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Tesina Multidisciplinare Italiano - Storia - Pirandello : dalla vita al pensiero alle opere




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Tesina Multidisciplinare





Italiano - Storia




Pirandello : dalla vita al pensiero alle opere.


Dalla situazione italiana nel primo dopoguerra all' avvento del fascismo.







LUIGI PIRANDELLO (1867 - 1936)






Scrittore, drammaturgo e narra­tore, rappresentò sulle scene l'incapacità dell'uomo di identi­fi­carsi con la propria personalità, il dramma della ri­cerca di una verità al di là delle convenzioni e delle apparenze.

Nato a Girgenti (in seguito rinominata Agrigento) nel 1867, cominciò i suoi studi universitari a Palermo, frequentando contemporaneamente le Facoltà di Legge e Lettere, si trasferì, poi, a Roma continuando gli studi nella Facoltà di Lettere sotto la guida del filologo Ernesto Monaci, ma si laureerà solo presso l'università di Bonn (in Germania) in filologia romanza nel 1891. Tornato in Italia nel 1892, prese residenza a Roma, dove trascorse poi gran parte della sua vita, collaborando a vari giornali e riviste. Qui, conobbe Luigi Capuana, che influì pesantemente sulla sua conversione dalla Poesia alla Prosa, conversione che inaugurerà con la realizzazione del suo primo romanzo: L' esclusa.

Nel 1894 sposò Antonietta Portulano e tre anni più tardi accetterà l' incarico di insegnare letteratura italiana presso l' Istituto Superiore di Magistero Femminile (dal 1897 al 1922). Il dissesto finanziario causato dalla perdita della rendita di una miniera di zolfo (lascito paterno), lo costringerà a mettersi in concorrenza anche sul mercato editoriale vendendo le sue novelle ed i suoi romanzi.  E' da notare che nel 1904 ebbe inizio una grave crisi mentale della moglie ( iniziata proprio a causa del dissesto finanziario, e sfociata in una forma morbosa e violenta di gelosia nei confronti del marito), che costituì per lo scrittore una vera e propria tragedia familiare (il matrimonio doveva essere infatti "di convenienza" ma si trasformò sfortunatamente in matrimonio d'amore in quanto, come affermava lo stesso Pirandello: <<Non ci si può sposare innamorati, perché il matrimonio deve essere un patto lucido e consapevole: in un matrimonio senza amore, la donna si adatta al marito, assume il suo ruolo e lo porta avanti creando un'unione solida e portatrice di grandi risultati>>), che non rimase senza influsso sulla sua dolorosa concezione del mondo. Negli anni del dopoguerra si dedicò sempre più decisamente all'attività teatrale e fu così che nel 1925 fondò a Roma il Teatro d'arte, dando vita - per alcuni anni- ad una propria compagnia drammatica.

L'esperienza teatrale, come commediografo e regista, di Pirandello, risulta estremamente innovativa in quanto porta ad una vera rivoluzione del concetto di rappresentazione teatrale. L' autore riversa le sue tematiche nelle rappresentazioni. In teatro rompe con le forme tradizionali: riduce al minimo la scenografia ed i costumi, visto che gli attori devono essere vestiti in modo semplice per attirare l'attenzione del pubblico sul testo. Pirandello rompe la barriera tra la vita reale, il proscenio degli spettatori, e la finzione, il palcoscenico, operazione questa totalmente innovativa, ardita e disorientante; così, spesso, gli attori entrano dalla platea, seduti tra gli spettatori ed iniziano a recitare, oppure interagiscono con gli spettatori (in realtà attori). Pirandello vuole così dare agli spettatori l'idea che siano essi stessi gli attori (teatro nel teatro, metateatro); lo spettatore deve chiedersi se recita esso stesso, magari tutti i giorni, a sua insaputa. Così Pirandello rovescia l'idea: il teatro è realtà e la finzione è ciò che c'è attorno. Gli attori si mascherano, il pubblico per atteggiarsi, non si maschera neppure.

In "Sei personaggi in cerca d'autore", addirittura arrivano sulla scena, durante una prova in teatro, sei "personaggi", seppur reali ed in carne ed ossa, ma non persone reali, personaggi nati dalla fantasia di un autore che non ha saputo, o voluto dar loro vita compiuta nella finzione scenica, e che cercano un autore che voglia dar loro vita sul palcoscenico, almeno per la durata del loro dramma, in quanto il personaggio vive solo se esiste la storia da rappresentare (in palcoscenico vi sono infatti attori, persone reali, non personaggi, uomini per cui è impossibile entrare effettivamente nella forma artistica,in quanto dotati delle variabili umane dell'impossibilità di fissare una forma). La vita quindi non ha bisogno di essere rappresentata, si rappresenta da sé, mentre la verosimiglianza cerca in tutti i modi di imitare la vita.

Nel 1934, mentre si faceva sempre più largo e profondo l'interesse suscitato in tutto il mondo dalla sua opera teatrale, gli fu conferito il Premio Nobel per la letteratura. Pirandello morì a Roma, in seguito ad un attacco di polmonite, nel 1936. Nelle sue ultime volontà espresse il desiderio di essere portato al cimitero col carro dei poveri, andandosene così, senza onori né discorsi, come il più nudo ed il più polemico degli infiniti personaggi che popolano la sua arte.

Al centro, sia della concezione verista che di quella del Decadentismo, e quindi dell'umorismo pirandelliano, troviamo il fatto, ciò che è accaduto secondo la volontà o indipendentemente dalla volontà dei protagonisti. All'interno del verismo il fatto viene rappresentato come l'accadimento in atto, anello di una catena nella quale ogni fatto è conseguenza di quello precedente e causa di quello seguente. Non se né indagano le cause e non se né cercano le conseguenze perché cause e conseguenze sono naturali e indipendenti dalla volontà dell'individuo, che deve subirle senza ribellarsi, se non vuole cadere in una condizione sociale peggiore della precedente.

Pirandello, invece, prende coscienza, fin dai primi anni della sua produzione letteraria, che il fatto doveva essere indagato e analizzato nelle sue cause e proposto soprattutto nelle sue conseguenze, anche se, nei primissimi anni della produzione pirandelliana, è il fatto in sé ad avere peso, come nel verismo, non le sue conseguenze, che però vengono vissute direttamente e mai subite passivamente.

Una delle basi della concezione Piran­delliana è il contrasto tra apparenza e sostanza, ovvero, quando l' uomo scopre il contrasto tra la maschera ed il volto. In questo caso per Pirandello ci sono tre reazioni possibili, a seconda del temperamento e del carattere dell' individuo:

  1. la reazione passiva, quella dei più deboli che semplicemente si rassegnano alla forma in cui sono costretti, perchè incapaci di ribellarsi o delusi dopo l' esperienza della nuova maschera;
  2. la reazione ironico-umoristica di chi non si rassegna alla maschera, ma ben sapendo di non potersene liberare, decide di stare al gioco delle parti;
  3. la reazione drammatica di chi, non vuole rassegnarsi alla propria maschera e non accetta di dover sorridere umoristicamente della vita, portandosi, in tal modo, sulla via della solitudine, del suicidio o della pazzia.

La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all'inattingibile verità della vita, percepita come un flusso conti­nuo, caotico e inarrestabile.

Ciascuno vede la realtà secondo le proprie idee e i propri sentimenti, in un modo diverso da quello degli altri: a fronte della realtà esterna che si presenta una e immutabile, abbiamo le centomila realtà interne di ciascun personaggio, per cui la vera realtà è nessuna. Tra realtà e non-realtà ci sono due distinte dimensioni:

  1. la dimensione della realtà oggettuale, che è esterna agli individui e che apparentemente è uguale e valida per tutti, perché presenta per ognuno le stesse caratteristiche fisiche ed è la non-realtà inafferrabile e non riconoscibile: ciò che resta nell'animo dell'individuo è la sua disintegrazione in tante piccole parti quante sono le possibilità concrete dell'individuo di vederla. Della realtà oggettuale esterna noi non cogliamo che quegli aspetti che sono maggiormente confacenti al particolare momento che stiamo vivendo, in base al quale riceviamo dalla realtà certe impressioni, certe sensazioni che sono assolutamente individuali e non possono essere provate da tutti gli altri individui;
  2. la dimensione della realtà soggettuale, che è la particolare visione che ne ha il personaggio, dipendente dalle condizioni sia individuali che sociali, ci sono tante dimensioni quanti sono gli individui e quanti sono i momenti della vita dell'individuo.

Per i personaggi pirandelliani non esiste, quindi, una realtà oggettuale, ma una realtà soggettuale, che, a contatto con la realtà degli altri, si disintegra e si disumanizza.

L'uomo però deve adeguarsi ad una legge imposta dalla società, egli si costruisce quindi una maschera. Siccome il personaggio non ha nessuna possibilità di mutare la propria maschera si verifica la disintegrazione fisica e spirituale dei personaggi che si può riassumere nella teoria della triplicità esistenziale:

  1. come il personaggio vede se stesso;
  2. come il personaggio è visto dagli altri;
  3. come il personaggio crede di essere visto dagli altri.

Il disagio dell' uomo non deriva, però, solo dall' impatto con la società, ma anche dal continuo e costante mutare del suo stesso spirito, che non gli permette di conoscersi né di farsi conoscere sino in fondo. Dal suo più profondo subcosciente riaffiorano, infatti, sempre nuovi impulsi e sentimenti che lo rendono differente, non solo dagli altri, ma anche dal se stesso di poco prima e di quello che verrà dopo.

Pirandello riprende la concezione romantica del perenne svolgimento dello spirito, ma, mentre in quella filosofia, il tutto era riferito allo spirito universale, dove quello individuale era solamente una parte insignificante, egli lo trasferisce proprio a quest' ultimo, dove è proprio nel suo continuo divenire che l' uomo è nello stesso tempo uno, nessuno e centomila:

  1. è uno perché è quello che di volta in volta, lui crede di essere;
  2. è nessuno perché, dato il suo continuo mutare, è incapace di fissarsi in una forma nettamente definita, né di riconoscersi nella forma che gli altri gli attribuiscono;
  3. è centomila perché ciascuno di quelli che lo avvicinano, lo vede a suo modo, quindi assume tante forme quante sono quelle che gli altri gli attribuiscono.

Tutto ciò viene indicato come: relativismo psicologico.

La forma è la maschera, l'aspetto esteriore che l'individuo-persona assume all'interno dell'organizzazione sociale per propria volontà o perché gli altri così lo vedono e lo giudicano. Essa è determinata dalle convenzioni sociali, dalla ipocrisia, che è alla base dei rapporti umani.

Il concetto di forma nelle novelle e nei romanzi e di maschera nella produzione teatrale sono equivalenti. La maschera è la rappresentazione più evidente della condanna dell'individuo a recitare sempre la stessa parte, imposta dall'esterno, sulla base di convenzioni che reggono l'esistenza della massa.

Quando il personaggio scopre di essere calato in una forma determinata da un atto accaduto una sola volta e di essere riconosciuto attraverso quell' atto e identificato in esso, cade in una condizione di angoscia senza fine, perché si rende conto che:

  • la realtà di un momento è destinata a cambiare nel momento successivo
  • la realtà è un'illusione perché non si identifica in nessuna delle forme che gli altri gli hanno dato.

È nella maschera che ritroviamo un contrasto più profondo fra illusione e realtà, fra l'illusione che la propria realtà sia uguale per tutti e la realtà che si vive in una forma, dalla quale il personaggio non potrà mai distaccarsi.

Nella società l'unico modo per evitare l'isolamento è il mantenimento della maschera: quando un personaggio cerca di rompere la forma, o quando ha capito il gioco, viene allontanato, rifiutato, non può più trovare posto nella massa in quanto si porrebbe come elemento di disturbo in seno a quel vivere apparentemente rispettabile. Tutta l'esistenza si fonda sul dilemma: o la realtà ti disperde e disintegra, o ti vincola e ti incatena fino a soffocarti.

Per analizzare l'opera pirandelliana è innanzitutto importante capire il concetto di umorismo, perché questo diventa lo strumento con cui Pirandello rappresenta, nella narrativa o sulla scena teatrale vicende e personaggi. Per una maggiore chiarezza, serviamoci delle stesse parole che Pirandello usa nel Saggio sull'umorismo del 1908:

<<Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca (composizione di olii vari), e poi tutta goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi cosi come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario che mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico.>>

L'umorismo è, quindi, un processo di rappresentazione della realtà, delle vicende e dei personaggi; la riflessione non è un elemento secondario, ma assume un ruolo di notevole importanza, perché è solo attraverso di essa che possiamo capire la vicenda che si svolge sotto i nostri occhi.

Da questa scomposizione nasce quello che Pirandello chiama avvertimento del contrario.

Con l'umorismo nasce una nuova visione della vita, senza che si crei un particolare contrasto tra l'ideale e la realtà, proprio per la particolare attività della riflessione, che 'genera il sentimento del contrario, il non saper più da qual parte tenere'. Il sentimento del contrario distingue lo scrittore umorista dal comico, dall'ironico, dal satirico, perché assume un atteggiamento diverso di fronte alla realtà:

  • nel comico manca la riflessione, per cui il riso, provocato dall'avvertimento del contrario, è genuino, ma sarebbe amaro in presenza della riflessione, perché questa toglierebbe il divertimento e porterebbe alla coscienza del dramma della condizione umana;
  • nell'ironico la contraddizione tra momento comico e momento drammatico è soltanto verbale: se fosse effettiva non ci sarebbe più ironia e la 'battuta' perderebbe la sua naturalezza, che è quella di dire l'opposto di quel che si pensa e che si vuol far capire, ma facendo intuire comunque la verità;
  • nel satirico con la riflessione 'cesserebbe lo sdegno o, comunque, l'avversione della realtà che è ragione di ogni satira'; la satira, infatti, mette in evidenza i difetti degli uomini, cogliendone gli aspetti più negativi e turpi, con l'intento di riportare gli uomini sulla retta via.

Pirandello guarda dentro la vicenda e i personaggi, ed agisce come il bambino che rompe il giocattolo per vedere come è fatto dentro. Nell'umorismo, quindi, distingue un aspetto comico che deriva dall'avvertimento del contrario e un aspetto umoristico o drammatico che deriva dal sentimento del contrario; il primo è esterno all'uomo e facilmente visibile, per cui ciascuno è capace di coglierlo; il secondo è invece interno all'uomo, ma non può essere colto se non attraverso la riflessione.

Per questo motivo, la situazione di Belluca nella novella Il treno ha fischiato è comica per la massa che ride delle stramberie del personaggio, che riscopre la vita dopo anni in cui è vissuto come un vecchio somaro, ubbidiente e sottomesso, preso in giro da tutti, e drammatica per il suo vicino di casa, che vede nella reazione di Belluca e nelle sue 'stramberie' l'improvvisa ribellione alla forma, alla maschera imposta dagli altri e dal destino, ed infine alla alienazione nella quale lo costringono le norme e le forme della società

Da quanto abbiamo detto a proposito dell'umorismo, appare chiaro che, attraverso la riflessione, giungiamo a cogliere l'aspetto normale o anormale della vita e degli atteggiamenti dei personaggi.

Generalmente, intendiamo per normalità, secondo la massa, tutto ciò che viene fatto e pensato in basi a leggi, norme e consuetudini che l'uomo ha creato per regolare la propria vita e soprattutto per perpetuare un determinato stato di cose, una determinata condizione sociale, economica, spirituale, materiale, ecc. È, quindi, anormale, sempre secondo la massa, tutto ciò che non segue le regole prescritte.

Secondo Pirandello, è normale non ciò che risponde alle norme, ma ciò che da ciascuno viene fatto seguendo i propri intimi bisogni, e sono questi bisogni che portano l'uomo sulla via del progresso.

Il personaggio tende a ribellarsi quando si rende conto che l'osservanza delle norme gli impedisce di vivere una vita decorosa e di migliorare la propria condizione.

L'anormalità per Pirandello, è il seguire ciecamente le norme anche quando queste impediscono all'uomo di vivere, permettendogli solo di esistere.

La reazione, scatenata da un accidente qualsiasi, come il fischio del treno, lo strappo di un filo d'erba, una frase ingenuamente pronunciata, l'inciampare contro un sassolino per strada, serve a portare l'individuo in una dimensione più umana, perché libera da condizionamenti esterni.

La ribellione si realizza in due modi:

  1. circoscritta al personaggio senza coinvolgimento diretto di altre persone se non in modo occasionale, come il caso di Belluca ne Il treno ha fischiato, nel quale la reazione contro il capoufficio rappresenta la reazione contro la situazione generale negativa;
  2. coinvolgendo direttamente la massa, come nella novella La patente, nella quale Chiàrchiaro, ritenuto da tutti uno iettatore, perde il lavoro e la possibilità di vivere una vita decorosamente accettabile, spingendo la propria ribellione fino a sfruttare la stessa superstizione popolare che lo ha costretto all'isolamento.

Per capire l'opera pirandelliana, e il fondamento stesso della vita sociale della prima metà del Novecento, bisogna, quindi, ribaltare il concetto di normalità e anormalità, nel quale la normalità pirandelliana non è solo il banale rifiuto della norma, ma il suo superamento, che ha come obiettivo i grandi valori umani, che sono i veri bisogni da soddisfare.

Quando interviene l'accidente che libera il personaggio, tutti pensano che la diversità di comportamento sia dovuta all'improvvisa alienazione mentale del personaggio, a una sua forma di follia che scatena in tutti il riso, perché non è comprensibile da parte della massa. Solo la follia permette al personaggio il contatto vero con la natura (quel mondo esterno alle vicende umane nel quale si può trovare la pace dello spirito) e la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire se stessi. Ma questi contatti sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili perché troppo forte il legame con le norme della società.

Così accade a Enrico IV, un nobile del primo Novecento fissato per sempre nella rappresentazione del personaggio storico da cui prende il nome, dopo aver battuto la testa per una caduta da cavallo. In Enrico IV troviamo l'esasperazione del conflitto fra apparenza e realtà, fra normalità e anormalità, fra il personaggio e la massa, fra l'interiorità e l'esteriorità. Per superare questo conflitto il personaggio tende sempre più a chiudersi in se stesso, per cui l'anormalità diventa sistema di vita.

La guarigione di Enrico IV dalla pazzia, improvvisa e fisicamente inspiegabile, proietta il personaggio nelle vicende quotidiane, ma lo rende anche consapevole di non poter più recuperare i 12 anni vissuti 'fuori di mente', per cui non gli resta che fingersi ancora pazzo dopo aver constatato che nulla era rimasto ormai della sua gioventù, del suo amore, e che molti lo avevano tradito.

Enrico IV assume una forma immutabile agli occhi di tutti, ma non di se stesso, rifugiandosi nel già vissuto e fingendo di essere ancora pazzo.

Importante è lo stile di cose col quale Pirandello dà preminenza ai fatti e ai personaggi da rappresentare: le parole di per sé sono vuote, sono come abiti appesi nel guardaroba che non hanno sostanza né importanza, se non quando noi li abbiamo indossati. Sono fantasmi senza concretezza né realtà, che acquistano un significato solo quando siamo noi a darglielo.

L'impossibilità di trovare una parola che abbia per tutti il medesimo significato insieme a una realtà che sia valida e uguale per tutti, senza possibilità di incomprensioni presenti o future con il sopraggiungere della riflessione, crea una situazione di solitudine e di incomunicabilità per cui ogni personaggio è irrimediabilmente solo: la parola, come il gesto, diventa priva di significato universale, perché ognuno le dà il suo significato.

Di qui la necessità di trovare e di mettere in atto uno stile di cose, in cui le parole possano acquistare un più realistico ed oggettivo significato proprio attraverso oggetti, sentimenti, pensieri facilmente riconoscibili da parte di tutti.
Per far raggiungere con maggiore immediatezza al lettore la comprensione di certe situazioni, Pirandello accentua nella descrizione i lati grotteschi:

È un grottesco che richiama alla memoria una certa forma di verismo, con la differenza che mentre nel verismo si mettevano in evidenza gli aspetti esteriori, che avrebbero potuto essere migliori in presenza di una migliore condizione sociale, nella quale sparisce qualsiasi forma di bestialità, Pirandello mette in evidenza gli aspetti interiori e le tragiche conseguenze derivate dalle piccole cause. Proprio attraverso la parola i personaggi cercano di uscire dal doloroso isolamento nel quale sono costretti dall'impossibilità di capire e capirsi.

Per questo il dialogo diventa la forma espressiva più importante, ponendo in secondo piano la forma descrittiva e rappresentativa, anche se si svolge con molte difficoltà, sia perché, come abbiamo visto, alle parole ciascuno dà un suo significato, sia perché nel dialogo ognuno cerca di nascondere i lati più nascosti del proprio animo, le sensazioni che non si ha il coraggio di confessare nemmeno a se stessi.

In molte novelle prevale una sorta di monologo del personaggio, che espone le sue idee con un linguaggio discorsivo che monopolizza l'attenzione generale, cercando di coinvolgere anche il pubblico, e quindi i lettori, ai quali si rivolge direttamente, senza, però, aprire con essi un vero dialogo.

Per evitare che i personaggi cadano nel vicolo cieco dell'incomunicabilità, Pirandello inventa strategicamente la figura del personaggio al di fuori dell'azione che introduce la riflessione e crea un contatto tra i personaggi e i lettori, tra gli attori e il pubblico spettatore, per far diventare tutti partecipi e protagonisti dello stesso dramma, in quanto tutti vivono la stessa situazione di solitudine.

La riflessione serve al personaggio-fuori-azione (che spesso, ma non sempre, è lo stesso Pirandello) a mettere a nudo le contraddizioni del mondo nel quale vivono i protagonisti dell'azione e quella condizione di solitudine che è già dentro il mondo moderno, fatto di macchine, che porta a un vivere falsato nella sua naturalità e genera nell'uomo un senso d'angoscia irrisolvibile perché lo circoscrive nell'alienazione.

L'esempio più appropriato della disgregazione dell'io e del relativismo pirandelliano che evidenzia il contrasto tra apparenza e realtà è il romanzo "Uno, nessuno e centomila".

Il protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre di non essere per gli altri quell'UNO che è per sé. La moglie Dida, svelandogli che il suo naso pende verso destra, ha squarciato tutte le sue certezze, avviando una riflessione sull'intera esistenza. Ecco visualizzato lo sbriciolamento del reale che da univoco (UNO) diventa poliedrico (CENTOMILA) e sfocerà nel nulla (NESSUNO).

Vitangelo allo specchio, simbolo dell'io davanti a se stesso, scopre di vivere senza 'vedersi vivere'. Si getta quindi all' inseguimento dell' estraneo inscindibile da sé che gli altri conoscono in centomila identità differenti. Il protagonista si stacca dal proprio 'fantoccio vivente', per se stesso è ormai nessuno: la distruzione dell'io è consumata.

Maschera creata dagli altri e fantoccio della moglie, è il 'caro Gengè', amato teneramente da Dida fino a trasformare Vitangelo in un'ombra vana. Il padre 'banchiere - usuraio' lo ha ingabbiato nel ruolo di 'buon figliuolo feroce': ecco un'altra marionetta nel 'gioco della parti' della vita: la gente lo vede come uno spietato usuraio.

L'aspirazione di Vitangelo è rimanere al di là dello specchio, essere un 'Un uomo così e basta'. E' possibile? Egli, alla ricerca di una via di fuga dai centomila estranei a sé che vivono negli altri, decide di uccidere le sue 'marionette' ma, per aver voluto dimostrare di non essere ciò che si credeva, è ritenuto pazzo: la gente non vuole accettare che il mondo sia diverso da come lo immagina. Non c'è via di fuga: Vitangelo scopre che le marionette non si possono distruggere.

La decisione di vendere la banca del padre per uccidere l'usuraio Moscarda, fa sorgere una volontà che lo fa essere Uno. Questo atto, per tutti assurdo, crea attorno a lui un vuoto in cui si inserisce Anna Rosa, donna dalla psiche molto simile alla sua: frantuma la propria identità atteggiandosi davanti allo specchio, vorrebbe fermare la vita per conoscersi.

Vitangelo, presentandosi come una persona completamente diversa dal Moscarda che tutti hanno davanti agli occhi da anni, perderà la moglie, la ricchezza e la 'faccia', ma saprà trovare nell'ospizio per poveri da lui stesso fatto costruire, il proprio e vero io che gli era stato negato.

Egli, avvolto nella coperta verde 'naufraga dolcemente' nella serenità della natura, senza passato né futuro. Estraniarsi da sé è l'unica via per fuggire alle centomila costruzioni che falsificano la realtà e la imprigionano in un nome immutabile.

La vita 'non conclude' ed è un divenire palpitante: meglio, dunque, essere nessuno poiché l'essere uno si è rivelato un'illusione di fronte allo svelarsi delle centomila maschere.

Uno dei drammi del relativismo psicologico, sopraccitato, è: Cosi è (se vi pare), che venne scritta nel 1915 a ridosso dei grandi successi teatrali dell'autore siciliano, quali Enrico IV, Sei personaggi in cerca d'autore, Il gioco delle parti. Essa rappresenta come l'anticipazione sommessa della rivoluzione artistico-concettuale che egli avrebbe operato in vario modo in ambito narrativo e drammaturgico.

Tale testo teatrale, definito dallo stesso Pirandello una 'parabola in tre atti', possiede solo in forma ibrida le caratteristiche della commedia propriamente intesa, venendo a mancare al suo interno quella delineazione netta di contenuti che, seguendo l'itinerario classico della premessa, dell'elemento nuovo modificatore, dovrebbe normalmente condurre ad una conclusione definita e ordinatrice degli eventi narrati: il lieto fine.

Cosi è (se vi pare) è irriducibile a questa schematizzazione e diviene legittimata, dunque, l'espressione 'parabola', che etimologicamente si rifà al verbo 'parabolare', ovvero parlare, che già dice dell'identità dialogica di quest'opera.

Strutturalmente l'opera si divide in tre atti a loro volta scanditi da scene.

Nell'atto 1°, che si svolge all'interno di un salotto di comunissimo arredo, sono individuabili quattro nuclei tematici, sintesi quasi della poetica del nostro Autore. Il primo è la rappresentazione della molteplicità della percezione del reale, causata dal divenire dell'essere apparente, che è dunque il secondo bandolo dipanabile dalla matassa dialogica dei personaggi. Questo fluire dell'essere non permette un' afferrabilità colta nel presente e a tal proposito la terza tematica è data dalla mancanza di un'oggettività coglibile, premessa che apre il paradosso della costruzione di una verità personale, che, come quarto elemento, introduce l'irriducibilità della convinzione che ognuno si fà da sé. Alla fine del 1° atto, così come degli altri, troveremo una risata sarcastico-drammatica e conclusiva dell'intera opera. Essa, di per sé, ha un valore 'burlesco' caratterizzato da un riso che non è più quello della commedia tradizionale dove si ride per reattività ad un elemento dato, ma è il nuovo riso dell'uomo novecentesco, in cui la burla è sancita da un paradosso tragico che è il non- dato, capace di essere motore di una 'farsa'. I confini tra tragico e comico dunque si rarefanno.

Il 2° atto si caratterizza come 'indagine', come tentativo di acquisizione di quegli elementi che possano dissipare i dubbi introdotti nell'atto precedente. L'operare e io muoversi dei personaggi è tutto teso al raggiungimento di una chiarificazione, di una verità, che fuor di dubbio deve esserci. Ma un solco incolmabile divide i personaggi, una lacerazione che viene incarnata da Laudisi, portatore della nuova morale anti-borghese che scardina, introduce il dubbio, mina dalle fondamenta le ragioni del raziocinante ipotizzare dei personaggi e tenta di arenare l'azione fermandola sulla conclusione che ognuno si è già costruito nella mente. Nuclei tematici sono dunque l'insensatezza di un'indagine cui non si può rispondere con una verità unica, nonché la necessità di arrestarsi sulla propria verità, sancendo il relativismo conoscitivo. Il dato è assurdo, l'Ottocento e le sue certezze sono sbaragliate. L'ambientazione accompagna armonicamente il dissidio messo in scena. Quest' atto si svolge nello studio del consigliere Agazzi; integralmente borghesi sono gli elementi scenici della stanza rappresentata che diviene il «quartiere di congiura» dove avrà luogo un'inquisizione accanita.

Ogni particolare può connotarsi semioticamente, come ad esempio la porta aperta nell'attesa che entrino i personaggi-teste, porta che Laudisi vorrebbe vedere chiusa, se è vero che ogni personaggio pensa di avere acquisito la verità. La porta rimane aperta, perché nessuno ha il coraggio della certezza ed essa si carica di una valenza simbolica, coma rappresentare ciò su cui un ultima parola non può essere detta. Anche lo specchio, presente sulla scena, serve come elemento sdoppiatore e davanti ad esso si recita una parte che si svilupperà ampiamente in Uno, nessuno e centomila (1926).

Ambientazione e caratterizzazione fisica e sociale dei personaggi giocano di concerto, in quanto il formalismo elegante degli arredi, quasi tetri nella loro fissità trova una piena corrispondenza nella essenza dei personaggi, in una ricercatezza artificiosa. Le didascalie a tal proposito, con indicazioni agili e al contempo non privi di precisione, connotano formalisticamente i personaggi e dettano il tenore dell'azione e la concitazione della recitazione.

Di quattro tipi sono i personaggi rappresentati. Da un lato abbiamo la schiera degli 'indagatori borghesi', dall'altro i sottoposti a giudizio, il signor Ponza e la signora Frola (a parte si trova il signor Laudisi, che è la coscienza stessa dell'Autore) e come chiave di volta c'è l'assenza della signora Ponza, personaggio 'decisivo', che è come l'incarnazione stessa del contenuto dell'opera. La sua presenza è definita dall'assenza e dalla non-identità. La caratterizzazione del personaggio fondamentale è dunque, per la prima volta in un'opera, mancante. Assenza e vacuità la connotano.

Il 3° atto è come l'estremo tentativo dell'affermazione di una verità quale che sia, imposta casualmente da uno qualunque dei personaggi, nello specifico si tratterebbe del cameriere che, a dire di Laudisi, dovrebbe trasformare l'ambiguità dei dati in certezza che soccorre al bisogno di una verità categorica.

S'inscena dunque la falsa coscienza borghese di risolvere tutto tramite un'autorità. L'identificazione sociale di un Prefetto, posto a capo delle indagini, mette in risalto la ridicolezza delle convinzioni borghesi. La carica ed il ruolo sociale del Prefetto, infatti, risulteranno, nell'economia del processo, assolutamente inutili.

Laddove altre opere avrebbero condotto alla conclusione, si dipanano infinite vie possibili; il teatro, la scena ed il testo si sfondano per consegnarsi agli spettatori: ognuno scrive il proprio finale perché colei che avrebbe dovuto portare la verità si vela annunciando la propria nullità. La conclusione sancisce lo sgretolamento di tutto l'affaccendarsi precedente. Così è (se vi pare) in tal modo segna la strada dello sconvolgimento dei canoni classici teatrali. Sotto le false spoglie di una commedia normale, nasconde al suo interno una problematicità tutta nuova, riscontrabile, non da ultimo, dalla lingua, da certi ritorni lessicali che girano intorno ai campi semantici del dubbio, della pazzia, della verità. Le frasi mancate, l'uso accentuato e in rilievo dei pronomi indicano anch'essi un relativismo serrato in una solitudine senza mezze misure. Quest' opera, mostra, infine, un mondo che a poco a poco si rivela nella sua frammentarietà e che ha bisogno di specificare l'io, il tu, l'altro da sé in rapporto a verità che si rivelano contraddittorie. La rappresentazione di Così è (se vi pare), che si colloca in uno dei momenti più tragici della storia europea e mondiale, porterà dunque ad una rottura con il compromesso e l'equivoco borghese che la tradizione ottocentesca aveva avallato. Cerebralismo e impotenza umana si concordano per innalzare il vessillo di tutto un secolo, per rivelare la menzogna: «Per me, io sono colei che mi si crede [.] ed ecco, o signori, come parla la verità! Siete contenti?». Nell'ultimo istante, così si conclude la messa in scena, un amaro sarcasmo, poi di nuovo lei, la 'risata' disperante che sembra essere la responsabile dei momenti più cupi del secolo trascorso di cui Pirandello rimane uno dei più lucidi e, a tratti, più disperati conoscitori.

Tra gli avvenimenti importanti nella vita di Pirandello, bisogna anche ricordare l' adesione nel 1924 al Partito Nazionale Fascista (PNF) con un telegramma indirizzato a Mussolini: ' Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio per dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l'Eccellenza vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregerò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario'.

Anzitutto occorre dare uno sguardo d'insieme alla situazione politica, sociale, economica e psicologica italiana alla fine del primo conflitto mondiale che condusse all'avvento del regime fascista.

Il soldato della prima guerra mondiale fu un combattente, impegnato in un conflitto radicalmente nuovo e diverso rispetto a qualsiasi altro delle epoche precedenti, soprattutto il modo in cui fu combattuta, in principal luogo, sul fronte occidentale e su quello italiano, che furono teatro dello scontro tra le principali potenze europee dell'epoca, da una parte la Francia, l'Inghilterra e l'Italia, dall'altra la Germania e l'Austria - Ungheria, che combatterono la guerra più statica nella storia dei conflitti bellici, caratterizzata dall'immobilità fisica delle truppe e dal persistente equilibrio delle forze in campo. Diversamente da quanto era accaduto in passato, i combattenti non si affrontarono quasi mai in campo aperto, ma combatterono la battaglia dietro le rispettive trincee. La difficile conquista delle postazioni nemiche trasformò, così, il conflitto in una guerra di logoramento, con lo stabilizzarsi del fronte occidentale lungo trinceramenti ininterrotti dal Mare del Nord al confine svizzero e con il blocco di quello italiano lungo il corso dell'Isonzo e sulle alture del Carso.
L'aver vissuto in prima persona questa assurda tragedia, l'aver visto uccidere uomini in massa e l'aver dovuto subire ordini che portavano inevitabilmente alla morte, tutto questo influì in modo indelebile sulle coscienze dei veterani.

Se fosse possibile entrare nella mente di questi reduci, cosa che parzialmente possiamo fare leggendo i loro diari e le loro testimonianze, ci accorgeremmo che molti di essi non provavano più paura di fronte alla morte, non perché dotati del coraggio degli eroi ma perché alienati dalla realtà, come automi abituati a combattere senza porsi domande, ci si può rendere conto che per i reduci la morte non costituiva più il fatto eccezionale e unico nella vita di un uomo, ma un episodio consueto a cui occorreva abituarsi.
Da questo punto di vista è molto interessante osservare i comportamenti e i proclami degli ARDITI, una formazione di ex combattenti stabilitasi tra coloro che avevano fatto parte di reparti speciali utilizzati per missioni particolarmente rischiose nella grande guerra.
Ritornati in patria, al sopraggiungere della pace, gli arditi si dimostrarono insofferenti verso le regole del vivere civile e tentarono di conquistare attraverso i mezzi violenti che gli erano propri quei ruoli di prestigio a cui si ritenevano destinati per aver combattuto in guerra.

Per molti soldati però, l'esperienza della morte di massa si incise come un monito indelebile contro ogni pratica di guerra e contro ogni esperienza di violenza, dando origine ad un pacifismo diffuso sia tra i vincitori che tra i vinti.

Sul piano economico, i problemi italiani che si manifestarono alla fine della prima guerra mondiale, sono dovuti alla necessaria riconversione delle industrie di guerra ad industrie di pace. Non meno importante, è il fenomeno della svalutazione della lira, provocata in particolar modo dall'aumento della quantità di moneta cartacea circolante, accompagnata dall'aumento dell'inflazione in quanto, per ripagare le spese di guerra e per ripristinare l'equilibrio, lo stato necessitava  di finanziamenti e chi ne faceva le spese era il popolo sottoposto a nuove tasse.

Di fronte a un repentino cambiamento della struttura economica e sociale, lo stato liberale non seppe far fronte a queste trasformazioni. Possiamo perciò ritenere la crisi economico-finanziaria una tra le cause storiche che permisero il sorgere di una dittatura in Italia e affermare, in conclusione, che il bilancio dello stato era in deficit.

Nel mondo civile, il reduce, ritornato in patria, anche se da vincitore come nel caso italiano, anziché trovare accoglienza e onori, si ritrovava emarginato in una società che di fatto, aveva imparato a vivere senza di lui e che anzi guardava con una certa preoccupazione la smobilitazione dell'esercito: in primo luogo le donne, che erano state chiamate nelle fabbriche per sostituire i soldati, non volevano abbandonare l'impiego conquistato (con le possibilità di indipendenza che esso offriva), al tempo stesso la riconversione dell'industria bellica imponeva una riduzione del numero degli impiegati in settori strategici come quello siderurgico e meccanico.

Gli ex-combattenti furono profondamente delusi, inoltre, a causa delle mancate promesse di terre e ricchezze, mai distribuite. Inoltre, le difficoltà economiche che scaturirono dalla guerra, si riversarono soprattutto sui contadini meridionali e sul proletariato. Furono queste due classi sociali a scatenare nel periodo del primo dopoguerra acute lotte sociali: i contadini occupavano le terre e gli operai, attraverso l'occupazione delle fabbriche, manifestavano il loro malessere e ne rivendicavano la gestione, inoltre anche la piccola borghesia rifiutava la sua condizione.

La crisi a livello politico è caratterizzata dalla crisi dello stato liberale, il quale non riesce più a guidare il paese e a mediare i conflitti sempre più gravi all'interno delle varie classi sociali.

Il partito socialista, che nel primo dopoguerra accrebbe impetuosamente il numero di iscritti e che moltiplicò i suoi consensi nelle elezioni politiche del '19, accusò la classe dirigente di aver condotto il paese in un conflitto inutile e devastante per le sorti della nazione, teoria che risultò difficile da accettare alla gran massa dei reduci, in quanto finiva per sminuire e rendere inutile la guerra che essi stessi avevano combattuto.

Un più ampio consenso incontrarono, invece, le critiche mosse al governo dai quei movimenti e da quelle personalità che maggiormente insistevano sulla vittoria tradita (o vittoria mutilata) e sulla corruzione morale della classe politica che approfittava del sangue dei caduti per arricchirsi e prosperare.

Particolarmente amareggiata era la destra "imperialista", la quale rivendicava la sovranità anche sulla Dalmazia e su Fiume, proprio a causa della "vittoria mutilata". Paradossalmente, avevamo vinto la guerra, ma avevamo perso la pace. Quest' espressione era stata coniata dal poeta-soldato Gabriele D'Annunzio, il quale, il 12 settembre 1919, a capo di un esercito composto da militari ed ex-militari, alimentati da un forte sentimento nazionalista, occupò la città di Fiume.

In realtà, Fiume non faceva parte del pacchetto delle rivendicazioni italiane presentate a Londra nel 1915, ed accettate dagli alleati, quando l' Italia decise l' entrata in guerra contro gli imperi centrali. Il pacchetto prevedeva l' assegnazione all' Italia del Trentino sino al Brennero, di Trieste e le Alpi Giulie, di tutta l' Istria, di quasi tutta la Dalmazia, Valona ed il suo entroterra albanese ed il Dodecanneso. A Fiume, nessuno aveva pensato, anche perché la sua comunità italiana aveva ben pochi legami con la madrepatria; ma l' occupazione della città da parte delle truppe slave, aveva indotto gli italiani del Consiglio Nazionale di Fiume a formulare un appello al primo ministro Orlando, incaricato di presiedere ai trattai di pace a Versailles, che lo ricevette in un momento particolarmente delicato: la conferenza di pace, doveva fare i conti con l' intransigenza del Presidente americano Wilson, che non accettava le clausole del Patto di Londra.

Ma Orlando e Sonnino, il ministro degli esteri, si trovavano pressati dall' opinione pubblica, che dava segni di una pericolosa agitazione e tuonava contro la vittoria mutilata imposta dal Presidente americano.

A Versailles le discussioni diventarono dei veri e propri testa a testa senza vie d' uscita, tanto che si decise l' intervento di altre Potenze, ponendo Fiume sotto il controllo di una guarnigione militare interalleata, diretta, però, dal Generale italiano Grazioli.

Umiliato e scoraggiato, Orlando tornò a Roma il 19 giugno del '19. Il suo successore, Francesco Saverio Nitti, si trovò così tra le mani la patata bollente di Fiume.

Intanto, come dicevamo, D' Annunzio tuonava, sulle piazze, contro la vittoria mutilata ed intanto gli avvenimenti a Fiume precipitavano: il 6 luglio, in uno dei tanti scontri che si verificavano tra irredentisti e truppe alleate, nove soldati francesi, vennero linciati; Nitti si vide quindi costretto ad accettare una commissione d' inchiesta, che decretò lo scioglimento del Consiglio Nazionale, l' allontanamento del Generale Grazioli e la costituzione di un corpo di polizia alleata sotto controllo inglese.

Host Venturi, capitano del gruppo degli Arditi e capo delle organizzazioni irredentiste dell' Istria e della Dalmazia, mobilitò un corpo paramilitare ed inviò un messaggio a D' Annunzio, invitandolo ad assumere il patronato della causa di Fiume italiana. La scelta di Venturi fu, come dimostreranno gli eventi, felice, perché la popolarità del poeta-soldato, era tale da poter fare da catalizzatore per le forze più disparate (come, in effetti, avvenne).

Il governo, non seppe impedire questo atto di forza, che minava gravemente l'autorità dello stato italiano e la sua credibilità internazionale. Contemporaneamente, all'interno del paese, le forze antidemocratiche esaltavano l'impresa di D' Annunzio, che incontrava crescente favore presso gli ambienti militari. La questione fiumana non fu risolta dal governo Nitti, bisognerà infatti aspettare che Giolitti, un anno dopo, firmi il trattato di Rapallo con la Iugoslavia, il quale sanciva l'assegnazione dell'Istria all'Italia, della Dalmazia alla Iugoslavia e rendeva Fiume una città libera e indipendente sotto la tutela della società delle nazioni. Tuttavia questo accordo non fu accolto da D'Annunzio e dai nazionalisti, e Giolitti fu costretto a liberare Fiume con la forza.

Si avvicina inarrestabile il regime fascista.

La prima origine di questo movimento risaliva al marzo del 1919, quando Benito Mussolini, un ex leader del partito socialista espulso per le sue posizioni interventiste, fondava i fasci di combattimento a Milano, un movimento che riuniva ex-combattenti, ex-sindacalisti rivoluzionari ed ex-repubblicani.

In base al programma di San Sepolcro, i fasci si presentarono alle elezioni del novembre del 1919 ottenendo 5000 voti e senza conseguire alcun seggio.


Il programma con il quale il movimento fascista si era presentato alle elezioni era composto dai seguenti punti:

Abolizione del senato di nomina regia (i deputati erano eletti dal popolo; i senatori erano scelti dal re);

Giornata lavorativa di 8 ore;

Assegnazione di terre non coltivate a cooperative di contadini;

Imposta straordinaria sul capitale;

Sequestro dei beni delle corporazioni religiose;

Scuola laica.


In questo programma si comprendeva l'ispirazione violentemente antisocialista e antioperaia che poi si attuò nell'azione politica.

Dopo l' insuccesso elettorale del '19, nacque un forte fascismo 'agrario' e lo squadrismo. Gli agrari appoggiavano e finanziavano le 'squadre d'azione' fasciste che giravano per colpire e ridurre al silenzio i sindacati, le associazioni dei braccianti e le organizzazioni socialiste.

Nel 1921, con le elezioni politiche di Maggio, i liberali scelsero di allearsi con il movimento di Mussolini per riuscire a fronteggiare i due grandi partiti di massa: socialisti e cattolici. A capo del partito liberale c'era Giolitti che in realtà sperava di poter poi riassorbire il fascismo riducendone i poteri. In questo modo però viene, in sostanza, legittimato il Partito fascista. Infatti entrarono nel parlamento ben 35 deputati fascisti tra cui lo stesso Mussolini.

I fascisti si presentavano come soluzione contro il 'pericolo rosso' per giustificare la loro azione e per accrescere l'area dei consensi. Il governo liberale entra, così, in crisi. Nel giugno del 1921, Giolitti si dimette dalla presidenza del consiglio, ormai immerso in una situazione di crescenti scontri di piazza, illegalità e violenza. Il movimento fascista, ormai forte, si trasformò nel novembre in Partito Nazionale Fascista.

Il re, dopo una breve crisi incaricò Luigi Facta di formare un nuovo governo. Egli, a capo di una coalizione di liberali e popolari mantenne il governo fra molte difficoltà fino all'ottobre del1922.

Poiché né i Socialisti italiani furono in grado di rimanere uniti, né i cattolici e i liberali riuscirono a trovare un punto d'accordo, nel 1922, quando era in atto il congresso di Napoli del partito nazionale fascista, fu organizzata una 'marcia su Roma' che costrinse il re e il parlamento ad accogliere le richieste fasciste.

Il presidente del consiglio chiese al re di far intervenire l'esercito, ma il re per paura che l'esercito non obbedisse o che scoppiasse una guerra civile, rifiutò.

Facta, del tutto impotente e non riuscendo a fronteggiare la situazione, si dimise.

Il 30 ottobre, infine, il re incaricò Mussolini di formare un nuovo governo. Nasceva, così, una coalizione formata da liberali, cattolico-popolari e fascisti.

Nel febbraio 1923 il Consiglio Nazionale dell'ANC (Associazione Nazionale Combattenti) fece atto di adesione al governo, offrendo la propria collaborazione e sciolse le diverse federazioni di ex-combattenti per lasciare il posto a quelle fasciste. Mussolini ricambiava con un decreto del 24 giugno 1923 che istituiva l'ANC come ente morale, dando il riconoscimento ufficiale alla sua attività patriottica.

Dall'ottobre del 1922, Mussolini iniziò un'opera di rafforzamento del potere fascista. Nel dicembre venne istituito il Gran Consiglio del fascismo, un organo di dirigenti del partito fascista, con il compito di elaborare le linee generali della politica fascista.

Nel gennaio venne fondata la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nel tentativo di legalizzare lo squadrismo che però, rappresentava sempre una forza armata di parte.

Mussolini mirava ad ottenere l'appoggio della classe dirigente, economica e politica.

Molte furono le riforme apportate dal nuovo governo, ad iniziare da una nuova politica economica che aboliva il monopolio statale delle polizze vita, da una riduzione del carico fiscale sulle imprese ed infine Mussolini decise di salvare l' Ansaldo e il Banco di Roma attraverso il denaro pubblico. Fece attuare una nuova riforma scolastica del ministro Giovanni Gentile che diede all'istruzione una configurazione nuova e coerente con gli ideali del fascismo e che contribuì, prevedendo l' insegnamento della religione nelle scuole elementari, a migliorare i rapporti con la Chiesa cattolica.

Nello stesso anno, i ministri popolari avevano lasciato il governo e venne introdotta una nuova legge elettorale: la legge Acerbo che prevedeva un forte premio alla lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa dei voti.

Nel 1924, sulle basi del nuovo sistema elettorale, si tennero le nuove elezioni politiche. I Fascisti raccolsero una schiacciante maggioranza.

Nella nuova Camera, il deputato del P.S.U. Giacomo Matteotti, benché continuamente interrotto dalle minacce e dagli insulti dei fascisti, contestò la validità delle ele­zioni e fornì un ampio e documentato elenco delle violenze com­messe dai fascisti nel periodo pre-elettorale: l'uccisione del candida­to del P.S.I. Antonio Piccinini, i bandi imposti ai candidati di oppo­sizione, le urne affidate in custodia alla Milizia fascista, i soprusi perpetrati durante le operazioni elettorali, il controllo esercitato su­gli elettori dai fascisti, che in taluni casi si erano spinti sino ad ac­compagnarli in cabina.

Matteotti tenne il suo discorso alla Camera il 30 maggio del 1924. Il 10 giugno fu aggredito a Roma da quattro figuri dello squadri­smo, rapito in automobile e trucidato. Il suo cadavere fu ritrovato solo il 16 agosto.

Era chiaro a tutti chi era stato, e l'unica forma di protesta fu la cosiddetta secessione  dell'Aventino, cioè l'uscita dal parlamento di tutte le opposizioni, ad eccezione dei comunisti.

La crisi che seguì fu ben presto superata anche grazie all' inerzia del re di fronte all' illegalità e all' opinione pubblica.

In un discorso in parlamento pronunciato il 3 gennaio del 1925, Mussolini annunciò la svolta autoritaria assumendosi la responsabilità di quanto accaduto.

Da quel momento le opposizioni iniziarono ad essere sistematicamente colpite da provvedimenti di polizia e giudiziari, i maggiori giornali italiani divennero 'fascistizzati'.

Infine, il regime fascista prese forma di uno stato totalitario.

Da questo momento iniziarono ad essere emanate leggi che miravano a rafforzare i poteri di Mussolini; cioè leggi che proibivano lo sciopero, che imponevano lo scioglimento di tutti i partiti ad eccezione di quello fascista, che istituivano un tribunale speciale per la sicurezza dello stato e che reintroducevano la pena di morte.

Muore definitivamente così lo stato liberale.

Nel 1929 la Santa Sede e il governo Italiano firmano i Patti Lateranensi. Questi patti furono unicamente un sistema, per Mussolini di potersi presentare come l'artefice di una storica riconciliazione fra lo stato e la chiesa, e, per la Chiesa, invece, rappresentava solo il legittimo riconoscimento della propria autorità sullo Stato ed, inoltre, era una garanzia di tutela della propria indipendenza.

Nello stesso anno ebbe inizio negli Stati Uniti,la grande crisi, che si diffuse in tutti i paesi capitalisti e, attraverso fasi di diversa intensità, si pro­trasse fino all'inizio della seconda guerra mondiale, concorrendo a determinarla.

Nell'immediato dopoguerra l'economia statunitense, stimolata dalla domanda che veniva dall'Europa per le necessità della ricostruzione, ebbe un forte incremento, cui nel biennio 1920-21 seguì una fase di recessione, determinata soprat­tutto dal fatto che, colmati i più gravi guasti della guerra, la doman­da europea era bruscamente diminuita.

L'enorme differenza fra la crescita dei profitti e del­la produzione, da una parte, e quella dei salari, dall'altra, accentua lo squilibrio nella distribuzione dei redditi.

La fortissima divaricazione fra profitti e salari derivava sostanzialmente dall'indebolimento dei sin­dacati,

Da questo primo quadro risulta con evidenza che la capacità d'acquisto della grande maggioranza della popolazione non cre­sceva affatto in misura proporzionale al crescere della produzio­ne.

A questi squilibri s'aggiungeva un fattore di preca­rietà d'origine psicologica: la convinzione cioè, lar­gamente avallata dalla propaganda, che si aprissero per tutti pro­spettive di rapido arricchimento. E, "rapido arricchimento", non si­gnificava, ovviamente, arricchimento legato al lavoro e alla produzio­ne ma arricchimento che viene da fortunate e «audaci» attività spe­culative.

La crisi dell'economia reale nel giro di pochi mesi si ripercuote sull'andamento della borsa. Coll'inizio di settembre, infatti, la corsa al rialzo cessa, e inizia un periodo di fluttuazioni prevalentemente orientate verso il ribasso.

La gente che ha investito in titoli comincia a sospettare che sia giunto il mo­mento di venderli "prima che sia troppo tardi". E anche la tenden­za a vendere avvalora se stessa, in quanto determina il decrescere delle quotazioni. Infine, dopo alcune settimane di oscillazioni e di incertezze, si diffonde il panico che scatena la corsa alle vendite: il 24 ottobre 1929 (giovedi nero) quasi tredici milioni di azioni ven­gono contrattate a New York a prezzi che ovviamente precipita­no. Poiché gli Stati Uniti erano diventati il centro di gra­vità del sistema economico mondiale (fatta eccezio­ne per la Russia Sovietica), la crisi si diffuse rapidamente in tutti i paesi capitalisti. I governi ricorsero allora ampiamente a dogane pro­tettive, o stabilirono semplicemente la quota massi­ma dei vari generi importabili, o ricorsero a scambi bilaterali di merci contro merci, che evocavano il baratto altomedievale. In tal modo, sia per la crisi sia per le misure stesse adottate per contrastarla, l'unità economica mondiale del primo Novecento fu completamente perduta, e venne sostituita da un mosaico di singo­le economie nazionalistiche in dura lotta fra di loro.

Il crack di borsa e la crisi economica squalificarono di fronte all'opinione pubblica americana quegli stessi ambienti capitalistici e finanziari che negli anni del boom erano stati considerati esemplari per competenza, onestà, spirito di iniziativa; e l'ondata di sfiducia si abbatté anche sul Partito repubblicano che di quegli ambienti era il più diretto rappresentante. Pertanto, nelle elezioni del 1932 il candidato re­pubblicano Hoover uscì nettamente sconfitto dal candidato democratico Franklin Delano Roosevelt, sostenuto da un ampio schieramento di forze nel quale i lavoratori erano largamente rappresentati.

Il New Deal (Nuovo Patto) che Roosevelt propone­va agli Americani non si ispirava a una precisa dot­trina economico-politica, più che altro, promosse una vasta massa di lavori pubblici (costruzione di case, strade, ponti eccetera). Fondò un Corpo Civile per la Conservazione della natura (Civilian Conserva­tion Corps), che impiegò circa 3 milioni di giovani in opere di rim­boschimento e simili. Fondò altresì l'assai più importante Tennes­see Valley Authority, che in una ventina d'anni portò a termine i colossali lavori per la sistemazione appunto della valle del Tennes­see, costruendo dighe, centrali, canali eccetera allo scopo di fornire grandi quantitativi di energia elettrica a costi più bassi di quelli praticati dalle industrie private.

Sussidi vennero concessi agli agricoltori perché di­minuissero la produzione o addirittura perché di­struggessero una parte dei raccolti, in modo da evitare la caduta dei prezzi: questi ultimi provvedimenti, in assoluto mostruosamen­te irrazionali, erano però coerenti col sistema e, uniti ad altre misu­re in favore dell'agricoltura, determinarono un rapido e notevole incremento dei redditi agricoli, facilitando anche la ripresa dell'in­dustria che ritrovò nelle campagne un più vivace mercato d'assor­bimento dei suoi prodotti.

All'Ente nazionale per la ripresa industriale (National Industrial Recovery Administration) fu affidato il compito di stimolare il rilan­cio delle industrie e di spingerle alla formulazione di un «codice di concorrenza leale» che consentisse di mantenere i prezzi ad un livello remunerativo: come contropartita di questo «calmiere rove­sciato», le aziende dovevano impegnarsi a corrispondere ai lavora­tori un minimo salariale e a non pretendere da loro più di un nu­mero pattuito di ore lavorative alla settimana. Il New Deal seppelli per sempre le tesi del liberismo puro e introdusse irreversibilmente la pratica dello Stato assistenziale (Welfare State), non solo in America, ma anche, in misura diversa, in tutti gli altri paesi capitalisti.

La ripresa economica, che era fra gli obiettivi fonda­mentali del Presidente, fu in buona parte attuata.

Negli anni '30, dopo lo scoppio della grande crisi economica mondiale, la politica fascista fondò il sistema corporativo, una legge che prevedeva la nascita di 22 corporazioni cioè associazioni rappresentativa sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, suddivise per settori produttivi che si proponeva di impedire alla radice i conflitti di lavoro e di promuovere il massimo livello di produzione. In realtà il corporativismo si tradusse in vantaggio per la classe imprenditoriale. 

Nel 1927 si realizza la rivalutazione della lira attraverso la 'quota novanta' (ossia il valore di cambio di 90 lire per 1 sterlina). Ovviamente tutto questo si accompagnò ad una riduzione dei salari dei lavoratori.

Negli anni '30 cresce, inoltre, l'intervento statale nell'economia.

Per ovviare al problema economico che causava la disoccupazione, viene attuata una politica di lavori pubblici (strade, ferrovie, edilizia..) e di bonifica di terreni agricoli malsani ed incolti. Con l'impiego di ingenti risorse finanziarie pubbliche, buona parte della disoccupazione poté essere assorbita e migliaia di ettari di coltura vennero messi a cultura.

Le conseguenze della grave crisi economica che nel 1929 aveva colpito tutto il mondo, furono risolte dal fascismo con la nascita di alcuni istituti statali: nel 1931 fu creato L'Istituto Mobiliare Italiano (IMI), con il compito di sostituire le banche in crisi nel sostegno alle industrie in difficoltà finanziarie, nel 1933 nacque l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) con il compito di salvare le industrie malate.

Oltre che istituti economici, nacquero anche istituti di previdenza sociale come l'Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INAIL), l' Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI).

Mussolini fece tutto questo per arrivare ad avere un sempre maggiore livello di consenso pubblico che esplose, nel 1935, con la conquista dell' Etiopia e la proclamazione dell' Impero.

Nonostante le sanzioni economiche disposte dalla società delle nazioni, la politica estera di Mussolini ebbe successo e ciò contribuì alla nascita di una politica dell'autarchia (autosufficienza economica)

Nel 1936 l'Italia interviene a fianco dei nazisti tedeschi nella guerra civile Spagnola, in appoggio ai franchisti contro la repubblica. Si posero così le basi per un'alleanza fra Mussolini ed Hitler che, nell'arco di pochi anni avrebbe portato i due paesi alla guerra Mondiale.

Una conseguenza tragica di quest' alleanza fu, nel 1938, l'emanazione di leggi razziali antisemite che, in sostanza proclamavano l' esistenza di una 'pura razza Italiana' d'origine ariana e gli ebrei furono privati, in quanto 'razza inferiore', di tutti i fondamentali diritti civili e politici e costretti all'esilio o all'emigrazione, ricordiamo, fra questi, il noto fisico Enrico Fermi.

Quando nel settembre del 1939 scoppiò la guerra, Mussolini dichiarò la non belligeranza che, pochi mesi dopo, fu rotta poiché il 10 Giugno 1940, l' Italia entrò in guerra con la dichiarazione di guerra alla Francia e all' Inghilterra.

Data la debolezza economica e militare, l'Italia poteva solo condurre una guerra di appoggio alla Germania, infatti, più volte i nazisti dovettero intervenire in soccorso all'esercito italiano.

I disastri della guerra mettono in crisi il regime fascista per cui cresce il dissenso operaio e imprenditoriale, in particolar modo, il movimento perde il consenso popolare, della borghesia e dei ceti medi; nel marzo del 1943 vi furono i primi grandi scioperi operai nelle fabbriche del Nord a cominciare da Torino con la FIAT.

Gli alleati anglo-americani sbarcano in Sicilia nell'estate del 1943 e incominciarono la graduale occupazione della penisola da sud verso nord.

Il gran Consiglio del fascismo destituisce Mussolini (almeno per levarsi le maggiori responsabilità) convocato poi dal re e arrestato, fu subito, nominato il nuovo capo del governo: il maresciallo Pietro Badoglio.

Il nuovo governo Badoglio continua la guerra a fianco dei tedeschi, solo nel settembre firma l'armistizio di Cassibile accettando la resa senza condizioni alle truppe alleate.

Il re ed il governo scappano protetti dagli anglo-americani, Mussolini viene salvato dai Tedeschi e, dalla Germania, guida un nuovo stato fascista - chiamata anche repubblica di Salò controllando solo l'Italia settentrionale che era ancora in mano ai tedeschi.

Nasce il movimento partigiano, cioè la Resistenza che combatte sulla linea Gotica. La direzione politica della Resistenza era stata assunta dai rappresentanti dei sei partiti antifascisti: comunista, socialista, democristiano, (l'erede del partito popolare), liberale, d'azione (nuovo partito di sinistra, ma non marxista) e la democrazia del lavoro (una nuova formazione). Questi partiti avevano costituito il Comitato per la Liberazione Nazionale (CLN) per guidare la resistenza antifascista e condurre il paese verso la democrazia.

Nell'aprile del 1944, il governo Badoglio e CNL si alleano con la 'Svolta di Salerno' e si apre così una nuova strada per l'unità nazionale.

Nel giugno Roma veniva liberata dagli alleati, Vittorio Emanuele 3°abdica, Badoglio si dimise.

Le difficoltà non erano finite perché lungo la linea Gotica i tedeschi erano irremovibili, ma, il 25 Aprile del 1945 l'ordine di insurrezione del CNL portò tutte le città ad essere occupate dai Partigiani. I tedeschi si arresero o si ritirarono mentre l'esercito di Salò era ormai dissolto. Mussolini venne arrestato e fucilato dai partigiani mentre tentava di fuggire in Svizzera.

Finiva così la guerra in Italia ed era imminente la fine anche in tutta l'Europa.



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