguente a mancanza di validità della licenza per omesso pagamento della tassa di concessione governativa.
FABBRICAZIONE O COMMERCIO NON AUTORIZZATO DI ARMI (695 e 696). Il primo articolo contempla il fatto di chi, senza la licenza dell'Autorità, fabbrica o introduce nello Stato, o esporta, o pone comunque in vendita armi, ovvero ne fa raccolta per ragioni di commercio o d'industria". Nel capoverso dell'art. 695 è sancita una pena minore per il caso che si tratti di collezioni di armi artistiche, rare o antiche. L'art. 696, d'altra parte, punisce chiunque esercita la vendita ambulante di armi, vendita che è vietata dall'art. 37 della legge di Pubblica Sicurezza. Per effetto delle leggi speciali l'applicazione di tali norme è oggi limitata alle armi bianche (cioè pugnali, spade).
DETENZIONE ABUSIVA DI ARMI (697). Sono previste due ipotesi, che costituiscono tipi distinti di reato. La prima consiste nel fatto di chi detiene armi o munizioni senza averne fatto denuncia all'Autorità, quando la denuncia è richiesta. La seconda ipotesi si concreta nel comportamento di colui che, avendo notizia che in un luogo da lui abitato si trova armi o munizioni, omette di farne denuncia all'Autorità. L'efficacia della contravvenzione, per l'intervento delle numerose leggi speciali, è oggi limitata alle armi da punta e taglio ed alle munizioni per armi comuni da sparo. Scopo della norma è di rendere agevole all'Autorità di polizia di conoscere tempestivamente le persone che detengono le armi e le munizioni ai fini di poter esercitare gli opportuni controlli. L'obbligo di denuncia sta a carico dei detentori che tali siano a qualsiasi titolo, legittimo o illegittimo. Ogni modificazione nelle specie e nella quantità di armi o di munizioni e anche ogni cambiamento di luogo impone la denuncia. L'aver iniziato pratiche per conseguire la licenza e persino l'averla ottenuta non esime da tale obbligo. Il reato è senza dubbio di carattere permanente.
OMESSA CONSEGNA DI ARMI (698). Viene punito chiunque trasgredisce all'ordine, legalmente dato dall'Autorità, di consegnare nei termini prescritti le armi o le munizioni da lui detenute. In questa contravvenzione incorre anche chi abbia già denunciato le armi detenute ed è superfluo dire che la consegna tardiva non esclude la sussistenza del reato. La proroga del termine di consegna da parte del Prefetto dopo il rinvenimento dell'arma, secondo l'opinione preferibile, elimina nel fatto il carattere dell'illiceità.
PORTO ABUSIVO DI ARMI (699). Incorre in questa contravvenzione chiunque, senza la licenza dell'Autorità, quando la licenza è richiesta, porta un'arma fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa. Una forma più grave del reato è contemplata nel comma 2 dell'art. 699 e ricorre quando taluno, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, porta un'arma per cui non è ammessa la licenza. Portare significa tenere indosso o comunque a portata di mano l'arma, in modo che il soggetto possa farne uso. In ambedue le forme la contravvenzione a aggravata , se il fatto è compiuto in cui sia concorso o adunanza di persone, o di notte in un luogo abitato.
OMESSA CUSTODIA DI ARMI (702, REATO ABROGATO). La contravvenzione contemplava il fatto di colui che, anche se provveduto della licenza di porto d'armi:
consegna o lascia portare un'arma a persona di età minore dei quattordici anni o a qualsiasi persona incapace o inesperta nel maneggio di essa;
trascura di adoperare nella custodia di armi, le cautele necessarie a impedire che alcuna delle persone indicate nel numero precedente giunga ad impossessarsene agevolmente;
porta un fucile carico in un luogo ove sia adunanza o concorso di persone.
DISPOSIZIONI COMUNI. Per tutte le contravvenzioni esaminate, esclusa l'ultima, è circostanza aggravante il fatto che l'autore sia una delle persone alle quali la legge vieta di concedere licenza, nonché il fatto che la licenza sia stata negata o revocata. Così dispone l'art. 700, facendo richiamo all'art. 680. Il condannato per alcuna delle contravvenzioni predette può essere sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata (art. 701).
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