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DISAGIO STORICO TRA IL 1876-1900: la Sinistra al potere e la seconda industrializzazione del paese




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DISAGIO STORICO TRA IL 1876-1900: la Sinistra al potere e la seconda industrializzazione del paese


Lo sviluppo economico dell'Italia del XIX secolo e in particolar modo degli ultimi anni del 1800, rientra all'interno di un fenomeno che coinvolge tutta l'Europa. Gli storici parlano di una seconda rivoluzione industriale, a partire dal 1850, caratterizzata da una nuova serie di fattori: l'applicazione dell'energia elettrica ai macchinari industriali e la nascita dell'industria petrolifera; le nuove scoperte tecniche: il telefono, l'illuminazione elettrica, il motore a scoppio, l'automobile e il cinema la cui prima proiezione avviene il 28 Dicembre 1885 a Parigi, da parte dei fratelli Lumieres; il fisico tedesco Herz scopre nel 1887 le onde elettromagnetiche, rendendo possibile la radiotrasmissione, realizzata da Guglielmo Marconi nel 1899; lo sviluppo dei trasporti, stimolato dalla necessità di ampliare i mercati, conosce un'eccezionale espansione con l'applicazione del vapore ai trasporti terrestri e marittimi. Con la seconda rivoluzione industriale si rendono disponibili capitali mobili, che mediante l'intermediazione delle banche, vengono impiegati per finanziare attività e nuove forme di produzione.

Le conquiste tecnico-scientifiche accelerano lo sviluppo delle industrie che cominciano ad avere nell'Europa occidentale e negli Stati Uniti un peso decisivo, generando il fenomeno dell'urbanesimo: le masse rurali abbandonano le campagne per trasferirsi nella città. La produzione industriale inoltre, elevando il tenore delle masse cittadine, mette in difficoltà le campagne, richiedendo una meccanizzazione dell'agricoltura che, date le aumentate richieste di prodotti della città, deve diventare sempre più intensiva, soppiantando la pastorizia e specializzandosi mediante la selezione delle sementi e del bestiame.

Lo sviluppo del capitalismo industriale accentua le differenze nell'ambito di una stessa nazione tra zone evolute e zone agricole arretrate, in aperta contraddizione con le esigenze della società industriale che ha bisogno di un avvicinamento tra i diversi ceti sociali per garantire un consumo uniformemente distribuito.

Nell'Italia del 1870, all'indomani della presa di Roma, il Governo è dominato da una destra conservatrice di proprietari terrieri e borghesi dediti prevalentemente ad attività agrario-commerciali. La grande massa della popolazione urbana e rurale, costituita da salariati e contadini, rimane esclusa dalla vita politica, priva del diritto di voto ed incapace di esprimere attraverso adeguate forme associative la propria presenza nel Paese.

Il vero e proprio proletariato si concentra in poche industrie meccaniche a Genova, Torino, Milano e Napoli. Mentre si sviluppano le industrie siderurgiche degli altiforni a carbone di legna stanziate nelle valli lombarde, in Val d'Aosta, in Toscana e in Calabria, che producono ghisa utilizzando i minerali ferrosi dell'Elba, le industrie tessili della seta del comasco, del cotone in Piemonte, Lombardia e Veneto, e della lana in Piemonte e Veneto.

L'unificazione del mercato nazionale, favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria e stradale, accelera gli scambi, rompe l'isolamento provinciale e crea il presupposto per il decollo industriale e per la penetrazione del capitalismo nelle campagne.

Il nord attua queste trasformazioni tra il 1870 ed il 1880 per ragioni storiche e geografiche, quali la presenza di una borghesia, la vicinanza di mercati esteri, la viabilità facile della Pianura padana ricca di canali e fiumi navigabili, come il Po ed i suoi maggiori affluenti. Nel centro-sud invece la presenza di una classe dominante con caratteristiche feudali e le difficoltà di comunicazione determinate dalla dorsale appenninica frenano lo sviluppo. La meccanizzazione crea disoccupazione fra i braccianti e fra i piccoli artigiani messi in difficoltà dalla concorrenza dell'industria. Anche la piccola proprietà terriera è costretta a cedere il passo alle grandi aziende, dato che i suoi costi di produzione perdono competitività sul mercato.

Inizia una fase di profondo disagio storico: dopo il trasferimento della capitale del regno a Roma, conclusa l'età eroica del Risorgimento nazionale, bisogna affrontare i problemi della riorganizzazione amministrativa, della sistemazione del bilancio, della miseria dilagante nel sud; inoltre è sempre vivo il problema dei territori rimasti sotto la sovranità austriaca e l'attrito col Vaticano. regno a Roma la destra tenne il potere ancora p

A gestire la prima fase di questo passaggio è il governo di destra guidato da Minghetti che unisce gruppi spesso in disaccordo tra loro: i deputati del nord danno un appoggio tiepido all'azione governativa; il gruppo meridionale lamenta il carico fiscale per il mezzogiorno cui l'unificazione non ha portato i benefici sperati; i deputati del centro oltre a recriminare per il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, si irrigidiscono contro il Governo che intende nazionalizzare le ferrovie, dato che le banche toscane si sono impegnate in cospicui investimenti per le costruzioni ferroviarie del sud.

La destra dapprima ottiene successi: le annessioni del Veneto e di Roma, le trasformazioni industriali ed agrarie; la politica fiscale che triplica le entrate dal 1861 al 1875, e realizza il pareggio del bilancio, pressando soprattutto le classi meno abbienti; ma perché non sa procurarsi la collaborazione della sinistra moderata. Nell'ottobre del 1875 il capo riconosciuto della sinistra, Agostino Depretis, in un discorso delinea il programma che avrebbe attuato se fosse salito al potere: l'allargamento del suffragio, l'abolizione delle imposte sul macinato che caratterizzano il Governo di destra teso a portare in pareggio il bilancio dello Stato, l'istituzione di una scuola elementare laica, gratuita, obbligatoria ti del padronatolle proprie possibilità di lotta e resoistenza di se stessa ma orami avviata ad acquistare coscien, l'attuazione di autonomie locali.

Tale programma ufficiale della sinistra suscita speranze nel paese, e il 18 marzo 1876, quando il Governo Minghetti si trova in minoranza per la defezione dei deputati toscani che gli votano contro in relazione alla proposta di nazionalizzare le ferrovie, il Re Vittorio Emanuele II dà l'incarico di formare il nuovo Governo ad Agostino Depretis, esponente di una coalizione di forze non omogenee che rappresentano un'apertura più sensibile ai bisogni della piccola borghesia, in particolar modo meridionale, che per dieci anni, fino alla sua morte nel 1887, regge i governi espressi dalla sinistra. Il fatto della sinistra al potere non rappresenta quindi quella rottura con il Governo precedente che molti temono, perché gli uomini della sinistra, sono sempre espressione dei ceti medi profondamente legati alla conservazione della realtà sociale e politica esistente. Lo stesso Depretis è convinto che si può attuare una politica di progresso per mezzo della collaborazione con gli elementi della vecchia destra, la quale anzichè organizzarsi in un partito di opposizione, si sfalda rapidamente, proprio perché i suoi esponenti più significativi entrano a far parte del Governo della sinistra. Con le elezioni del 1876 la sinistra ottiene il consenso dell'elettorato e di conseguenza il Depretis dà l'avvio alla sua politica, affidandosi più alla propria capacità di manovra che alla formazione di uno schieramento politico stabile: Depretis realizza quella prassi politica che va sotto il nome di trasformismo, che appiattisce la vita parlamentare, favorendo maggioranze improvvisate e ostacolando lo sviluppo di partiti contrapposti. Si deve comunque riconoscere che il trasformismo non è un'invenzione del Depretis, ma la prova che la classe borghese, la sola dotata di diritti politici, data l'uniformità degli interessi sociali e politici, non può esprimere partiti in contrasto tra loro.  

La prima delle grandi riforme è la legge del Ministero della Pubblica Istruzione Coppino nel 1877, la quale prevede, per combattere l'analfabetismo che in Italia meridionale giungeva al 74%, l'obbligatorietà dell'istruzione elementare per i primi due anni. Il punto debole della riforma è l'attribuzione ai Comuni dell'onere della costruzione e gestione delle scuole che crea disparità nell'applicazione della legge tra i Comuni piccoli e poveri e quelli del nord più industrializzati.

La riforma elettorale del 1882 estende il diritto di voto a tutti coloro che hanno la licenza elementare ed un minimo di censo, portando il numero degli elettori dal 2% al 7% della popolazione, percentuale elevata considerando che nella democratica Inghilterra vota solo l'8,5% della popolazione. Purtroppo anche questa riforma finisce per avvantaggiare la rappresentanza politica di un nord industriale e maggiormente istruito dell'elettorato del mezzogiorno.

Le promesse di decentramento amministrativo sono mantenute solo in parte, perché i prefetti conservano intatto il loro potere di rappresentanti del Governo nelle province e soltanto i Sindaci divengono elettivi.

Per quanto riguarda la finanza, ricompare ben presto lo spettro del disavanzo, a causa delle spese per l'esercito e per la marina, sproporzionate alle possibilità del Paese.

La riforma fiscale si basa sull'abolizione della tassa sul macinato nel 1880, decisa anche in considerazione della crisi dell'agricoltura che fa spostare i capitali, grazie alla mediazione di istituti di credito quali la banca generale e il credito mobiliare, verso l'industria. Infatti il governo Depretis appoggia l'industrialismo adottando una politica protezionistica pienamente realizzata proprio nel 1887, anno della morte di Depretis. L'ascesa al potere della sinistra coincide con lo sviluppo delle industrie e dei trasporti marittimi e terrestri che contribuisce all'incremento della ricchezza nazionale e all'aumento della popolazione dai ventisette milioni del 1871 ai quasi trentamilioni del 1881. Mentre le ferrovie attorno al 1885 raggiungono uno sviluppo di diecimila chilometri, si affermano le prime grandi industrie: l'industria della gomma di Giovanni Pirelli a Milano, l'industria metallurgica di materiale ferroviario di Ernesto Breda a Padova, e le acciaierie di Terni che sfruttano la forza motrice offerta dalle cascate d un affluente del Tevere; nel 1884 si afferma la Edison, grazie ai progressi compiuti nel campo dell'industria idroelettrica.

Non è un caso che lo sviluppo industriale coincide con l'avvento al potere della sinistra: mentre gli uomini della destra sono portatori delle esigenze dei proprietari terrieri che nell'800 costituivano il nerbo dell'economia italiana, gli uomini della sinistra, in accordo col progresso tecnico ed economico europeo dei tempi, sono espressione e sostegno della nuova borghesia impegnata nella costruzione dell'industria e pertanto ne favoriscono le aspirazioni.

Il capitalismo industriale italiano compare sulla scena europea con notevole ritardo rispetto alle altre potenze, ormai già impegnate in una lotta spietata per la conquista delle materie prime e dei mercati, pertanto non vive la fase iniziale della libera concorrenza, ma deve cercare di difendersi dalle industrie europee mediante il protezionismo a favore delle industrie nazionali e delle aziende cerealicole del centro-sud, minacciate dalla concorrenza americana in seguito alla riduzione delle tariffe dei trasporti.

Nel 1877 si approva un sistema di tariffe doganali che porta ad una rottura con la Francia. La politica economica adottata dalla sinistra, se per un verso può giustificarsi col desiderio di promuovere lo sviluppo industriale nel paese, per un altro verso dà a questa industria un carattere parassitario, nel senso che le nuove attività possono svilupparsi solo grazie al sacrificio degli strati più bassi della popolazione, costretti ad acquistare manufatti e prodotti agricoli nazionali a prezzi più alti di quelli stranieri, dei quali si ostacola l'importazione.

Questa politica economica, inoltre, compromette l'ortofrutticoltura e la produzione dei vini meridionale, che si reggono sulle esportazioni. Così le condizioni dei contadini meridionali diventano più difficili e l'emigrazione assume un ritmo imponente specialmente verso le due Americhe. I governi della sinistra non hanno la forza politica per affrontare la questione meridionale e i provvedimenti presi non avvicinano le masse alle istituzioni statali. La cassa nazionale sugli infortuni sul lavoro e la legge dell'86 intesa a proteggere il lavoro dei fanciulli nelle industrie hanno il merito di stabilire i limiti allo sfruttamento del lavoro umano da parte degli imprenditori, ma non risolvono il problema sociale.

A livello di politica estera il governo di sinistra fa i conti col rischio di un isolamento politico, visti i cattivi rapporti con la Francia e il tradizionale antagonismo con l'Austria, che ancora controlla territori di lingua italiana come il trentino e la città di Trieste che gli irredentisti vogliono unire al Regno d'Italia. Il Governo della sinistra ritiene perciò opportuno avvicinarsi all'Austria, che già dal 1979 ha stretto un patto d'alleanza con la Germania. In questa decisione il governo è appoggiato dal sovrano Umberto I, salito sul trono nel 1878, che nel suo autoritarismo simpatizza per i regnanti di Germania e di Austria, sollecitato dalla moglie Margherita, figlia di una principessa tedesca, che nutre un trasparente disprezzo per le istituzioni democratiche e parlamentari.

Questa linea di politica estera si rafforza nel 1881, quando la Francia impone il protettorato sulla Tunisia, dove l'Italia ha rilevanti interessi economici lavorano forti nuclei di emigranti italiani. In Italia l'occupazione francese della Tunisia è considerata una provocazione e nel 1882 il governo accetta, per uscire dall'isolamento politico, la proposta di Bismarck: nasce la Triplice Allenza tra Italia, Austria e Germania, un'alleanza difensiva, rinnovabile ogni 5 anni, destinata a durare fino al 1915: i firmatari si impegnano a prestarsi aiuto in caso di aggressione, ma mentre Germania e Austria impegnano l'Italia in caso di conflitto in Europa, i governi austriaco e tedesco non si impegnano a loro volta per i conflitti nel Mediterraneo e in campo coloniale, gli unici settori riguardanti la politica estera italiana. La Triplice Alleanza, nonostante la sua impopolarità, rappresenta un atto realistico, anche se i suoi limiti stanno nel fatto che l'avvicinamento ai due imperi autoritari incoraggia spese per l'esercito e la marina sproporzionate alla gracile economia del paese.

Verso il 1880 in Italia si diffonde l'interesse per l'Africa orientale e nel 1882 il governo italiano acquista il territorio di Assab, all'estremità meridionale del mar Rosso, che serve come base per una espansione litoranea fino all'occupazione del porto di Massaua nel 1885 e poi per l'espansione verso l'altopiano etiopico, a danno della sovranità dell'Abissinia e del suo negus Giovanni IV che, colle sue truppe etiopi, distrugge una colonna italiana di cinquecento uomini, a Dogali, tra Massaia ed Asmara, nel 1887. Anche se l'episodio da un punto di vista politico-militare non è un disastro irreparabile, l'opinione pubblica italiana provoca la caduta del ministro degli esteri Robilant che peraltro, ha conseguito proprio nel 1887 un brillante successo diplomatico col rinnovo della Triplice Alleanza con cui riusce ad ottenere dalla Germania precisi impegni d'intervento in caso di conflitto italo-francese, e dall'Austria la concessione di reciproci compensi in caso di vantaggi nei Balcani e nell'area adriatica. Il rinnovo della Triplice rafforza la posizione internazionale dell'Italia e costituisce uno strumento di stabilità politica per l'Europa fino alla vigilia della prima guerra mondiale.


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