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PROTEZIONISMO E TRASFORMISMO: IL GOVERNO DELLA SINISTRA
"PAESE LEGALE" E "PAESE REALE"
Al di là della "questione ferroviaria", la caduta della Destra fu dovuta al fatto che quel raggruppamento politico non era più in grado di rappresentare adeguatamente il paese e gli interessi forti che emergevano nella sua classe dirigente. Uno stato accentrato, una rappresentanza politica ristretta, una cultura di governo poco attenta alle trasformazioni e alle richieste della società impedivano alla Destra una volta portata a termine l'impresa dell'unificazione nazionale, di candidarsi a guidare il paese in direzione dello sviluppo economico e civile.
La parola passava così alla sinistra, intorno alla quale si coagularono gli scontenti e glie esclusi della politica della Destra. In origine, la Sinistra rappresentava il filone democratico, mazziniano-garibaldino, uscito sconfitto dal processo di unificazione nazionale. Ma con il tempo, e soprattutto a partire dai primi anni '70, essa aveva assunto posizioni sempre meno radicali, rinunciando alla pregiudiziale repubblicana e alla rivendicazione di grandi riforme politiche e sociali: per effetto di tale lento mutamento, le barriere ideologiche fra Destra e Sinistra erano venute sempre più attenuandosi.
LE MOLTE ANIME DELLA SINISTRA
La cosiddetta "rivoluzione parlamentare" del 1876 portò alla guida del paese un raggruppamento politico composito, che esprimeva interessi e orientamenti politici differenziati. Esso raccoglieva il consenso di una parte del mondo imprenditoriale, della piccola e media borghesia settentrionale ma anche dei notabili e dei proprietari terrieri del Mezzogiorno.
Gli uomini che lo componevano erano: Depretis, Giuseppe Zanardelli, Francesco Crispi, Francesco De Sanctis.
In esso convivevano spinte di tipo progressista, che chiedevano una modernizzazione del paese e un ampliamento della rappresentativa politica, con altre di tipo conservatore, volte in primo luogo a una difesa degli interessi della proprietà latifondista meridionale, a un alleggerimento del carico fiscale sulla rendita agraria e a un aumento della spesa pubblica nel Sud, dove la sinistra raccoglieva oltre il 60% dei propri voti.
PROGRAMMI E REALTA'
Il programma della sinistra, esposto nel 1875 da Depretis in un celebre discorso a Strabella, prospettava una vasta riforma della vita del paese, con ampliamento del diritto di voto, decentramento amministrativo, istruzione obbligatoria, prelievo fiscale meno gravoso e sperequato. Le realizzazioni, limitate ai primi anni del lungo periodo in cui Depretis tenne il governo, furono importanti ma assai inferiori alle promesse.
Uno dei limiti principali nell'azione della sinistra fu che essa non riuscì, per la forza dei conservatori presenti al suo interno e per il moderatismo di Depretis, ad allargare veramente la base sociale su cui si reggeva il governo del paese e ad avviare un rapporto di tipo nuovo con le messe popolari. Benché varie e documentate inchieste parlamentari mettessero in luce l'arretratezza della società italiana e le difficili condizioni di vita del mondo contadino, la sinistra non avviò nessuna politica di legislazione sociale: la risposta dello stato di fronte alle rivendicazioni e agli scioperi fu generalmente repressiva.
LA VITA POLITICA E PARLAMENTARE NELL'ETA' DI DEPRETIS
Lo stesso ampliamento del suffragio non si risolse in un reale miglioramento della rappresentanza. La legge del 1882 concedeva il diritto di voto a tutti i cittadini di età superiore ai 21 anni che fossero in possesso del titolo di studio di seconda elementare o pagassero un'imposta di almeno 19.80 lire. Ma il diritto al voto era pesantemente condizionato dalle clientele, dall'affarismo, da forme di vera e propria corruzione che vedevano protagonisti i notabili locali. Per comprendere appieno questo fenomeno dobbiamo ricordare che in quel tempo non esistevano ancora partiti di massa e che i raggruppamenti politici erano costituiti di notabili che raccoglievano consenso su base personale, e molto spesso in ragione della loro capacità di ottenere a Roma provvedimenti favorevoli al loro collegio elettorale. L'accentramento amministrativo favoriva questa distorsione, perché dava spazio e potere a chiunque fosse stato in grado di fungere da mediatore fra centro e periferia.
Il parlamento tendeva così a trasformarsi, da assemblea degli interessi generali del paese, come prevedeva il principio liberale, in luogo di mediazione politica di interesse di parte: locali, regionali, o addirittura strettamente personali, quando il deputato o il membro del governo era titolare o amministratore di imprese industriali o commerciali.
IL TRASFORMISMO
Le distorsioni sopra ricordate, già presenti nell'età della destra, si aggravarono negli anni '80 anche per effetto del cosiddetto trasformismo, come fu chiamata la tendenza a gestire la vita parlamentare e politica attraverso accordi, patteggiamenti, scambi di favori tra maggioranza di governo e opposizione. Questa apertura verso la "trasformazione" divenne prassi abituale "trasformismo", perché Depretis la utilizzò sistematicamente per garantire gli equilibri politici, con un accorto lavoro di mediazione e di patteggiamento tra le diverse "anime" della sinistra e tra i vari gruppi di potere nazionali e regionali. In tal modo, il capo del governo veniva assumendo un ruolo sempre più centrale quale mediatore politico di fronte a un parlamento sempre più ridotto a "camera di compensazione" di interessi particolari.
Questa prassi consentiva inoltre alla sinistra e alla borghesia che essa rappresentava di tenere ai margini e sotto controllo le spinte radicali e democratiche. Queste ultime erano rappresentate in parlamento dal gruppo dell'estrema sinistra, brevemente chiamata "l'estrema", in cui trovano posto radicali, democratici, repubblicani e i primi socialisti. L'estrema, cui si ridusse praticamente l'opposizione parlamentare nell'età di Depretis, esprimeva posizioni di radicalismo.
LA CRISI AGRARIA E I SUOI EFFETTI
In campo economico, la sinistra si mosse inizialmente nel solco dell'impostazione libero scambista della destra; ma nella seconda metà degli anni '80 mutò radicalmente rotta attuando, sia pur dopo molte incertezze, una politica protezionistica.
Per comprendere le ragioni di questa scelta occorre richiamare alla mente la crisi agraria e la fase di depressione economica del periodo 1873-1896. in Italia, la crisi agraria si fece sentire intorno al 1880 con ritardo rispetto al resto d'Europa ma con effetti altrettanto gravi.
Le diverse "agricolture" italiane reagirono alla crisi in modo differenziato: nelle aree padane più sviluppate dal punto di vista tecnico e organizzativo, la diminuita redditività dei cereali fu fronteggiata con la riconversione ad altre colture e allevamento; nel meridione la crisi mise in piena luce l'arretratezza del latifondo cerealicolo dove la rendita fu duramente colpita, e incentivò la diffusione delle colture arboree specializzate. Un primo effetto della crisi agraria fu dunque quello di accentuare la specializzazione colturale delle diverse aree; un secondo effetto fu quello di favorire la nascita di una sorta di "partito degli agrari", settentrionali e meridionali, che esercitò pressioni sempre più forti sul governo per ottenere l'imposizione di dazi sul grano di importazione.
LA SCELTA PROTEZIONISTICA
In campo industriale, le mutate condizioni del mercato internazionale, con l'adozione pressoché generalizzata di politiche protezionistiche da parte dei maggiori stati, diedero forza al partito degli "industrialismi", che da tempo chiedevano il superamento del libero scambio e un più deciso intervento dello stato nell'economia. Questo schieramento, che aveva il suo nucleo portante negli industriali settentrionali, capeggiati da Alessandro Rossi, attribuiva al libero scambio, e in particolare ai trattati commerciali del 1863, la responsabilità della stagnazione in cui versava da due decenni l'apparato industriale.
Da parte liberista, si sosteneva invece che il protezionismo non avrebbe fatto altro che favorire le imprese agricole e industriali più arretrate, ponendole al riparo della concorrenza straniera. Ma questa posizione venne di fatto sconfitta dalla convergenza di interessi fra agrari e imprenditori, che indusse il governo a deliberare nel 1887 l'imposizione di un'alta tariffa doganale sul grano e su vari prodotti industriali.
LE CONSEGUENZE DEL PROTEZIONISMO
Sulle conseguenze della scelta protezionistica del 1887 si è sviluppata un'ampia discussione in sede storica. Tra gli effetti negativi vanno annoverati il peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari, per l'aumento del prezzo di pane e pasta, e i gravi danni subiti dalle colture d'esportazione meridionali, soprattutto a causa della vera e propria guerra commerciale apertasi con la Francia nel 1888. Il protezionismo approfondì il carattere dualistico del sistema economico italiano, danneggiando i settori più vitali dell'economia meridionale e favorendo nel contempo lo sviluppo dell'industria settentrionale.
Positive furono infatti le conseguenze della tariffa del 1887 sul comparto tessile e meccanico: i nostri imprenditori poterono operare sul mercato interno in condizioni di vantaggio rispetto alla concorrenza straniera, incrementando un'ascesa già avviatasi con l'inizio degli anni '80. ma il protezionismo fu solo un aspetto della politica industriale della sinistra: altrettanto importante fu l'impulso dato all'industria di base, in particolare alla siderurgia, attraverso commesse e appalti pubblici. In questa fase storica l'Italia iniziò la produzione su larga scala dell'acciaio, che nel 1886 fu inaugurata l'acciaieria di Terni, capace di svolgere il ciclo completo della lavorazione sino alla produzione di rotaie e corazze per navi da guerra. Nello stesso anno, nasceva l'industria metalmeccanica Breda che consentì di produrre all'interno locomotive e materiale rotabile, mentre nella chimica la Pirelli, nata nel 1872, conosceva un notevole sviluppo. Alla formazione di una grande industria nazionale nei settori di base si accompagnò il completamento della rete stradale e ferroviaria, mentre l'apertura del traforo ferroviario del San Gottardo metteva il settentrione d'Italia in comunicazione con l'Europa centrale.
LA POLITICA ESTERA: LA TRIPLICE ALLEANZA
Anche in politica estera la sinistra attuò nel corso degli anni '80 un netto cambiamento di rotta rispetto alla linea della destra. Quest'ultima aveva mantenuto il paese in una posizione di neutralità, sia pure con una collocazione, economica e politica, nell'orbita francese. Depretis realizzò invece un avvicinamento all'Austria e alla Germania, che culminò nella stipulazione della triplice alleanza: questo patto prevedeva un intervento di reciproca difesa in caso di aggressione da parte di altre potenze, in particolare della Francia. La sinistra schierò dunque il paese a fianco delle due potenze autoritarie del continente, in funzione nettamente antifrancese. Giocarono in questa scelta il timore dell'isolamento internazionale in una fase di peggioramento dei rapporti fra le potenze, i cattivi rapporti con la Francia, il desiderio degli ambienti militari e del re Umberto I di stringere un'alleanza che frenasse il movimento anti austriaco emergente nel paese.
L'ESPANSIONE COLONIALE IN AFRICA
Inseritasi con la Triplice Alleanza nel gioco diplomatico delle grandi potenze, anche l'Italia diede inizio alla propria espansione coloniale in Africa. Questa strada, sino ad allora giudicata impercorribile per un paese di modesta forza economica e politica come l'Italia, fu imboccata soprattutto per ragioni di prestigio internazionale e sotto la pressione delle gerarchie militari e dei grandi armatori navali. Questo primo, cauto passo coloniale ebbe però esiti negativi: muovendo dalla baia di Assab, sul Mar Rosso, le truppe italiane occuparono nel 1885 la città di Massaia. Ma un ulteriore tentativo di penetrazione verso l'interno provocò la reazione del negus della confinate Etiopia: il 26 gennaio 1887 a Dogali presso Massaua, un contingente italiano di 500 uomini fu attaccato e sterminato.
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