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IL SECONDO DOPOGUERRA
Gli organismi internazionali, il mosaico post-coloniale e la prospettiva della globalizzazione
<< Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole [.] >>
Questo brevissimo passo, estratto dal preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite, rispecchia l'esigenza dei principali stati del mondo in seguito ai due conflitti più sanguinosi della storia: costruire e mantenere un nuovo assetto mondiale fondato su rapporti politici, civili e commerciali di natura puramente pacifica, al fine di mantenere l'impegno di debellare ogni atteggiamento bellicista che potesse minacciare la libertà e la pace di ogni singolo individuo e ogni singola nazione.
Il presupposto è sicuramente quello di stroncare gli attriti nazionalistici che sono stati fra le cause primarie dello scoppio delle due Guerre Mondiali, riscoprendo un atteggiamento cosmopolita di stampo prettamente illuminista, fondato sul concetto di diritti dell'uomo: se è indubbio che i Fini e principi elencati nello Statuto delle Nazioni Unite del 1945 richiamino ai punti fondamentali de La pace perpetua di Kant, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 (documento fondamentale dell'O.N.U.) riprende pari passo alcuni dei punti fondamentali della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino firmata a Parigi dall'Assemblea Nazionale nel 1789!
La lettura dell'articolo 1 di entrambi i documenti è a dir poco esplicativa:
<< Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti [.] >>
Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino
<< Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti [.] >>
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo
Il caso del raffronto fra la Pace perpetua e lo Statuto delle Nazioni Unite è invece già più complesso, perché se i princìpi fondamentali sono da considerarsi convergenti, lo scopo dell'azione competente dell'O.N.U. presenta già delle differenze sostanziali. Il progetto kantiano si basò sull'armonia fra gli stati, così come l'O.N.U. parla di spirito di cooperazione: ma se Kant non sosteneva in alcun modo che l'organizzazione fosse sovrana sugli stati, l'O.N.U. invece in parte lo è, disponendo non di un potere esecutivo ma di un potere militare (costituito da parte dell'esercito degli stati componenti) volto, mediante la consultazione di un organo speciale (Consiglio di Sicurezza, la cui composizione è importante al fine di comprendere i limiti dell'organizzazione), a intervenire per la prevenzione di eventuali conflitti fra le nazioni.
E' un punto che senza dubbio dona alle Nazioni Unite maggiori potere e autorevolezza se messa a confronto con la fallimentare Società delle Nazioni, ma si fonda su un ossimoro che ancora oggi fa discutere: fare la guerra per salvaguardare la pace.
E' controversa la composizione dell'organo senza dubbio più potente dell'organizzazione, ovvero il Consiglio di Sicurezza, formato da dieci membri non-permanenti e 5 membri permanenti con diritto di veto (Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica, Repubblica di Cina): queste nient'altro sono che le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. Il limite del veto è evidentissimo, che soprattutto nell'ottica di scontro bipolare USA-URSS che si verificò nella Guerra Fredda si ripercosse anche all'interno di questo organo dal ruolo così delicato, al punto che le operazioni di voto delle risoluzioni rimasero più volte bloccate anche in casi di necessario intervento, quando ormai guerre di tragiche proporzioni infiammarono numerose regioni del mondo.
L'inefficienza dell'O.N.U. si rese evidente soprattutto nelle conseguenze dirette della decolonizzazione, ovvero il processo che portò i paesi occupati stabilmente dalle potenze europee, asservite ad una politica di esproprio economico e culturale, a sottrarsi al dominio dell'occupante recuperando l'indipendenza e la libertà: un processo mai del tutto pacifico, soprattutto quando il sentimento di rivalsa si fuse con l'ideale nazionalistico, come avvenne nella quasi totalità dei paesi post-coloniali.
La situazione creatasi nell'emisfero coloniale risvegliò le diverse anime del risentimento delle popolazioni oppresse dagli occupanti europei, che per tantissimi anni brutalmente sedarono ogni spirito critico, dal più moderato al più eversivo, a loro avverso. Si può parlare proprio di mosaico a causa del differente approccio usato dai paesi coloniali nei confronti di quelli colonizzati e delle diversissime tradizioni e religioni delle popolazioni locali (che furono una forza aggiunta al sentimento di rivalsa nazionale), o di tantissimi altri fattori sociali, politici ed economici: ciò contribuì a creare delle situazioni totalmente differenziate da colonia a colonia, se non anche all'interno delle singole.
Il triste punto di convergenza fra le storie post-coloniali di queste nazioni fu senza dubbio l'inadeguatezza metodica dei paesi colonialisti nel seguire il processo di indipendenza di questi stati, al punto che il procedimento adottato fu quello di abbandonarle letteralmente ad un lacerante destino: tale fu il comportamento della Gran Bretagna in India, che non si preoccupò minimamente di attuare una conciliazione fra le due etnie principali, quella indù e quella islamica, limitandosi a dividere in due parti il territorio segnando i confini senza alcuna preoccupazione. Il processo di indipendenza non violenta guidato da Mohandas Gandhi perse dunque tutto l'entusiasmo nella rivalsa nazionale comune: dopo la divisione del territorio coloniale in India (indù) e Pakistan (islamico), il sentimento legato al Mahatma deviò verso una contrapposizione fra nazionalismi fortemente intrisa di religione (che diede via ad un conflitto fra i due stati non ancora sanato) e causò la morte di Gandhi stesso (assassinato da un nazionalista indiano).
La stessa storia si ripetè poi nel resto del mondo post-coloniale, seppur per cause di diversa natura, ma con uguale se non peggiore violenza nelle ripercussioni sui popoli di questi paesi costantemente in guerra.
L'operato dell'O.N.U. è stato in questo senso fallimentare, in quanto l'inefficienza dei propri organismi ha permesso di attuare soltanto una politica di mediazione dei conflitti e non di prevenzione, come sarebbe invece dovuto accadere; gli anni '60 videro dunque la globalità del mondo spezzata in due: il Nord, degli ex imperi coloniali sviluppati economicamente e socialmente e il Sud, delle ex colonie, la polveriera del mondo, arretrato sotto ogni punto di vista e martoriato da guerre continue.
E' giusto dotare le Nazioni Unite di poteri sovrani oppure credere nella spontanea affermazione del diritto? Oppure bisogna evitare di mantenere un assetto globale dando per scontata la natura insanabile dei conflitti?
E' sicuramente un discorso storico ancora tutto da scrivere e il confronto ideale fra globalità e nazione non occupa più certo una posizione preminente nei contemporanei processi di unificazione globale, su cui l'economia ha senza dubbio una posizione di massimo rilievo: il fenomeno della globalizzazione non ha infatti nessuna base giuridica, nessuna prospettiva di sanamento dei conflitti (anzi, gli avvenimenti degli ultimi dieci anni dimostrano l'esatto contrario) essendo asservito soltanto al beneplacito delle società multinazionali, che sono oggi le uniche vere organizzazioni sovrane e sovrastatali, che costituiscono l'ordine mondiale del mercato ma anche della politica estera e interna di tutti gli stati del mondo.
Un processo che si ripercuote nella vita di tutti i giorni: così come nel bancone del supermercato ritroviamo beni provenienti da tutto il mondo, anche nelle città moderne ritroviamo uomini di tutte le nazionalità, perché inseriti anch'essi in questo processo meccanico, che porta diverse identità a stretto contatto fra loro come mai si è visto nella storia. Londra, capitale storica dell'imperialismo mondiale, non è più una città inglese, ma è una città del mondo: europei, africani, americani, asiatici sono a stretto contatto nel nuovo piccolo-grande cosmo legato solo apparentemente da un rapporto di natura produttiva.
L'effetto negativo di ciò è senza dubbio il rischio di ridurre ogni essere umano alla sola natura di produttore e consumatore, non beneficiario dell'economia ma schiavo di essa; ma è al tempo stesso la natura pacifica e positiva del commercio, di cui Kant parlava nella Pace perpetua: è naturalmente erroneo affermare che la globalizzazione sia un fenomeno pacifico nelle sue motivazioni economiche e nelle sue conseguenze storiche; ma è sicuramente vero che tramite questa si possa creare finalmente un rapporto autentico fra uomini di diversa lingua, cultura e religione, ed è un grandissimo privilegio se saputo orchestrare col comune presupposto di civiltà . Il superamento della natura economica di questo rapporto è fondamentale per elevarlo ad un livello maggiore, che sia di interscambio spirituale (inteso come spirito identitario) al fine di stabilire le fondamenta per la convivenza reciproca e superare ogni tipo di pregiudizio e conflitto (che non si potrebbe più creare quando l'identità è comune e riconosciuta da tutti): la stipulazione di un patto e l'organizzazione di un progetto giuridico volto a mantenere il nuovo ordine già costituito dagli uomini per gli uomini e il loro benestare potrebbe essere a questo punto pura e semplice formalità.
Tutto il discorso è valido sempre se fondato sul mantenimento o meno del principio di universalità dei diritti dell'uomo, su cui opera il dibatto della moderna filosofia, basata sul relativismo e numerosi risultati di ricerche antropologiche.
E se i diritti universali non vi fossero?
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