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Il potere del giudice di applicare una misura cautelare coercitiva è vincolato, in quanto subordinato alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e di una delle esigenze cautelari tipizzate dall'art. 274 c.p.p., non solo sotto il profilo dell'an, ma anche sotto il profilo del quomodo in quanto il giudice, dopo aver accertato la presenza delle predette condizioni di applicabilità, deve scegliere la misura cautelare da imporre all'indagato o all'imputato in base ai criteri indicati dall'art. 275 c.p.p..
Come si è visto il codice prevede una articolata tipologia di misure cautelari che presentano un grado di afflittività crescente (dal divieto di espatrio alla custodia in carcere): era dunque necessario al fine di delimitare il potere discrezionale del giudice, predeterminare i criteri cui egli deve attenersi nella scelta della misura da applicare nel caso concreto.
In sintesi si può dire che la misura cautelare da applicare deve essere:
adeguata alle esigenze cautelari presenti nel caso concreto;
proporzionata alla gravità del reato ed alla entità della sanzione che sarà irrogata;
graduata in modo da circoscrivere l'ambito di operatività della custodia in carcere ai soli casi in cui ogni altra misura risulti inadeguata[1].
Il primo criterio di scelta enunciato dall'art. 275 c.p.p. è costituito dal canone dell'adeguatezza. In forza di questo criterio il giudice deve valutare la specifica idoneità di ciascuna misura "in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto". Come è stato autorevolmente osservato in dottrina il criterio dell'adeguatezza impone al giudice di scegliere "la misura meno gravosa per l'imputato, tra quelle di per sé idonee a fronteggiare" le esigenze cautelari , e dunque postula che vi sia "piena corrispondenza funzionale tra la misura da adottare ed il pericolo che si vuole evitare" .
Sul piano applicativo va rilevato che ai fini della valutazione dell'adeguatezza della misura occorre tener conto
della "prognosi di spontaneo adempimento da parte dell'indagato degli obblighi e delle prescrizioni che a detta misura cautelare siano eventualmente collegati"[4].
Costituiscono espressione del criterio di adeguatezza le precisazioni introdotte nel testo dell'art. 275 c.p.p. dalla legge 26.03.2001, n°128 (c.d. pacchetto sicurezza). Si tratta dell'art. 275, 1° comma bis c.p.p. secondo cui il giudice chiamato a valutare la sussistenza delle esigenze cautelari deve tener conto anche "dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza" risulti o l'esistenza del pericolo di fuga o del pericolo di reiterazione del reato.
Come è stato osservato in dottrina la norma presenta un valore meramente simbolico, se non addirittura pleonastico, in quanto si limita ad "esplicitare quei parametri valutativi che il giudice deve comunque adoperare nel giudizio relativo alle esigenze cautelari"[5], limitandosi a ricordare al giudice "che nel valutare le esigenze cautelari in caso di condanna, può tener conto anche dell'esito del procedimento" .
A tale norma si aggiunge l'art. 275, 2° comma ter c.p.p. il quale stabilisce, con riferimento all'ipotesi in cui venga pronunciata in secondo grado una sentenza di condanna, che in presenza di determinate condizioni il giudice deve comunque applicare una misura cautelare personale.
L'operatività della norma de qua è subordinata alla ricorrenza delle seguenti condizioni:
1) che l'imputato sia stato condannato per uno dei delitti di cui all'art. 380, 1° comma c.p.p. (trattasi, come è noto dei delitti per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza);
2) che l'imputato abbia commesso, nei cinque anni precedenti, un delitto della stessa indole rispetto a quello per il quale è stato condannato;
3) che sussiste a seguito della condanna una delle esigenze cautelari di cui all'art. 274, 1° comma, lett. b) e c) c.p.p., valutate alle luce dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti.
In dottrina non sono mancate pungenti osservazioni critiche nei confronti della norma in esame. Si è infatti rilevato che la regola secondo cui in presenza delle predette condizioni il giudice debba "sempre" applicare la misura cautelare "tradisce una bancarotta della logica. Perché se vi sono esigenze cautelari la misura va emessa sempre, anche quando la condanna di appello non riguarda quei reati e quei soggetti. Se invece si vuol dire, come psicanalizzando il legislatore si è indotti a pensare, che quando la condanna d'appello riguarda quei reati e quei soggetti le misure vanno disposte sempre, allora la norma introduce un automatismo incostituzionale. La conclusione è che se si dà alla norma una interpretazione che ne salvi la legittimità costituzionale, essa non significa nulla più di quanto dice il nuovo comma 1-bis dell'art. 275, pure esso introdotto dalla legge 128, il quale enuncia regole di giudizio a cui deve uniformarsi il giudice quando esamina le esigenze cautelari in una sentenza di condanna"[7].
Il canone della proporzionalità è diretto ad assicurare l'effettivo rispetto del principio secondo cui, anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la limitazione della libertà della persona sottoposta a procedimento penale deve essere circoscritta ai soli casi in cui ciò sia strettamente necessario.
A tal fine l'art. 275, 2° comma c.p.p. dispone che "ogni misura deve essere proporzionata alla entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata".
Costituisce espressione del criterio de quo il principio, enunciato dall'art. 275, 2° comma bis c.p.p., in forza del quale la misura custodiale (quindi anche gli arresti domiciliari) non può essere disposta quando sia prevedibile che al momento della sentenza di condanna potrà essere concesso all'imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena. Come è noto il beneficio de quo può essere concesso quando la pena inflitta non supera i due anni (due anni e sei mesi se si tratta di una persona avente un'età compresa tra i 18 ed i 21 anni, ovvero superiore ai 70) ed il giudice, sulla base di una prognosi formulata con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 c.p., ritenga che l'imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.
E' appena il caso di sottolineare l'elevato grado di problematicità che, in concreto, caratterizza l'applicazione di questo criterio: il giudice della cautela è infatti chiamato ad valutare, sulla base degli elementi di prova addotti dal pubblico ministero ex art. 291 c.p.p., non solo se nei confronti dell'indagato potrà essere pronunciata una sentenza di condanna, ma anche se sussistono le condizioni per la concessione della sospensione condizionale della pena (decisione che il giudice della cognizione può assumere anche sulla base di elementi non conoscibili dal giudice della cautela quale la condotta processuale dell'imputato che ha reso piena confessione dei fatti a lui ascritti).
Deve viceversa ritenersi irrilevante il fatto che l'indagato o l'imputato, una volta passata in giudicato la sentenza di condanna, possa beneficiare della c.d. sospensione dell'esecuzione della pena di cui all'art. 656, 5° comma c.p.p.[8].
Invero, a prescindere dalla mancanza di qualsiasi previsione normativa che autorizzi il giudice della cautela a tener conto degli effetti ricollegabili alla predetta norma, va rilevato che la sospensione dell'esecuzione, rectius dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione, prevista dalla citata norma processuale è funzionale a mettere in condizione il condannato, che deve espiare una pena inferiore a tre anni, di chiedere l'applicazione di una delle misure alternative alla detenzione previste dagli artt. 47 e segg della legge 26.07.1975, n° 354, applicazione che è rimessa alla decisione del Tribunale di Sorveglianza e che costituisce espressione di una valutazione discrezionale la quale, in quanto prevalentemente incentrata su dati ed elementi di natura personologica, non può in alcun modo essere anticipata dal giudice della cautela.
Si potrebbe ravvisare una sorta di discrasia nella diversità di trattamento nella fase delle indagini preliminari o del dibattimento rispetto alla fase dell'esecuzione della pena per quanto attiene alla donna incinta o madre di prole di con età inferiore all'anno. Infatti, può succedere che il giudice, motivando che "sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza", disponga la misura della custodia cautelare in carcere anche nei confronti di donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni uno, pur sapendo che in caso di condanna la pena o verrà differita in base all'art. 146 1° comma n° 1 e 2 o verrà espiata in forma di detenzione domiciliare in base all'art. 47 ter 1° comma lettera a) o in base all'art. 47 ter 1° comma ter O.P., sicuramente comunque non verrà espiata in carcere. Una scelta di questo genere altera sicuramente l'equilibrio a cui sembra improntato il nostro ordinamento in merito al coordinamento tra la fase cautelare e quella esecutiva, non bisogna però dimenticare che il giudice della cautela si pone come primo obiettivo quello di far fronte alle esigenze cautelari, per cui certe volte difronte ad indagate che si autodefiniscono "ladre di professione" non può fare a meno di disporre la custodia cautelare in carcere, sacrificando i diritti della maternità e dell'infanzia, poiché ravvisa un'altissima probabilità che se libere o agli arresti domiciliari, anche se incinte o con figlio di età inferiore all'anno torneranno a commettere furti.
Il terzo ed ultimo criterio di scelta tipizzato dall'art. 275 c.p.p. è costituito dal canone della gradualità. In forza di questo criterio la custodia cautelare in carcere rappresenta, nell'ambito delle misure cautelari previste dalla legge, l'extrema ratio, ed in quanto tale deve essere applicata soltanto nel caso in cui ogni altra misura risulti inadeguata.
Un' eccezione a questa regola è prevista dal 3° comma dell'art. 275 c.p.p. con riguardo a delitti in materia di criminalità organizzata: in questo caso, una volta accertata la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è sempre applicata la custodia in carcere "salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari". Il presupposto dell'art. 275, 3° comma c.p.p. "è quello secondo cui chi è raggiunto da gravi indizi di colpevolezza in ordine ad un reato di matrice mafiosa è, per definizione, pericoloso e quindi professionalmente proteso alla commissione di fatti criminosi"[9].
La norma si fonda su una duplice presunzione: la prima derivante dall'accertata sussistenza dei gravi indizi, ha per oggetto la sussistenza delle esigenze cautelari (trattasi di presunzione relativa in quanto può essere vinta dalla acquisizione di elementi dai quali emerga che in concreto non sussistono tali esigenze); la seconda, scaturente anch'essa dall'accertata sussistenza del presupposto di cui all'art. 273 c.p.p., ha per oggetto la misura cautelare da applicare all'indagato o all'imputato che può essere costituita soltanto dalla custodia in carcere (c.d. presunzione di adeguatezza esclusiva dalla misura de qua), con la conseguenza che il giudice non dispone di alcun potere di apprezzamento discrezionale in ordine alla scelta della misura[10].
Costituiscono espressione del criterio di gradualità " ma in parte anche del principio di adeguatezza" le norme che vietano di applicare, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, la custodia in carcere nei confronti di determinate categorie di persone.
Le categorie soggettive prese in considerazione dall'art. 275 c.p.p., che sul punto è stato modificato dalla legge 12.07.1999, n°231, sono le seguenti:
1) donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente;
2) padre, qualora la madre sia deceduta, ovvero sia assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;
3) persona che ha superato il settantesimo anno di età;
4) persona che versi in condizioni di salute particolarmente gravi.
E' agevole osservare che si tratta delle stesse categorie di persone che possono beneficiare della detenzione domiciliare ex art. 47 ter 1° comma legge 26.07.1975, n° 354, o della detenzione domiciliare c.d. sostitutiva del differimento di esecuzione della pena, di cui all'art. 47 ter 1° comma ter legge cit. (mette conto tuttavia precisare che ai fini dell'applicazione della detenzione domiciliare, l'ambito di tali categorie soggettive è definito, al fine di contribuire a fronteggiare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, con criteri assai più ampi: ad esempio la detenzione domiciliare può essere applicata anche alla madre di prole di età inferiore a 10 anni), ovvero della detenzione domiciliare c.d. speciale prevista dall'art. 47 quater, della legge 26.07.1975, n°354 introdotto anch'esso dalla citata legge 12.07.1999, n°231 e destinato ad operare nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria.
Alle predette categorie deve aggiungersi quella dei tossicodipendenti o alcooldipendenti che abbiano in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell'ambito di una struttura organizzata, e l'interruzione del programma può pregiudicare la disintossicazione dell'imputato; anche nei confronti dei soggetti de quibus, secondo quanto dispone l'art. 89, 1° comma del DPR 309/1990, la custodia in carcere può essere applicata soltanto se ricorrono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Secondo l'indirizzo giurisprudenziale prevalente le esigenze cautelari che consentono di superare il divieto di applicazione della custodia in carcere "non possono identificarsi con quelle presunte per legge derivanti dal titolo del reato, ai sensi del precedente comma 3° del medesimo art. 275 c.p.p., né farsi derivare dalla semplice constatazione che l'imputato ha subito precedenti condanne, ma postulano l'esistenza di puntuali e specifici elementi dai quali emerga un non comune, spiccatissimo ed allarmante rilievo dei pericoli ai quali fa riferimento l'art. 274 c.p.p."[11].
In sostanza le esigenze de quibus potranno e dovranno essere individuate in comportamenti posti in essere dall'imputato che, per le loro caratteristiche soggettive ed oggettive, dimostrino l'assoluta ed irrimediabile efficacia delle altre misure cautelari (reiterato allontanamento dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, ripetuti tentativi di intimidire o corrompere i testimoni, specifiche modalità della condotta delittuosa che siano di per sé idonee ad evidenziare una particolare ferocia o brutalità dell'agente).
Mediante il divieto di applicare, se non allorquando si profilano le situazioni sopra richiamate, nei confronti delle suddette categorie soggettive la custodia in carcere il legislatore ha inteso vincolare in bonam partem il potere discrezionale del giudice in merito alla scelta della misura cautelare da imporre all'indagato al fine di assicurare una adeguata tutela ad interessi di rilievo costituzionale come il diritto alla salute (art. 32 Cost.) o la protezione della maternità e dell'infanzia (art. 31 Cost).
Occorre tuttavia precisare che nei confronti delle persone che hanno superato il settantesimo anno di età il divieto di applicare la custodia in carcere prescinde dal fatto che il condannato sia affetto da patologie più o meno gravi e trova la sua ratio essendi nella minor pericolosità che, secondo l'id quod plerumque accidit, connota la personalità di soggetti in età avanzata a causa dell'inevitabile scadimento delle facoltà fisiche e psichiche dell'uomo[12].
Nei confronti dell'indagato o dell'imputato appartenente ad una di queste categorie sarà di norma applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari; così come la pena inflitta con la sentenza irrevocabile sarà di norma espiata nella forma della detenzione domiciliare ex art. 47 ter della legge 26.07.1975, n°354 (ad eccezione del condannato tossicodipendente al quale può essere applicata, in caso di pena residua inferiore a 4 anni, la misura alternativa dell'affidamento terapeutico ex art. 94 TULS).
Più articolata è la disciplina prevista per i soggetti che versano in gravi condizioni di salute.
La regola generale è nel senso che nel caso in cui le condizioni di salute dell'indagato o dell'imputato risultino incompatibili con lo stato di detenzione non può essere applicata la custodia in carcere salvo che, come già visto, ricorrano esigenze cautelari di particolare rilevanza e sia possibile fronteggiare la patologia di cui soffre l'indagato o l'imputato presso idonee strutture penitenziarie; altrimenti (cioè se l'istituto penitenziario non dispone di idonee strutture penitenziarie e la prosecuzione dello status detentionis sia suscettibile di pregiudicare la salute dell'indagato e degli altri detenuti), il giudice dovrà disporre gli arresti domiciliari presso un luogo di cura, ovvero, se si tratta di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria "presso le unità di malattie infettive ospedaliere o universitarie" art. 275 4° comma ter).
Tuttavia la custodia in carcere può essere applicata se i soggetti de quibus dopo aver ottenuto la concessione di una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere commettono uno dei reati compresi nell'ambito di applicazione dell'art. 380 c.p.p. in relazione al quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale o sia stata disposta l'applicazione di un misura cautelare. Non è dunque sufficiente, al fine di giustificare l'applicazione della custodia in carcere l'instaurazione di un nuovo procedimento penale anche per fatti di non trascurabile gravità, ma occorre che per il nuovo reato il pubblico ministero abbia chiesto il rinvio a giudizio, ovvero che sia stata disposta una qualsiasi altra misura cautelare, ciò che richiede un vaglio giurisdizionale in merito alla fondatezza ed alla consistenza dell'accusa. Allorquando si profila tale ipotesi assumono una incidenza preponderante le esigenze di tutela della collettività connesse alla necessità di neutralizzare la proclività a delinquere della persona malata che, pur beneficando di un trattamento di favore in ragione delle condizioni di salute, ha tuttavia continuato a commettere reati[13].
Sul versante dell'esecuzione della pena situazioni come queste di incompatibilità con lo stato di detenzione o perché non trattabili all'interno della struttura carceraria o perché si ravvisa un'alta probabilità di peggioramento se non viene disposta la scarcerazione si risolvono con la concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell'art. 47 ter 1° comma lettera c), se la pena da scontare è inferiore a quattro anni, oppure la detenzione domiciliare sostitutiva del differimento pena facoltativo alla pena ai sensi dell'art. 47 ter 1° comma ter.
L'art. 275 4° comma quinquies detta una norma di chiusura in virtù della quale la custodia in carcere non può comunque essere disposta "quando la malattia si trova in una fase così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili ed alle terapie curative". Si può osservare che la norma de qua prevede una sorta di incompatibilità assoluta tra condizioni di salute dell'indagato o dell'imputato e regime detentivo che appare preclusiva, in ossequio anche la principio enunciato dall'art. 32 Cost., alla applicazione della custodia in carcere anche nei casi di cui al 4°comma-quater della stessa norma.
Come è stato osservato in dottrina "la ragione ispiratrice della disposizione deve essere colta nella pietas verso persone che, in conseguenza della devastazione organica prodotta dalla malattia, non ricevono più alcun beneficio dalle cure praticate, talché sarebbe contrario alla civiltà ed al senso di umanità la presenza in un istituto penitenziario di cittadini colpiti da mali con poche possibilità di guarigione. Ciò vale in ogni caso, come si desume dall'avverbio "comunque", che serve ad estendere la previsione a tutte le ipotesi astrattamente sussumibili nella norma, benché ricorrano le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza o le specifiche esigenze di sicurezza speciale di cui al comma 4 ter" .
Volendo fare un ulteriore parallelismo con l'esecuzione della pena, norma di chiusura durante la fase esecutiva mi parrebbe l'art. 146 c.p. che dispone il differimento obbligatorio della pena.
In questo caso, come abbiamo già visto, le condizioni di salute sono così gravi, che anche la concessione della detenzione domiciliare cosiddetta umanitaria, sembra contraria al senso di umanità.
Dalla ricostruzione del sistema normativo sopra effettuata emerge l'importanza centrale che assume il concetto di incompatibilità tra condizioni di salute dell'indagato o dell'imputato e regime detentivo: l'incompatibilità costituisce infatti una ragione ostativa all'applicazione della custodia in carcere che sarà di regola sostituita con la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari, la quale si configura come lo strumento maggiormente idoneo a realizzare un adeguato bilanciamento tra le tutela del diritto alla salute e le esigenze cautelari che si profilano nell'ambito del procedimento.
Con riguardo alle condizioni di salute il legislatore ha operato un distinzione in funzione della natura della patologia da cui risulta affetto l'indagato o l'imputato, dedicando una attenzione particolare alle persone affette dal virus dell'HIV e ciò in seguito all'intervento della Corte Costituzionale che, con la sentenza del 18.10.1995, n°439 aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 286 bis c.p.p. che in deroga all'art. 275, 4°comma c.p.p. contemplava un regime di favore nei confronti di soggetti de quibus, sancendo l'assoluta incompatibilità con lo stato di detenzione nel caso di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria, anche nel caso in cui sussistevano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e l'applicazione della misura potesse avvenire senza pregiudizio per la salute del soggetto e quella di altri detenuti[15].
L'incompatibilità con il regime detentivo sussiste sempre nel caso di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertata secondo i parametri di cui all'art. 286-bis c.p.p.; il 2° comma di questa norma rimette all'autorità amministrativa il compito di definire i casi di AIDS conclamata e di grave deficienza immunitaria e di stabilire le procedure diagnostiche per il loro accertamento.
In attuazione di quanto disposto dalla citata norma è stato emanato il D.M. 21.10.1999 il quale prevede:
a) che il caso di AIDS conclamata ricorre nelle situazioni indicate nella circolare del Ministero della Sanità del 29.04.1994;
b) che il caso di grave deficienza immunitaria ricorre nelle seguenti ipotesi: b1) quando il numero di linfociti TCD4+ è inferiore o pari a 200 mmc, come valore ottenuto in almeno due esami consecutivi effettuati a distanza di 15 giorni l'uno dall'altro; b2)quando il paziente presenta l'indice di Karnofsky pari al valore di 50.
Al di fuori del caso in cui l'indagato o l'imputato risulti affetto dal virus dell' HIV, le gravi condizioni di salute che danno luogo ad una situazione di incompatibilità tra condizioni di salute e regime detentivo si profilano quando il soggetto contro cui si procede risulta affetto da quelle patologie "che a prescindere dalla posizione in vinculis del paziente si oggettivizzano da sole, assumono una propria autonomia e sono connotate, oltre che dalla gravità, dalla insuscettibilità di essere curate in costanza di detenzione, per non essere praticabili i normali interventi diagnostici e terapeutici in ambiente carcerario, intendendosi per tale anche quello costituito dai centri clinici della amministrazione penitenziaria", mentre sono irrilevanti ai fini de quibus quelle patologie che "ancorchè marcate sono, per così dire, connaturali alla privazione della libertà personale, quali la sindrome ansioso-depressiva" .
Meno rigorosa è la posizione assunta da parte della dottrina secondo cui la particolare gravità delle condizioni di salute va intesa non come assoluta incompatibilità con la detenzione carceraria, ma come condizione di rilevante pregiudizio in relazione ai necessari interventi terapeutici, con la precisazione che le cure necessarie ad una persona detenuta "sono non soltanto quelle dirette alla risoluzione - ove possibile- della malattia ma anche quelle tendenti al controllo della stessa, onde evitare un peggioramento: in altri termini, il diritto alla salute deve essere preservato disponendo l'uscita del soggetto dall'ambiente carcerario, nei casi in cui le terapie interne non possano condurre alla eliminazione delle patologie o quando esse, lungi dal comportare un miglioramento, determinano addirittura un aggravamento"[17].
Con riguardo agli aspetti procedimentali va richiamata la disciplina dettata dall'art. 299, 4° comma ter c.p.p. secondo cui quando il giudice non è in grado di decidere allo stato degli atti "dispone anche d'ufficio e senza formalità accertamenti sulle condizioni di salute e su altre qualità personali dell'indagato"; tuttavia nel caso in cui "la richiesta di revoca o di sostituzione della custodia cautelare in carcere è basata sulle condizioni di salute di cui all'art. 275, comma 4 bis, ovvero se tali condizioni di salute sono segnalate dal servizio sanitario penitenziario, o risultano in altro modo al giudice, questi, se non ritiene di accogliere la richiesta sulla base degli atti" deve disporre l'espletamento di una perizia.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno precisato che il giudice, dopo aver verificato che la richiesta è fondata sulla prospettazione di una condizione di salute rilevante ai sensi dell'art. 275 c.p.p., ha l'obbligo di disporre l'espletamento di una perizia[18].
Alla luce del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite deve chiedersi se di fronte alla reiterata proposizione di
istanze de libertate fondate su motivi di salute prospettate in termini di incompatibilità con il regime carcerario il giudice, salvo che si tratti della prima istanza, sia sempre e comunque tenuto a disporre l'espletamento di una perizia ovvero sia legittimato ad operare una selezione.
Nel caso in cui dopo che un precedente accertamento peritale ha escluso la sussistenza di una situazione di incompatibilità tra le condizioni di salute dell'indagato e lo status detentionis, e l'interessato avanzi, magari a breve distanza di tempo, una ulteriore istanza di sostituzione della custodia in carcere con la custodia domiciliare, senza addurre la sopravvenienza di nuove patologie o comunque l'aggravamento delle condizioni cliniche suscettibili di modificare il giudizio espresso nella perizia, appare del tutto ragionevole escludere che il giudice sia tenuto a disporre una nuova perizia.
Non può infatti pensarsi, allorquando sia stata già disposta una perizia e la nuova richiesta non sia fondata su un concreto mutamento in peius del quadro clinico, che ogni deduzione di incompatibilità delle condizioni di salute con il regime carcerario possa comportare per il giudice l'obbligo di nominare un perito.
Una disposizione particolare in ordine ai criteri di applicazione degli arresti domiciliari è dettata dall'art 284, 5° comma bis c.p.p., introdotto nel codice di rito dal d.l. 24.11.2000, n°341, conv. nella legge 19.01.2001, n°4, e successivamente modificato dalla legge 26.03.2001, n°128 (c.d. pacchetto sicurezza).
La norma citata esclude che possano essere concessi gli arresti domiciliari "a chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti il fatto per il quale si procede".
Come è stato puntualmente osservato la norma introduce una presunzione legale in merito all'esistenza dell'esigenza cautelare del pericolo di fuga, "giustificata dal pregresso comportamento, giudizialmente accertato, atto a confermare un giudizio prognostico di inaffidabilità in relazione all'osservanza delle prescrizioni previste dall'art. 284 c.p.p."[19]
La ratio della norma risponde alla necessità di escludere l'applicazione degli arresti domiciliari all'indagato o imputato che "in precedenza abbia dimostrato scarsa capacità di adeguarsi alle restrizioni della libertà personale imposte dall'ordinamento, evidenziando in tal modo una particolare propensione a disobbedire alle regole della convivenza sociale, e, quindi, un'elevata pericolosità"[20].
L'applicabilità della norma, che priva il giudice dell'autonomo potere di valutare l'adeguatezza della misura descritta dall'art. 284 c.p.p., presuppone che l'indagato o l'imputato sia stato condannato, nei cinque anni precedenti il fatto per cui si procede, per il delitto di evasione. Non è dunque sufficiente che l'indagato abbia commesso un fatto punibile ai sensi dell'art. 385 c.p., ma occorre che la sentenza di condanna per il delitto di evasione sia divenuta irrevocabile (e proprio dalla data della irrevocabilità inizierà a decorrere il termine di 5 anni previsto dalla norma); mentre in mancanza di tale requisito potrà eventualmente trovare applicazione la disciplina dettata dall'art. 276, 1° comma ter c.p.p.[21].
Viene in mente l'analoga preclusione, questa volta triennale, per la concessione della detenzione domiciliare al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa (art. 58 quater 2° comma)
Ai fini della sussistenza delle condizioni di operatività della preclusione stabilita dall'art. 284, 5° comma bis c.p.p. ci si è chiesti se la nozione di sentenza di condanna sia tale da ricomprendere anche le decisioni emesse all'esito del rito speciale disciplinato dagli artt. 444 e segg. c.p.p. (applicazione della pena su richiesta della parti).
Il problema ha ragione di porsi stante il contrasto che si riscontra tra la dottrina e la prevalente giurisprudenza in merito alla natura della sentenza di "patteggiamento". Infatti mentre la giurisprudenza tende ad escludere che la sentenza di applicazione della pena sia riconducibile al genus delle sentenze di condanna in quanto non costituisce espressione di un giudizio di colpevolezza in ordine ai fatti oggetto ascritti all'imputato e non contiene pertanto un giudizio diretto all'accertamento della sussistenza del fatto e finalizzato alla dichiarazione della responsabilità dell'imputato[22]; la dottrina quasi unanime ritiene che non sia compatibile con i principi costituzionali l'irrogazione di una pena senza un previo accertamento, sia pur sommario, della colpevolezza dell'imputato .
Non è questa la sede per approfondire una tematica che rappresenta sicuramente uno dei clivages più dibattuti e controversi tra dottrina e giurisprudenza in merito all'intera materia dei riti speciali; ai fini che qui interessano è tuttavia sufficiente osservare che la soluzione estensiva (e cioè quella che considera rilevante ai fini dell'operatività della preclusione de quo anche la sentenza di patteggiamento) appare maggiormente rispondente alla voluntas legis ed alla finalità sanzionatoria che il legislatore ha inteso imprimere al meccanismo preclusivo di cui all'art. 284, 5° comma bis c.p.p..
Sul piano applicativo va ricordato un recente intervento con cui la Corte di Cassazione ha escluso che il meccanismo preclusivo delineato dall'ultimo comma dell'art. 284 c.p.p. possa operare nei confronti dei soggetti di cui all'art. 89 del DPR 309/1990 .
Ad avviso della Suprema Corte la ragione principale per cui deve ritenersi che la norma in esame sia applicabile ai soggetti di cui all'art. 89 cit. consiste nel fatto che quest'ultima norma è diretta a salvaguardare la salute ed il recupero del tossicodipendente, di talché sarebbe "singolare che la custodia cautelare in carcere venisse subordinata, per il tossicodipendente che abbia accettato il programma di recupero, all'esistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e che, per converso venisse consentita la forma più afflittiva di custodia cautelare nel caso di chi, indipendentemente dalla gravità delle esigenza cautelari, avesse riportato condanna per il reato indicato, significativo dell'esistenza di una esigenza cautelare ma non certo di per sè considerata di eccezionale rilevanza". D'altra parte, conclude la Cassazione, siffatta interpretazione rappresenta "l'unica che possa ritenersi conforme ai principi costituzionali di tutela della salute (art. 32 della Costituzione) che potrebbe essere seriamente pregiudicata dalla interruzione o dal mancato avvio del programma di recupero"[25].
Siffatta impostazione, nella misura in cui ridefinisce in senso restrittivo l'ambito di operatività della preclusione dettata dall'ultimo comma dell'art. 284 c.p.p., appare senza dubbio condivisibile in quanto si configura come un primo tentativo di porre rimedio, sia pure a livello interpretativo, alla rigidità della norma in esame, la quale, come si è visto, risulta strutturata in modo tale da sottrarre alla discrezionalità del giudice il potere di accertare concretamente l'intrinseca gravità del precedente per evasione, i cui effetti interdittivi si producono anche se la relativa condotta è di modesta rilevanza o risalente nel tempo.
V. Grevi, Misure Cautelari, AA.VV. Profili del Nuovo Codice di Procedura Penale, Cedam Padova, 1990, p. 198.
Cass. 14.01.1999, Brescia C.E.D.,RV-212294 -nella fattispecie la Corte ha ritenuto adeguatamente motivata la applicazione della custodia cautelare in carcere, in luogo della meno gravosa misura degli arresti domiciliari, avendo il giudice di merito fatto riferimento a precedenti violazioni da parte dell'indagato degli obblighi della sorveglianza speciale
F. De Leo , in AA.VV. Processo penale: nuove norme sulla sicurezza dei cittadini, Giuffrè, Milano, 2002 pag. 24.
Cass. S.U. 5.10.1994, Demitry secondo cui: "in presenza di gravi indizi di colpevolezza per uno dei reati indicati nell'art 275.3°comma c.p.p. deve essere senz'altro applicata la misura della custodia in carcere, senza necessità di accertare le esigenze cautelari che sono presunte dalla legge. Ne consegue che al giudice di merito incombe soltanto l'obbligo di dare atto della inesistenza di elementi idonei a vincere tale presunzione, mentre l'onere di motivazione diventa più oneroso nell'ipotesi in cui l'indagato o la sua difesa abbiano evidenziato elementi idonei a dimostrare l'insussistenza delle esigenze cautelari, dovendosi allora addurre, o, quanto meno, dedurre gli elementi di fatto sui quali la prognosi positiva può essere fatta"
Cass. 7.04.1993, Anzalone; in Codice, cit. p.761; Cass. 21.10.1999, Alvaro, in Cass. Pen. 2001, n° 904, ove si puntualizza che "in materia di misure cautelari la presunzione di cui al comma 3° dell'art. 275 c.p.p., che impone l'applicazione della custodia in carcere quando sussistono gravi indizi in ordine a determinati reati e non risultano acquisiti elementi che escludano l'esistenza di esigenze cautelari, è opposta a quella fissata dal 4° comma del citato articolo, che esclude l'applicabilità della custodia in carcere nei confronti di chi ha superato l'età di 70 anni, a prescindere dalle condizioni di salute in cui versa, salvo la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La seconda presunzione, in bonam partem, essendo dotata di maggiore specificità prevale sulla prima, in malam partem. Da ciò deriva che per applicare la custodia in carcere ad un ultrasettantenne, il giudice deve valutare come eccezionali le esigenze cautelari, anche quando sussistano gravi indizi in ordine ai reati di cui al comma 3° dell'art. citato, dandone specifica ed adeguata motivazione, e che, nell'assenza di siffatte eccezionali esigenze, ossia in presenza di esigenze cautelari tipiche o normali, è poter-dovere del giudice disporre misure cautelari coercitive meno afflittive della custodia in carcere"
F. Nuzzo Il regime della custodia cautelare in carcere e la tutela della salute in base alla disciplina della L. 12.07.1999, n° 231, in Cass. Pen. 2000, ppag. 773 e segg..
F. Rigo, La modifica dell'art. 278 c.p.p. in AA.VV. Processo Penale: nuove norme sulla sicurezza dei cittadini, Cedam, Padova, 2001, p.159, ove si puntualizza che la norma è fondata sul valore sintomatico che assume la commissione del delitto di evasione, quale "espressione della incapacità del soggetto agente di conformarsi volontariamente ai divieti impostigli e di prestare quella collaborazione richiesta da una misura che, rispetto alla custodia cautelare in carcere, non comporta una così penetrante compressione della sfera individuale della libertà personale e che ha come unico deterrente alla violazione delle prescrizioni ad essa inerenti forme di controllo scarsamente incisive" p.160)
Cass. S.U. 26.02.1997, Bahrouni, in Dir. Pen. Proc. 1997, p. 1484; Cass. S.U. 25.11.1998, Messina, in Cass. Pen. 1999, p. 11746; Cass. S.U. 27.05.1998, Bosio, in Cass. Pen. 1998, p.2897).
G. Lozzi Riti speciali e trattamento sanzionatorio, in AA.VV. "Sistema sanzionatorio: effettività e certezza della pena", Giuffrè Milano, 2002, pp.241 e segg.; cfr. anche Corte Cost. 2.07.1990, n°313, in Foro It. 1990, I, c. 2385, spec. c. 2399 ove si precisa che "ancora una volta va richiamato il modello generale di sentenza di cui all'art 546 c.p.p. e le prescrizioni dettate dalla lett.e) del 1°comma, dove si esige che il giudice indichi le prove che intende porre a base della sua decisione ed enunci le ragioni per le quali non ritiene attendibili le prove contrarie. Dal che si evince che anche la decisione di cui all'art 444 c.p.p., quando non è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalla prova della responsabilità"
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