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Leggi anche appunti:Scheda del libro il diario di anna frankSCHEDA DEL LIBRO AUTORE: Anna Frank TITOLO: Il diario di Anna Frank CASA Le principali opere: italo svevo, la figura dell'inetto, la poeticaLE PRINCIPALI OPERE: ITALO SVEVO Una vita: scritto nel 1893, è il primo romanzo Italiano: Oriana Fallaci - Vita, Opere, PensieroItaliano: Oriana Fallaci "Il mio mestiere era questo: raccontare |
Esame di Stato
ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE
GIACOMO ANTONIETTI
ISEO
Tra Levi e Dante: l'inferno
a confronto
In copertina:
Foto di Primo Levi e Ritratto di Dante Alighieri, affresco di Luca Signorelli, Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto; alle sue spalle, un'immagine di Virgilio, codice detto "Virgilio Romano", V secolo d.C., Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano.
Perché ho scelto questa tesi?
Ho scelto di pormi una domanda in particolare di parlare di se questo è un uomo, uno dei libri che più mi ha colpita di Primo Levi, uno dei più grandi scrittori del '900, pensando che, se l'ombra di Dante percorre tutta la sua opera, delle volte implicitamente, altre più esplicitamente, ci sia un perché; una riflessione di fondo dell'autore. Ho deciso, quindi, partendo da un breve excursus, di mettere in mostra i parallelismi tra la Commedia e se questo è un uomo visibili soprattutto nel canto di Ulisse, canto decisivo perché tratta di uno dei personaggi più importanti e ripresi della letteratura classica. Ho voluto mostrare aspetti e motivi per cui le citazioni e il ricordo dantesco diventa quasi paradossalmente "vitale" ai fini della motivazione della realtà del lager e di aiuto per Levi stesso nel suo immane sforzo di sopravvivenza.
Levi attribuiva la sua sopravvivenza a vari fattori: egli conosceva abbastanza il tedesco e questo gli permetteva di capire gli ordini con immediatezza. Data la sua laurea in Chimica lo avevano utilizzato in un laboratorio dove soffriva meno il freddo e i disagi materiali. Si era inoltre ammalato provvidenzialmente di scarlattina quando, nel 1945, avvicinandosi i Russi, i prigionieri furono fatti spostare a Buchenwald e a Mathausen dove morirono quasi tutti, mentre i malati furono abbandonati al loro destino.
Pochi furono i superstiti, perché più che inumane erano le condizioni di vita del campo. Nella lotta per sopravvivere ognuno era ferocemente e disperatamente solo, tutto teso con selvaggia pazienza e con qualsiasi mezzo, a ritagliarsi un angolo minuscolo di privilegio, un grammo in più di pane, un lavoro meno sfibrante. Gli altri, i sopraffatti dalle fatiche, dall'inedia, dal freddo, erano destinati a soccombere, ad essere eliminati, ormai distrutti e già morti prima di andare nelle camere a gas, perché troppo stanchi. In mezzo a tanta desolazione, avvertiamo però ad un tratto nelle sue pagine la sferzata di energia che può provenire dalla forza morale emanata dalla grande poesia.
Cesare Segre, nella recente Postfazione all'opera, fa notare che Levi ebbe vari scopi nella sua scrittura: documentare un'esperienza estrema; mostrare, anche per prevenirle, le peggiori conseguenze della xenofobia; meditare sul comportamento umano in condizioni eccezionali; raccontare per liberarsi di un'ossessione. Nel parallelismo con l'opera dantesca, importa soprattutto la meditazione sul comportamento umano in condizioni eccezionali e il raccontare il male.
Primo Levi per contro ad altri deportati sostenitori dell'inutilità ad Auschwitz della cultura ribatte dicendo " a me la cultura è stata utile"; "mi ha servito e forse mi ha salvato". Dante stesso nel suo viaggio ha come guida Virgilio, la cultura classica e in generale le capacità umane, fino al paradiso terrestre. Da questa frase vorrei partire con il mio piccolo lavoro di ricerca; in particolare in Levi due episodi mostrano l'importanza della cultura e una "svolta" nella vita del lager. Gli esempi proposti rinviano al decimo e all'undicesimo capitolo di se questo un uomo, l'esame di chimica e il canto di Ulisse, che reinvestono un ruolo particolare nel contesto del libro, essendo gli unici a riguardare tanto intimamente l'individuo Primo Levi. I due episodi sono antitetici e tuttavia simmetrici. In entrambi due personaggi sono al centro della narrazione: Primo Levi e il Doktor Pannwitz, nel primo capitolo; Primo Levi e Jean, il "Pikolo", nel secondo. Vi spiccano due generi di cultura: quella scientifica e quella letteraria.
L'esame di chimica è talmente rappresentativo della "follia geometrica" dell'universo concentrazionario da far parte di quegli avvenimenti difficili da credere anche a posteriori. Vi si ritrova il clima abituale di un esame, ma i candidati sono" per metà dementi" con le "facce vuote" e i crani tosati,"non più vivi", e Primo Levi ironicamente li rappresenta come animali, come spesso è fatto nell'inferno di Dante, per sottolineare la totale disumanità di una situazione che eppure noi viviamo nella nostra quotidianità. L'esaminatore ha potere di vita o di morte. Di questo passo vorrei citare una frase di Levi rilevante sul tema precedentemente citato della memoria:
" Ecco Alex. Io sono un chimico: che ho a che fare con questo Alex? [.] sono specializzato in chimica mineraria. Sono specializzato in sintesi organiche. Sono specializzato."(SQU pag 94,95)
per un attimo l'identità si afferma con il ritorno della memoria e appaiono in contrasto l'essere specializzato e la situazione omologata del lager.
Questo riconoscimento di sé stessi rende ancora più dolorose l'umiliazione inflitta dallo sguardo di Pannwitz, il dottore-esaminatore presentatosi come un nuovo Minosse, e la ricaduta finale nello statuto di cosa su cui pulirsi negligentemente la mano.
In se questo è un uomo ogni ritorno all'identità precedente è, perlopiù, fonte di sofferenza. Pone fine a quella anestesia legata all'oblio, pericoloso in quanto comporta il rischio di perdersi e che appare indispensabile all'adattamento alla vita del Lager. Riguardo a questo tema penso sia da sottolineare come i dannati danteschi potessero prevedere il futuro, ricordarsi il passato, ma non essere a conoscenza del presente. L'esame di chimica non aveva l'esclusivo significato di sopravvivenza grazie a una condizione relativamente privilegiata, ma restituiva anche al detenuto una certa dignità; quella dignità veniva però negata nel momento stesso del suo riconoscimento, ed è quanto di più prezioso possedeva, l'identità di chimico. Fonte maggiore di sofferenza, ma nel contempo momento luminoso nel campo è costituito dal "canto di Ulisse": due uomini si trovano fianco a fianco, in un rapporto non di contraddizione solita, bensì di condivisione. L'atmosfera del capitolo è di una piccola tregua; sembra che i ricordi possano emergere senza far soffrire e nasce un desiderio di comunicare nella stessa lingua, fatto, questo, particolarmente rilevante in un mondo caratterizzato da insormontabili barriere linguistiche: "vorrebbe imparare l'italiano. Io sarei contento di insegnargli l'Italiano: non possiamo farlo? Possiamo. Anche subito, una cosa vale l'altra, l'importante è non sprecare quest'ora.."(SQU pag 100) recitandogli e cercando di tradurgli un passo del ventiseiesimo canto dell'inferno di Dante, Primo Levi darà una lezione di lingua al suo compagno, Pikolo; si chiederà , poi,"chissà come e perché mi è venuto in mente".
Questa è la domanda che ho voluto pormi riguardo non solo quest'ultimo capitolo, ma tutte le citazioni disseminate nel testo; le risposte a questa questione sono molteplici.
Molte testimonianze fanno riferimento all'inferno dantesco per disegnare l'universo concentrazionario. Riferimento spesso stereotipato, rappresentativo, però, della rilevanza di questo testo nella nostra cultura. È evidente come Levi citi Dante per una corrispondenza dei luoghi cioè l'inferno.La città infernale e il lager combaciano. Levi organizza e descrive il lager come fosse l'Inferno dantesco. L'autore torinese conoscesse molto bene la struttura architettonica della Commedia.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti ad un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni (SQU 83).
L'avverbio di luogo è indizio di un cortocircuito in cui Se questo è un uomo e la Commedia entrano in contatto. La presenza dell'avverbio «quivi» è il rimando subitaneo all'Inferno. Il quivi non è un arcaismo qualsiasi; per la coincidenza dell'ordine delle cose e delle parole «quivi» si applica ad ogni città senza luce, designa l'inferno di Dante come Auschwitz ed è l'inserimento di Dante in Auschwitz». "L'inferno leviano" come quello dantesco è misto: gente con caratteristiche, vite, origini completamente differenti e molteplici. Nel campo infatti "vivono" non solo ebrei (ebrei di ogni parte d'Europa), ma criminali, prigionieri politici.
Dell'inferno presentato da Levi si deve tener ben presente come fin dall'inizio il parallelismo risulti imperfetto: Dio non esiste nel lager. L'Inferno dell'autore è del tutto laico, "mondano", dell'uomo, in cui questi ultimi non si trovano lì per volere "Altrui", ma per volere "altrui".
La citazione di interi versi del XXVI canto dell'Inferno è la più esplicita fra le citazioni dantesche, ma nel testo ne sono riconoscibili molte altre di cui riporterò degli esempi cercando di mettere in parallelo le due opere.
Il libro si apre con una poesia che dà titolo
al libro: se questo è un uomo Voi
che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Questi versi sono icastici, molto incisivi, è come se mostrassero una diapositiva dietro l'altra nella quale si passa da case tiepide a donne nel fango. Da notare è come l'autore chiama subito in causa i lettori, li apostrofa. Li prende di forza e li mette nel bel mezzo del campo di concentramento. Nel chiamarli segna una distanza tra sé (il lager) e loro (le tiepide case). È questo un procedimento dantesco che possiamo vedere in alcuni esempi qui riportati:
Vita
nuova, capitolo VII:
"O voi che per la via d'Amor passate,
attendete e guardate
s'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave;"
"O voi che sanz' alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo" Inf., xxx, 58-61
C. Cases, L'ordine delle cose, in Primo Levi: un'antologia della critica, cit., p. 14
e specificamente nella cantica del paradiso dove si trova l'esempio più noto:
"O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d'ascoltar, seguìti
dietro il mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché, forse,
perdendo me, rimarreste smarriti" (Par., ii, 1-6).
L'apostrofe marca un confine tra sé e chi leggi: Levi ha vissuto sulla sua pelle lo sradicamento della parola; la sua esperienza può essere letta, ascoltata, ma mai nessuno che non sia stato in quei luoghi potrà capire in fondo:
Noi diciamo "fame", diciamo "stanchezza", "paura" e "dolore", diciamo "inverno", e sono altre cose. Sono parole libere create ed usate da uomini liberi (SQU 119).
Già nella prima parte, quindi, notiamo una conoscenza e una ripresa degli stili danteschi, ma procedendo nella lettura della poesia si notano altre analogie, per esempio ritmiche rimandanti all'inferno:
"Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente." (inf,III; 1-3)
"Che
lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no."
È ripresa l'anafora che dà una cadenza ritmica che scandisce la poesia come scandisse il tempo.
L'iter concentrazionario è un discendere verso il fondo e Levi ordina il racconto secondo questa successione. Il viaggio e Sul fondo rappresentano l'entrata negli inferi. E non a caso compare Caronte sotto le spoglie del soldato tedesco, che non urla ma chiede con cortesia. Alle terzine dantesche che accolgono i dannati e definiscono l'Inferno (il famoso «Per me si va») fa da rimando la definizione del nuovo inferno, diverso nella forma, ma medesimo nella sostanza: «Questo è l'inferno. Oggi, ai nostri giorni, l'inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi» (SQU 16).
Levi segna un'impossibilità dell'uomo, compie un' indagine sociologica mostrando l'inferno e la disumanità dell'uomo. "accende una pila tascabile, e invece di gridare-guai a voi anime prave- ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli:tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro Caronte" (SQU cap. 1).
Levi durante la narrazione parla da dannato e lo fa paragonandosi a Ciacco. Proprio la figura di questo dannato buttato nel fango, sozzo di melma, spinge Levi ad una immedesimazione più profonda, come si può notare nelle pagine conclusive del capitolo Sul Fondo, dove l'autore si autorappresenta così: «Spingo i vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia» (SQU 31). Il fiaccarsi alla pioggia è un'eco precisa, un gioco di specchi:
"Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco" (Inf., vi, 52-54).
A queste citazioni si aggiungano le urla, il vento gelido e la pioggia che contraddistinguono queste pagine. Ma a dominare tragicamente la scena, specialmente nel capitolo Sul fondo, è il tema della nudità. "Ecco i corpi nudi dei vecchi e dei giovani, tutti accomunati in una baracca: entra un vento gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con le braccia" (SQU 17).
Un gesto naturale, quello di coprirsi il ventre con le mani, ma che ricorda quello di Adamo nel momento in cui riconosce di aver peccato e prova vergogna; la nudità coatta e lo stupore delle proprie membra al gelo freddo fanno parte di un'iconografia dantesca:
"Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude
cangiar colore e dibattero i denti" (Inf., iii, 100-101).
La prima condizione dei dannati è quella di essere nudi. La spogliazione di sé è il primo passo verso la metamorfosi, il progressivo disfacimento, la perdita di ogni barlume di vita, rappresentato dai "mussulmani". Anche per i dannati danteschi, la prima, la più essenziale delle condizioni, giunti all'Inferno, è l'essere nudi e spaventati. "come pensare? Non si può pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia"
Nel capitolo il viaggio il convoglio arriva in lager, gli Untermenschen, i sottouomini, o gli Häftling, vengono selezionati da parte di quelli che sembrano "semplici agenti d'ordine"che fanno la parte del Minosse dell'inferno dantesco: "..in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich"
"Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia" (inf V 3;6)
All'arrivo dei convogli gli ufficiali delle SS hanno un ruolo simile a quello di Minosse, ma due sono le differenze iniziali che rendono i due inferni differenti: "orribilmente"; "ringhia" e "colpe".
Innanzitutto gli ufficiali tedeschi non sono orribili tanto che Levi dice: "ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico.". Questo è un elemento essenziale: l'inferno di Levi è alla vista apparentemente meno d'impatto dell'inferno di Dante, perché il campo è una percezione oltre che esteriore profondamente interiore. In secondo luogo la colpa è un elemento che distingue i due luoghi e li mette fin dall'inizio con due chiavi differenti: le colpe, gli uomini che entrano in lager, non le hanno a differenza dei dannati il cui girone era deciso in base al peccato commesso.
Questo dimostra da un lato la crudeltà tedesca nel mandare alla "dannazione" gente innocente, ma da un altro lato può essere letta come colpa anticipata: una volta assodato il fatto della disumanità tedesca, è la malvagità dell'uomo contro il suo stesso simile che si trova nelle sue stessa situazione, ma anziché di collaborare cerca di prevaricare.
Questa visione è uno dei temi centrali che porta Levi a dare il titolo di se questo è un uomo, rimando alla visione della società primitiva di Hobbes: "homo homini lupus". Con il canto di Ulisse, che fa da rivelazione, Levi intuisce qualcosa di simile.
Il viaggio di Levi è segnato dalla solitudine, è senza guida.
"Questo è l'inferno [.]; è come essere già morti" si dice all'inizio del capitolo II; "infernale" è la musica sconciamente allegra che accoglie i nuovi arrivati (p.44). Levi pensa immediatamente all'inferno dantesco: "i barbarici latrati dei tedeschi quando comandano"sono probabilmente quelli di Cerbero,se, subito dopo, il soldato che deruba i prescelti conducendoli in autocarro al campo è il "nostro Caronte".
Come l'inferno dantesco il lager è pervaso da chiasso, rumore che rende il tutto ancora più infernale e caotico "andiamo in su e in giù senza costrutto, e parliamo, ciascuno parla con tutti gli altri, questo fa molto chiasso" (SQU pag.21). il rumore domina tutto il testo, i momenti di silenzio sono veramente pochi in lager; anche la notte non c'è silenzio perché si sente il rumore delle mascelle che battono le une sulle altre mentre i "dannati" si sognano di mangiare.
"Quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina." (inf V; 35-36)
Dell'inferno dantesco Levi riprende anche il carattere grottesco e sarcastico, come Levi definisce il processo di inserimento nell'ordine del campo in sul fondo; ripresa dei toni con cui i dannati e i luoghi sono descritti nella discesa infernale.
"Qui non ha luogo il Santo Volto, /qui si nuota altrimenti che nel Serchio"
Sono le parole che i demoni rivolgono ai dannati nel cerchio infernale di Malebolge, prima di colpirli e ricacciarli sul fondo di un pozzo (If XXI). Ma questi versi sono anche le parole di chiarimento definitivo che Primo Levi, mentre volge al termine la prima giornata di antinferno ad Auschwitz (così la descrisse), offre ai suoi lettori per indicare la natura del luogo ove è giunto; un luogo in cui ciò che fa l'umano, ciò che è l'umano, scompare definitivamente per lasciare spazio al nulla: "spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. - WARUM? - (gli ho chiesto nel mio povero tedesco. - HIER IST KEIN WARUM (qui non c'è perché)". Qui, infatti, come dice il titolo del terzo capitolo dell'opera Se questo è un uomo, siamo ormai sommersi "sul fondo".
". è una messinscena per farsi beffe di
noi." (SQU pag. 43)
Come ogni inferno che si rispetti, il lager possiede il suo limbo: l'infermeria. Levi stesso definisce il Ka-be un luogo dove le pene del lager sono attenuate. Domina queste pagine una sorta di pensosa malinconia, dovuta al diradarsi delle torture e dai lunghi periodi di inattività, un sentimento che nel gergo del lager è definito «il dolore della casa» (SQU 49). Un tedio, che ci ricorda da vicino la pensosità di Virgilio e delle anime nel Limbo, sospese tra desiderio e assenza di grazia.
Anche la Città di Dite (Inf viii, 76-78) ha il suo corrispettivo nella Buna: «Dentro il suo recinto non cresce un filo d'erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è vivo» (SQU 67). Per non parlare della Torre di Carburo, novella torre di Babele, una bestemmia in pietra, che non è fatta di mattoni, ma delle varie lingue parlate nel campo, che si condensano il quel gergo del lager così disarticolato e privo di ogni bellezza da risultare simile alle parole spoglie di qualsiasi ratio pronunciate da Nembrot .
Il cammino ci porta a scendere ancora e arrivare all'estremo profondo. L'Inferno dantesco, nella sua più fonda propaggine, è freddo: dominano queste pagine il gelo, il ghiaccio del Cocito. Il fango e il pantano sono presenti in tutto lo svolgersi della storia narrata da Levi (SQU 39, 60, 62), raggiungono la loro massima intensità nella Storia dei dieci giorni. Levi, in questa cronaca verminosa e pestilenziale, ci racconta gli ultimi giorni del lager e il lento disfarsi dell'universo concentrazionario. Non c'è speranza, ma solo ghiaccio, fango, melma.
Un semplice prelievo di stralci da questo capitolo è chiarificatore del tono della narrazione:
"Il lager, appena morto, appariva già decomposto" (SQU 154)
"[i deportati] non più padroni dei propri visceri, avevano insozzato dovunque [.]. Attorno alle rovine fumanti delle baracche bruciate, gruppi di malati stavano applicati al suolo, per succhiarne l'ultimo calore (SQU 155)
"sul pavimento uno strato di stracci, sterco e materiale di medicazione, un cadavere nudo e contorto" (SQU 158)
"Il pavimento era ricoperto da uno strato di escrementi congelati."(SQU 162).
Sappiamo che nel Cocito Dante e Virgilio più di una volta incontrano dannati conficcati nel ghiaccio; anche Levi nella sua ricognizione del lager e dei suoi uomini, liberati ma non redenti, incappa in qualcosa di simile:
"Un vecchio ungherese era stato sorpreso colà dalla morte. Giaceva irrigidito nell'atto dell'affamato: capo e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle patate" (SQU 164).
Quest'uomo, conficcato nel ghiaccio e intento a cercare di mangiare, ricorda in maniera prepotente Ugolino, la cui tragedia è materia del canto xxxiii. Dante, però, con un'intuizione narrativa geniale, lo presenta già nei versi finali di quello precedente:
"Noi eravam partiti già da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l'un capo a l'altro era cappello;
e come 'l pan per fame si manduca
così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiunge con la nuca" (Inf., xxxii, 124-129).
L'immagine plastica di quest'uomo morto congelato e quella del famigerato Conte combaciano perfettamente. Levi insiste su questa immagine del cadavere contorto nel ghiaccio e lasciato al gelo.
"Durante questa narrazione non di rado ci si può imbattere in corpi contorti sulla neve della strada
[.]. D'altronde, in tutte le baracche v'erano ormai letti occupati da cadaveri, rigidi come legno, che nessuno curava più di rimuovere. La terra era troppo gelata perché vi si potessero scavare fosse; molti cadaveri furono accatastati in una trincea" (SQU 162).
Nella Storia dei dieci giorni, più che in altri luoghi della scrittura leviana, troviamo il paesaggio. in Se questo è un uomo la figura umana è solita predominare sul paesaggio, ma in questo capitolo anche la natura partecipa alla messinscena della morte e del disfacimento. Senza procedere ad un'elencazione tediosa, è da far notare come tutti i fenomeni atmosferici (la pioggia, la notte, il gelo, il vento freddo) possiedano un rimando più o meno esplicito a Dante. Fattore comune tra i due scrittori è l'indicare del paesaggio un oltre rispetto al semplice fatto atmosferico.
Se questo è un uomo quindi può essere visto come un viaggio nel regno dei morti ed è lo stesso autore a tracciarne la rotta «in viaggio verso il nulla, in viaggio all'ingiù, verso il fondo» (SQU 11).
Levi è uno scrittore preciso e non è un caso che egli segnali una successione così esatta. «Nulla», «all'ingiù» e «fondo» indicano il percorso per arrivare al lager. Per giungere ad Auschwitz la prima tappa, «nulla», è vaga; Il secondo termine, «all'ingiù», ci chiarisce il verso e il modo. Infatti, il viaggio che abbiamo intrapreso è un discendere verso quel fondo, che conclude e completa le coordinate. E proprio la parola «fondo» possiede una forte connotazione dantesca; essa, infatti, rappresenta il luogo dove vengono puniti i dannati, ma anche la meta del fatale andare di Dante e Virgilio (Inf., xxvii, 64; xviii, 25; xxxii, 115-117). «Fondo» identifica un luogo e una pena. Non è un caso che questo termine sia citato più volte da Levi (SQU 14, 21, 30). Nel raccontare il suo viaggio, Levi non solo ci orienta genericamente sulla direzione, ma ci fornisce un'indicazione strettamente geografica: «Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luogo di questa terra» (SQU 11-12). Un nome e un luogo. Normale. Auschwitz è un punto sulla cartina geografica. Esiste, quindi non può essere così disumano. Nella realtà Levi compie un'operazione più complessa: situa l'inferno, facendone una realtà tangibile, un hic et nunc. Proprio questa azione segna un debito di Levi nei confronti di Dante; Levi fa qualcosa di simile e nell'atto di dichiarare le coordinate geografiche, chiarisce che questa storia non è una metafora o un simbolo, ma un'esperienza reale, avvenuta qui e ora. Situare e dare una specifica collocazione all'inferno è un'operazione essenziale, proprio perché risponde al duplice intento di Se questo è uomo, ovvero di essere libro testimoniale e nel contempo finissima opera letteraria.
Dopo questo breve excursus tra l'inferno si può meglio capire ciò che Levi dice e significativa è la parte qui sotto riportata:
"Quando abbiamo finito [di vestirci], ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l'uno sull'altro. Non c'è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero non ci capirebbero".
Quanto Levi vive e ha dinanzi è l'Inferno, è un mondo infernale, in cui nulla rimane dell'umanità, e la nostra lingua, invece umana, non possiede le parole per descriverlo, per ricordarlo, per farlo capire. Qui siamo di fronte alle più profonde bassezze dell'umano e come mostrano alcuni episodi di rara solidarietà e amicizia, anche alle più grandi altezze: per questo vale la parola di Dante, perché egli, queste altezze e profondità, le vide e le descrisse nel suo viaggio, dal punto più basso del dolore (l'Inferno), al punto più alto dell'espiazione e del riscatto (Il Purgatorio) fino alla vertigine della felicità (Il Paradiso).
"Il canto di Ulisse"
"Il canto di Ulisse" si presenta come un momento luminoso nella notte del campo, in virtù delle possibilità offerte dalla poesia. La figura di Ulisse ci riconduce all' UBRIS greca cioè della tracotanza, peccato più grave per il singolo e la collettività: sentimento dell'uomo di volersi fare pari agli dei. In se questo è un uomo i peccatori di tracotanza sono i soldati tedeschi, ma anche i compagni con cui Levi convive e con cui se la prende perché riescono ad essere ancora più crudeli dei tedeschi pur trovandosi tutti nella stessa condizioni di bruti. Ulisse è ribaltato da uomo che va oltre i confini di Dio a uomo che va oltre i confini, i limiti posti dall'uomo per la minima possibilità di civiltà.
Dante si offre in mezzo al lager sì come una possibilità di dire, un aiuto per esprimere l'esperienza DAL libro per eccellenza, ma si mostra come una possibilità di uscita da quel filo spinato; è la possibilità di aprire alla poesia i cancelli di Auschwitz. Levi in un intuizione di un attimo ha una rivelazione che rende la sua condizione ancora più negativa, ma che forse gli dà una possibilità di sopravvivenza una giustificazione: "com'altrui piacque" un altrui che non è Dio, ma che è l'uomo contro l'uomo.
Dante, nel testo di Levi, è il filo conduttore che percorre dall'inizio alla fine il racconto. Il viaggio di Levi, solo nella realtà, ora, nella scrittura, è accompagnato da Dante, il maestro colui che ha già rappresentato l'inferno interra e con cui ha parecchie faccende letterarie i comune,
Riprendendo la citazione iniziale, la cultura MI HA SALVATO, io penso che Levi proprio attraverso la cultura voglia mettere a nudo la sua esperienza per renderne partecipe tutto il mondo.
"[.] una facoltà ci rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l'ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. [.] Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché lo dice il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per retare vivi, per non cominciare a morire."
Testo integrale del capitolo sopraccitato:
[.] Chissà come e perché mi è
venuto in mente : ma non abbiamo tempo di scegliere, quest'ora già non è piú
un'ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà : oggi mi sento da tanto.
Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si
prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è
distribuito l'Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice
è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato :
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse : Quando
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso : povero Dante e povero francese !
Tuttavia l'esperienza pare prometta bene : Jean ammira la bizzarra similitudine
della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere « antica ».
E dopo « Quando » ? Il nulla. Un buco nella memoria. « Prima che sí Enea la
nominasse ». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile : «
la piéta Del vecchio padre, né '1 debito amore Che doveva Penelope far
lieta » sarà poi esatto ?
Ma misi me per
l'alto mare aperto.
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di
distinguere perché « misi
me » non è « je me mis », è molto piú forte e piú audace, è un vincolo
infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene
questo impulso. L'alto mare aperto : Pikolo ha viaggiato per mare e sa
cosa vuol dire, è quando l'orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e
semplice, e non c'è ormai che odore di mare : dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci
dev'essere l'ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea.
Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l'ho mai visto giú di
morale, non parla mai di mangiare.
« Mare aperto ». « Mare aperto ». So che rima con « diserto » : « quella
compagna Picciola, dalla qual non fui diserto », ma non rammento piú se viene
prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne
d'Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa : un sacrilegio.
Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi :
.. Acciò che l'uom piú oltre non si metta. « Si metta » : dovevo venire in
Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, « e misi me ». Ma
non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione
importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto,
mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca :
Considerate la vostra semenza :
Fatti non foste a viver come
bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch'io lo sentissi per la prima volta : come uno squillo di tromba,
come la voce di Dio. Per
un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene.
O forse è qualcosa di piú : forse,
nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha
ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli
uomini in travaglio, e noi in specie ; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste
cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec'io sí acuti
e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo « acuti ». Qui
ancora una lacuna, questa volta irreparabile. « Lo lume era di sotto della
luna » o qualcosa di simile ; ma prima ? Nessuna idea, « keine Ahnung » come
si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
- Ça ne fait rien, vas-y tout de même.
Quando
mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sí, sí, « alta tanto », non « molto alta », proposizione consecutiva. E le
montagne, quando si vedono di lontano le montagne oh Pikolo, Pikolo, di'
qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel
bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino !
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono.
Pikolo attende e mi guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare « non ne
avevo alcuna » col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime,
chiudo gli occhi, mi mordo le dita : ma non serve, il resto è silenzio. Mi
danzano per il capo altri versi : « la terra lagrimosa diede vento » no,
è un'altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna
concludere :
Tre volte il fe' girar con tutte l'acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giú, come altrui piacque
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che
comprenda questo « come altrui piacque », prima che sia troppo tardi, domani
lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai piú, devo dirgli, spiegargli
del Medioevo, del cosí umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e
altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto,
nell'intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro
essere oggi qui
Siamo oramai nella fila
per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa
degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. - Kraut und
Rüben ? - Kraut und Rüben -. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di
cavoli e rape : - Choux et navets. - Kaposzta és répak.
Infin che 'l mar fu sopra noi
rinchiuso.
Leggendo il canto di Ulisse in Dante si nota come il tono sia molto alto, come sia un momento di distacco dai dannati delle bolgie; anche per Levi avviene ciò: Ulisse è la via di fuga dal campo per un momento.
Io penso che per Levi come Dante, pur condannandolo, provi una grande ammirazione per l'uomo omerico; Levi va ad identificarsi con lui, con la possibilità di andare oltre quei limiti posti non da Dei, ma da uomini come lui. L'andare oltre come Ulisse lo vedeva era una possibilità di conoscenza, era un desiderio di sapere; per Levi è il messaggio che riguarda tutti gli uomini in travaglio. Nel corso di una conversazione con Daniela Amsallem, per un intervista, Levi dichiara il contenuto di quella rivelazione: gli è parso allora che Auschwitz fosse la punizione inflitta dalla Germania barbarica alla civiltà ebraica, all'audacia intellettuale degli ebrei( quali Freud e Marx), così come il naufragio di Ulisse è la punizione di un Dio barbaro che non tollera l'audacia dell'uomo.
In questo modo la sua sofferenza nel campo acquistava significato, poiché la cosa più insopportabile non è la sofferenza voluta dall'altro uomo, ma la sofferenza gratuita. Ulisse è il simbolo dell'uomo che ama il rischio; solamente andando oltre si può pensare di preservare se stessi in questa situazione estrema. Il verso conclusivo chiude un capitolo che ha rappresentato uno scorcio di luce ed emerge isolato mentre tutto il resto sta risprofondando nella Babele del lager.
L'altrui in Levi rappresenta la nota discordante rispetto a Dante: non è Dio, ma sono le barbarie tedesche e non solo, sono i suoi stessi compagni che i tedeschi, manipolatori, hanno messo uno contro l'altro ridotti ad essere bruti. L'altrui secondo me sono tutti gli uomini, gli uomini che sono artefici del loro destino e che pure nel momento di minor libertà assoluta possono decidere se vivere comportandosi da bruti, quindi senza più alcun tipo di identità o preservare quel poco che di intimo e individuale resta e offrirlo agli altri, come avviene in questo capitolo. Ecco Dante, la poesia:questa è un dire qualcosa ad altri ( da vedere è la parte del testo sottolineata in giallo).
Per Levi la poesia è la chiave di lettura; la cultura ha rappresentato per lui un punto di forza come dicevo inizialmente.
In sintesi potrei dire che Dante offre la possibilità di recuperare la propria realtà, la possibilità di uscita per un attimo dalla monotonia e dalla crudeltà. Dante è colui che di cose simili ha già parlato, in modo diverso perché in termini divini, ma ha già scritto. Dante permette di trovare una giustificazione al male gratuito (altrui piacque; bruti), ma anche una possibilità di salvezza (conoscenza e virtù).
"condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero non ci capirebbero."
Prendendo questo frammento che già prima avevo citato e il frammento più noto dell'epistola XIII dedicata a Cangrande della Scala, si potrebbe dire che se questo è un uomo rafforzato dalla presenza di Dante è un modo per permettere agli uomini di ricordare e per condurli dallo stato di miseria a uno stato non di felicità, come in Dante, ma di coscienza.
personaggio biblico che troviamo nell'inferno accusato di aver causato la confusione delle lingue; come contrappasso, Nembrot, è punito con l'impossibilità di comunicare, parlando un linguaggio comprensibile solo a lui, e non potendo comprenderne altre. Il poeta, inoltre, fa di Nembrot un gigante. (Inf., xxxi, 67).
Appunti su: https:wwwappuntimaniacomumanisticheletteratura-italianotra-levi-e-dante-linferno-a-co15php, ugolino dante e levi, tra levi e dante inferno a confronto, |
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