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Nazionalismo




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NAZIONALISMO

Il nazionalismo è l'esaltazione dello stato nazionale, considerato come ente indispensabile per la realizzazione delle aspirazioni sociali, economiche e culturali di un popolo, il cui prestigio e gloria richiedono una posizione di predominio nel mondo.
Sul piano economico, il nazionalismo rappresenta gli interessi dell'industria e del capitalismo nazionali, che vedono nella nazione lo strumento per affermarsi nel mondo, per proteggersi dalla concorrenza estera e per controllare i nemici interni, in particolare le rivendicazioni dei lavoratori.

Come concetto di base, il nazionalismo è già presente, ancor prima della sua manifestazione storica, nella concezione del popolo come elemento di unità della nazione; ad esempio Fichte (Discorsi alla nazione tedesca, del 1808) parla della superiorità del popolo tedesco e Hegel vede nell'affermarsi di una nazione sulle altre il compimento dei destini del mondo governato dalla Ragione universale.

La nascita del nazionalismo viene fatta risalire alla fine dell'epoca medioevale, messa in rapporto con la disintegrazione dell'Impero e l'ascesa degli stati nazionali e trova il suo sostentamento nell'ambiguità dell'idea di nazione.

Esso esalta la terra e la patria, il cui orgoglio scaturisce dal senso della nazione spontanea, ma poi indirizza questa esaltazione in una lotta contro le altre nazioni per un prestigio e una gloria che sono solo della nazione ideologica, il che equivale a dire della classe egemone e del capitalismo nazionale.
Sul piano psicologico, il nazionalismo è considerato l'espressione dell'ottimismo delle classi dirigenti che, avendo guadagnato la loro egemonia attraverso la competizione sociale, si sentono un tutt'uno con la nazione, per cui i successi di questa sulle altre diventano modi ulteriori per rafforzare la propria posizione. Ma il nazionalismo trova un fertile terreno anche nelle classi più povere e diseredate, che trasferiscono nei presunti o reali successi della nazione e nella sua gloria le aspettative della vita. Il nazionalismo, inteso come volontà di potenza e di espansionismo della nazione, è insito sempre negli stati nazionali ed è, indubbiamente, un'ideologia molto pericolosa, perché fornisce il supporto emotivo necessario alle guerre tra gli stati. Non a torto viene considerato il principale responsabile dei consensi alle due guerre mondiali e delle efferatezze in esse compiute. Il nazionalismo non è stato la causa delle guerre mondiali, ma è stato il principale strumento propagandistico di cui gli stati si sono serviti per trovare consensi all'intervento armato. Questa è la sua vera pericolosità

Il nazionalismo più antico era in primo luogo un sentimento inclusivo: la sua naturale relazione con lo stesso sentimento in un altro popolo era difetto di affinità, non aperto contrasto, ad esso non era inerente un antagonismo tale da impedire alle nazionalità di crescere e prosperare le une vicino alle altre. Essenzialmente tale era il nazionalismo del primo '800, e i politici del libero scambio vedevano in qualche modo giusto nel loro sogno di un rapido sviluppo di un internazionalismo effettivo, non formale, attraverso la pacifica, vantaggiosa circolazione di beni e di idee da parte di nazioni che riconoscessero una giusta armonia di interessi fra i popoli liberi.

Lo straripare del nazionalismo in una dimensione imperiale spense tutte queste speranze. Mentre nazionalità coesistenti sono capaci di aiutarsi reciprocamente senza comportare alcun antagonismo diretto di interessi, imperi coesistenti che perseguono ciascuno la propria corsa all'espansione territoriale e industriale sono nemici naturali e inevitabili. Questo tipo di nazionalismo che si sviluppa sul finire dell' '800 è chiamato esclusivo ed è un nazionalismo pieno di risentimento teso all'autodifesa, fuorviato dal suo spirito naturale e arde di avidità e di espansione.

I legami tra nazionalismo e razzismo sono evidenti: alla base del nazionalismo c'è l'unità della nazione, intesa come unità del popolo, e il popolo viene identificato con la razza. L'esaltazione della nazione equivale quindi all'esaltazione del popolo e della razza, di una razza sulle altre. Il razzismo, infatti, non è riconoscere le diverse razze umane, ma sostenere che una è superiore alle altre, per cui si può ammettere, in nome della superiorità, ogni forma di sfruttamento, sopraffazione e, agli estremi, anche morte e sterminio. Così di fatto è successo storicamente.

Esempio

L'Italia forse una delle più giovani nazione europee se inizialmente prima della sua unificazione appariva un Paese estremamente diviso e unito dall'unico ideale di libertà dagli stranieri, è però la nazione in cui il senso di nazionalità è stato fortemente sentito. La nazionalità non intesa come semplice tendenza nel periodo dell'unificazione, ma come vero sentimento nazionale che per tutta la vita dello Stato Italiano ha vissuto a fianco del cittadino.

Il tema dell'unità nazionale italiana sorse in un quadro di grandi trasformazioni economiche e politiche dell'Europa uscita dalla Rivoluzione francese e dal Congresso di Vienna, quando le nuove spinte capitalistiche si trovarono a fronteggiare l'opposizione politica delle potenze restauratrici. La Restaurazione cercò di limitare l'influenza della borghesia occidentale, che reagì, con l'appoggio inglese, aiutando i nazionalismi contro gli imperi (austriaco, russo e turco). In Italia, dopo alcuni tentativi settari falliti, miranti a cambiamenti istituzionali per favorire la borghesia e il capitalismo, fu il Mazzini che pensò di dare più ampio respiro ai gretti motivi economici e di classe, fornendo l'ideale dell'unità nazionale e diffondendo l'idea di fare rivivere le antiche glorie di Roma, per cui all'Italia sarebbe spettato il primato di guida morale e civile del mondo. Furono questi soltanto pretesti a cui Mazzini stesso non credeva seriamente, ma che aveva escogitato nella speranza di coinvolgere le masse all'indomani degli insuccessi rivoluzionari del 1820-21. La popolazione, però, vi rimase sostanzialmente estranea. Grazie comunque agli aiuti francesi e inglesi l'unità fu infine compiuta e l'Austria indebolita. Questo primo nazionalismo italiano fu sostanzialmente di rivolta e ancora non aveva pretese imperialistiche. Successivamente le necessità protezionistiche, sia dell'industria del Nord, sia dell'agricoltura, soprattutto del Sud, convinsero i vari governi nazionali ad adottare politiche sempre più di difesa del nascente capitalismo italiano, fino ad appoggiarlo nei tentativi di imprese coloniali e nella concorrenza con gli altri paesi europei. Era nato il nazionalismo aggressivo e guerrafondaio che, dopo numerosi insuccessi, sfociò nell'impresa di Libia e nella partecipazione italiana alla prima guerra mondiale.
I sostenitori del nazionalismo, che si organizzarono nell'Associazione Nazionalista Italiana, nata dopo un congresso tenutosi a Firenze nel 1910, e poi confluiti nel fascismo, raccolsero, almeno all'inizio, consensi ampi in tutti i settori della politica e tra gli intellettuali (si ricordi, ad esempio, la retorica della 'grande proletaria' di cui parlava anche il Pascoli). È stato dimostrato che alcuni di questi intellettuali erano prezzolati dalle industrie monopolistiche, soprattutto siderurgiche e metallurgiche, che finanziarono il giornale L'Idea Nazionale. Il movimento reclamava maggiore dinamismo e intraprendenza da parte del governo in politica estera, sostenendo tesi imperialistiche in aperto contrasto con i trattati internazionali, e chiedeva forme di autoritarismo in politica interna, in modo da contrastare sintomaticamente il malessere dei lavoratori.
Con il fascismo, il nazionalismo italiano raggiunse le massime aspirazioni. Il concetto di lotta di classe dei socialisti, fu trasferito nei rapporti tra le nazioni come lotta delle nazioni povere contro quelle ricche e potenti; l'influenza sull'opinione pubblica fu assicurata dal pieno controllo di tutti i mezzi d'informazione e, soprattutto, dalla conciliazione con la Chiesa, sancita con i patti del Laterano del 1929; l'autoritarismo interno fu possibile con le leggi fascistissime e la dittatura del duce; le imprese imperialistiche videro il massimo trionfo nel 1936, con la conquista dell'Etiopia e la resistenza alle blande sanzioni internazionali. Il fascismo impiegò mezzi e risorse enormi per dotare Roma delle strutture degne di una grande capitale imperiale: le glorie di Roma antica sembrarono risorte; ma soprattutto si adoperò per creare le strutture dell'amministrazione dello stato, potenziando la burocrazia e il centralismo per controllare ogni attività politica, economica e sindacale. Ma oltre la retorica di regime e la tracotanza politica, le basi del nazionalismo furono poco salde e quando scoppiò la seconda guerra mondiale tutte le contraddizioni e le fantasie vennero alla luce, fino alla rapida disfatta finale.
Dopo la seconda guerra mondiale, le potenze vincitrici cercarono di ridimensionare, per ovvi motivi, ogni velleità nazionalistica e imperialistica dell'Italia e, nello spirito della collaborazione e della ricostruzione postbelliche, ai governanti italiani s'impose l'abbandono degli emblemi più vistosi del nazionalismo, compresa la retorica dell'unità e la troppo ostentazione della bandiera e dell'inno nazionale.
Condannato dalla sinistra come espressione del capitalismo guerrafondaio e considerato il principale strumento degli interessi della borghesia, il nazionalismo (e non solo quello italiano) fu accusato, e giustamente, di avere portato il mondo intero nel baratro delle due guerre mondiali, dove furono commessi crimini, in nome delle patrie, di un'efferatezza incredibile e mai vista prima.
Le giovani generazioni, nate nel secondo dopoguerra, impararono presto a fare a meno dei valori nazionalistici, e perfino le generazioni di prima della guerra, che erano scese in massa nelle piazze ad acclamare i comizi del duce e la gloria della patria, non tardarono a dimenticarli.
Del resto tali valori, anche se voluti e alimentati dalla classe egemone, non si erano mai radicati troppo nella popolazione italiana, nonostante la retorica risorgimentale e gli impegni in tale direzione assunti dal fascismo. Probabilmente millenni di storia non unitaria non si cancellano facilmente con le imposizioni di governi autoritari. Sia la storia d'Italia, mai stata unita (anche ai tempi dell'impero romano, quando i confini geografici dell'Italia compresero per la prima volta la Gallia Cisalpina, non si poteva certo parlare di Italia unita), sia le problematiche sociali, legate all'internazionalismo socialista e sindacale, ma anche alla politica sociale della Chiesa, che fino al 1929 era stata l'acerrima nemica dell'unificazione nazionale, sia la realtà culturale ed economica, sia gli insuccessi bellici, impedivano di fatto che l'unità nazionale fosse davvero sentita come un valore da difendere e di cui andare orgogliosi. Ancora oggi quelle generazioni, anche se non condividono forme secessioniste, si sentono quanto meno imbarazzate di fronte alla rinascita della retorica sull'unità nazionale.
Fu solo con gli anni Ottanta che le velleità nazionalistiche tornarono timidamente alla luce, durante i governi Spadolini e Craxi, più con gesti simbolici che concreti, come quando fu cambiata la sigla di apertura e chiusura delle trasmissioni televisive, introducendovi l'inno nazionale e i colori della bandiera, o quando successe il fatto di Sigonella, impensabile appena cinque anni prima. Piccole cose che trovarono, a quarant'anni dalla fine della guerra e nell'era della perestroica sovietica, la completa disattenzione internazionale, quando uno stato italiano più indipendente, più forte e più presente nelle vicende internazionali non era da considerarsi ormai un pericolo o un ostacolo per gli equilibri nel Mediterraneo.
Nello stesso tempo, però, il riemergere di antichi sentimenti di identità nazionale dei popoli (nazioni spontanee) che erano sopravvissuti alle forzose risistemazioni etniche e territoriali dell'Europa dopo entrambe le due guerre mondiali, in particolare la nascita di nuove nazioni, come la Croazia, la Slovenia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, le tre repubbliche baltiche, ecc. facevano pensare a un diverso nazionalismo, più genuino e regionale, più vicino alle realtà dei popoli e più lontano dagli interessi nazionalistici del capitalismo di vecchio stampo. Inoltre la concreta possibilità del costituirsi di una Europa unita, lasciava sperare ai più in un graduale abbandono non solo dei nazionalismi, ma anche delle attuali entità nazionali, a favore di una Europa dei popoli. Se da un lato, cioè, l'idea di Europa unita toglieva importanza agli stati nazionali, dall'altro ne conferiva alle realtà regionali, quindi ai popoli che queste nazioni spontanee rappresentavano.
Si trattava di una svolta epocale a cui non mancarono forti opposizioni, specialmente tra quei settori del capitalismo non ancora pronti a una realtà continentale e bisognosi sempre della protezione del proprio Paese in tema di misure economiche. Ancora oggi, comunque, nonostante i freni e le difficoltà del Trattato di Maastricht, l'idea generale è che si arrivi lo stesso a un'Europa unita e a un'Europa dei popoli, non degli stati nazionali, e si ritiene che questa tendenza faccia parte dello sviluppo delle cose, della cultura e, soprattutto, dell'economia. Che gli stati nazionali abbiano fatto il loro tempo, e che saranno gradualmente ridimensionati, se non spazzati via, dalle vicende storiche, è un'idea diffusissima.
In molti paesi europei il federalismo è già una realtà di fatto. Non solo la Germania e la Svizzera, ma anche stati tradizionalmente unitari, come la Spagna, hanno già rinunciato al centralismo statale.

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