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Nel paragrafo precedente ho voluto inserire l'istituzione carceraria all'interno della famiglia alla quale appartiene, la famiglia delle istituzioni totali.
Prima di procedere con la presentazione delle interviste rivolte a persone che hanno vissuto l'esperienza del passaggio in tale istituzione totale, vorrei soffermarmi un momento su come l'esperienza della detenzione venga vissuta da chi la subisce, su quali siano gli aspetti che ne caratterizzano l'esecuzione e su che meccanismi ne regolino lo svolgimento, fornire una cornice attraverso la quale permettere un approccio più consapevole alle analisi che seguiranno nel capitolo successivo.
Il carcere è luogo dove le regole, date per scontate nel consorzio sociale, vengono ribaltate: come primo aspetto ai detenuti è preclusa la libertà di movimento, il detenuto comune trascorre in media, negli istituti dove il regime detentivo è standard, più di due terzi del tempo quotidiano rinchiuso dentro una cella, salvo permessi speciali, gli è permesso di uscirne per l'ora d'aria mattutina e per quella pomeridiana, per un totale di circa venti ore su ventiquattro di reclusione. Ed è proprio questo tempo che, man mano che la detenzione prosegue, acquista dimensioni e caratteristiche differenti dal tempo sfuggente e inafferrabile del quale si ha esperienza in condizioni di vita naturali. La cella diventa il suo orizzonte di riferimento, quei quattro angoli sono per lui il mondo più conosciuto, più inevitabilmente prossimo, la condizione che lo individua è la condizione di cattività. Questa condizione, essendo uno stravolgimento della natura dello stato umano, la cui socialità ne è un inscindibile tratto, genera necessariamente dei modelli comportamentali paralleli ai meccanismi di relazione interpersonale propri della condizione di libertà[1].
La cattività lungamente protratta amplifica smisuratamente dimensioni dell'essere che altrimenti rimarrebbero atrofizzate, se il corpo è costretto in un certo senso alla negazione del suo agire, le sfere del sé, i territori dell'individualità inseriti in un meccanismo coercitivo totalizzante reagiscono costruendo degli spazi alternativi di sviluppo, il tempo acquista dunque una dimensione rituale, il tempo che scorre acquisisce una nuova importanza venendo vissuto dal detenuto come l'unica dimensione alla quale può ancora appigliarsi per resistere alla sofferenza che la negazione della propria fisicità comporta. La cattività include il detenuto che la subisce in una sorta di dolorosa asfissia esistenziale, questa asfissia è ben regolata dalle routine e dagli orari dell'istituto che inglobano complessivamente ogni aspetto della sua esistenza, è lo scorrere del tempo e come il detenuto vive quest'inevitabilità la dimensione sulla quale egli può praticare strategie di emancipazione dall'ambiente che lo soverchia. Il tempo di inazione forzata si trasforma in un tempo di consapevole riflessione, territorio nel quale il detenuto di fronte a se stesso come mai in situazione di libertà, si confronta coi propri limiti, approfondisce la conoscenza dei propri atteggiamenti, la profondità delle proprie opinioni e la labilità dei propri confini mentali.
Oltre ad aver assunto una dimensione introspettiva, sul tempo trascorso in cattività si innestano i meccanismi peculiari della detenzione istituzionale, primo fra tutti una diversa concezione del rapporto interindividuale, delle dinamiche interpersonali. La normalità relazionale diventa un rapporto di potere asimmetrico che si instaura fra i carcerieri ed i detenuti, potere asimmetrico e spesso arbitrario, relazione nella quale il detenuto assume a prima vista il ruolo del soggetto debole e l'agente di custodia rappresenta il potere indiscutibile dell'autorità. In realtà, questo potere è indiscutibile sino ad un certo punto, infatti gli agenti si possono assicurare l'obbedienza dei prigionieri, in cambio di una più o meno velata collaborazione, siccome il potere delle guardie non è basato sull'autorità, ma su di un sistema di ricompense e punizioni, esse sono costrette a tollerare alcune piccole infrazioni del regolamento in ordine di mantenere un livello accettabile di collaborazione, esse dipendono da un lato dall'amministrazione ma dall'altro lato il contatto fisico diretto con i prigionieri le forza ad instaurare un rapporto meno burocratico e più umano, " il sistema di potere in prigione è inefficace [.] perché le guardie sono frequentemente riluttanti a rafforzare l'intera scala del regolamento dell'istituto" ( Sykes, 1958, p.54, traduzione mia
La sudditanza strutturale del detenuto nei
confronti del proprio piantone costituisce comunque un altro aspetto nocivo
esperito nella detenzione, la sensazione continua di un'esistenza precaria
regolata da logiche imposte dall'alto
senza quasi possibilità di negoziazione alcuna; al naturale processo
operazionale proprio della libertà, volere- chiedere- ottenere, nel quale il
soggetto svolge un ruolo attivo nel condizionare i propri fini si sostituisce
un modello relazionale fittizio e frustrante, volere- chiedere- sperare, il
soggetto non è più agente del proprio destino, ma terminale passivo di un
processo autoritario del quale egli non è che la componente marginale, la
volontà del detenuto è pertanto ininfluente nel determinare il corso del
proprio futuro, l'unica volontà che regola la sua detenzione è la volontà
dell'istituto, volontà che si concretizza di volta in volta nell'agire
discrezionale dell'agente di turno: "il punto importante, comunque, è che la frustrazione
dell'abilità del prigioniero di compiere delle scelte ed i frequenti rifiuti
nel fornire una spiegazione dei regolamenti e dei comandi che provengono dallo
staff amministrativo, produce una seria minaccia all'immagine di sé che il
prigioniero ha, egli è ridotto a un debole, senza aiuto nello status di
dipendenza proprio dell'infanzia".( vedi Sykes 1958, p. 75, traduzione mia).
Un altro ambito dell'esistenza umana completamente reciso durante la detenzione è l'aspetto dello sviluppo affettivo, del quale la sfera della sessualità non è che una delle espressioni, i detenuti spesso separati dalla propria comunità di origine, scontano le proprie condanne nella quasi totale separazione dai propri familiari, in media per un detenuto comune l'istituto permette 4 ore mensili di colloqui con i propri cari, quattro ore inserite in un contesto di privazioni, quattro ore nell'arco delle 720 ore totali che formano un mese, delle quali circa 600 sono trascorse all'interno di una cella. Al detenuto non è permesso che un flebile contatto con i propri affetti, se si aggiunge che i colloqui nelle realtà da me analizzate spesso avvenivano in grandi stanzoni affollati dove i detenuti uno di seguito all'altro, sedevano di fronte ai relativi familiari, diventa palese la condizione di totale mancanza di intimità di un momento così significativo. L'incontro con i propri familiari è talmente rapido, fugace e dispersivo che nella mente del detenuto e dei familiari visitatori spesso è ricordato proprio come un sogno, come un istante del quale non si è goduto a pieno l'importanza.
L'intimità viene comunque costantemente negata al recluso e non solo durante lo svolgimento dei colloqui, l'intimità intesa come rapporto esclusivo dell'individuo con il proprio corpo e con la propria fisicità, non trova un realizzazione durante la detenzione, i detenuti sono costretti a condividere nel migliore dei casi la propria cella con un'altra persona, fino a quel momento sconosciuta, nella maggioranza delle situazione la cella è invece condivisa con più detenuti, lo spazio individuale è sovrapposto allo spazio comune, non c'è separazione fra retroscena e ribalta intese nel senso drammaturgico della vita sociale, dove vi è una netta separazione tra i ruoli ufficiali svolti in pubblico e ciò che siamo in privato dietro al sipario, ( vedi Goffman, La vita come rappresentazione, 1959) si è costretti dunque a condividere gli aspetti più intimi della propria quotidianità ( vedi Sykes, 1958, p. 4, traduzione mia).
La sofferenza provocata dalla detenzione è tale che spesso e volentieri il detenuto che si vorrebbe rieducare in questo periodo di espiazione, rigetta completamente l'autorità che lo segrega, autorità che infligge discrezionalmente pene aggiuntive non previste dal codice penale, opponendo come reazione un atteggiamento il più possibile impermeabile alle prevaricazioni perpetrate.
Il fallimento della prigione nel suo mandato di istituzione volta alla modificazione dell'animo umano ai fini di un reinserimento nella società diventa una conseguenza naturale del trattamento riservato ai detenuti, primo non si possono rieducare a livello morale delle persone rinchiuse in una gabbia ed equiparate nel trattamento agli animali, da persone trattate come animali ci si devono aspettare comportamenti da animali, secondo la punizione che una società infligge è un tratto inequivocabile di tale società, se la punizione non presenta caratteristiche civili, non può innescare nel detenuto nessun ripensamento civile, semmai al contrario il detenuto che viene punito con una sproporzionata brutalità rispetto al crimine commesso svilupperà degli atteggiamenti rivendicativi nei confronti dell'autorità che lo ha condannato, " la prigione non può evitare di fabbricare risentimento. Ne fabbrica per il tipo di esistenza che fa condurre ai detenuti: che li si isoli nelle celle, o che si imponga loro un lavoro inutile, per il quale non troveranno impiego, significa, in ogni modo, non " pensare all'uomo nella società; significa creare una esistenza contro natura, inutile e pericolosa"; si vuole che la prigione educhi i detenuti, ma un sistema di educazione che si rivolga all'uomo, può ragionevolmente avere come oggetto l'agire contro natura? La prigione fabbrica risentimento anche imponendo ai detenuti costrizioni violente; essa è destinata ad applicare le leggi e ad insegnarne il rispetto; ora, tutto il suo funzionamento si svolge sulla linea dell'abuso di potere .
" In un senso davvero fondamentale, un uomo solo rinchiuso perpetuamente in una gabbia non è più un uomo del tutto; piuttosto , è un oggetto semi- umano, un organismo con un numero. L'identità dell'individuo, sia per se stesso che per gli altri, è largamente composta dalla rete di comunicazioni simboliche con le quali è legato al mondo esterno; come Kingsley Davis ha sottolineato.."..la struttura della personalità dell'uomo è talmente un prodotto dell'interazione sociale che quando questa interazione cessa anche essa tende a decadere.". Gresam M. Sykes in " The society of captives", 1958, p. 6, traduzione mia.
" Quando egli si vede esposto a sofferenze che la legge non ha ordinato e neppure previsto, entra in uno stato di collera abituale contro tutto ciò che lo circonda; non vede che dei carnefici in tutti gli agenti dell'autorità; non crede più di essere stato colpevole: egli accusa la giustizia stessa" F. Bigot Préameneu, Rapport au conseil Général de la société des prisons, 1819 in Surveiller et punir, Foucault, 1975. Mi sembra indicativo dell'evolversi dell'istituzione penitenziaria questo passo che sottolinea la condizione di assoluta precarietà del detenuto esperita già 187 anni fa. . Mio il corsivo.
Appunti su: the society of captives sykes traduzione, il detenuto ed il microsistema, |
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