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Monsignor Giovanni della casa




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Monsignor Giovanni della casa


La famiglia dei Della Casa ha le sue origini nel Mugello, la vallata del Sieve nella parte alta alle falde degli Appennini, che in quella zona venivano chiamati 'Alpi degli Ubaldini' al confine tra la Romagna e la Toscana. Il Mugello, ricco di borghi e di castelli, nel Medioevo era in gran parte Signoria della famiglia degli Ubaldini; ma era anche la terra di molte altre notabili famiglie fiorentine. Il nome deriva da una località detta la Casa, e un ramo del casato sarà chiamato 'da Pulicciano', dal nome del castello omonimo del Mugello.
Proprio in Mugello nacque Giovanni Della Casa da Pandolfo, figlio di Giovanni Della Casa e di Marietta Rucellai, e da Lisabetta figlia di Gianfrancesco di Filippo de' Tornabuoni e di Lisabetta Alamanni cugina del poeta Luigi Alamanni, poeta di grande fama nella prima metà del Cinquecento. Giovanni fu il primogenito di sei figli.
Costretto a fuggire dal Mugello, il padre portò Giovanni a Bologna, dove lo lasciò per trasferirsi a Roma. Qui lo raggiunse il figlio e qui morì il 19 giugno 1510 Nel 1526, rompendo con il diritto e con i progetti e gli schemi mentali del padre,  si ritirò con l'amico Beccadelli in Mugello, per dedicarsi, lontano da ogni distrazione, all'approfondita lettura delle opere di Virgilio e di Cicerone. Nel 1527 si recò a Padova (dove rimase fino al 1529) per apprendervi il greco, che studiò sotto la guida di Benedetto Lampridio, maestro, in tale disciplina, anche del Berni. Avvalendosi della mediazione del Lampridio e di Trifone Gabriele entrò allora in rapporto con il Bembo. Nel 1528 pubblicò a Venezia le Terze rime (ristampate poi presso Curtio Navo nel 1538), l'opera che avrebbe contribuito non poco a vanificare, per il contenuto osceno, la sua futura aspirazione al cappello cardinalizio (quando, in un'età assai mutata per i rigori della riforma cattolica, certi trascorsi non sarebbero apparsi proprio irrilevanti). Fu a Roma nel 1529 e a Firenze (dove ottenne il titolo di 'Chierico fiorentino' e il canonicato nella chiesa di San Niccolò) nel 1530-'31.
Tra la fine del 1531 e la primavera del '32 soggiornò a Padova, frequentandovi le lezioni di greco e di latino del famoso maestro Lazzaro Buonamici. Non trovandosi peraltro a proprio agio in quell'ambiente fortemente influenzato dalla spiritualità di uomini quali il Priuli, il Pole e il Contarini, ritornò a Roma, dove, ad eccezione di brevi parentesi - come quella toscana, dovuta alla malattia e alla morte del padre (1533), restò fino al 1540.
Seguono gli anni più spensierati e gaudenti della sua vita (1532-'34), nel corso dei quali, con gli amici Molza, Firenzuola e Berni, frequentò l'Accademia de' Vignaiuoli. Furono anche gli anni in cui scrisse non pochi altri componimenti licenziosi, conquistandosi una certa fama e anche il favore di illustri personaggi, quali il Cardinale Alessandro Farnese, che verrà eletto Papa col nome di Paolo III nel 1534 e che molta parte avrà nella sua vita, avvalendosi anche dell'amicizia e della presenza del Molza.
Proprio in questi anni, comunque la sua vita prese un indirizzo preciso, con la realizzazione di un suo progetto di carriera ecclesiastica. Progetto assecondato, oltre che dall'assunzione degli ordini minori, dalle attestazioni di pentimento per la vita libertina, ricorrenti in alcune sue lettere scritte tra il 1534 e il 1536, nel periodo in cui si diede seriamente agli studi ecclesiastici affiancandoli a quelli umanistici. E certi risultati non si fecero attendere. Ottenuto l'ufficio di chierico della Camera Apostolica il 12 marzo 1537, si accostò, al cardinale Alessandro Farnese. Si colloca in questo contesto la composizione del trattatello misogino in latino ciceroniano Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda, notevole non solo per dottrina e per stile, ma per la riproposizione del tema del pentimento già riscontrato nelle lettere.
Gli venne affidato allora nel 1540 da Paolo III, l'ufficio a Firenze di Commissario Apostolico per le decime, che lo impegnò in varie missioni (svolte con scrupolo e talora anche con durezza) in tutto il territorio fiorentino. E a Firenze l'11 febbraio 1540, oltre ad assolvere ai suoi compiti di esattore, fu ammesso, insieme ad altri illustri personaggi, all'Accademia Fiorentina che proprio in quel giorno lesse e approvò i Capitoli della sua costituzione, decidendo di chiamarsi non più Accademia Fiorentina degli Umidi, ma semplicemente Accademia Fiorentina, sotto gli auspici del Gran Duca Cosimo de' Medici. In questo periodo s'interessa anche dell'educazione dei nipoti (i figli della sorella Dianora), in particolare di Annibale, cui è forse indirizzato il Galateo.

IL PENSIERO

Il trattato del Cinquecento (1550 - 1555) Galateo overo de' costumi di Monsignor Giovanni della Casa, sulla 'buona creanza' e sul corretto comportamento, ha influenzato i costumi di gran parte della società occidentale degli ultimi secoli. Il termine 'galateo' deriva da Galeazzo (Galatheus) Florimonte, il vescovo di Sessa che ha suggerito a Monsignor Giovanni della Casa la stesura del trattato. Il libro, che ebbe un largo successo sia in Italia che all'estero, attraverso la voce narrante di un vecchio 'idiota' (come è scritto nel titolo completo dell'opera :Trattato di Messer Giovanni Della Casa, nel quale sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovinetto, si ragiona dei modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato Galateo ovvero dei costumi), vale a dire un illetterato che vuole consigliare un giovane, espone tutti quei comportamenti da evitare quando ci si trova in compagnia o in pubblico, suggerendo allo stesso tempo la giusta tenuta di condotta. Seguendo il precetto del rispetto della personalità altrui, il vecchio illetterato mette in guardia il suo allievo da comportamenti che possano sembrare sprezzanti (come la trasandatezza nel vestire) verso gli altri; lo invita nella conversazione a non affrontare argomenti sia troppo frivoli sia troppo complessi perché potrebbero tediare l'uditorio; suggerisce di evitare le moine e i consigli non richiesti; insegna come comportarsi a tavola, come vestirsi, insomma non tralascia nessun aspetto del vivere sociale. Vengono esposte norme sul modo di vestirsi, enumerati tutti i gesti e le cose spiacevoli da evitarsi; è riprovato lo scherno, la beffa, la parola che morde e offende; si suggeriscono i modi del parlare, si consigliano i vocaboli da usare e quelli da evitare. Insomma, biasimando ogni eccesso, l'autore incarna il culto della proporzione proprio del Rinascimento.

Il Galateo di Della Casa si inquadra perfettamente nell'epoca rinascimentale, di cui è figlio, ossia in quell'epoca in cui centrale è l'invito tutto moderno a rivolgersi dal cielo alla terra (abbandonando le poco note regioni della metafisica e della religione), un volgersi dal sublime al mediocre, pienamente consapevoli dei propri limiti intrinseci: alle speculazioni metafisiche tendenti ad avvitarsi su se stesse senza giungere a nulla di concreto si sostituisce un pacato conversare mirante ad un piacevole stare insieme, ed è appunto in questo che consiste il vivere in società quale Della Casa (e con lui molti altri autori di quest'età) lo intende. Le ambiziose pretese onnicomprensive della metafisica e della religione cedono il passo al più modesto tentativo di imparare a comportarsi bene, in modo tale da risultare graditi alla società di cui si fa parte. La ragione, da onnicomprensiva che era nell'età d'oro della metafisica, assume ora, nell'età moderna, nuove colorazioni: essa diventa ragione calcolatrice e dubitante, rinunciataria delle grandi verità e conquistatrice dei quelle piccole, quali appunto possono essere il sapersi comportare in conformità con le buone maniere. Per Machiavelli il fine a cui è orientata ogni nostra azione è la preservazione di se stessi: in Castiglione la preservazione diventa 'cortegiania' e in Della Casa trapassa in 'galateo'. Il libro di Della Casa non è il solo a trattare la tematica del galateo e delle buone maniere: l'altro grande autore che se ne occupa è Baldesar Castiglione, col suo celebre Il cortegiano, opera in cui egli insegna come comportarsi a corte, come piacere al principe servendosi abilmente del motteggio e, insomma, come far proprie le buone maniere. A tal proposito, Castiglione aveva escogitato lo stratagemma della sprezzatura, ossia dell'arte di nascondere l'arte ('usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi'): dal canto suo, Della Casa opta per la codificazione di un galateo, ossia di un insieme di norme e principi da seguire per risultar graditi alla società; già Cicerone, nel De officis, aveva abbozzato una serie di regole da seguire per possedere il decorum: e l'età rinascimentale eredita quella tradizione ricca di humanitas che trovava nell'Arpinate il proprio vertice indiscusso. La funzione civilizzatrice della corte, lumeggiata a più riprese da Castiglione, è ribadita da Monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo. Overo de' costumi, in cui scrive (XVI):

'E queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell'acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini'.

Anche per Giovanni della casa la cortesia non elimina, ma ammorbidisce la servitù e la signoria, rendendole più vivibili, proprio come l'acqua ammorbidisce certe erbe in essa immerse. Bisogna ammansire la belva che ciascuno di noi potenzialmente, ossia si devono porre le passioni sotto la guida della ragione calcolatrice: e a ciò provvede il galateo, che smussa le nostre punte più estreme, ammorbidendoci, levigandoci e rendendoci civili. Eppure Della Casa si muove in un ambito ben più modesto rispetto a quello di Castiglione: la sua affermazione della superiorità della ragione non ha né lo slancio né il vigore né l'ampiezza ideologica che troviamo nei grandi autori del Rinascimento; e lo stesso studio che egli conduce intorno alle buone creanze si risolve in una minuta, scoppiettante e piacevole casistica che tuttavia non approda all'edificazione ideale e organica, né rievoca un mondo di bellezza superiore. Ciò non toglie, in ogni caso, che non vi sia opera di Della Casa in cui non si avverta tale nostalgia per un mondo eccelso andato perduto (e questo è un topoV dell'età moderna): nell'Ariosto dell'Orlando furioso, in Pulci e in Poliziano tale nostalgia si appuntava sull'antico mondo cavalleresco, in cui a trionfare erano i valori più autentici; in Della Casa, invece, pare vivissima la nostalgia per un mondo perfetto e ideale, fatto di equilibrio e di armonia, di bellezza e di luce, di contro allo squallido mondo reale, con le sue meschinità e la sua vita quotidiana 'aspra e noiosa', da cui è impossibile evadere se non in via fittizia (e da ciò deriva la delusione e la mestizia che accompagnano costantemente gli scritti di Della Casa, comprese le 'rime').

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