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Sul presupposto della scarsa applicazione del lavoro così come previsto dagli art.20 e segg. ord. pen. e quindi della mancata occasione risocializzante che questo può fornire, sono state avanzate recentemente delle proposte legislative di modifica dell'attuale disciplina. Mi riferisco agli articolati di legge presentati in Parlamento dall'Associazione Liberi di Milano, che l'anno scorso elaborò questi progetti, la cui stesura fu affidata su commissione a Massimo Pavarini, con la collaborazione del dott. Francesco Maisto. L'associazione in questione si occupa del reinserimento nella società dei detenuti attraverso lo strumento, dal loro punto di vista essenziale, del lavoro. Fa parte, di questa associazione, come molti si ricorderanno, anche il Dott. Sergio Cusani, con il quale ho avuto un incontro a Milano, di cui riporto in Appendice gli interessanti risultati. Questo progetto, che in realtà si snoda in due proposte di legge diverse e alternative fra di loro, suscitò molte polemiche, come si può ricordare, proprio perché i loro sostenitori tentarono di modificare, su un punto essenziale, la disciplina attuale: la retribuzione.
Esaminerò entrambe le proposte, che mi sono state inviate con i relativi commenti dall'Associazione Liberi un anno fa, avvisando che ancora non sono state esaminate in Parlamento, ma sono rimaste ancora ferme ad una Commissione Parlamentare. In questi giorni, tuttavia, sono state ripresentate in allegato dell'attuale disegno di legge sulla richiesta di amnistia ed indulto di cui si è fatto promotore lo stesso team dello scorso anno, con a capo sempre Sergio Cusani e Segio.
Sulla proposta di legge relativa al lavoro dei detenuti, le motivazioni che hanno portato a questo progetto sono collegate con le evidenziate disfunzioni della legge penitenziaria e su un generalizzato sentire, che vede la situazione attuale come fonte di ingiustizie e disparità di trattamento nei confronti di talune categorie di detenuti
Si parte dal presupposto evidente di un cattivo funzionamento del sistema carceraraio e di un'ambita modifica o rinnovamento proveniente da numerosi versanti. Tutte e due le proposte, il lavoro dei detenuti per la collettività come pena sostitutiva oppure come misura alternativa e modalità trattamentale, sono in linea con la tendenza alla differenziazione della pena, nel primo caso, o con un'accentuata flessibilità in fase esecutiva, nel secondo. La proposta è dunque duplice:
1) collocare la valutazione di prevenzione speciale e di premialità sotto la giurisdizione del giudice di cognizione, ampliando il raggio d'azione con cui sanzionare i comportamenti delittuosi con pene diverse da quella detentiva, riducendo così anche l'ambito della scelta discrezionale rimessa alla fase esecutiva ed alla relativa giurisdizione: il lavoro per la collettività è qui promosso come pena sostitutiva[1]
2) accentuare la strada intrapresa dal legislatore dalla riforma del 1975, resa attuabile nel 1986 con la legge Gozzini, nella direzione c.d. bifasica della pena rendendo ancora più indipendente il momento esecutivo, donandogli ancor più flessibilità, dal momento commisurativo: qui il lavoro per la collettività viene inserito nella logica della misura alternativa[2].
Il primo progetto mostra una via alternativa alla carcerazione, indicando quella del lavoro per la collettività, come una strada percorribile in sostituzione della detenzione. Le ragioni di fondo che portano ad una scelta del genere si radicano nell'esigenza di limitare sempre in misura maggiore la discrezionalità e la flessibilità della pena nella fase esecutiva, portando queste scelte alla fase della precedente cognizione. Attraverso questa considerazione si è reso opportuno una nuova considerazione dell'attuale sistema delle misure alternative, che da molte parti[3], si è auspicato di convertire in pene sostitutive. Si sottolinea come però una riforma che riguardasse solo alcune delle attuali misure alternative, ad esempio la detenzione domiciliare, come è stato proposto, non potrebbe risolvere il problema. In questo caso infatti la discriminazione creata dall'applicazione di questa misura, non potrebbe essere eliminata, dato che ragioni di ordine economico-sociale ne impediscono a prescindere un 'attuazione generalizzata. Basti pensare che circa il 70% dei detenuti a pene detentive medio-brevi sono coloro che si trovano in una situazione di disagio pregressa, causa di tale penalizzazione (persone senza lavoro o senza domicilio). Si ricorda, nel commento allegato all'articolato sopra riportato (vedi nota) che ad esempio in Francia questo inconveniente è stato limitato dall'istituzione del lavoro di pubblica utilità, i cui condannati appartengono appunto a quella fascia di persone che non sarebbero punibili in altro modo, se non con la pena detentiva.
Come si osserva al 1°comma dell'art.1 il lavoro per la collettività auspicato dagli autori dell'articolato può essere applicato solo attraverso il patteggiamento della pena ex. art.444 c.p.p. e che l'aspetto 'premiale' dell'istituto è costituito dalla riduzione fino alla metà della pena, 2°comma, e stessa sorte sui termini per l'ammissione alla liberazione condizionale, 3°comma. La limitazione a sei anni di pena detentiva per l'ammissione alla pena sostitutiva del lavoro per la collettività, nasce dalla consapevolezza di una oggettiva difficoltà nel protrarre eccessivamente nel tempo questo istituto e d'altro canto si comprende una categoria di soggetti puniti con una pena medio-alta, ma non tanto da farvi rientrare anche i colpevoli di reati ad elevato allarme sociale.
Nel secondo articolato, il lavoro dei detenuti per la collettività come modalità trattamentale e come misura alternativa (vedi nota retro), le ragioni che portano ad un rinnovamento dell'attuale disciplina sono diverse, almeno per quello che riguarda le premesse. Si osserva come negli ultimi venticinque anni il legislatore abbia imboccato la strada di una ampia flessibilità della pena nel momento della sua esecuzione. La considerazione del comportamento tenuto dopo l'irrogazione della pena da parte del giudice di cognizione, buona condotta, partecipazione al trattamento rieducativo o al programma terapeutico, nonchè la criticatissima collaborazione con la giustizia[4], sono state le cause di una sentita opportunità di revisione in fase successiva del quantum della pena in deroga al principio dell'intangibilità del giudicato, che sempre più diviene meramente indicativo per lasciare il posto a considerazioni nuove e meno severe nell'applicazione delle pene. Questo è il sistema delle misure alternative attraverso il quale il detenuto può in una fase successiva al processo, tentare di rinegoziare la sua pena attraverso uno scambio previsto astrattamente dalla legge. Abbiamo visto come però questo potere di negoziazione non tutti i detenuti lo possiedano, ma anzi una rilevante fetta dei condannati a pene non elevatissime non può permettersi di accedere a misure alternative, proprio perché non è in grado di dare garanzia di buon esito delle stesse, per mancanza di quel necessario substrato economico e sociale su cui si fondano i benefici. Pur partendo da premesse di esigenze di giustizia processuale diverse, i due progetti si ispirano comunque alla medesima ratio, di permettere così anche ai soggetti meno inseriti di poter usufruire di strade alternative al carcere, in una logica ovunque sentita di decarcerizzazione.
Nel secondo articolato viene dato un ampio ventaglio di possibilità, stante la qualificazione del lavoro per la collettività sia come modalità trattamentale che come misura alternativa. Nel primo senso si avrà una modalità propriamente trattamentale quando ne usufruisce chi si trova in stato di detenzione, così che potrà essere applicata sia per gli imputati che per i condannati con le stesse condizioni ex art.21, comma 1 ord. pen. (art.1, comma1) . Il lavoro potrà essere una modalità attuativa delle altre misure alternative previste come l'affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà e la detenzione domiciliare nei nuovi previsti dalla legge 27 maggio 1998 n. 165 (art.1, comma 2). Sarà propriamente una misura alternativa quando venga fatta istanza dal condannato non detenuto per applicazione della sospensione dell'esecuzione ex art.656 comma 5 c.p.p.(art.1, comma 3). Sono mantenute alcune preclusioni all'accesso al lavoro per la collettività (art.1, comma 4) quali per il condannato o imputato ad uno dei delitti di cui all'art.4 bis, comma 1, per il tossico o alcool dipendente che si trovi in sospensione dell'esecuzione o di affidamento in prova terapeutico per i quali non si creda opportuna la destinazione ad attività lavorativa, per colui al quale sia intervenuto un provvedimento di revoca di altra misura.
Anche in questo articolato è previsto come effetto premiale del lavoro per la collettività uno sconto di pena pari al tempo di attività prestata all'interno del programma.
L'aspetto più delicato di entrambi i progetti e contro il quale sono state mosse numerose critiche e perplessità riguarda quello retributivo. L'art.3, comma 1 riduce al solo reddito minimo di inserimento, come disciplinato dal D.L. 18 giugno 1988 n.237, che al suo art.7 comma 2, stabilito in origine per zone particolarmente depresse, a £.500.000 mensili circa. Come gli stessi autori del testo dell'articolato hanno tenuto a precisare, tale somma non può essere impropriamente definita 'salario', ma contributo sociale di incentivo all'inserimento civile. Questo perché altrimenti la disposizione proposta sarebbe in aperto contrasto con l'obbligo stabilito dall'art.22, comma 1 ord. pen. Vogliono invece precisare la differente natura e ratio sottesa al progetto in esame che non vede la necessità, ma anzi la reputa di ostacolo, di una retribuzione integrale così come stabilita dal richiamato articolo. Nonostante, si afferma, venga questa nuova pena sostitutiva o misura alternativa, costruita sul modello del lavoro extra moenia e su quello della semilibertà (rispettivamente art.21 e art.48 e segg. ord. pen.), si tratta di un istituto diverso a tal punto da giustificare persino una differente disciplina, seppur su un punto così fondamentale. Oggetto dello scambio penitenziario attraverso la possibilità offerta diviene quello della riduzione della pena da scontare contro un'attività prestata, si ricordi, volontariamente, ed in favore della collettività, in una logica restitutiva e risarcitoria che il condannato offre alla comunità. Inoltre il condannato ammesso al programma di lavoro per la collettività trova come controprestazione oltre alla riduzione premiale della pena, un'occasione difficilmente ottenibile da un'esperienza lavorativa come è offerta oggi dal nostro sistema penitenziario:
una formazione culturale e professionale
l'apprendimento di un mestiere
l'abbandono dell'ozio forzato in cella
possibilità di creazione di relazioni sul territorio[5]
Come si vede i fautori della proposta di legge ritengono che il lavoro per la collettività non possa rientrare nella stessa logica del lavoro così come disciplinato dall'Ordinamento penitenziario. Il corrispettivo previsto per la produzione di utilità collettive è costituito da un insieme di controprestazioni o, forse meglio, di conseguenze spontanee incapaci di essere prodotte dal sistema attuale. Attraverso queste prestazioni di natura assolutamente volontaria il condannato, oltre a responsabilizzarsi tenendo un'attività che tende a risarcire la Società per il reato commesso in una logica restitutoria, è tenuto lontano dall'ambiente carcerario ed inserito invece nel territorio dove può crearsi dei collegamenti per futuri rapporti. Si evita così l'emarginazione sociale creata e rafforzata dalle prigioni per dare invece la possibilità, non ad una diabolica prova di rieducazione o redenzione, ma fissando parametri certi dove il soggetto possa dimostrare attraverso il proprio impegno la volontà ad un reinserimento ed ad un volontario ausilio verso la comunità in ambiti dove la stessa ha difficoltà.
Per motivare una scelta siffatta si porta l'esempio della Germania, paese di riferimento nell'Unione Europea, dove è stata attuata una pianificazione a lungo termine con impiego di elevati capitali per garantire a tutti i detenuti un'attività lavorativa con una retribuzione minima di 160 marchi al mese (circa 150.000 lire). La somma è particolarmente ridotta perché lo Stato si fa completamente carico di tutte le spese necessarie per la realizzazione dell'istituto, del mantenimento di elevato livello del detenuto, delle attrezzature e degli strumenti di lavoro.
Il nostro paese non versa come sappiamo in condizioni economiche tali da permettersi spese di questo tipo, ma nelle proposte di lavoro volontario per la collettività, svincolato da ogni sinallagma retributivo, se non dal reddito minimo di inserimento, si può forse realisticamente prevedere un interesse economico degli Enti Locali. Si ricordi che il motivo principale del fallimento della riforma penitenziaria in materia di lavoro, è stato proprio l'innalzamento della retribuzione ai due terzi delle tariffe stabilite dai contratti collettivi, con conseguente venir meno di richieste per l'ovvia antieconomicità di un'organizzazione del lavoro di quel tipo. L'introduzione di un'offerta di lavoro così strutturata, con la peculiare mancanza di una retribuzione che è risultata troppo onerosa, si potrebbe effettivamente ottenere un interessamento da parte degli enti data la nuova caratteristica di una manodopera che trova il suo corrispettivo in qualcosa di diverso dal salario, divenendo così conseguentemente molto più appetibile. D'altro canto, poi, il nostro Stato potrebbe trovare effettivamente un'ottima occasione per recuperare beni pubblici o beni donati da privati per la collettività lasciati altrimenti in molti casi, in stato di dissesto ed abbandono: 'beni che di fatto, per l'assoluta antieconomicità di un loro recupero o per la mancanza delle risorse necessarie per un loro adeguato ripristino e quindi fuori da ogni capitolo di spesa previsionale di bilancio dell'Ente proprietario, sarebbero sicuramente destinati all'alienazione a prezzo vile a favore della speculazione privata o, abbandonati alla perenne e irresponsabile incuria, andrebbero inevitabilmente incontro ad un loro insensato e definitivo degrado'[6]. In questo modo un recupero, a cui necessita ovviamente un'organizzazione che lo renda possibile, di tali beni ne potrebbe consentire un proficuo utilizzo in favore della collettività (si fanno degli esempi: centri per giovani, per anziani, per disabili, per attività polivalenti, culturali, ricreative ). Lo strumento individuato per il conseguimento di tali obiettivi è quello della convenzione (quadro e specifiche) tra il Ministero di Grazia e Giustizia, il dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria ed Istituti Penitenziari con lo Stato o gli Enti Locali cui appartengono i beni che potrebbero avere una destinazione sociale.
A parte le considerazioni critiche che sono sorte in merito a questi progetti, bisogna ammettere che i risvolti positivi cui tendono sono numerosi. Intanto un sistema di benefici variamente denominati cui ogni detenuto e non potrebbe accedere, limitando quell'effetto discriminante delle attuali misure alternative. La possibilità reale di attuazione nella pratica di tale programma, partendo da una diminuzione netta dei costi di realizzo. Una effettiva opportunità risocializzatrice offerta a tutti coloro che siano in possesso dell'unico requisito richiesto e cioè di forza-lavoro, per cui un'occasione per amalgamare e ridurre le tensioni tra società libera e società antagonista detenuta. L'apprendimento di un mestiere o comunque una formazione professionale che in futuro possano fungere da substrato necessario per un inserimento definitivo nel tessuto sociale. Ultimo, ma non ultimo, l'effetto decarcerizzante, che tanti danni provoca data la modalità principale dell'espiazione della pena consistente, per la maggior parte, nell'ozio forzato. Molti gli aspetti, dunque, positivi di questo progetto, anche se, a non volersi trovare necessariamente sulla stessa linea di pensiero, se ne deve ammettere la difficoltà di attuazione (basti pensare alla creazione di una complessa organizzazione che permetta la nascita di progetti 'ripristinatori' come quelli ipotizzati). Ciononostante è interessante e degno senz'altro di nota che, partendo dal dato comune ed indiscusso dell'attuale irrealizzabilità di programmi di lavoro ben strutturati partendo dal nostro Ordinamento penitenziario, molti studiosi, tra cui si ricordi il Prof. Massimo Pavarini, autore degli articolati stessi, sentono l'esigenza di un rinnovo radicale di un sistema che ha mostrato da tempo la sua debolezza[8].
Per completezza di esposizione riporto l'articolato normativo su 'Il lavoro per la collettività come pena sostitutiva', inviatomi dall'Associazione Liberi di Milano:
Art.1
Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna, quando ritiene di dovere determinare la durata della pena detentiva entro il limite di sei anni e ricorrano le condizioni di cui all'art.444c.p.p., può sostituire tale pena con l'ammissione al programma di lavoro per la collettività.
Ogni semestre, o sue frazioni, di attività lavorativa prestata nell'ambito del programma di lavoro per la collettività determina una detrazione equivalente di pena.
Agli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi alla liberazione condizionale, la parte di pena detratta ai sensi del comma 2° del presente articolo si considera come scontata.
La pena sostitutiva del lavoro per la collettività può essere concessa una sola volta per la stessa condanna.
Art.2
Il condannato alla pena sostitutiva del lavoro per la comunità gode del reddito minimo di inserimento, come disciplinato dal D.L.18-6-88 n.237.
La durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro. E' garantita la tutela assicurativa e previdenziale e gli oneri sono a carico dell'ente pubblico o privato beneficiario della prestazione lavorativa.
Alle spese di mantenimento del condannato ammesso alla pena sostitutiva del lavoro per la collettività contribuisce l'ente pubblico o privato beneficiario della prestazione lavorativa.
Art.3
Il pubblico ministero competente per l'esecuzione trasmette l'estratto della sentenza di condanna alla pena sostitutiva del lavoro per la collettività al giudice dell'esecuzione del luogo di residenza del condannato.
Il programma di lavoro per la collettività è approvato dallo stesso giudice che provvede a redigere verbale in cui sono dettate le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire in ordine all'esecuzione del programma, tenendo conto delle opportunità formative e lavorative offerte da enti pubblici e privati ed organizzate dal Comune.
L'attività formativa e lavorativa prestata all'interno del programma di lavoro per la collettività si svolge sotto il controllo della Polizia Penitenziaria e del C.S.S.A., che potranno avvalersi a tale fine del personale dipendente del Comune e dell'ente pubblico o privato beneficiario. Tale controllo è diretto a verificare che vengano osservate le prescrizioni e che le attività formative e lavorative si svolgano nel pieno rispetto dei diritti.
Art.4
Qualora il comportamento del soggetto appaia incompatibile con la prosecuzione del programma di ammissione al lavoro per la collettività, ovvero quando vengano violate alcune delle prescrizioni inerenti al programma stesso, la restante parte della pena si converte nella pena detentiva sostituita.
Il giudice dell'esecuzione sospende la pena sostitutiva del lavoro per la collettività e qualora ritenga doversi procedere alla conversione prevista dal 1°comma, provvede con ordinanza. L'ordinanza è trasmessa al pubblico ministero competente, il quale provvede mediante ordine di carcerazione.
Riporto anche l'articolato normativo relativo a 'Il lavoro per la collettività come modalità trattamentale e come misura alternativa':
Art.1
I detenuti, imputati e condannati, possono chiedere di partecipare al programma di lavoro per la collettività ricorrendo le condizioni previste dal comma 1° dell'art.21 della legge 26 luglio 1975 n.354.
L'ammissione al programma di lavoro per la collettività può essere altresì chiesta dal condannato stesso, o comunque da questi concordata, nell'istanza di affidamento i prova al servizio sociale, semilibertà e detenzione domiciliare nei soli casi previsti dal punto 1 bis e 1 ter dell'art.47 ter della legge 26 luglio 1975 n.354.
L'istanza può infine essere presentata dal condannato, ricorrendo le condizioni di cui al comma 5° dell'art.656 c.p.p.
Se si tratta di persona condannata per uno dei delitti indicati dal 1°comma dell'art.4 bis, l'assegnazione al programma di lavoro per la collettività può essere disposta dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena e comunque, di non oltre cinque anni. Sono inoltre esclusi dal programma di lavoro per la collettività i condannati che hanno fatto istanza ovvero che si trovano in regime di sospensione dell'esecuzione o di affidamento in prova in casi particolari ex art. 91 e 95 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309; sono altresì esclusi quei condannati nei cui confronti sia intervenuto un provvedimento di revoca ai sensi ell'art.47 comma 11°, dell'art.47 ter commi 6° e 7°, dell'art.51 della legge 26 luglio 1975 n.354 e dell'art.177 c.p.
Art.2
Per i condannati ogni semestre, o sue frazioni, di attività lavorativa prestata nell'ambito del programma di lavoro per la collettività determina una detrazione equivalente di pena.
Il programma di lavoro per la collettività comporta:
a) per coloro che permangono in stato di detenzione, l'obbligo di trascorrere almeno 10 ore negli istituti o nelle sezioni indicati nel 2° comma dell'art.48 della legge 26 luglio 1975 n.354;
b) per coloro che beneficiano dell'affidamento in prova al servizio sociale o della detenzione domiciliare, gli obblighi secondo le prescrizioni imposte ex. art.47 commi 5°, 6°, 7°, 8° e art.47 ter, comma 3° della legge 26 luglio 1975 n.354.
c) l'obbligo di partecipare alle attività formative e di prestare attività lavorative organizzate e collettive di pubblica utilità, secondo quanto determinato dall'art.3 della presente legge e dalle prescrizioni.
Ai soli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale, la parte di pena detratta ai sensi del comma 1° del presente articolo si considera come scontata. I permessi- premio possono essere concessi solo nelle giornate di riposo infra-settimanale e durante le ferie.
Art.3
Il condannato, il detenuto e l'internato che comunque prestino attività all'interno del programma di lavoro per la collettività godono del reddito minimo di inserimento, come disciplinato dal D.L. 18 giugno 1988 n.237.
La durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro. E' garantita la tutela assicurativa e previdenziale e gli oneri sono a carico dell'ente pubblico o privato beneficiario della prestazione lavorativa.
Alle spese di mantenimento dell'imputato ammesso al programma di lavoro per la collettività provvede la sola amministrazione penitenziaria; per il detenuto e l'internato provvede l'amministrazione penitenziaria con un contributo per il detenuto dell'ente pubblico o privato beneficiario della prestazione lavorativa; per i condannati ammessi al programma di lavoro per la collettività in regime di affidamento in prova e di detenzione domiciliare provvede solo l'ente pubblico o privato beneficiario della prestazione lavorativa.
Art.4
Gli imputati sono ammessi al lavoro per la collettività previa autorizzazione della competente autorità giudiziaria.
Il tribunale di sorveglianza ammette al programma di lavoro per la collettività, tenendo conto delle opportunità formative e lavorative offerte da enti pubblici e privati ed organizzate dal Comune, garantendo l'attuazione positiva degli scopi previsti dall'art.15 della legge 26 luglio 1975 n.354 e quelli di sicurezza sociale.
Il tribunale di sorveglianza decide con ordinanza motivata secondo il procedimento di cui all'art.678 c.p.p.; nelle ipotesi di cui alla lettera a) del comma 2° dell'art.2 e quando il detenuto è ammesso al programma di lavoro per la comunità in regime di semilibertà, individua l'istituto a cui il detenuto e internato deve essere assegnato.
L'attività formativa e lavorativa prestata all'interno del programma di lavoro per la collettività, si svolge sotto il controllo della Polizia penitenziaria e del C.S.S.A., che possono avvalersi a tale fine del personale dipendente del Comune e dell'ente pubblico o privato beneficiario. Tale controllo è diretto a verificare che vengano osservate le prescrizioni e che le attività formative e lavorative si svolgano nel pieno rispetto dei diritti.
Gli imputati, i detenuti e gli internati, secondo quanto previsto dalla lettera a) del comma 2° dell'art.2, possono essere avviati al lavoro sotto scorta, se ciò è ritenuto necessario per motivi di sicurezza.
Art.5
Il lavoro per la collettività può essere revocato dal tribunale di sorveglianza qualora il comportamento del soggetto appaia incompatibile con la prosecuzione del programma stesso.
Nell'ipotesi di cui alla lettera a) del comma 2° dell'art.2 la revoca si estende anche ai casi previsti dai commi 2°, 3°, 4°, 5° dell'art.51 della legge 26 lugio 1975 n.354. Nelle ipotesi di cui alla lettera b) del comma 2° dell'art.2, la revoca del programma di lavoro per la collettività non comporta la revoca delle misure alternative dell'affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare.
La revoca del programma di lavoro per la collettività comporta che il condannato non possa beneficiarne per la restante pena.
Si ricordi ad esempio il progetto di riforma del codice penale dello scorso anno avanzato dalla commissione Grosso.
Adriano Sofri nell'intervista rilasciatami (vedi Appendice) critica aspramente questo sistema della collaborazione in carcere e il più grave fenomeno del pentitismo che provoca a suo vedere una 'fortissima corruzione personale': 'sempre di più s'è fondata (la) concessione di benefici sulla base della collaborazione dei detenuti, cioè si è estesa questa specie di ubriacatura entusiasta e molesta del pentitismo al di là dell'uso preprocessuale e processuale, dentro la condizione normale del carcere () La gestione delle carceri funziona attraverso questa opera ininterrotta di piccolo spionaggio' e definisce queste persone, senza eufemismi: 'farabutti delatori di professione e premiati per questo'.
Queste considerazioni sono contenute ne 'Il lavoro dei detenuti per la collettività' Elementi per una proposta di legge, del Gruppo di lavoro per una 'CARTA EUROPEA DELLE COMUNITÀ CARCERARIE ', inviatomi dall'Associazione Liberi nel giugno 1999.
Nonostante ancora non sia stato discusso in Parlamento il disegno di legge in discorso, l'Associazione Liberi ha continuato a muoversi nella stessa direzione ottenendo, proprio negli ultimi giorni (giugno 2000), risultati molto positivi: è stato infatti raggiunto un accordo con il Sindaco di Rimini per il recupero, attraverso il lavoro dei detenuti, di beni di pubblica utilità. Trattasi, nel caso specifico, di colonie estive per bambini.
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