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La seconda rivoluzione industriale




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LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE




Tra il 1873 e il 1896, i paesi industriali europei subirono un periodo di crisi economica noto col nome di Grande Depressione, una sorta di "fase di assestamento" dopo l'ondata della Prima Rivoluzione industriale del XIX sec.




Solo nel 1896 avvenne la ripresa, preludio alla Seconda rivoluzione industriale, le cui dimensioni, rispetto alla Prima, non sono più solo europee ma anzi mondiali, sia a livello dei nuovi scambi e mercati, sia a livello di concorrenza.

Non dimentichiamo che la concorrenza mondiale dovuta alla seconda Rivoluzione industriale, porterà presto ad una spietata rivalità tra grandi potenze -specie nell'ambito dell'industria bellica e della cosiddetta corsa agli armamenti- con la conseguente divisione del mondo in sfere di influenza e la formazione di blocchi di alleanze che di fronte ai primi episodi scatenanti sarebbero entrati in guerra (ciò che di fatto avverrà nel '14); essi furono: 1879 = Triplice Alleanza (Germania e Austria; poi l'Italia dal 1882) e 1907 = Triplice Intesa (Francia, Inghilterra e Russia).

Se la Prima rivoluzione industriale fu contraddistinta da una fase di liberismo economico o di libera iniziativa economica, questa Seconda rivoluzione industriale fu contraddistinta invece da una forte organizzazione della nuova industria in monopoli (unioni di produttori di una stessa merce), cartelli (unioni "orizzontali" tra produttori di merci affini) e trust (controlli "verticali" dei processi produttivi, dalla materia prima al prodotto finito).

Se la Prima rivoluzione industriale era basata sul capitalismo della libera iniziativa economica, la Seconda fu basata invece sul capitalismo monopolistico, in altre parole sulla forte concentrazione industriale (degli scambi, dei mercati e della concorrenza) nelle mani dei pochissimi trust internazionali che controllavano "verticalmente" tutti i processi produttivi, dalla materia prima al prodotto finito. Tale concentrazione industriale fece sì che le piccole industrie o imprese, non potendo reggere la concorrenza di quelle più grandi, finissero per essere fuse e assimilate da queste o addirittura per fallire e scomparire.

Per far fronte a un mercato di dimensioni mondiali si avverte l'esigenza di ingenti capitali, che spesso sono quelli finanziari, prestati dalle banche; come le industrie, anche le banche, specie quelle destinate a prestare alle industrie ingenti capitali, si concentrarono nelle mani di "pochissimi" e, non accontentandosi più di prestare solo denaro alle industrie o imprese, puntarono presto alla loro gestione acquistandone, a tal fine, la maggioranza delle azioni.

Nacque cioè una fusione fra banche ed industrie, tra monopoli industriali e bancari, tra capitali industriali e capitali finanziari, dando luogo al cosiddetto capitalismo finanziario.

Per questa influenza determinante delle banche nella vita economica, presto si sarebbe determinata anche una nuova forma di collaborazione e alleanza tra governi politici e banche stesse.

Tuttavia in alcuni paesi questa collaborazione fra banche ed economia generale, non sempre favorì la produzione ma diventò terreno adatto a manovre più speculative nel conflitto tra capitale industriale e capitale finanziario.

Non fu certo una soluzione al problema quella del passaggio dal liberismo e dall'alleanza economia - banche all'intervento e protezionismo statale nell'economia.

Difatti, il liberismo professato dalla Destra storica s'ispirava ad un modello -quello inglese- già industrializzato e non colpito dalla concorrenza di altri paesi industrializzati, e pertanto poco congruente all'effettiva situazione economica italiana in cui, almeno all'inizio, l'industrializzazione non sarebbe potuta nascere e decollare se non fosse stata sostenuta dallo Stato.

Tuttavia anche questo intervento e protezionismo statale nell'economia diventò terreno adatto a manovre più speculative o ad intese sottobanco tra speculatori e politicanti corrotti; accadeva per es. che le sovvenzioni statali, anziché essere impiegate a fini produttivi collettivi -come ad es. un aumento degli investimenti- fossero distribuite invece fra i maggiori azionisti delle industrie, incrementando così il loro profitto privato.

All'intervento e al protezionismo statale nell'economia si aggiunsero le salate tariffe o dazi[1] doganali protettivi del 1887, che avrebbero dovuto difendere le industrie nazionali dalla concorrenza di quelle straniere.

L'effetto negativo fu che avvantaggiarono le zone più industrializzate (come Centro-Nord) mentre danneggiarono quelle meno industrializzate (come Sud) costrette ad acquistare prodotti industriali a prezzi maggiorati rispetto al mercato internazionale, e private nello stesso tempo della possibilità di sbocchi su altri mercati internazionali.

Addirittura alcuni monopoli industriali (come quelli tedeschi), sfruttando abilmente i dazi doganali, continuarono a tenere alti in patria i prezzi del prodotto ma nello stesso tempo lo abbassavano all'estero per conquistarsi vaste fette di mercato.

La seconda rivoluzione industriale è comunque mossa dalle grandi innovazioni e scoperte scientifiche e tecnologiche prime tra le quali quelle decisive per i nuovi modi di produzione industriale e di vita civile: le fonti energetiche di elettricità e petrolio, fonti che, per quanto aiutarono molto la produzione industriale, la fecero degenerare, a volte, nella "sovrapproduzione" con conseguenti fallimenti e disoccupazioni a catena.

Tra le innovazioni e scoperte tecniche e scientifiche di questa Seconda Rivoluzione industriale ricordiamo quelle relative ai mezzi di trasporto e di comunicazione.

Il motore a scoppio diverrà il motore ideale di molti mezzi di trasporto; l'automobile (con la nascita di grandi industrie automobilistiche) in sostituzione della bicicletta; i tram elettrici (come comodi mezzi di trasporto cittadini) in sostituzione delle carrozze a cavalli; le ferrovie, in sostituzione di quelle a vapore, la cui rete venne quadruplicata I mezzi di comunicazione si estesero dal telegrafo al telefono dell'italiano Meucci, alla comunicazione a distanza mediante onde elettromagnetiche di Marconi, e infine alla radio.

Infine, i fratelli francesi Lumière costruirono in quegli anni il primo apparecchio cinematografico e inventarono il cinema come proiezione animata di "immagini in movimento".


A questo decollo industriale europeo, corrispose un'efficiente e scientifica organizzazione del lavoro, che fece capo alla teoria dell'ingegnere americano Taylor, detta appunto taylorismo.

Queste pretese di pianificare ogni singola operazione dell'operaio, cronometrandola e stabilendo i tempi e le modalità ideali (la famosa catena di montaggio) per una veloce e cospicua produzione che alla fine avrebbe avvantaggiato non solo l'industria ma anche lo stesso operaio con guadagni sì maggiori, e tuttavia con un alienante asservimento alle macchine e alle operazioni più ripetitive e meccaniche.

Infine, oltre alla manodopera locale e gratuita dei paesi colonizzati, la grande industria aggiunge anche la manodopera europea, determinando così il fenomeno della emigrazione di massa non solo dalle campagne alle città industrializzate ma anche dalle proprie nazioni verso quelle più avanzate industrialmente e ricche di possibilità di lavoro.


LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE IN ITALIA


I tre anni di vita del Ministero Zanardelli - Giolitti (e poi gli anni a seguire degli ininterrotti governi giolittiani) furono contraddistinti anche da un momento di forte decollo industriale, ovvero dalla "seconda rivoluzione industriale" che stava contraddistinguendo tutta l'Europa.

Anche l'Italia assiste alla sua Seconda rivoluzione industriale e al suo decollo industriale; tra il 1896 e il 1913, la nostra economia non è semplicemente agricola ma industriale come nei paesi più avanzati. Quindi anche l'Italia conosce le realtà della concentrazione industriale e del capitalismo finanziario. Il decollo industriale richiedeva ingenti quantità di energia e l'Italia era molto povera di carbone e di petrolio; al fabbisogno energetico provvide pertanto importando combustibile o utilizzando le acque di fiumi di ampia portata come il Po di cui era molto ricca specie al Nord.

Tuttavia, l'impossibilità di allontanare i motori idraulici dai corsi d'acqua e avvicinarli ai luoghi dlel'industria, rese urgente l'adozione di quella fonte di energia che, attraverso cavi conduttori, poteva essere trasportata anche a grandi distanze ed essere facilmente convertita in altre fonti energetiche come calore, luce o movimento: l'energia elettrica.

Gli investimenti nel settore idroelettrico si moltiplicarono e, ovunque vi fossero montagne o fiumi di ampia portata, sorsero centrali idroelettriche. Tuttavia, il mito del cosiddetto "carbone bianco", ovvero dell'acqua come fonte energetica che avrebbe sostituito carbone e petrolio, restava appunto un mito, perché l'energia idroelettrica da sola non avrebbe mai potuto far fronte ai bisogni industriali e civili.

La produzione di energia elettrica era in 15 anni aumentata di 250 volte e di conseguenza era diminuita l'importazione di carbone dall'estero. Inoltre, poiché tutte le industrie utilizzavano metalli e macchine prodotti dall'industria pesante, metallurgica e meccanica, fu ovvio che questa si sviluppasse molto di più di quella leggera, tessile o alimentare.

La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la creazione, sia pure a costi molto alti, di una moderna industria siderurgica; questa divenne un potente trust italiano, al punto che i suoi dirigenti ottennero crescente influenza nel ministero e nel governo: tutto il settore era dominato da poche grandi società.

Nel settore tessile, che restava sempre il più importante per quantità di stabilimenti e per numero di addetti, i maggiori progressi si ebbero nell'industria cotoniera, altamente favorita dal protezionismo delle tariffe doganali e altamente meccanizzata.

Anche in settori non favoriti dal protezionismo delle tariffe doganali si registrarono notevoli progressi: quello chimico segnalava le industrie della gomma (Pirelli); quello meccanico diede una prima dimostrazione di efficienza nella vittoria riportata da una macchina italiana nella gara automobilistica della Pechino - Parigi (1907) e segnalava l'industria automobilistica e il predominio della FIAT (Fabbrica italiana automobili Torino, 1899), fondata da Giovanni Agnelli, e dell'ALFA (Anonima lombarda Fabbrica automobili, 1910); queste industrie automobilistiche si consolidarono anche grazie alle accresciute richieste di materiale ferroviario, navi e armamenti da parte dello Stato, nonché grazie alla domanda di macchinari indotta da tutto il complesso dell'industria italiana e ben presto determinarono la chiusura di altre piccole industrie automobilistiche semiartigianali.

Gli effetti del decollo industriale italiano si fecero sentire nelle cifre del reddito e nella qualità della vita.

Il reddito nazionale annuo crebbe del 50 %, questo tuttavia avviene con notevole ritardo e con minore intensità rispetto agli stessi paesi più avanzati come Francia, Gran Bretagna, Germania o Stati Uniti.

Ciò consentì tuttavia un miglioramento della qualità della vita italiana, soprattutto nelle grandi città: una buona quota dei bilanci familiari veniva destinata non solo alle ordinarie spese per l'alimentazione e per la casa ma anche per i beni di consumo durevoli: utensili domestici, biciclette, macchine da cucire o altri prodotti della moderna tecnologia che si affacciavano timidamente sul mercato nazionale.

I servizi pubblici (illuminazione, trasporti urbani, gas domestico, acqua corrente) s'intensificarono.

La mortalità infantile -indicatore per eccellenza dell'arretratezza civile ed economica di un paese- registrò un calo notevole.

Tuttavia le condizioni abitative dei cittadini restavano ancora precarie, nonostante il varo delle prime organiche iniziative di edilizia popolare da parte dei governi e delle amministrazioni locali.

Certo la diffusione dell'acqua corrente e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso di non poco conto, contribuendo anche alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive (colera, tifo o affezioni gastroenteriche), ma le case operaie e rurali erano per lo più affollate e malsane, raramente dotate di servizi igienici autonomi e di riscaldamento centralizzato.

L'analfabetismo era ancora molto elevato mentre si avviava a scomparire nell'Europa del Nord.

Durante il governo triennale Zanardelli - Giolitti (e poi gli anni a seguire degli ininterrotti governi giolittiani), la questione meridionale rimaneva aperta.

Come restava aperto il divario tra decollo industriale europeo ed italiano, così restava aperto quello tra Nord e Sud del paese.

Il divario fu più accentuato in ambito industriale, del cui decollo parvero beneficiare solo le città settentrionali del cosiddetto triangolo (Milano, Torino e Genova).

Ma anche l'agricoltura conosceva i suoi progressi soprattutto nel Nord grazie all'intraprendenza delle aziende capitalistiche della Valle Padana, che seppero approfittare della congiuntura favorevole e dell'elevata protezione doganale sui cereali per migliorare le tecniche di coltivazione.

Al Sud, invece, l'agricoltura risultava sfavorita dalle condizioni climatiche e ideologiche, nonché dalla povertà dei terreni di montagna o dalla permanenza di gerarchismi sociali obsoleti e mentalità diffuse che ostacolavano il mutamento economico e sociale.

Da questa situazione, ancor più che dal mancato sviluppo industriale derivava la persistenza dei mali tipici del Sud, mali antichi e ancora più gravi allora, se si pensa a quanto contrastassero con il contemporaneo decollo economico - sociale del paese:

l'analfabetismo diffuso

l'assenza di una classe dirigente moderna

la disgregazione sociale

la subordinazione della piccola e media borghesia agli interessi della grande proprietà terriera

il carattere personalistico e clientelare della lotta politica: per molti giovani, la conquista di un impiego pubblico, l'unico modo per evitare la disoccupazione e l'emigrazione, sembrava possibile solo attraverso i favori del deputato o del notabile locale

la costrizione all'emigrazione: il contributo quasi esclusivo dato al fenomeno migratorio di carattere permanente verso l'estero e verso il continente americano, mentre il fenomeno migratorio settentrionale risultava temporaneo e indirizzato verso i paesi europei.



IL SOCIALISMO IN EUROPA


La Seconda Rivoluzione industriale portava con sè numerose contraddizioni specie da un punto di vista sociale.

In primo luogo, i paesi europei più industrializzati avevano ridotto paesi del resto del mondo alla condizione di colonie sfruttate e subordinate, che solo dopo molto tempo si sarebbero ribellati.

In secondo luogo la concorrenza mondiale tra grandi potenze portò la conseguente divisione del mondo in sfere di influenza e la formazione di blocchi di alleanze che di fronte ai primi episodi scatenanti sarebbero entrati in guerra nel 1914.

In terzo luogo, all'interno degli stessi paesi industrializzati, la seconda Rivoluzione industriale, accentuando i contrasti e divari fra diverse classi, portava con sè una vera e propria "questione sociale" che avrebbe avuto ripercussioni molto più vicine nel tempo.

Agiata era la condizione dell'alta e media borghesia, specie quella imprenditoriale - capitalista; sufficientemente discreta quella di una borghesia emergente, ovvero della piccola borghesia impiegatizia, assunta nel settore amministrativo dello Stato, in trasformazione ed evoluzione visto il decollo economico di industrie, imprese e banche.

Misera e disastrosa, invece, era la condizione  lavorativa e di vita del proletariato industriale degli operai, nonostante con la propria manodopera avesse contribuito non poco al decollo industriale europeo di inizio secolo: ore di lavoro numerose e stancanti in cambio di un misero salario, sfruttamento e subordinazione rispetto ai padroni e sacrificio e stento continui.


Sulla scia dei primi fermenti ideologici presocialisti e socialisti, la classe sociale del proletariato industriale degli operai attuava una serie di forme di autotutela destinate a salvaguardare i propri interessi e a migliorare la proria condizione lavorativa e di vita.

Queste furono associazioni e riunioni, organizzazione di proteste o scioperi, creazione di sindacati e partiti.

Le prime organizzazioni in questo senso furono:

-1864: l'AIL (Associazione Internazionale dei Lavoratori)  nella quale confluirono gli appoggi di svariate tendenze di matrice socialista. Essa tuttavia entrò in crisi e si sciolse nel 1876 a partire dalle violenti polemiche che sorsero al suo interno.


I movimenti socialisti, poi partiti politici, assumeranno configurazioni diverse a seconda delle caratteristiche politiche, economiche e sociali di ogni singola nazione europea.

I partiti politici socialisti si diffusero dietro la spinta del partito socialista più organizzato, quello in Germania detto Partito Socialdemocratico tedesco (SPD, congresso di Gotha, 1875): proponeva, in alternativa all'impossibile e utopostica rivoluzione proletaria, un disegno di graduale crescita di potere politico, economico e sociale della classe operaia che prevedesse modifiche e riforme degli assetti vigenti della proprietà.

Il partito Socialdemocratico tedesco presenta un'organizzazione capillare ed efficiente, costituita da una fitta rete di mezzi di informazione come giornali, associazioni culturali o ricreative, e un'organizzazione burocratica a volte anche più efficiente di quella statale; i suoi leaders diventeranno un autorevole punto di riferimento dottrinario per gli altri partiti socialisti europei.

In Inghilterra, invece, in cui i sindacati nacquero molto prima della diffusione delle idee socialiste, la struttura sindacale conserva un singolare primato su quella politica; lo stesso Partito Laburista nasce come una federazione tra le Trade Unions (i sindacati inglesi) e le varie organizzazioni socialiste del paese, ossia come una trasmissione in Parlamento delle posizioni sindacali.

In Francia, il socialismo confluisce nella Sezione francese dell'Internazionale operaia (SFIO, 1905) dalla forte impronta umanitaria e democratica, tuttavia indebolita dalle forti polemiche interne tra riformisti e rivoluzionari.

In Italia, il Partito Operaio Italiano (1882), poi Partito Socialista Italiano (congresso di Genova 1892), pur conoscendo un sensibile aumento di consensi, verrà anch'esso indebolito dalle forti polemiche interne tra correnti interne.

Di fronte alla mancata realizzazione del crollo previsto del capitalismo, nacque in seno al movimento socialista, il cosiddetto RIFORMISMO, consistente nell'adozione di riforme a carattere sociale intese al miglioramento delle condizioni lavorative e di vita della classe del proletariato industriale degli operai, a seconda delle peculiarità politiche, economiche e sociali di ogni singola nazione europea.

Tuttavia non in tutti i paesi queste riforme furono attutate o, dove attuate, coinvolgevano fasce più o meno esigue della società.

Grazie ad una collaborazione tra forze progressiste e sindacali e Governo, in Inghilterra si introduce una legislazione sociale di tipo  riformistico e democratico, volta ad una partecipazione più diretta della classe popolare anche alla vita politica del paese, alla riduzione delle ore lavorative ad otto, alla limitazione del lavoro giovanile, all'equiparazione del lavoro salariale tra uomini e donne.

In maniera più o meno simile a quella del riformismo e sempre di fronte alla mancata realizzazione del crollo previsto del capitalismo, si sviluppò il cosiddetto REVISIONISMO di Bernstein che proponeva, in alternativa all'impossibile e utopostica rivoluzione proletaria, un disegno di graduale crescita di potere politico, economico e sociale della classe operaia che, pur in un'implicita accettazione del sistema capitalistico, prevedesse modifiche e riforme degli assetti vigenti della proprietà.

Insomma, la viva organizzazione della classe sociale del proletariato industriale, la nascita di partiti politici cosiddetti di massa perchè coinvolgevano il popolo a largo raggio e le rivendicazioni e le conquiste democratiche ottenute (specie il suffragio universale), spaventavano un po' tutta l'Europa borghese che vedeva in tutto ciò un segno di decadenza, un futuro in mano alle masse ignoranti o il pericolo della rivoluzione.

E infatti, all'interno del socialismo vero e proprio emersero gruppi minoritari più estremi del riformismo o del revisionismo che, di fronte alla mancata realizzazione del crollo previsto del capitalismo, misero in discussione alcuni fondamenti del socialismo stesso come ad esempio l'anarchismo.

L'ANARCHISMO, in polemica aperta col marxismo, sostiene l'emancipazione totale dell'uomo da qualsiasi forma di potere ( = oppressione) politico, economico, sociale -sia di tipo borghese capitalistico che di tipo proletario- e persino religioso.

L'anarchismo si diffuse soprattutto in Russia, Francia, Spagna e Stati Uniti e nel suo estremismo prese anche la via del terrorismo, nei numerosi attentati ad uomini politici e sovrani come quello al re d'italia Umberto I, ucciso da Gaetano Bresci nel 1900 o al presidente statunitense McKinley, ferito mortalmente nel 1901.


IL SOCIALISMO IN ITALIA



Abbiamo visto come anche in Italia nasce il Partito Operaio Italiano (1882), poi Partito Socialista Italiano (Congresso di Genova 1892) che, pur anch'esso indebolito dalle forti polemiche interne tra correnti interne, conoscerà un sensibile aumento di consensi.

D'accordo col nuovo re Vittorio Emanuele III, Giolitti mantenne una linea politica liberale anziché reazionaria, come ben avrebbe potuto fare in risposta all'assassinio del re Umberto I.

Riguardo alle lotte sociali che imperversavano in Italia e in Europa, in conseguenza della Seconda rivoluzione industriale, egli mantenne un atteggiamento di neutralità -anzichè di repressione- nel conflitto fra operai e padroni, tra socialismi e politica statale, anzi ritenne necessario adeguare il decollo economico italiano alla condizione del proletariato industriale degli operai che col loro lavoro avevano contribuito non poco a tale decollo: accettò che questi si organizzassero in sindacati e partiti, in proteste o scioperi, in associazioni e riunioni, per difendere i propri interessi e ottenere con mezzi legali un miglioramento delle proprie condizioni; anzi, sostenne Giolitti, bisognava accogliere questa protesta in nome di una proficua collaborazione tra tutte le classi sociali in Italia e perchè altrimenti, se ignorata o repressa, si sarebbe inasprita in senso rivoluzionario e avrebbe turbato l'ordine e la pace dell'Italia; repressioni venivano effettuate solo in caso di clamorosa violazione della legge o dell'ordine pubblico.

Inoltre intervenne sulla persistente condotta degli industriali e dei precedenti governi di tenere bassi i salari degli operai, considerandola come un errore umano (ingiusto è malretribuire chi contribuisce non poco al decollo economico del paese), strategico (in fondo un operaio malrestribuito è più debole fisicamente e intellettualmente, dunque rende poco; del resto i paesi con più alti salari operai sono quelli ai vertici dell'economia europea); politico (perchè inasprisce la lotta di classe fra operai e padroni, tra socialismi e politica statale, e rischia il suo inasprirsi in senso rivoluzionario, turbando l'ordine e la pace dell'Italia); economico (perchè turba il funzionamento della legge economica dell'offerta e della domanda: è giusto, cioè, che il costo del lavoro di manodopera salga quando di questo si ha più bisogno).

Nel 1901, dopo la caduta del governo Saracco, responsabile dello scioglimento della Camera del Lavoro di Genova, Giolitti sostenne in un discorso che "il moto delle classi popolari è giustificato ed invincibile perchè poggia sull'indiscusso principio dell'eguaglianza fra gli uomini".

Non solo Giolitti non ostacolò la protesta del proletariato industriale degli operai, ma anzi venne loro incontro con una politica riformista che previde ad es., l'approvazione delle norme sulla regolamentazione del lavoro festivo, del lavoro notturno o in ambienti insalubri e dannosi; almeno fino a quando la produzione assicurava ai grandi industriali buoni profitti, li rese anche più disponibili alla concessione agli operai di aumento salariale e migliori condizioni di lavoro e vita.

Ma la riforma maggiore di Giolitti in questo senso fu il suffragio universale maschile, ovvero la concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschili maggiorenni, diritto fino ad allora riservato ai soli uomini delle classi sociali medie ed elevate; con questa riforma il numero degli elettori balzò dai 3 agli 8 milioni.

Ne rimanevano escluse le donne, secondo il comune e diffuso pregiudizio per cui queste non dovessero e non potessero affatto interessarsi di politica; ma se questo a noi appare oggi come un limite gravissimo, allora era una convinzione comune e diffusa in tutta Europa, ad eccezione della Norvegia.

L'atteggiamento di Giolitti riscosse pertanto le simpatie e gli appoggi dei movimenti socialisti più moderati come quello guidato da Filippo Turati che, pur rifiutandosi di partecipare al governo, appoggiò la sua politica riformista.

Al compromesso col governo Giolitti si opposero invece i movimenti socialisti più estremi, cosiddetti massimalisti perchè volevano il "massimo" e cioè la rivoluzione, ossia sindacalisti rivoluzionari ed anarchici.

Nel loro comune terrore per i "Rossi" (i socialisti più estremi, anarchici o rivoluzionari), Chiesa e governi liberali come quello giolittiano si unirono nel cosiddetto patto Gentiloni (dal nome di uno dei promotori), che impegnava il governo liberale giolittiano ad opporsi a leggi "socialiste" anticattoliche (come l'introduzione del divorzio) e, in cambio, impegnava i cattolici a votare per partiti liberali giolittiani anzichè socialisti: considerando che molti paesi europei come l'Italia erano prevalentemente cattolici, si comprende quanto cospicuo fosse il numero dei voti che così i governi liberali riuscirono ad accaparrarsi.

Saranno proprio queste polemiche e questi conflitti interni al socialismo italiano a decretare via via l'indebolimento del Partito socialista.

All'interno del Partito socialista italiano, infatti, emersero gruppi diversi:

-i riformisti moderati -detti di destra- di Turati (Treves, Bissolati, Bonomi, Cabrini e Prampolini) secondo i quali le riforme graduali e la collaborazione con la borghesia più progressista fossero gli strumenti migliori per consolidare i risultati appena raggiunti e promuovere quelli auspicati del socialismo italiano

- i sindacalisti rivoluzionari -sulla scia di quelli francesi ispirati dal Sorel- (Labriola, Ferri, Lazzari), per i quali i conflitti sanguinosi tra forza pubblica e lavoratori soprattutto nel Mezzogiorno, mostravano la vera natura della classe dominante borghese e rendevano necessaria la via estrema (il massimo) della rivoluzione. Essi mettevano in luce la vera componente interessata e cautelativa del compromesso giolittiano con il socialismo moderato, dettato solo dalla volontà di tenerselo buono e dal timore che si lasciasse andare a pericolose rivoluzioni.

Nel Congresso di Bologna del 1904 le correnti rivoluzionarie ottennero la guida del partito a scapito dei riformisti moderati.

Fu così che, dopo l'ennesima repressione sanguinosa di una protesta proletaria(quella di minatori a Buggerru, in Sardegna), veniva organizzato il primo sciopero nazionale dei lavoratori italiani: proclamato dapprima in alcuni centri del Sud e poi estesosi fino al Sud, pur non degenrando mai in violenza, rappresentò ugualmente una grave minaccia per la classe borghese.

Tuttavia rivelò una certa incapacità organizzativa a livello nazionale, una distribuzione territoriale squilibrata del movimento operaio e sindacale o socialista, l'assenza di un organo centrale di coordinamento nazionale come punto di riferimento.

Questi stessi limiti furono avvertiti anche dalla parte riformista moderata che nel 1906 si riunì nella CGL (Confederazione Generale del Lavoro), organizzata ed efficiente al punto da avere la meglio sulla corrente estremista dei sindacalisti rivoluzionari.

Nel congresso di Firenze del 1908, i riformisti moderati turatiani ebbero la maggioranza ed ottennero l'espulsione, sia dal partito socialista che dalla stessa CGL, della corrente estremista dei sindacalisti rivoluzionari (che più tardi si organizzerà nell'USI -Unione Sindacale Italiana-), col pretesto di aver promosso uno sciopero duraturo e fallimentare dei braccianti parmensi e ferraresi.

I riformisti moderati di destra conoscevano i primi indebolimenti della loro corrente a causa di divisioni interne; vi era al suo interno una corrente revisionista che, ispirata al revisionismo del tedesco Bernstein e al laburismo inglese, auspicava la trasformazione del partito socialista in un "partito del lavoro" privo di spiccate connotazioni ideologiche e anzi propenso ad una collaborazione con la parte più democratico-progressista del governo.

E infatti, nel congresso di Reggio Emilia del 1912 ebbe di nuovo la maggioranza la corrente estremista di sindacalisti rivoluzionari e dei socialisti massimalisti -cosiddetti perchè volevano il massimo, e cioè la rivoluzione- , capeggiata da Mussolini, allora direttore dell'"Avanti"; questi riuscirono ad ottenere l'espulsione di alcuni riformisti moderati di destra come Bissolati e Bonomi e Cabrini, sotto l'accusa di aver approvato la giolittiana impresa colonialistica della conquista della Libia, contro la tradizione pacifista e internazionalista del partito.

Dopo l'espulsione, i riformisti moderati di destra si costituirono in un nuovo partito, il Partito Socialista Riformista, che tuttavia ebbe poco seguito, mentre vasti consensi trovava, specie all'indomani dell'assurda impresa libica di Giolitti, il Partito socialista originario, ora nelle mani dell'estremista rivoluzionario Mussolini; questi portò nella propaganda del partito uno stile nuovo, basato sull'appelo diretto alle masse e sul ricorso a formule enfaticamente agitatorie prese a prestito dal sindacalismo rivoluzionario.

Adesso lo scontro politico era quello tra una destra conservatrice, che trovava l'appoggio nei nazionalisti e nei clericali, e una sinistra in cui ormai prevalevano le correnti estremiste e rivoluzionarie su quelle riformiste moderate, specie dopo l'assurda impresa libica di Giolitti.

Tale scontro sfociò nella cosiddetta "settimana rossa" del 1914 di carattere insurrezionale; questa, provocata dalla morte di tre dimostranti in uno scontro con la forza pubblica durante una manifestazione antimilitarista ad Ancona, fu un susseguirsi di agitazioni e scioperi indetti dalla Confederazione generale del Lavoro, nelle Marche e Romagna, guidati da anarchici, socialisti rivoluzionari o massimalisti e quelli dell'Avanti di Mussolini, o Nenni e Malatesta, e che si avvalse di assalti ad edifici pubblici, atti di sabotagio contro le linee telegrafiche e ferroviarie, catture degli ufficiali dell'esercito, proclamazione di effimere repubbliche in piccoli centri.

Tuttavia, nella sua scarsa organizzazione, si esaurì in pochi giorni e fu duramente repressa militarmente (tornava la politica reazionaria e repressiva del 1898 anziché quella mediatrice, neutrale e di compromesso di Giolitti), avendo insomma come unico effetto il rafforzamento della linea conservatrice e reazionaria del nuovo governo Salandra -ancor più inadeguato di quello Giolitti ad affrontare la società di massa- e l'accentuarsi delle polemiche all'interno del partito socialista stesso. Gli echi della "settimana rossa" non si erano ancora spenti quando lo scoppio del primo conflitto mondiale distolse l'opinione pubblica dai problemi interni e provocò nuovi schieramenti all'interno del paese. La grande guerra avrebbe comportato la crisi irreversibile del sistema giolittiano che, per quanto meritevole di una certa spinta democratica e riformista e di una politica -interessata- di conciliazione, non fu capace di ascoltare in fondo le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa.






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