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L'europa e il mondo agli inizi del novecento




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L'EUROPA E IL MONDO AGLI INIZI DEL NOVECENTO


All'aprirsi del nuovo secolo l'Europa, o almeno la sua parte centro-occidentale, era nel pieno della belle époque, dell'"epoca bella", come gli ultimi decenni dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, sino alla grande guerra. Erano gli anni del trionfo di una società borghese ricca e dinamica con la possibilità di progresso grazie all'industria e all'incessante innovazione scientifico-tecnologica. Capitale di quest'Europa in pieno sviluppo era Parigi, la ville lumiere, con i suoi boulevard illuminati elettricamente e i cinematografi. La società europea di inizio Novecento era in realtà attraversata da tensioni fortissime: era ricca ma alimentata da forti disuguaglianze economiche e sociali: era in prevalenza liberale, ma in realtà dominata da un'elite industriale e finanziaria concentrata in senso monopolistico e decisa a far valere a ogni costo i propri interessi; mostrava una fiducia incrollabile nel razionalismo e nella scienza, ma vedeva crescere al suo interno ideologie irrazionalistiche, quali il nazionalismo e il razzismo. In quasi tutti i paesi ad eccezione della Russia, il tardo Ottocento aveva portato a un grande sviluppo della partecipazione popolare alla vita politica: il diritto di voto, sia pure solo maschile era riconosciuto a inizio secolo.

Ma proprio l'ampliamento della partecipazione politica misero in tensione i sistemi politici, anche quelli più avanzati in senso liberal-democratico. In Italia negli ultimi anni dell'Ottocento ci fu una pesante svolta autoritaria. Anche la Gran Bretagna conobbe una fase di tensione acuta: la crescita della conflittualità operaia e la nascita di un nuovo partito socialista di derivazione sindacale, il Labour party, spostarono a sinistra l'asse della vita politica. L'unione fra liberali e laburisti fece fallire ogni progetto di riduzione del potere del parlamento a vantaggio dell'esecutivo, tanto che la Gran Bretagna uscì dalla crisi con un sistema politico più democratico, promotore di un avanzato programma di riforme sociali.

IL DECOLLO INDUSTRIALE ITALIANO

Lo sviluppo industriale nei settori tradizionali e strategici

Nei primi anni del nuovo secolo, a quarant'anni di distanza dalla realizzazione dell'Unità, l'Italia stava vivendo la stagione del proprio "decollo industriale". La crescita riguardò in primo luogo i comparti tradizionali del nostro sistema industriale: il settore tessile, il settore agro-alimentare e in particolare l'industria saccarifera, grazie anche alla tassa doganale protezionistica introdotta dalla Sinistra nel 1887. l'aspetto più importante del decollo economico, tuttavia, fu lo sviluppo di nuovi settori di base, in primo luogo l'industria siderurgica che, protetta dalle tariffe doganali, si ristrutturò e rinnovò tecnologicamente, mettendosi così in condizione di produrre laminati d'acciaio a ciclo integrale. Oltre all'acciaieria Terni, un altro grande complesso siderurgico sorse a Bagnoli, presso Napoli. La formazione di un'industria siderurgica nazionale ebbe un'importanza cruciale nell'industrializzazione italiana, benché questo settore producesse ancora con costi troppo elevati per reggere la concorrenza straniera e avesse quindi necessità di essere sostenuto dallo stato, sia con la tariffa doganale sia con le commesse militari, navali e ferroviarie. Importanza altrettanto rilevante ebbe, in un paese povero di risorse energetiche come l'Italia, lo sviluppo dell'industria idroelettrica.

L'industria meccanica, si sviluppò tra il 1896 e il 1910. I prodotti sui quali principalmente si reggeva questo nuovo settore dell'industria italiana erano i mezzi di trasporto, le macchine utensili di precisione, la macchine per cucire e le nuove macchine per scrivere. Iniziò a svilupparsi anche un settore destinato a grande fortuna nel nostro paese, quello dell'automobile, Giovanni Agnelli nel 1899 fondò la FIAT.

Con il protezionismo e le commesse pubbliche, grande importanza ebbe il riordino del sistema bancario: nel 1893 fu creata la Banca d'Italia, cioè la banca centrale incaricata di regolare l'emissione di moneta e il sistema finanziario e creditizio; nacquero inoltre istituti di credito sul modello della banca mista che deve il suo nome alla duplice funzione che svolge: raccoglie il risparmio dei cittadini e lo investe finanziando società commerciali e industriali. Questi istituti di credito assicurano i capitali necessari a finanziare investimenti costosi, prelevandoli in buona misura nel circuito finanziario svizzero e tedesco (segno che investire in Italia veniva considerato un buon affare). Non bisogna poi trascurare le entrate del turismo e le rimesse degli emigranti, cioè i risparmi inviati in patria dai lavoratori italiani che emigravano, nel primo decennio dell'Novecento, al ritmo di mezzo milione l'anno. Tra il 1886 e il 1911 il reddito nazionale italiano aumentò del 50% in termini reali, indice di una decisa crescita economica. Questo sviluppo, tuttavia, presentava al suo interno gravi contraddizioni e squilibri, il più grave dei quali fu l'accrescersi di quel dualismo economico fra nord e sud del paese di cui abbiamo già avuto modo di considerare le radici storiche. Anche per l'agricoltura italiana la fase a cavallo dei due secoli fu caratterizzata dalla crescita, seppure inferiore a quella dell'industria. Stazionaria rimase invece la situazione nel Mezzogiorno, mentre l'agricoltura mezzadrie dell'Italia centrale mostrava segni più gravi di ritardo. Anche nel settore agricolo, dunque, gli squilibri territoriali si accentuarono. Già al momento dell'Unità l'economia meridionale era sensibilmente in ritardo rispetto a quella settentrionale, ma questa distanza aumentò ulteriormente nei cinquant'anni successivi, per effetto di scelte economiche (come il protezionismo) che privilegiavano lo sviluppo del settentrione. L'Italia si sviluppa "a forbice": a fronte della crescita del nord, e particolarmente del cosiddetto "triangolo industriale" (Torino-Milano-Genova), già da tempo inserito nel circuito dell'economia europea, le regioni del Mezzogiorno, pur conoscendo anch'esse una certa crescita, perdevano sempre più terreno. La questione meridionale divenne così in questi anni uno dei grandi nodi irrisolti nella vita italiana.

LE LOTTE SOCIALI E LA CRISI DI FINE SECOLO

Strettamente intrecciato con quello del dualismo nord-sud, un altro tema venne a occupare il centro della vita politica nazionale: la questione sociale, cioè il problema delle condizioni di vita delle masse contadine e operaie. Il problema fondamentale continuava a essere quello della sopravvivenza, come dimostra l'enorme sviluppo del fenomeno migratori. Nonostante la crescita economica, gli squilibri territoriali che la caratterizzarono e la contemporanea pressione demografica determinarono un vero e proprio picco migratorio.

Il problema sociale riguardava innanzitutto il mondo contadino, dato il carattere ancora prevalentemente agricolo dell'economia italiana. Le condizioni di vita nelle campagne italiane dopo l'Unità rimasero a lungo pessime: fatiscenti le abitazioni, inadeguato il regime alimentare, altissima la mortalità dovuta al tifo, colera, vaiolo e malaria. Le pesanti imposizioni fiscali, la crisi agraria e la scelta protezionistica, i cui costi furono pagati in massima parte dai consumatori, cioè dalle masse popolari, provocarono un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita.

Nelle campagne padane, invece, dove si ebbe lo sviluppo di un'agricoltura capitalistica, si formò un proletariato agricolo bracciantile che maturò rapidamente una forte solidarietà e coscienza sindacale. Qui, a partire dagli anni ottanta, si registrò un grande sviluppo del movimento organizzato dei contadini, con associazioni, leghe, ricorso sistematico allo sciopero. Protagonisti di queste lotte furono i braccianti emiliani e lombardi. Obbiettivi delle agitazioni erano l'aumento della paga, il controllo del collocamento e l'imponibile di manodopera (cioè l'adozione di regole, controllate dagli stessi lavoratori, che vincolassero gli agrari nell'assunzione di braccianti).

Contemporaneamente, veniva formandosi anche in Italia un proletariato industriale sempre più esteso. Le condizioni di lavoro e di vita di questo proletariato industriale erano: salari bassissimi, nessuna garanzia del posto di lavoro e del salario, ecc. Dall' associazionismo mutualistico tipico delle Società di mutuo soccorso, il cui fine era di tipo assistenziale e previdenziale, si passò al sindacalismo organizzato di ispirazione socialista, consapevolmente basato sul conflitto sociale e sulla lotta di classe. Negli anni novanta sorsero in molte città le camere del lavoro, che organizzavano su base territoriale lavoratori di diversi settori (meccanici, tessili, siderurgici, ecc.). Nel 1906 nacque la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), di ispirazione socialista, che con oltre 500 000 iscritti dirigeva la lotta sindacale a livello nazionale. Gli obbiettivi degli scioperi erano: aumenti salariali, riduzione della giornata lavorativa, assistenza in caso di malattia, ma anche di tipo politico: suffragio universale, diritto di sciopero, riconoscimento legale del sindacato, proteste contro le repressioni attuate dalla forza pubblica.

Nei decenni successivi all'Unità il movimento operaio italiano aveva visto prelevare la componente ,mazziniana, ostile alla lotta di classe, e soprattutto l'anarchismo, che rifiutava la partecipazione alla vita politica dello stato e propugnava cospirazioni e sommosse rivoluzionarie. L'anarchismo fu a lungo dominante nell'Emilia-Romagna e nel meridione, raccogliendo aderenti nelle campagne e nei ceti più poveri della città. La sua influenza venne progressivamente declinando (senza però scomparire) man mano che il socialismo di ispirazione marxista si affermava presso la classe operaia e una parte della borghesia intellettuale. La nascita nel 1892, a Genova, del partito dei lavoratori, che due anni più tardi prese definitivamente il nome di Partito socialista italiano, fu un evento di grande importanza non solo per il movimento operaio, ma per l'intera vita politica e sociale italiana. Con esso si costituiva in Italia il primo partito moderno di massa e il movimento dei lavoratori entrava a pieno titolo nella lotta politica e parlamentare. Il partito socialista si mosse secondo una linea politica ispirata al modello della socialdemocrazia tedesca: partecipazioni alle elezioni e lotta per le riforme sociali e politiche nella prospettiva della costruzione graduale, senza rotture rivoluzionarie, della società socialistica.

LA STRATEGIA RIFORMISTA DI GIOVANNI GIOLITTI

L'interprete più autorevole di questa svolta liberale del sistema politico italiano fu Giovanni Giolitti. Ministro dell'Interno nel governo Zanardelli del 1901-03 e poi presidente del consiglio Giolitti dominò la vita politica italiana sino alle soglie della prima guerra mondiale. Il suo disegno politico mirò a unire sviluppo economico e libertà politica per assicurare stabilità al paese. A tal fine, ritenne necessaria una politica non di scontro, ma di accordo con le rappresentanze sindacali e politiche del movimento operaio. I socialisti diedero a più riprese il loro appoggio parlamentare alla linea giolittiana, a cominciare dalla fiducia votata nel 1901 al governo Zanardelli-Giolitti. Da ministro degli Interni, lo statista piemontese mantenne il governo in posizione di neutralità di fronte ai conflitti sindacali. Egli riteneva che non esistesse in Italia un reale pericolo rivoluzionario e che il movimento sindacale e quello socialista avessero obbiettivi essenzialmente economici. Nonostante gli attacchi che gli venivano dai conservatori, Giolitti mantenne ferma questa politica, un maggior benessere delle classi lavoratrici avrebbe comportato un allargamento del mercato interno e dei consumi, oltre che un più saldo consenso sociale.

L'altro polo della strategia giolittiana era rappresentato dalle riforme sociali ed economiche. Provvedimenti importanti nel campo della legislazione sociale si ebbero nel corso del primo governo Zanardelli-Giolitti: tutela del lavoro di donne e fanciulli, miglioramenti dell'assistenza infortunistica e pensionistica, obbligatorietà del riposo settimanale. Gli interventi riformatori di maggiore efficacia furono la stabilizzazione delle ferrovie, una nuova legge scolastica che avocava alla stato l'istruzione elementare e soprattutto la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita. Nel complesso però, il riformismo giolittiano risultò inferiore alle attese e ai programmi. Mancò una politica di largo respiro, capace di incidere sui problemi strutturali dell'economia e della società italiana, a cominciare dallo squilibrio tra nord e sud del paese. La neutralità del governo nei conflitti sociali si limitò in realtà alle fabbriche e alle campagne del nord, infatti, la "questione meridionale" si aggravò ulteriormente, il progetto di Giolitti per il progresso del paese muoveva infatti da una visione industrialista e settentrionalista del problema italiano: esso si fondava su un accordo fra industriali e classe operaia settentrionale, che escludeva nei fatti i ceti meridionali. Fallì, nella sostanza, anche il progetto giolittiano di rafforzare il governo grazie a un accordo politico con i socialisti: Giolitti non riuscì a fare dei socialisti una forza di governo.

Nel congresso di Bologna del 1904 fu proclamato il primo sciopero generale nazionale della storia d'Italia, lo sciopero paralizzò il paese e impaurì la borghesia e fu affrontato con calma da Giolitti e gestito con moderazione dalle organizzazioni sindacali e politiche. Lo sciopero generale segnò il culmine, ma anche l'inizio del declino del sindacalismo rivoluzionario: la mancanza di risultati concreti e l'insuccesso delle agitazioni proclamate in seguito indebolirono l'ala estrema del partito, la guida fu di nuovo assunta dai riformisti. Ma la possibilità di un accordo stabile fra Giolitti r il Psi era ormai sfumata, tanto che il ministro liberale iniziò a guardare con crescente attenzione a un'altra grande componente della società italiana: i cattolici. Il movimento cattolico e le sue organizzazioni si erano progressivamente estesi nel paese, soprattutto nelle campagne, dove erano sorte numerose casse rurali (cooperative per il finanziamento dei piccoli coltivatori) e "leghe bianche" (organizzazioni sindacali cattoliche). Il cattolicesimo non poteva rimanere escluso dai processi di trasformazione in atto nella società italiana né lasciare ai socialisti la rappresentanza delle aspirazioni e degli interessi popolari.

Un fatto nuovo e importante di questi anni fu la diffusione del nazionalismo infatti nel 1910 venne fondata l'Associazione nazionalista italiana. Le parole d'ordine del nazionalismo erano la richiesta di uno stato forte, la necessità dell'espansione coloniale per l'affermazione della grandezza dell'Italia, la polemica contro il giolittismo, il parlamento e le istituzioni democratiche "imbelli" e "corrotte", la lotta antisocialista. Il nazionalismo si mostrò capace di ottenere consensi crescenti, rivolgendosi alle masse con un'abile miscela di imperialismo e populismo; iniziò allora a circolare il mito dell'Italia "proletaria", sfruttata e umiliata dalle nazioni ricche e potenti come il proletariato lo era dalla borghesia. In questo clima maturò la decisione giolittiana di riprendere una politica coloniale aggressiva nel Nordafrica, con la guerra di Libia. Giolitti arrivò a questa decisione assecondando la pressione dell'opinione pubblica nazionalista e dei maggiori gruppi industriali e finanziari nel tentativo di guadagnare consenso per la propria politica. Dopo la caduta di Crispi l'Italia, pur rimanendo all'interno della Triplice alleanza, si era progressivamente riavvicinata alla Gran Bretagna e alla Francia. Il governo italiano aveva accettato il dominio francese in Tunisia e Marocco, ottenendo in cambio il "diritto" di puntare alla Libia. Si voleva conquistare quei territori prima che altri vi mettessero le mani. Perciò, tra il 1911 e il 1912 l'esercito italiano occupò la Tripolitania e la Cirenaica.

La guerra di Libia, che comportò spese ingentissime ed ebbe oltre 3000 caduti, era stata presentata dalla propaganda nazionalista come una grande opportunità economica. In verità, lo "scatolone di sabbia", così la definì Salvemini, non aveva al momento grande rilievo economico, né come fonte di materie prime, né come occasione di impiego per i lavoratori italiani, che vi affluirono in quantità molto modeste.

Nel 1913, alla scadenza della legislatura, Giolitti si presentò all'ultimo grande appuntamento del suo lungo periodo di governo, le elezioni politiche. Furono queste le prime elezioni a suffragio universale maschile della storia italiana: in forza della nuova legge elettorale voluta da Giolitti, il diritto di voto fu esteso a tutti i maschi maggiorenni non analfabeti e anche agli analfabeti, purché avessero superato i trent'anni o assolto il servizio militare. In occasione di queste elezioni, liberali e cattolici strinsero accordi a livello locale nei quali i cattolici si impegnavano ad appoggiare, contro i socialisti, i candidati liberali conservatori nel cui programma non vi fossero iniziative sgradite alla chiesa, come il divorzio o l'istruzione laica. L'accordo fra Giolitti e i cattolici, chiamato patto Gentiloni, aveva lo scopo di contrastare un possibile successo elettorale sei socialisti grazie all'influenza dei cattolici sui contadini, che costituivano la gran parte del nuovo elettorato. La Sinistra ottenne un buon risultato (169 deputati), ma la maggioranza liberale raggiunse i 304 deputati: di questi, 228 grazie all'accordo con i cattolici, che risultò dunque determinante.

Ma i successi ottenuti con la guerra di Libia e con le elezioni del 1913 non poterono a lungo mascherare la crisi del sistema giolittiano: l'aprirsi di una difficile fase economica, il grave passivo del bilancio pubblico, e i sempre più aspri conflitti sindacali, le violente polemiche condotte da nazionalisti e socialisti rivoluzionari mettevano a dura prova la capacità di mediazione dello statista piemontese, che disponeva alla camera di una maggioranza ampia ma eterogenea. Quando, nel marzo 1014, i ministri radicali si dimisero dal governo, Giolitti rassegnò le dimissioni, convinto, come già era accaduto altre volte negli anni precedenti, di poter riprendere entro breve tempo le redini del paese. Ma questa volta le cose andarono diversamente: sotto il governo del conservatore Antonio Calandra, l'Italia si avviò infatti verso la prima guerra mondiale e verso una nuova, drammatica fase della sua storia.

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