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Promessi sposi




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1. L'indugio narrativo


Nei Promessi sposi un curato di campagna del XVII secolo, la cui principale dote è la viltà, mentre una sera torna a casa recitando il suo breviario vede qualcosa che non avrebbe affatto desiderato vedere, e cioè due bravi che lo stanno attendendo. Un altro autore vorrebbe soddisfare subito la nostra impazienza di lettori e ci direbbe subito che cosa accade: cut to the chase. Non così Manzoni. Egli fa qualcosa che al lettore appare inconcepibile. Impiega alcune pagine, ricche di particolari storici, a spiegarci chi erano a quel tempo i bravi. E poi, quando ce lo ha detto, rimette in scena don Abbondio, ma non lo fa incontrare coi bravi.


[] Potremmo domandarci comunque se era anche necessario che Manzoni inserisse quelle informazioni storiche sui bravi. Si sa benissimo che il lettore è tentato di saltarle, e ciascun lettore dei Promessi sposi ha fatto così, almeno la prima volta. Ebbene, anche il tempo che occorre per sfogliare delle pagine che non si leggono fa parte di una strategia narrativa, perché l'autore modello sa che in un racconto il tempo appare tre volte: come tempo della fabula, tempo del discorso e tempo della lettura.


Fonte: U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994.



Un parere sui protagonisti


Renzo e Lucia, oltre a essere forse le due figure più belle e originali dei Promessi Sposi, sono anche la chiave della concezione manzoniana della vita, della società e della religione. Lucia è soave, dolce, discreta, pudica, riservata; ma anche, talvolta, leziosa, cocciuta, rustica, inclinata a compiacersi e a strafare nel senso di una perfezione di maniera. Renzo è schietto, onesto, coraggioso, pieno di buon senso, energico; ma anche, talvolta, melenso, avventato, violento. Come si può vedere da quest'insieme di qualità e di difetti, il Manzoni ha voluto dipingere due figure di contadini che aveva probabilmente avuto il modo di osservare a lungo nella realtà, magari proprio in uno dei paesi del lago di Como, prima di ricrearle nell'arte.


[] Così, definire e spiegare chi sono Renzo e Lucia, vuol dire in fondo definire e spiegare il mondo ideale del Manzoni, con le qualità della sua sensibilità decadente e i limiti piuttosto angusti del suo signorile conservatorismo. Chi sono Renzo e Lucia? Sono due popolani, due operai. La loro vita è semplicissima sia perché, sono poveri sia perché vivono in un paesino di campagna di poche case, una frazione diremmo oggi. Dunque, primo ideale: la vita povera, rustica, semplice, quasi sul filo dell'indigenza e dell'elementarità. La vita, cioè, priva di incombenze pubbliche, di responsabilità civili, di ambizioni politiche, di grattacapi finanziari, di pasticci cittadini di qualsiasi genere. La vita ridotta all'osso: il lavoro, la famiglia.


Ma nel paesino, nella frazione in cui vivono Renzo e Lucia, c'è anche una chiesa: Renzo e Lucia sono religiosi. Dunque, oltre alla vita semplice, povera, rustica, anche l'ideale di una religione che è l'espressione diretta di questa vita. È stato detto fin troppo che la religione del Manzoni aveva un fondo giansenista; forse lo aveva nella vita, ma nei Promessi Sposi non si nota. Infatti: la religione di Renzo e Lucia, che è poi quella del colto, aristocratico e intellettuale Manzoni, è una religione il più lontano possibile dalla cultura, molto più legata alla parrocchia che alla biblioteca. È la religione di due ignoranti che non sanno né leggere né scrivere; la religione, come è stato detto, degli umili; noi aggiungiamo: di due umili come Renzo e Lucia. Una religione del cuore non della testa, del sentimento piuttosto che della ragione.


Fonte: A. Moravia, Introduzione a: A. Manzoni, I Promessi Sposi, Einaudi, Torino 1960.



Fra Galdino


Fra Galdino non è un carattere ritratto con insistenza e a forti tinte individuali: è un abbozzo che rappresenta l'indole e il fare d'una classe. Egli è egoista poco men di don Abbondio, ma in una maniera diversa. Il curato è di certo un uomo senza levatura di mente e d'animo e senza gran cultura, ma non è uno scemo. Egli riflette continuamente sulle cose del mondo, riflette sui sentimenti altrui e sui propri. Parla ed opera a ragion veduta benché, veduta con vista corta. Il suo egoismo non è inconscio: ei se n'è anzi fatto un sistema coerente e ragionato. ()


Fra Galdino invece è scemo e freddo. L'egoismo suo è semplicemente effetto di freddezza, non già di viva e prepotente preoccupazione per se stesso. La vita monastica, che ha fatto più rovente il fuoco della carità nella tempra già naturalmente eroica di fra Cristoforo, ha finito d'isterilire l'animo già insulso di fra Galdino. Il suo egoismo non è tanto personale, quanto collegiale; è l'egoismo del convento, del refettorio. Fuori com'è della società e della famiglia, egli non capisce le lotte sociali e le angosce domestiche, né la desolazione altrui, di cui non può misurare la forza, basta a farlo uscire un momento dalla solita indifferenza. Fra Galdino è il tipo del frate semplice e volgare. Ha sentito dire che solo l'abbondante elemosina ai frati può far tornare l'abbondanza delle messi, ed accolto nella sua mente passiva questo comodo principio, con tutto il corredo dei fatti, cioè dei miracoli, che lo confermano, non vi apporta nessuna restrizione; perché nel suo cuore non v'è alcuna preoccupazione caritatevole delle sofferenze altrui, che lo spinga a correggere quel principio, ad intenderlo con discrezione. Quando Lucia, nonostante la carestia di quell'anno, lo carica di noci, egli non fa che rallegrarsene, come si le ricevesse dalle mani caritatevoli d'una gran signora.


Fonte: F. D'Ovidio, Saggi critici, Morano, Napoli 1878.



4. Il paesaggio partecipe


Chi non ricorda il mattino di Padre Cristoforo, la breve ma intensa descrizione colla quale si inizia il capitolo IV? [] Preme su questa pagina la mestizia severa della gente che porta in volto i segni della dura carestia, e la natura si intride del loro cruccio e della loro mestizia. Ma preme, anche su questa pagina, una mestizia più grave che ha più remote e lontane ragioni di quella che incide sugli uomini e sulle cose il suo segno: quella mestizia che Padre Cristoforo porta con sé dal giorno in cui s'è umiliato dinanzi a Dio, come condizione abituale della sua austera vita di penitente; la consapevolezza della grave presenza di Dio, che sovrasta quell'ora come ogni ora della vita dell'uomo. In quell'apertura di cielo non è solo trascritta la gravità melanconica di un personaggio; c'è, al di là del personaggio, il poeta, e il personaggio vive come un momento lirico della sensibilità dolorosa di questo, e pur così ricca di caritativa comprensione, tesa verso un limite di affaticata ma invitta fiducia.


È una pagina raccolta e come pagina di paesaggio ripete, sebbene in misura più sobria e per accenni più rapidi, la tecnica consueta al Manzoni nella descrizione dei luoghi. Riferimenti precisi () ma straordinariamente sommari, e subito umanamente accentuati, e indirizzati a introdurre la nota angosciosa che nella descrizione gradualmente s'insinua. Quando l'occhio del Manzoni si ferma su quel «gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare» è già fuori della descrizione obbiettiva, e sottolinea una condizione di povertà e di umiltà sulla quale la sopravvenuta carestia pesa con strazio più doloroso e più vivo. I particolari di colore sono accettati per quel tanto di squallido che si specchia in uno squallore più vasto e se ne fa simbolo («un venticello d'autunno, staccando dai rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere qualche passo distante dall'albero»). Nulla di esteriormente descrittivo insomma, bensì accordi che preludono a un'animazione umana attraverso la quale il paesaggio si interiorizza, prende forma nell'anima dei mendichi laceri e macilenti, nell'anima di Padre Cristoforo, nell'anima del Manzoni.


Affiora anche, in questa tonalità, un motivo più profondo perché essa non solo traduce una dolorosa realtà, ch'è in tutto e in tutti, ma si colora di una tristezza inguaribile e immobile ch'è nell'anima di Padre Cristoforo, ch'è la sua stessa intuizione della vita, ch'è la sua stessa coscienza, ch'è alla radice della sua volontà d'azione e del suo desiderio di bene: retaggio di quel peccato che in ogni momento egli sconta in sé, e che tutta l'umanità egli sa esser chiamata a scontare con lui. Di qui nasce il suo amore pei poverelli, la sua compassione, la sua comprensione, poiché sa che essi gli sono, nel mondo, più che compagni nel dolore e fratelli nel patire: che gli alleggeriscono, col loro dolore e col loro patire, il fardello della colpa di cui deve rispondere al tribunale di Dio.


Fonte: M. Marcazzan, Nostro Ottocento, La Scuola, Brescia 1955.



5. Il brindisi di Azzecca-garbugli


Un altro motivo, su cui la fantasia manzoniana si sbizzarrisce è quello incarnato nella figura di Azzeccagarbugli.

Il dottore è il pacifico parassita, che mangia e beve volentieri, ha un amore sviscerato per il padrone di casa e per tutti i commensali indistintamente, e si asterrebbe volentieri dalle controversie e da ogni arbitrato, che gli potrebbero disgustare qualcuno, in questo mondo. Però egli appare confusetto, quando è chiamato in causa e fino allora si era contentato di sogghignare genericamente. Su questa sua psicologia di parassita, si innesta la nota della prudenza vile. Egli si fa coraggio, soltanto, quando fra Cristoforo ha dato il suo parere, ed il nostro dottore capisce che quello è un paradosso, che va poco a genio ai padroni di casa, ed allora egli tira fuori la sua eloquenza aulica e condanna, sia pure col dovuto rispetto (anche un cappuccino bisogna tenerselo buono), la massima del frate.


La risposta del dottore rivela il vile ed il leguleio: vile per quel dare addosso alla sentenza del frate per un ossequio all'opinione dei più forti. Rivela poi la doppiezza del leguleio con quella sua distinzione ipocrita, una di quelle distinzioni venute di moda, proprio nel Seicento, con la casistica gesuitica: altro è il dire e altro è il fare; altra la teoria, altra la pratica; altro il dover essere, altro l'essere; una cosa la verità detta dal pulpito, un'altra la verità spicciola per l'uso quotidiano. In questo suo distinguere formale, Azzeccagarbugli è un uomo del Seicento, e la fine ironia, di cui l'avvolge il Manzoni, è ironia per l'uomo, ma anche per il gusto storico del secolo. Ironia complessa, come sempre quella manzoniana, che investe l'umanità eterna nel suo valore trascendentale, ma investe al tempo stesso l'umanità storica, di una particolare società, di una particolare civiltà.


La nota del leguleio, che trova garbugli per tutto, è toccata da don Rodrigo. Egli dice:

«Animo, a voi, che per dar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo».

Con molta sobrietà il Manzoni dà rilievo a questa nota del leguleio: il leguleio con i suoi ripieghi, con i suoi obliqui e laidi cavilli. Il Manzoni ce l'aveva presentato al capitolo III con queste parole:

A saper bene maneggiar le gride, nessuno è reo nessuno è innocente.


Il Manzoni riassume quelle note nella battuta di don Rodrigo, ma non vi insiste; passa piuttosto a svolgere altre note di quel carattere, quelle dell'uomo servile, del discettatore formale, del parassita, dell'adulatore. Il momento culminante del bozzetto si ha nel brindisi finale:

«Dico, proferisco, e sentenzio che questo è l'Olivares de' vini: censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell'illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d'Eliogabalo; e che la carestia è bandita o confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede o regna la splendidezza».


La figura del beone e del parassita viene fuori completa in questa ultima battuta.

La sapienza artistica del brindisi sta in quel suo sapore seicentesco, il colore e la cultura del tempo sono tenuti d'occhio. Il brindisi ha la pompa, il vacuo solenne formulario del secolo, i superlativi di moda ed il latino di scuola.


Fonte: L. Russo, I personaggi dei «Promessi Sposi», Laterza, Bari 1952.



6. La scaltrezza di Agnese


L'altro parere di Agnese, quello del matrimonio per sorpresa, trova un po riluttante persino Renzo, che vi intravede una contraddizione. Avendo la consigliatrice dovuto ammettere che «i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene»; Renzo osserva: «Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand'è fatta?». A questa logica obbiezione, Agnese non sa né può rispondere a tono. «Che volete ch'io vi dica? La legge l'hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose».


[] Ora messa alle strette da Renzo, prima adduce come scusante l'ignoranza della legge da parte della povera gente; indi con quella sospensione: «e poi quante cose», lascia intendere che insomma, a questo mondo, ci son cose che, lecite per un verso, sono illecite per un altro: è, in fondo, il pensiero stesso espresso dal dottor Azzeccagarbugli alla tavola di don Rodrigo, quand'è chiamato a dire il suo parere su ciò che aveva sentenziato fra Cristoforo; ma la distinzione tra morale e morale si può perdonare alla povera donnicciola, che pensava e parlava a fin di bene, non al leguleio imbroglione, pel quale la giustizia si riduceva all'usar due pesi e due misure.


In fine Agnese crede di tagliare la testa al toro con quel suo: «Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene, ma, dato che gliel'abbiate, né anche il papa non glielo può levare». Quest'uscita è un portento di comicità, specialmente perché l'esempio non calza affatto: un pugno, quand'è dato è dato, e su ciò non c'è dubbio; è dubbio, invece, se un matrimonio per sorpresa, una volta fatto, sia valido: un pugno, il papa non può levarlo di certo; ma un matrimonio per sorpresa, il papa lo può annullare, se non lo ritiene legittimo. L'argomentazione di Agnese non solo zoppica, ma ottiene l'effetto opposto a quello desiderato perché Lucia, seguendo l'ispirazione morale che le viene dagli insegnamenti di fra Cristoforo, osserva: «Se è cosa che non istà bene, non bisogna farla». S'essa poi s'arrende, non è già perché sia persuasa della bontà delle ragioni della madre, ma perché le fa paura la collera (forse a bella posta esagerata) di Renzo.


Fonte: A. Belloni, L'umano e il divino nei «Promessi Sposi», Paravia, Torino 1932.



7. L'oste e la sua morale


Gli osti manzoniani sono tutti, come li definisce Renzo, uno peggiore dell'altro. Il quadro, entro il quale sono dipinti tutti, da quello di Olate a quello di Milano, da questo a quello di Gorgonzola, è sempre lo stesso, comicamente identico per gli uni e per gli altri.

Ciascuno di essi è rappresentato, nella sua osteria, in atto di accudire apparentemente alle sue sole faccende, a badare soltanto ai suoi particolari interessi.

«La prima cosa del nostro mestiere» dice il primo per schermirsi alle domande di Renzo «è di non domandare i fatti degli altri». Vivono tutti o ostentano di vivere nel più assoluto isolamento. «Occhio a tutto» dice alla moglie l'oste della luna piena in atto di partire per il palazzo di giustizia e fare, contro Renzo, la sua regolare deposizione «badare che paghino; e tutti quei discorsi che fanno, sul vicario di provvisione, il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri di Spagna e Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire».


E così pure più tardi, dinanzi al notaio criminale che lo richiede del suo parere intorno alla forza della giustizia, risponde nel suo solito tono e col medesimo ritornello: «Io non credo nulla, abbado a far l'oste». In sostanza però ciascuno di essi è intrigante, menzognero, birbone e malizioso. Dal primo, che distingue, per rispondere e nel rispondere, così bene Renzo dai bravi di don Rodrigo; al secondo, che intuisce immediatamente l'essenza di Renzo; alla vecchia, che lo tempesta di domande; all'ultimo, a quello di Gorgonzola, che gli ficca addosso due occhi pieni di curiosità maliziosa, sono tutti di uno stesso stampo. Hanno una condotta ambigua, doppia; pensano una cosa e ne dicono un'altra, palesano un'idea e ne effettuano una opposta


«Chi siano e chi non siano gli avventori» dice l'oste di Olate a Renzo, quando questi gli chiede informazioni intorno ai bravi di don Rodrigo, «non fa niente: a noi basta che gli avventori siano galantuomini». «E come potete sapere», obietta Renzo, «che siano galantuomini se non li conoscete?».

«Le azioni, caro mio», risponde l'oste, «l'uomo si conosce alle azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non mettono su lite con gli avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettare fuori e lontano dall'osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini». Questa è la loro morale, quella in base a cui giudicano uomini e cose: una morale dettata soltanto dall'interesse e circoscritta soltanto ad un angolo visuale.


Una morale, che non è elevata sul piano della ragione o su quello della fede, che sta fuori dei precetti della Chiesa e perciò bassa, priva di un ideale valore e di un'universale necessità.

[] Ridicolo che qui, come altrove, piglia la forma dell'umorismo: e ciò perché egli tratta o finge di trattare questi suoi personaggi con i loro princìpi e le loro aberrazioni appunto come tipi esemplari, lottanti contro l'ostinazione e la incomprensione degli altri, di quelli che rappresentano, più o meno da vicino, l'ideale dell'autore.


È da questa genialità umoristica del Manzoni di trattare questi suoi personaggi con le loro pecche e le loro strane teorie, come modelli da imitare, di trattare cioè il reale come ideale, che deriva per essi una serie di posizioni tutte comiche, attraverso cui vengono irrimediabilmente segnati al riso.


Fonte: F. Puglisi, L'estetica del riso ne «I Promessi Sposi», Cedam, Padova 1951.



8. Opposizioni di fondo nella notte degli inganni


Nell'episodio dei Promessi sposi l'opposizione luce/buio può essere analizzata utilmente nei suoi rapporti con altre: interno/esterno, rumore/silenzio, veloce/lento. Questo vale per entrambe le incursioni, a casa di don Abbondio e in quella di Lucia, con notevoli parallelismi e differenze che noteremo.

Ma segnaliamo subito che, non solo moralmente, Lucia e il Griso rappresentano la nostra opposizione: Lucia collegata etimologicamente con la luce, il Griso col grigio dell'oscurità. L'opposizione interno/esterno è fondamentale, trattandosi di entrare, con scopi illegittimi, in due case. Di qui l'importanza dell'uscio (più raramente porta, termine sempre usato nelle prime redazioni). A casa di don Abbondio, oltre a quello d'entrata, c'è l'uscio del soggiorno dove sta leggendo, l'uscio della camera successiva dove si rifugia appena scoperte le intenzioni dei visitatori. È tutto un aprirsi e chiudersi di usci, che distingue i successivi movimenti dei due gruppi di ospiti (Tonio e Gervaso, Renzo e Lucia) verso l'interno e, nella fuga, verso l'esterno. Quello che resiste è l'uscio della camera in cui si ripara don Abbondio: barriera contro l'attuazione del matrimonio di sorpresa. Il progressivo avvicinarsi dei personaggi all'obiettivo è anche verticale, perché la scala completa il sistema di ostacoli: interviene così l'opposizione alto/basso. I bravi hanno di fronte un sistema anche più complesso, perché la casa di Lucia è preceduta da un cortiletto, il cui muro viene scalato. Poi, ancora, uscio da basso, scala, usci delle varie camere.


Quanto alla casa di don Abbondio, la luce vi svolge un ruolo più complesso. [] Luce e buio, vedere e non vedere svolgono un'azione complessa in questa scena. Don Abbondio cerca di chiudere con la sua persona l'interno dell'armadio dov'è riposta la collana richiesta da Tonio: e lo sportello riproduce su piccola scala tutti gli usci (o porte) già ricordati. Il gesto di don Abbondio è esattamente simmetrico a quello di Tonio e Gervaso che fanno in modo «d'impedire allo scrivente [don Abbondio] la vista dell'uscio» da cui entrano Renzo e Lucia. E la lucerna è poi afferrata, proprio come arma di difesa, da don Abbondio sorpreso dai fidanzati. Essa coadiuva la sua fulminea azione difensiva, e poi, abbandonata per terra, con la sua «luce languida e saltellante» trasforma la sconfitta e impacchettata Lucia in «una statua abbozzata in creta, sulla quale l'artefice ha gettato un umido panno». Poi il lucignolo si spegne, e anche don Abbondio è costretto a muoversi a tastoni. Alla fine, i rapporti di luminosità sono capovolti: gli invasori, che dovevano guardarsi dalla luna, sono avvolti nelle tenebre della casa; don Abbondio, abbandonata la lucerna, guarda fuori, sulla piazza: «Era il più bel chiaro di luna, l'ombra della chiesa, e più in fuori l'ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno». Per don Abbondio è la fine di un brutto sogno. L'opposizione rumore/silenzio ha implicazioni quasi ideologiche: basta soffermarsi sulla descrizione, nel capitolo VII, di «quel brulichio, quel ronzio che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte». Questa concezione etico-idillica della vita rustica e dei suoi orari è confermata dal «Ton, ton, ton, ton» della campana di Ambrogio che, efficace allarme, riscuoterà i paesani dalla sullodata quiete solenne della notte, provocando nuovo «ronzio», e poi voci, «consulte tumultuose», e così via. Quei rintocchi di campana nel silenzio, come si sa, hanno una funzione chiave: causano la fine delle due violazioni di domicilio, con la fuga di Renzo, Lucia e compagni da una parte, del Griso e dei suoi accoliti dall'altra; e l'intervento solidale, poi velocemente spompato, dei compaesani.


Il rumore nel silenzio notturno è dunque qualcosa di anomalo. Nel caso delle nostre violazioni di domicilio, esso può scoprire la presenza e i movimenti di chi invece conta sulla sorpresa. Il rumore avrebbe dunque valore di indizio. Occorre solo notare che l'opposizione rumore/silenzio è correlata con quella veloce/lento. Anche quest'ultima può essere in rapporto con l'oscurità (cautela per non sbattere o inciampare in ostacoli non visti) e con l'attenzione a non far rumore.


Fonte: C. Segre, Semiotica del buio, in G. Manetti, Leggere i Promessi Sposi, Bompiani, Milano, 1989.



9. Il ritratto di Gertrude


[] Il ritratto di Gertrude è costruito con una inquietudine mal costretta nella geometrica rigidità dell'abito monacale. L'opposizione abito-volto procede per lei alternatamente, con un'analisi minuta e insistita come per nessun altro personaggio, e che al fine si estende a tutto il busto. Il «quadro» è inserito nella situazione, e perciò la figura, apparsa ritta dietro la grata, dopo il ritratto torna a quella impostazione, ma in una posa cui si trasmettono tre tocchi salienti del quadro precedente: l'estenuazione, il pallore, lo sguardo: «ritta vicino alla grata, con una mano appoggiata languidamente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne' voti; e guardava fisso Lucia» (cap. 9).


La descrizione procede dal generale al particolare, e dal meno al più intenso. La prima impressione di bellezza si corregge e specifica in ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta, dove la sequenza ternaria costituisce un crescendo percettivo.

Il ritratto di Gertrude si svolge per contrasti; contrasti, nella parte statica dell'impostazione, percettivi (un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza ecc.; un velo nero; una bianchissima benda di lino ecc.); nella parte mossa, avviata da un forte ma iniziale (Ma quella fronte ecc.), attivi, tutti comunque contrapponenti il naturale all'innaturale e confermanti l'effetto di un'armonia violata, assente nei pur contrastati ritratti dell'innominato e del padre Cristoforo. La complessità del ritratto di Gertrude si deve al fatto che, dei personaggi dei Promessi sposi colpiti dalla violenza, essa è l'unico che ne sia diventato preda; è l'unica vittima del romanzo. Ma la specie di quella violenza, la più invasiva e irretiva perché mascherata, è anche la ragione dell'alta enigmaticità del ritratto tre volte ribadita: negli occhi che cercano un nascondiglio

, nel travaglio di un pensiero nascosto, nei moti delle labbra pieni di mistero e dello scavo analitico del narratore, nonché dell'epiteto sventurata con cui la commisera in tre situazioni critiche.


Fonte: G. Nencioni, La lingua di Manzoni, Il Mulino, Bologna 1993.



10. Gertrude: una psicologia complessa


Il ritratto della Signora sembra uno studio dal vero. Anche la cura che lo scrittore vi ha dedicata, da una stesura all'altra, ne fa fede. Nessun altro ritratto letterario pareggia questo della Monaca di Monza. In tutti gli altri il Manzoni è preciso, meticoloso, cauto; ma qui si sente ch'egli richiede alla sua mano, cioè al suo linguaggio, una resa più impegnata. Egli sa di trovarsi dinanzi a una personalità complicata, sfuggente, ambigua, per la quale si richiede una misura diversa, un più rigoroso controllo. Egli deve rendere un forte, potente temperamento, minato da un'immensa debolezza; un orgoglio smisurato che si estenua nella costrizione; una volontà indomita che cede all'istinto, alla passione; una sete insaziata d'affetto che si dispera nell'aridità, nel rancore; una voglia di comunicare e la coscienza di essere condannata all'interdizione, alla solitudine, al deserto. E, soprattutto, il sentimento di sapersi al di fuori d'ogni solidarietà reale ed esclusa dalla sua stessa società, in una religione senza fede, sotto una veste mentita, con un destino sbagliato, e soprattutto subito di prepotenza. Lo scrittore ha voluto rendere tutto questo in una sola pagina, ha cercato di anticipare in una concentrazione irriducibile quel che dirà di lei e della sua infanzia e della sua adolescenza nei capitoli seguenti, condensando tutta la sua sorte nei segni del volto, nella luce e nelle ombre degli occhi, nel pallore dell'incarnato, nella statura, nel gesto, nel contegno, negli abiti: prima che parli, prima che si riveli alla voce. Una bellezza sfiorita, una giovinezza disfatta, un orgoglio umiliato, una dignità malintesa, una ferocia antica e inveterata, un'eleganza ribelle: tutte cose che convivono in un conflitto perpetuo. Lo scrittore non si era mai trovato a dover fronteggiare un personaggio che gli nasceva dalla fantasia caratterizzato da un'insolubile contraddizione. Il suo disegno è di una estrema difficoltà. È senza dubbio la prova maggiore ch'egli abbia richiesto alla sua scrittura. Due qualità morali egli doveva rendere alla pari: la forza e la debolezza; e bilanciare due sensibilità opposte: il mistero e la dannazione. E così egli si riprometteva di suscitare nel lettore attrazione e diffidenza. Ogni particolare del «ritratto» concorre a formare la «composizione». Nel corso della pagina si effettua un dramma. C'è dentro un dinamismo psicologico infrenabile. Si noti l'alternarsi di moto e d'immobilità, di presenza e di assenza, di partecipazione e di distrazione. Non potremo più dimenticarla in questi tratti suggestivi, così precisi e insieme indefiniti, che obbligano a vedere e giudicare e nello stesso tempo lasciano un margine di ombra, di mistero d'incomprensione. Gli elementi descrittivi sono tutti in pieno spicco: la «contrazione dolorosa» della fronte, il «rapido movimento» delle sopracciglia, la «fissità» dello sguardo e la sua «investigazione superba», e subito la «fretta» di nascondersi, di appartarsi; e a volte la sensazione di chi cerchi «affetto, corrispondenza, pietà»; per un verso, quel cupo dolore di odio e di rancore, e di colpo un senso di neghittosità, quasi di stanchezza; e all'interno quel «travaglio d'un pensiero nascosto»: una «delicata grazia» e una «lenta estenuazione»; e, soprattutto, i suoi occhi e i moti delle sue labbra: «subitanei, vivi, pieni d'

espressione e di mistero». Questi due ultimi termini qualificano la Signora di Monza e la grande arte del Manzoni. E ancora: quel «certo abbandono del portamento» in contrasto con quelle «certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute», quel tanto «di studiato o di negletto», e quel misto indiscriminabile di «dimenticanza» e di «disprezzo». Non ci sarà facile trovare un'altra pagina come questa in tutta la nostra narrativa moderna, capace cioè di compendiare un «ritratto» vivente come quello della Signora di Monza, che ci risulti patente pur nella sua luce ermetica, si direbbe sigillata.


Ci appare viva e vitalissima, eppure è come già segnata. È il presente, avida di vita, ma è come se già avesse vissuto e scontato la propria esperienza. Ne ha accumulata già tanta dentro di sé, ma è come se non le appartenesse. La vita ha fatto storia ma come al di fuori di lei, suo malgrado. Nella sua giovinezza ci sono già i segni del disfacimento fisico e morale, della sazietà insoddisfatta, di un atavico smarrimento dell'essere.


Fonte: S. Battaglia, Mitografia del personaggio, Rizzoli, Milano 1968.



11. La città e il tumulto


Proprio all'ingresso nella città Renzo fa il primo incontro con una realtà per lui traumatica, che capovolge interamente tutte le sue conoscenze di ciò che accade nel mondo, nel momento storico e in genere: è il contatto con un luogo dove la farina viene sparsa per terra e i pani bianchissimi, quelli che il povero filatore di seta può permettersi soltanto nelle grandi occasioni, sono come sassi, abbandonati sugli scalini del piedistallo della colonna di san Dionigi. È, appunto, l'immagine del paese di cuccagna, del luogo della fantasia del popolo sempre alle prese con la fame e con la carestia e con la penuria. La città appare, al primo incontro, a Renzo, da un lato, come lo spazio dove si può saziare ogni inveterata fame, quello della baldoria e dello spreco, la terra promessa per lui, che se ne viene dal suo paese di montagna povero e colpito dalla carestia; dall'altro lato Milano gli si presenta come il luogo dove i cittadini scialano tranquillamente a carico della gente della campagna, dando per di più a intendere che c'è miseria, invece, per tutti, onde tenere a freno le proteste della povera gente. Milano è il luogo dell'inganno, che viene perpetrato dai cittadini, che hanno il dominio della propaganda e si gestiscono a proprio vantaggio il potere, a danno dei contadini e, in genere, della gente della provincia. Tutto ciò che Renzo considera normale vi è capovolto in un'abnormità di eventi e di situazioni: la farina e il pane sono buttati via come cose di nessun conto, quasi a irridere la fame che pure dilaga nelle campagne; e nessuno pare preoccuparsi dello spreco, come se l'abbondanza avesse stabile dimora in Milano. [] L'immagine della città come antinatura si conferma nel primo incontro che Renzo compie con gente che ne proviene e che la abita: l'aspetto è deforme, come una parodia della figura umana, e deformi sono pure, rispetto alla natura, il rapporto e la condizione familiare che lega l'uomo, la donna e il ragazzotto. È, cioè, la parodia della famiglia come luogo di affetti: che sono interamente sostituiti dall'avidità e dall'interesse e dal pensiero della farina e dei pani sottratti per sé dai forni assaltati. «Sconcia» è la figura della donna: nel senso che l'enorme pancione allude alla maternità, ma, invece, dipende dalla quantità sconsiderata di farina raccolta dentro la gonna, cioè dal frutto del furto, trasportato come un valore e un bene superiori a ogni altro, appunto come un figlio amato. []


La prefazione alla città, che ha funzione rivelatrice e profetica nei confronti del personaggio di Renzo che, appunto, della città sta per fare esperienza, è una rappresentazione fondamentalmente diabolica: Renzo entra nel luogo dell'antinatura, della confusione, del capovolgimento della ragione.


Fonte: G. Bàrberi Squarotti, Il romanzo contro la storia, Vita e Pensiero, Milano 1980.



12. Renzo e il tumulto


Alla luce della concezione etico-religiosa del Manzoni si spiega pure il contenuto comico del diritto di Renzo.

L'ideale del mondo morale manzoniano è Lucia, che, semplice e pudica, segue, senza deviazione alcuna, la via della virtù obbedendo nella persona di Fra Cristoforo scrupolosamente e fiduciosamente ai dettami della Chiesa. Da ciò segue che coloro i quali, a differenza di lei, si staccano dalla retta via, sono, in quanto si allontanano da essa e per quel tanto che se ne allontanano, destinati a divenire oggetto di riso.


È il caso di Renzo () tutte le congetture, i disegni e soprattutto gli atti, ch'egli compie nell'intento di ottenere giustizia con le sole sue forze o con quella degli amici, col favore degli scalmanati di Milano o con la protezione di Ferrer, sono destinati, quando non muoiono in se stessi, non affogano nella bontà di Lucia o non si frantumano nei richiami di Fra Cristoforo, a creare e a tessere intorno a lui una trama di vicende impreviste e inattese, che finiscono nel più pieno ridicolo. E ciò ha luogo, quando Renzo, allontanato dalle donne e da Fra Cristoforo, si trova solo nel mezzo di Milano in un giorno di terrore e di confusione, in cui pare che la città sia in balìa della massa dei suoi cittadini.


Il pane e la farina gettati per terra, la canaglia come la chiama il notaio che scorrazza per la città, saccheggiando i forni e dando busse in pagamento, la forza legale, impersonata dal capitano di giustizia e dagli alabardieri, messa a tacere, trascurata, insultata e malmenata. È l'ambiente più adatto ad informare il mondo vagheggiato in quel momento da Renzo.

«Per quanto noi desideriamo narra il Manzoni il far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell'andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera».


E qui per quanto confuso con quello della moltitudine che vive nella stessa opinione e con lo stesso sentimento, si mostra, colorito della tinta tutta propria di Renzo, il ridicolo del suo compiacimento. E ciò per il fatto che a questa sua soddisfazione non corrisponde un effettivo miglioramento delle condizioni dei poveri solo momentaneamente e illusoriamente prevalenti sul corso ordinario delle cose. L'abbondanza che, secondo lui, si è di colpo prodotta a Milano, non è affatto abbondanza, anzi è l'opposto di essa, perché quella ribellione dei milanesi, piuttosto che risolvere il problema della carestia dei viveri dovuta all'abbandono delle terre per la guerra e a due anni di raccolto scarso, aggrava, con lo sciupìo dei generi alimentari, il peso di quella situazione.


Da questo contrasto, derivato dalla constatazione del mondo che, in barba alla comune credenza, persiste inalterato nella sua scellerata struttura, e dalla ignoranza credula di Renzo che, ostinato nella indistruttibilità del suo diritto che è quello di tutti gli oppressi, vede illusoriamente in quello sporadico e istantaneo successo locale un mutamento nelle condizioni dei poveri, mutamento che egli, per le sue ragioni, si propone di condurre a compimento, non può non nascere la comicità della sua posizione e del suo assunto. Assunto che, se in un primo tempo rimane come inerte e allo stato potenziale perché represso da quel senso di orrore che in lui, impetuoso ma timorato di Dio, producono la vista di quei massacri sui forni e i disegni di sangue e di vendetta all'indirizzo del vicario di provvisione, si mostra subito nella sua pienezza e perciò nella sua comicità, quando, cessato ogni pericolo, si può, senza rubare come dice lui il mestiere al boia, ottenere giustizia con serenità. E ciò si verifica appunto all'arrivo di Ferrer, il quale, interpretando come credono la massa e Renzo che è uno di essa i sentimenti di tutto il popolo, viene, secondo l'opinione di essa, a imprigionare il vicario di provvisione.


Fonte: F. Puglisi, L'estetica del riso ne «I Promessi Sposi», CEDAM, Padova 1951.



13. Un montanaro in città


C'è una costante delega, da parte del Manzoni, al suo personaggio come al testimone della condizione colpevole e insensata della città in tutto ciò che si riferisce al privato.

Renzo è nella condizione di chi può dare ancora un giudizio razionale sull'irrazionalità del comportamento della folla: non è stato ancora coinvolto nell'inganno e nella confusione della parola nella città, come gli accadrà più tardi, quando entrerà in campo Ferrer con la sua parola ambigua e contraddittoria (), di fronte a cui Renzo si troverà completamente disarmato, mentre disarmato non è di fronte allo spettacolo della distruzione e del saccheggio dei forni e dei falò degli strumenti per fare il pane, e neppure di fronte alle parole non ambigue del vecchio mal vissuto e di tutti i violenti che vogliono uccidere il vicario di provvisione, proprio perché fatti e parole sono chiari, univoci, non si sviluppano in nessuna ambiguità, e Renzo, estraneo alla città, e proprio per questo testimone libero e non condizionato, può allora dare di tutto il giudizio giusto, razionale.


Accade allora a Renzo, come inevitabile conseguenza, di essere scambiato per altro da quello che è. () Renzo viene scambiato per un servitore del vicario, per una spia, addirittura per il vicario che scappa travestito da contadino. Non ci può essere un vero contadino sotto gli abiti da contadino, né le parole dell'umanità possono essere semplicemente quello che sono, nella città, ma, agli orecchi di chi le ascolta, non possono che apparire dettate da un travestimento, da un tradimento, da un inganno che proprio con le parole dell'esecrazione del delitto e della pietà umana si voglia compiere, tanto stravolta è la realtà della città.


Renzo, che già presso il dottor Azzeccagarbugli, del resto servo del potere, in quanto innocente e vittima è stato scambiato per colpevole, viene ad apparire esattamente l'opposto di quello che è: non un semplice contadino può essere chi parla di Dio e di carità cristiana, ma una spia e un traditore, in quanto la verità delle cose e delle parole non ha spazio nella città, dove, invece, l'equivocità della parola riesce a ottenere i risultati che l'ingenuità e la sincerità non raggiungono, e Ferrer, che vuole ingannare, trova le persone da ingannare proprio in coloro che hanno accolto come false e ingannevoli le parole vere di Renzo.


La città è, insomma, il luogo dell'inganno e dell'ambiguità, lo spazio dove i valori vengono capovolti o parodicamente rappresentati in una vicenda che sembra di commedia, ma che è, in realtà, di violenza, di tradimento, di inganno, di prevaricazione, cioè è rappresentata, sotto l'apparenza dei sorrisi, dei saluti, dei vocativi «signori», della «decorosa vecchiezza», con l'intento di capovolgere ancora una volta il vero significato dei valori, diabolicamente, come compete alla città quale nuova Babele, di dare miseria e carestia invece di pane e di abbondanza, come in effetti accadrà, e di violentare ancora una volta la giustizia, trasformandola nel suo contrario. Renzo appare come l'unico che, proprio per non essere cittadino, ma, anzi, per essere venuto in città dalla campagna, mantiene il dominio di sé e il buon senso.


Fonte: G. Bàrberi Squarotti, Il romanzo contro la storia, Vita e Pensiero, Milano 1980.



14. La «babilonia dei discorsi»


Nello spazio cittadino, la parola scritta della legge può essere semplicemente «un pezzo di carta attaccato sulle cantonate», gli ordini che esprime e tuona possono costituire soltanto un gran «fracasso», di cui si ride chi dispone di una «forza reale»: qui, quelle parole, nonostante il loro formidabile «rimbombo», possono anche soltanto attestare «ampollosamente l'impotenza de' loro autori», possono anche ridursi a «vane proteste», a variazioni ostentate di un «astioso silenzio».


In questo spazio cittadino soffocato dai «discorsi del mondo» i vocaboli non hanno più alcuna certezza di significato («la parola frate veniva, in que' tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo», annota Manzoni). Tutto diviene possibile nella «babilonia dei discorsi», nel vano ciarlare milanese. Il cicaleccio che nel «paesello» di Lucia si troncava al suono della «trista parola» di Perpetua, qui non ha fine. Nelle piazze e nelle vie di Milano, quando esplode la rivolta popolare per il pane, è tutto un turbinio inarrestabile di parole, che ostentano sempre sicurezza, qualunque concetto od opinione esprimano: «Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano».


In questa ridda sfrenata di voci c'è talvolta soltanto un vano sfoggio accademico di sapienza trasmessa (); oppure le parole si compongono quasi casualmente per un semplice pretesto di intrattenimento («Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l'aveva proferito»); ma capita anche che nella «babilonia dei discorsi» s'insinui un disegno astuto e preciso di manipolazione della parola da parte di chi, «tra tanti appassionati», conserva «sangue freddo» e cerca d'intorbidare l'acqua «con que' ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere». E arriviamo così alla ben nota analisi manzoniana della folla, quel «corpaccio» in cui si dibattono «quasi due anime nemiche», per «impadronirsene». Un'analisi che è condotta, significativamente, proprio in questa prospettiva della parola: della debolezza della folla nei confronti della parola e insieme dell'attrazione subita per essa: per quelle «voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell'uno e dell'altro intento», per quel «grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l'una o per l'altra parte».


Ha osservato giustamente il Petrocchi che i Promessi sposi sono «stracarichi» di un «divertissement parossistico del dialogo». In questi capitoli dedicati alla sommossa di Milano il «divertissement» ha davvero libero sfogo; il turbinio di parole non produce fatti funesti, la manipolazione delle parole scaturisce a buon fine; la registrazione del cicaleccio, anche nelle sue manifestazioni più minute, può mantenersi nei termini del divertimento, come era accaduto nel quadro del «perdono» di fra Cristoforo: un altro grande affresco caricaturale dei «discorsi del mondo». La parola è qui gioco, anche se talvolta gioco rischioso: è minaccia che cade nel vuoto, è protesta soltanto retorica. E ben povera ed innocente accademia della parola è questa rustica danza popolare, rispetto invece, per esempio, a quel balletto aristocratico e futile nell'apparenza, ma funesto nella sostanza, fatto di «mille riverenze» e «complimenti», di «preamboli» e «sospiri», di «sospensioni, proposizioni in aria» e «tergiversazioni», dei deputati che decidono il rincaro del pane.


Fonte: G. De Rienzo, L'avventura della parola nei Promessi Sposi, Bonacci, Roma 1980.



15. Un mondo di «furbi»


Nel mondo osserva Manzoni ci sono i «furbi matricolati», i «furbi di professione», ricchi di «que' ritrovati maestri», di quelle «belle malizie» divenute «per loro quasi una seconda natura», con le quali, quando lo consente la «pacatezza d'animo» e la «serenità di mente», sono «avvezzi a vincere». La forza di questi furbi sta nel «garbo», nella «grazia» di parola, nella loro capacità di adattarsi nel discorrere alle più diverse situazioni: e questa competenza nell'usare la parola, nel manipolarla, nel farne strumento di sottile persuasione (o di dubbio), costituisce la verifica della loro «furbizia». Così, lo spadaio Ambrogio Fusella, che ascolta attentamente prima di parlare («disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla»), riesce a piazzare il suo «colpo» magistrale, proprio perché sa valutare la fragilità di Renzo nei confronti della parola e perché sa riconoscere i limiti e le reali possibilità di manipolazione della parola («E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una ora un'altra domanda»). Il silenzio e la parola sono ormai complementari, della «furbizia» di Ambrogio Fusella, scrupolosamente dosate nella sua operazione vincente; il notaio criminale fallisce invece miseramente il suo obiettivo, perché non sa ascoltare Renzo, perché confida eccessivamente nella sua capacità retorica, nei suoi virtuosismi verbali, perché non sa usufruire del silenzio, soffocandolo al contrario con pericolose parole interne, le quali figurano inutilmente una situazione che non appartiene alla realtà: «Ecco; mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po' di respiro che s'avesse, così extra-formam, accademicamente, in via di discorso amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda, quel che uno volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell'e esaminato, senza che se ne fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l'appunto capitare in un momento così angustiato». La capacità di parola di Ambrogio Fusella è reale, certamente operativa, quella del notaio criminale è soltanto teorica, semplicemente accademica.


Nel mondo del possibile non esiste soltanto l'arte della parola: esiste anche l'alternativa del silenzio. C'è il silenzio attivo dell'oste della luna piena, un silenzio che nasconde una coscienza lucidissima del potere e del rischio della parola. L'oste della luna piena si caratterizza nel suo continuo parlare interno, un parlare interno che colma il suo assoluto silenzio esterno, spesso in un'alternanza significativamente sottolineata da Manzoni.

L'oste della luna piena è un giocoliere della parola passiva, dell'arte del silenzio; partecipa come spettatore taciturno al mondo del possibile, subendone le regole, come quelle di un codice indiscutibile, senza servirsene mai tuttavia a proprio vantaggio.


Fonte: G. De Rienzo, L'avventura della parola nei Promessi Sposi, Bonacci, Roma 1980.



16. Renzo: la competenza da ritrovare


Il viaggio di cui ci occupiamo copre due capitoli del romanzo (XVI e XVII). È una lunga sequenza all'interno della quale vi sono sia più «momenti» sia più livelli e dimensioni che interagiscono fra loro. Per tentare di organizzare e ripartire questa sequenza in più segmenti, operazione necessaria all'analisi, occorre prendere un punto di riferimento che funzioni come criterio. Assumiamo allora che, in struttura profonda, ci interessa una trasformazione che riguarda il soggetto Renzo e facciamo l'ipotesi che questa trasformazione consista nella riappropriazione da parte di Renzo della propria competenza narrativa perduta. Renzo si sposta da un luogo nello spazio in cui aveva perso la propria competenza narrativa generale per raggiungere un luogo dove tale competenza potrà di nuovo essergli attribuita.


Nel nostro caso questa trasformazione viene investita nel viaggio e la figura che manifesta la competenza è quella dell'orientamento nello spazio.

Diciamo in generale che per orientarsi nello spazio occorre essere dotati di un triplice sapere: il sapere che riguarda la propria identità di soggetti (compresa la propria localizzazione spaziale), il sapere che riguarda l'oggetto con cui congiungersi (eventualmente un territorio da raggiungere), e un sapere riguardante la forma dello spazio da attraversare (eventualmente la topografia di un territorio).


All'inizio del capitolo XVI troviamo Renzo positivamente consapevole dell'oggetto (Bergamo e il cugino Bortolo), consapevole, ma in forma negativa e, in una prima fase, non-antropomorfa, della propria soggettività (sa di non volere; l'attore è identificato da un'intenzionalità organica e «animale»: Renzo galoppa, le sue gambe lo portano, «meglio uccel di bosco che uccel di gabbia») quasi del tutto inconsapevole della forma del territorio e della direzione da prendere (l'unica cosa che sa è che per raggiungere Bergamo dovrà attraversare l'Adda). Renzo ci viene presentato come privo di orientamento nel momento in cui è costretto a lasciare Milano, ed è proprio in Milano che Renzo ha perso l'orientamento. In effetti Milano non ci viene solo proposta come luogo sconosciuto, ignoto a Renzo nella sua organizzazione spaziale interna, ma come luogo nel quale orientarsi è problematico e difficoltoso. Renzo non soltanto non conosce i posti, le vie, gli incroci, le case della città, ma non possiede i codici dell'orientamento urbano, mentre possiede assai bene i codici dell'orientamento extraurbano.


C'è un passaggio importante da questo punto di vista, e che ci consente fin d'ora di accennare a un aspetto dell'organizzazione topografica complessiva della spazialità dei Promessi sposi: si tratta del viaggio di Renzo che precede quello della sua fuga, quel viaggio che lo porta a Milano dopo aver lasciato le due donne a Monza. Come si ricorderà, a un certo punto Renzo sale sull'argine al lato della strada e scorge il Duomo di Milano che si staglia nella pianura innanzi a lui e subito dopo, voltandosi, vede alle sue spalle il Resegone, il monte che sovrasta il territorio da cui proviene. È così che Renzo si orienta: un po' come l'abitudine percettiva tipica della gente di campagna, il suo è un orientamento presbite, ed è un tipo di orientamento che ben si adatta, e in questo senso contribuisce a costituirla, alla geografia d'insieme del racconto: tre salienze percettive per gli altrettanti vertici del triangolo territoriale che fa da sfondo a tutto il romanzo: il Resegone per il territorio di Lecco, il Duomo per Milano, il colle di Bergamo Alta per il Bergamasco.


Ora, ciò che conta per noi è che fra l'arrivo e la partenza di Renzo, Milano ha annullato, neutralizzato la sua competenza orientativa. Milano ha inghiottito Renzo: «il vortice attrasse lo spettatore. Andiamo a vedere , disse tra sé» (). La fuga si organizza, dalla liberazione di Renzo dalle mani delle guardie fino all'arrivo sul fiume Adda, in due sequenze temporali che informano lo spazio da percorrere e il modo stesso in cui tale percorso ci viene presentato in due momenti opposti tra loro: il percorso diurno e il percorso notturno. Durante il giorno Renzo copre il percorso che lo porta da Milano fino a Gorgonzola (da un'osteria all'altra, badiamo bene), durante la notte il rimanente della strada fino alle rive dell'Adda. La figura dell'Adda in quanto tale costituisce quel luogo, luogo di confine, che marca il rovesciamento narrativo. Soltanto sull'Adda Renzo ritrova la propria competenza, quella che lo identifica come eroe dell'intero romanzo: competenza visiva presbite di giovane di campagna e competenza passionale di sposo promesso.


Fonte: F. Marsciani, La semiotica dello spazio nel viaggio di Renzo verso l'Adda, in G. Manetti, Leggere i Promessi Sposi, Bompiani, Milano, 1989.



17. La natura e Renzo


La natura non compare nei Promessi sposi, salvo che all'inizio del romanzo, dissociata dalle situazioni e dai personaggi. Evidente è la correlazione natura-personaggi nella fuga notturna sul lago, nella tetra valle dominata dal castello dell'innominato e nella vigna di Renzo.

L'ultima fase della fuga di Renzo verso l'Adda è certo il punto in cui il rapporto tra la natura e il personaggio si fa più stretto e più complicato. Si tratta infatti di un operaio che risiede in campagna e lavora la terra e quindi distingue nettamente tra la campagna coltivata e la sodaglia, tra i segni di coltura umana della prima, specialmente il gelso e la vite, che per ciò gli fanno una mezza compagnia, e la selvatichezza della seconda, sparsa di felci e di scope, che accresce il peso del viaggio. Il verbo morire, che personifica la campagna coltivata cedente alla sodaglia, è la prima forte spia dell'interiorizzazione del paesaggio, cioè del condizionamento e della soggezione che quella specie di uomo ne subisce. La sua animazione, conseguenza dell'interiorizzazione, si accentua via via che s'intensifica la sua selvatichezza: da macchia bassa e rada (di felci e di scope) facendosi macchia fitta e alta (di pruni, quercioli e marruche) e finalmente bosco; il bosco pauroso dell'infanzia sopita ma non spenta nell'anima semplice. Nella spettralità degli alberi risorgono le apparizioni delle novelle; e qui val la pena di soffermarsi ad analizzare il tessuto verbale e le correzioni. Quanto a queste si nota la forte deletterarizzazione, non soltanto per adeguarsi, come dice Petrocchi, all'uso, ma per approssimarsi a quello presumibile di Renzo, sia pure mediato dal narratore e a costo di farlo più generico. Specificamente studiato e rielaborato è il lessico relativo alla crisi psicologica del personaggio. Le sostanze concettuali sono, intanto, iscritte in un registro d'indefinitezza che rivela labilità di percezione e di distinzione: gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento; seguendo un sentiero, corretto su il sentiero; certe immagini, certe apparizioni; un non so che d'odioso, corretto su non so che di odioso; come una smania; pareva che durassero fatica; a un certo punto; parve che a un tratto Alcuni verbi di percezione denunciano la passività del soggetto: si trovò tra macchie più alte; s'accorse d'entrare in un bosco; provava un certo ribrezzo; sentiva la brezza notturna; altri passano l'attanza a soggetti interni o esterni, e soverchianti: nella sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini; più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio; gli alberi gli rappresentavan figure strane; l'annoiava l'ombra delle cime; e solo dopo la serpentina personificazione della brezza notturna e la minaccia di sopraffazione dell'orrore indefinito l'attanza verbale torna a Renzo: richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse.


Fonte: Nencioni, La lingua di Manzoni, Il Mulino, Bologna 1993.



18. Un personaggio d'autorità: il conte zio


Il Conte zio non è ne governatore, né gran cancelliere, né podestà di nessun potere diretto; appartiene solo ad una di quelle giunte, di quei corpi ornamentali, onde il dispotico governo spagnolo trovava modo di accontentare la imbecille vanità del patrizio, dandogli l'illusione di partecipare al governo della cosa pubblica. Ma vicino all'autorità legale ci è sempre un'altra specie di autorità, tanto più efficace, quanto meno avvertita: l'autorità che io chiamerei dell'influenza. È l'autorità nascosta, che lavora sottacqua, che preme e sforza le autorità palesi.


È l'autorità, la cui presenza e invadenza è documentata da quel ritornello delle gride: che le pene inesorabili potevano essere modificate «ad arbitrio di S. E.».

Fra questa autorità d'influenza e l'autorità legale è una lotta perpetua. Nell'età tipica della libertà, nell'età dei Comuni, una serie di provvedimenti tendeva a liberare l'autorità legale dagli impacci e dalle insidie di quella autorità d'influenza. La pubblicità dei processi, le rigide norme imposte al potere esecutivo, la discussione delle leggi sono alcuni dei mezzi, non sempre sufficienti, per dar forza anche oggi all'autorità legale: perché l'autorità d'influenza non muore mai, anche se assume le parvenze e i nomi più liberi e più democratici. In tempi poveri, l'autorità legale cede allautorità d'influenza. E quest'altra è inutile dirlo novanta volte su cento e non può essere altrimenti la protezione delle iniquità. È l'abuso, il privilegio che non vuol morire. E il Conte zio esercita difatti quell'autorità d'influenza per un fine malefico, perché la tristizia di suo nipote non abbia più nessun testimonio, perché l'amor proprio di suo nipote sia pago, e padre Cristoforo, che era venuto a braveggiarlo nel suo palazzo, sia trasferito lontano. «Provvedimenti prudenziali» vecchi e sempre nuovi.


Il Conte zio è un anonimo. È così, sostanzialmente, nullo che si direbbe non gli convenga neppure quella qualunque fisonomia che dà un nome proprio. Ma ha la forza della sua stessa nullità. Accoppiata alla sua qualità di conte, alla dignità di membro del Consiglio Segreto, quella nullità si trasforma in una risultante tutta prestigiosa, che si chiama credito: in una virtù fatta di illusione, di prospettiva ottica che svanisce in niente, ogni volta che le si va vicino.

Il Conte zio sa che la sua forza è in questo credito: egli non ha mai niente da dire, niente da proporre; ma nel far valere quel niente, nel lasciare intravedere chi sa che in quel niente è maestro.


Fonte: E. Donadoni, Scritti e discorsi letterari, Sansoni, Firenze 1921.



19. Un personaggio d'autorità: il Padre provinciale


Il magnifico signore e il padre molto reverendo sono due nullità, due forme pure, due marionette, e si capisce che anche la mimica debba avere qui una grande importanza.

Tutto il discorso del Conte dopo il banchetto al Padre provinciale, e l'incitamento a trasferire padre Cristoforo, ha per punto di partenza, anche, e per punto di arrivo una questione di forma: di salvare quello che ancor oggi si chiama, e al quale ancor oggi si dà troppa più importanza che non alla sostanza: il prestigio: il prestigio del convento che ha bisogno di essere in buon accordo con tutti: il prestigio di lui, uomo di stato: di lui sopra tutto, Conte, di lui, e del sangue suo. La virtù che il Conte esalta su tutte le virtù cristiane, o almeno fratesche, è la prudenza: quella che le età povere e le anime pusille chiamano prudenza: che è troppo spesso viltà, o egoismo, o tolleranza del male, o anche connivenza con esso. Il padre Cristoforo è un uomo «un po' amico dei contrasti. che non ha tutta quella prudenza. tutti quei riguardi».


Una grande arte quella del Conte zio! Senonché non c'era neppur bisogno che egli la impiegasse tutta e sciupasse tutte le sue energie per debellare e conquistare un uomo di carta pesta o di pasta frolla come il Padre provinciale: il quale è anch'esso un'autorità anonima, un nome vano senza soggetto. La figura del Conte è così prepotente, la sua rappresentazione estetica così ricca e vivace, che la semifigura del Padre provinciale appena si avverte. Ma nella sua stessa negatività essa è quanto mai espressiva. Che se dei conti zii se ne trovano pochi, perché la vita nostra è troppo forte, troppo seria, per sopportare questi esseri ornamentali; e la coscienza pubblica è troppo illuminata, gli ingegni troppo scaltriti, perché altri ne rimanga allucinato; dei padri provinciali, fuori dei conventi, qualcheduno, e più di uno, ne abbiamo conosciuto e ne conosceremo tutti.


Quel molto reverendo padre è il «superiore» tipo: l'uomo salito in dignità per la sua profonda dappocaggine, per quella virtù che trema di tutti i contrasti, che evita tutti gli urti: e che si chiama tatto: una virtù molto accreditata sempre, perché blandisce tutti gli egoismi: fondamentale in un'età come il Seicento spagnolo, in cui le classi e gli istituti, bacati nell'intimo, potevano vivere uno accanto all'altro a patto di una diplomatica tolleranza dell'equivoco, di una gigantesca omertà.


Il Padre provinciale, come le altre autorità, non impersona un'idea, ma esercita una funzione: e in quella funzione è tutto. Della morale cristiana non pensa più altamente del dottor Azzeccagarbugli.

Quella morale non deve penetrare, molesta, nella vita: la parola di Cristo deve restare sui pulpiti: in bocca di predicatori girovaghi; e tocca a lui fare che un cristiano ingenuo non trovi modo né tempo che quella parola fruttifichi; in nome della prudenza, del tatto. Colpa mia, pensa il padre, appena ha inteso dove il Conte va a parare: «lo sapevo che quel benedetto Cristoforo e in quel benedetto è tutta la rancura del superiore che non vuol noie quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito: e non lasciarlo fermare sei mesi in un luogo specialmente nei conventi di campagna». È il cattolicesimo che protesta contro il cristianesimo.


Fonte: E. Donadoni, Scritti e discorsi letterari, Sansoni, Firenze 1921.



20. Il nido del falco


Qualche considerazione a parte merita il paesaggio che fa da sfondo alla vicenda dell'Innominato, per una sua singolarità che lo stacca, almeno in parte, dai consueti modi manzoniani e che riflette la singolarità del protagonista e l'eccezionale vicenda nella quale siamo introdotti. Anche qui, come altrove, il paesaggio tiene dell'anima di chi ne è solitario abitatore; ma ha meno che altrove il suo fondamento in una realtà obbiettiva, sia pure idealizzata e poeticamente trasfigurata. È paesaggio d'arte e di fantasia, intenzionalmente atteggiato con certe sue tinte e con certe sue caratteristiche singolari. Si potrà dimostrare, e si è dimostrato, che il castello dell'Innominato esistette in realtà in un luogo ben determinato: ma è certo che, a differenza di quanto solitamente gli accade, il Manzoni presentandoci quella rocca dalla quale «come l'aquila dal suo nido insanguinato il selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo spazio, dove piede d'uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé né più in alto» si svincola dalla realtà, si scioglie dalla fedeltà al determinato di cui è solito farsi una legge: costruisce per l'Innominato un mondo ad hoc, avulso dal mondo comune degli altri mortali, chiuso in una sua incomunicabilità solitaria.


La personalità dell'Innominato domina sovrana, e come s'impone agli uomini e li coinvolge nel suo costume, così penetra di sé e suggella del suo segno, in sede artistica, tutta la realtà circostante. Il paesaggio è degno di lui, è una cosa sola con lui; tra l'uomo e i luoghi sembra correre una consuetudine necessaria ed antica, una coesistenza ch'è fuori e al di sopra del tempo. Quel paesaggio è una introduzione psicologica, e la psicologia dell'Innominato sembra, a sua volta, un dato di natura.


La scelta delle parole, il ritmo del periodo, un che di nudo, di tetro, di scabro, di apocalittico, avvolgono quei luoghi d'una suggestione maligna che gli atteggiamenti umani, biechi e sospettosi, animeranno tristamente. L'immagine del nido insanguinato, la presenza del selvaggio signore, che non vedeva mai nessuno al di sopra di sé né più in alto, ci trasportano in un'atmosfera più che fantastica, mitica, che il Manzoni manterrà librata a quell'altezza e sosterrà su quel colore e su quel tono anche quando ci offrirà, riscattato moralmente, con l'Innominato, tutto il mondo che lo circonda. C'è insomma, una dialettica del paesaggio, come c'è una dialettica del personaggio che il Manzoni rispetta con coerenza: dialettica del paesaggio, s'intende, in quanto questo è vivo e umanamente accentuato, inverato, incarnato. È la stessa vertigine di quell'altezza, la consapevolezza di quella deliberata solitudine che mentre misura in un primo tempo la distanza che chi è fuori deve superare per penetrare in quel mondo, esaltando l'impavido orgoglio dell'Innominato misura, in un secondo tempo, l'abisso ch'egli deve colmare per scendere da quella solitudine sconsigliata, per entrare in comunione coi suoi simili, per sentirsi con essi uguale dinanzi a Dio. Dall'alto contempla, giù in fondo alla valle, con inquietudine ansiosa, quel mondo dal quale si era escluso, con un attonito stupore, non dissimile da quello con cui, dal basso, il valligiano osava appena levare lo sguardo lassù, a quel nido di falco.


Fonte: M. Marcazzan, « Il paesaggio dei Promessi Sposi», in Humanitas III, 1948.



21. Sentimenti nuovi per il Nibbio e per l'Innominato


Insieme ai «santi», anche i «birboni» recitano convinti nel coro del privilegio di Lucia. Il Nibbio, braccio destro dell'innominato, deve essere ben avvezzo a sangue e lacrime; eppure di fronte a questa fanciulla spaventata prova «compassione». Lì, sul momento, agisce con freddezza: «mette per forza» la giovane nella carrozza, sale veloce, dà ordini precisi. Ma poi, guardando Lucia in viso, sentendone la voce, si smarrisce e cambia tono. «Non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla?» dice ai suoi complici; quindi revoca a sé ogni iniziativa, confidando nel proprio intuito: «Non la toccate, se non vi fo segno; a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me». Però, quando andrà a rapporto dal suo padrone, avrà un comportamento strano. «Avrei avuto più piacere» dice «che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso». Le parole (la voce, molto di più) e gli occhi di Lucia lasciano il segno: scatenano il meccanismo insolito e complesso della «compassione».


«Non la voglio in casa costei» dice a se stesso il terribile signore, dopo l'incontro con il Nibbio. Ma «costei», tanto bruscamente (quasi sgarbatamente) separata, si trasformerà ben presto, con adeguamento di vocabolario, nell'«infelice sconosciuta», in «quella poverina»: poi, alla fine, Lucia, anche per lui, diventa la «sua povera» Lucia. L'innominato va da questa «donnicciuola», e la fanciulla si fa immediatamente «immagine» per lui. Un'immagine ossessiva (sempre «viva nella mente»), ma anche consolatrice: un'immagine che subisce in fretta una radicale trasformazione. Da «prigioniera», da «supplichevole» Lucia, infatti, nella mente del signore, si trasforma in colei «che dispensa grazie e consolazioni»; e così le sue parole, che erano state proferite con un «accento d'umile preghiera», vengono riascoltate con «un suono» che si fa «pieno d'autorità».


La trasformazione è miracolosa, come si sa, riguarda l'anima dell'innominato: ma il mutamento spirituale determina insieme una metamorfosi terrena. Il rustico signore, selvatico e scontroso, diventa un gentiluomo. La sua «dolcezza» di parola fa «trasecolar» la vecchia del castello. Ma non è soltanto questione di parole («Via, fatevi coraggio») o di intonazioni: la delicatezza di comportamento, i riguardi per questa «sua poverina» sono davvero di grandissima sensibilità. L'innominato, è detto esplicitamente, non si separa mai dalla sua famosa «carabina»: lo fa, mettendola «in un cantuccio vicino all'uscio», soltanto quando va a trovar Lucia, come lo farà, subito dopo, per incontrare il cardinale. L'innominato ordina per la povera contadina una cena da signora, dà disposizioni precise e perentorie perché ne vengano rispettati il riposo e la solitudine; quando lascia il castello per andare da Federigo si preoccupa di creare, intorno alla sua Lucia, quasi un cordone d'isolamento: «Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera, mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che quella donna mettesse piede nella camera».


Per amore di Lucia, Manzoni perde anche, qualche volta, il senso della misura: forza il tono medio del suo racconto. Ed ecco allora, dopo il colloquio con il cardinale, l'innominato «tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse il momento d'andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso così diverso da quello che lo fosse il giorno avanti». Ebbene, nota Manzoni, il viso del signore esprime «un'agitazione concentrata», un'ansia forse un po' troppo esagerata che, se non ci fosse l'«occhio ombroso» (ma salutare) di don Abbondio ad interpretarla in «qualcosa di peggio», finirebbe per essere caricaturale. Ed ecco ancora l'innominato salire la strada del castello con un'«impazienza mista d'angoscia», al pensiero del patimento della donna da lui perseguitata: la sua fretta è santa, ma anche sproporzionata.


Nella notte della conversione il signore del castello, abbandonandosi finalmente al fascino dell'immagine carismatica di Lucia, si era trovato nella condizione di aspettare «ansiosamente il giorno», per andare, anzi per «correre» a liberare la sua vittima, per «sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita». L'innominato s'era immaginato persino, dopo averla liberata, di poter condurre «lui stesso dalla madre» la sua Lucia, quasi in trionfo. Dovrà invece accontentarsi di un piccolo, poco spettacolare, gesto di galanteria: potrà sorreggere infatti soltanto il braccio della giovane nell'aiutarla ad entrare nella lettiga: e lo farà, impacciato, «con una certa gentilezza quasi timida».


Fonte: G. De Rienzo, Per amore di Lucia, Rusconi, Milano 1985.



22. Mente e cuore in Federigo


La vita di Federigo è sin dalla prima gioventù una dedizione completa al bene del prossimo, una lotta: pacata ed eroica contro il nemico interno ed esterno, contro la propria «indole viva e risentita», contro la cattiveria e la noncuranza del secolo, contro i suoi familiari, a cui dà noia come una stravaganza la virtù coerente fino agli estremi.

In lui l'altezza della mente è pari alla nobiltà del cuore, l'uno e l'altra sono così armonizzati, che nella sua azione non c'è quasi mai un'incertezza o una debolezza; eppure la sua perfezione è avvivata da una fiamma, così calda, che noi non sentiamo quasi mai dinanzi a lui la diffidenza ostile che ci destano pressoché tutti i personaggi immacolati. La sua eloquenza, anche se conserva qualche piccola scoria di enfasi, penetra a poco a poco nell'anima, la vince, l'affascina. Anche fra Cristoforo è eloquente, ma è più impetuoso e più rapido, e le sue vittorie sono più facili: Renzo, in fondo, è già molto vicino al suo spirito; forse un discorso di questo monaco generoso non avrebbe aderito nemmeno per un attimo all'anima repulsiva di don Abbondio, così sfuggente, così difficile da afferrare! L'eloquenza del Cardinale è più complessa, più delicata, è fatta più sapiente da una maggiore pazienza meditativa: il suo momentaneo trionfo sopra don Abbondio è il coronamento d'un edifizio costruito con una sagacia non inferiore alla naturalezza. Per la rappresentazione del suo carattere, questa scena è forse ancor più significativa che l'incontro con l'Innominato, il quale già vedeva il bene che don Abbondio non aveva mai veramente intravisto. La logica di Federigo è così potente dinanzi al pensiero meschino del piccolo curato, il suo amore è così grande in confronto colla freddezza chiusa e sospettosa di don Abbondio, che questi non può non essere vinto: «Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e irnpaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire». In questo momento, per la potenza della parola evangelica del Cardinale, l'anima stessa del misero don Abbondio diventa uno spettacolo religioso. Leffetto delle parole di Federigo sul curato colpevole è artisticamente più alto delle parole stesse.


Gli uomini puri hanno sovente un meraviglioso intuito delle anime, superiore a quello degli spiriti sagaci e sapienti ma complicati dagli eccessi d'uno psicologismo che, ammettendo scetticamente tutte le possibilità, brancola spesso nelle tenebre. Il candore dello spirito avvicina alle anime; e forse è accaduto a tutti di sentirsi più immediatamente compresi o smascherati da un cuore puro che da una mente indagatrice. Perciò è una stupenda verità l'improvvisa coscienza che Federigo ha del mutamento dell'Innominato appena questi gli compare davanti, ed è una miracolosa ma naturale chiaroveggenza quella di Lucia che, prostrata dinanzi all'empio signore, ne tocca senza saperlo l'anima incerta, con le parole piene di promesse: «Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!».


Fonte: A. Momigliano, Alessandro Manzoni, Principato, Messina-Milano 1948.



23. I soliloqui di don Abbondio


I quattro soliloqui di don Abbondio in forzata compagnia dell'innominato (cap. 23 e 24) sono causati dalla impossibilità di parlare non, come nel caso di Renzo, all'interlocutore assente, ma all'interlocutore presente. È una impossibilità psicologica, prodotta dalla paura; sicché, mentre il soliloquio di Renzo è uno pseudodialogo col mercante assente, però sopra un tema reale, i soliloqui di don Abbondio sono, come dice lo stesso autore (cap. 23), un «parlar con se stesso» e sopra temi fittizi: «ed ecco» così Manzoni introduce il terzo soliloquio, quello durante l'andata al castello «una parte di ciò che il pover'uomo si disse in quel tragitto: ché, a scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro»; quel flusso, insomma, di sofismi, congetture e sospetti del tutto irrelati alla realtà della situazione e del taciturno «amico», come le elucubrazioni dell'Arpagone molieresco sono irrelate alla realtà della sua famiglia. Ma tanto la «filosofia» del quieto vivere di don Abbondio, quanto quella dell'avarizia di Arpagone costituiscono, in sé, sistemi originali e coerenti. Ecco infatti che dal diritto al quieto vivere, all'«esser lasciato vivere» (diritto che al santo arcivescovo impone un dovere di carità!) scaturiscono l'inclusione dell'arcivescovo nella categoria dei faccendoni e l'equiparazione del birbone al convertito e al santo e finalmente, nell'ultimo soliloquio, alla mula: «Anche tu hai quel maledetto gusto d'andare a cercare i pericoli, quando c'è tanto sentiero!» (cap. 24); e se resta ferma, per coloro che voglion «tirare in ballo tutto il genere umano», la distinzione tra chi fa il bene e chi ha il gusto di fare il male, la bilancia dei pericoli per i quietisti coinvolti pende a vantaggio della diligenza e tenacia dei cattivi, perché «quelli che fanno il bene, lo fanno all'ingrosso» (ivi). Da una condizione tanto negativa il quietista credente non ha altro scampo che di accendere un credito verso la provvidenza: «il cielo è in obbligo d'aiutarmi, perché non mi ci son messo io di mio capriccio». Questo teorema e la personale vicenda che vi s'intreccia sono svolti con una vivacità discorsiva di cui don Abbondio darà saggio conversativo nell'ultimo capitolo, ma per saltar di palo in frasca e parlar di bubbole non senza fronzoli di lepidezza. Qui la «parlantina» esprime l'essenza dell'uomo, ne raschia il fondo; perciò usa materia pertinente. L'argomentazione e la constatazione procedono attraverso una catena di stereotipi del senso comune, quali venire a cercar me che non cerco nessuno, tirarmi per i capelli ne' loro affari, gli dà noia il bene stare, accattando guai per sé e per gli altri, andare in paradiso in carrozza, andare a casa del diavolo a piè zoppo, giocare un uomo a pari e caffo, non mi curo di sapere i fatti degli altri; in buona parte tributari di quella tropica popolare che farcisce l'immaginosità di pedestre concretezza. Rincalzano questi nuclei, diciamo sapienziali, modi di dire di pari qualità, come aver l'argento vivo addosso, tirare in ballo, far l'arte di Michelaccio, mettercisi dentro con le mani e co' piedi, avere una caparra, mi fanno trottare, metterci la pelle, è nata per la mia rovina. E non disdicono i paragoni dell'inconoscibile costui, l'innominato, con sant'Antonio nel deserto e con Oloferne, sia perché sono triti ricordi della cultura di seminario, sia perché nell'incalzare di luoghi a vario livello comuni c'è un accanimento stizzoso; c'è quella intenzione deprezzativa che distingue dalla elementarità schietta del parlare di Renzo la mediocrità sostanziale e la banalità compiaciuta del parlare di don Abbondio.


Fonte: G. Nencioni, La lingua di Manzoni, Il Mulino, Bologna 1993.



24. Il sarto


Il sarto come narra il Manzoni era ritenuto nel suo villaggio e nei dintorni per un uomo di scienza e di talento. []

Ma il Manzoni, sempre attento a cogliere nei suoi personaggi il punto debole e a condannarlo, sempre acuto nel metterlo in mostra per colpirlo con più facilità, crea intorno al sarto, come del resto fa con ogni altro personaggio di natura comica, una serie di posizioni le quali, a guisa di altrettante lenti, servono a individuarne le caratteristiche e a metterle severamente a fuoco. []


Difatti, quello che al sarto ha fatto più impressione è la predica del Cardinale e di essa specialmente due particolari: l'uno dovuto alla considerazione sull'atteggiamento del Borromeo, l'altro alla chiarezza e alla profondità del suo discorso. Egli, che nelle sue parti è ritenuto un dotto, che ha letto il leggendario dei Santi, sconosce pover'uomo che ciascuno di noi, grande per quanto possa essere, è niente quando si trova al cospetto di Dio. Napoleone è un'orma dell'Altissimo, e il grande Cicerone, noto a tutti, nelle confessioni di Sant'Agostino, diviene un certo Cicerone, scevro di importanza e di grandezza. E perciò gli desta stupore quel senso di umiltà, necessaria, con cui il Cardinale celebra la Santa Messa. «A vederlo li davanti all'altare diceva un signore di quella sorte, come un curato». E così pure non riesce a capacitarsi come il Cardinale, che ha letto tutti i libri che ci sono, possa adattare il suo linguaggio alle intelligenze, piuttosto comuni, dei suoi ascoltatori. Per lui questo è motivo di meraviglia, senza pensare che ciò è molto naturale e che sarebbe da stupirsi anzi se si verificasse il contrario. Ma, come se ciò non bastasse, il Manzoni, come fa con don Abbondio, cui pianta sulla strada i due bravi di don Rodrigo, dispone i fatti e gli avvenimenti in maniera tale che il Cardinale in persona, quello stesso di cui il sarto terrà lungo tempo il ritratto sospeso al muro per gloriarsi di quella visita, gli piombi proprio a casa per ringraziarlo da vicino della ospitalità data a Lucia. Dispone cioè i fatti in maniera tale da dare al povero uomo, che non trova né nel suo villaggio né nei dintorni persona alcuna che possa riconoscere e il suo talento e la sua dottrina la possibilità, una volta così insospettata e benigna, così unica e insolita che gli capita di trovarsi di fronte ad un uomo tanto sapiente, di tirar il succo dei suoi studi e delle sue capacità e farsi così onore dinanzi al Cardinale.


Ma gli accade quello che accade a Renzo e ad Agnese: le sue aspettazioni e i suoi preparativi si risolvono in un insuccesso. Al Cardinale, che ringrazia tanto lui quanto la moglie della loro cortesia e che chiede ad entrambi se siano disposti a tenere ancora per qualche giorno nella loro casa le due ospiti, la moglie con voce semplice, ma sicura, si accontenta di rispondere: «Sì, signore!». Ma il marito che sa leggere, che ha letto i Reali di Francia, il Guerin Meschino e il leggendario dei Santi, non s'appaga d'una tale risposta. Egli vorrebbe trovarne una migliore, una degna di lui in un'occasione di quella specie. E allora come narra l'autore «raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l'arco dell'intelletto, cercò, frugò». E quale fu l'effetto di un così grande sforzo? Quale fu il risultato che ottenne dalle doti della sua vocazione e dall'esercizio delle sue letture? Quale frase o periodo gli dettò la sua dottrina formata sui libri? «Si figuri», «altro, commenta l'autore non gli volle venire». Ecco in che si è risolta tutta la sua preparazione prossima e remota, che cosa hanno dato luogo i suoi acrobatismi mentali. È la favola della montagna che genera un topo. Così il Manzoni, disciolta la nebbia che attornia il sarto, lo mostra nella sua innocente presunzione e lo colpisce nella sua vanità. Di questa risposta così insulsa il sarto infatti rimase avvilito non solo sul momento, ma dopo e sempre, ogni qual volta cioè che quel ricordo gli veniva ad avvelenare la gioia del grande onore ricevuto.


Così, con questa e per questa risposta, si discioglie la dottrina del sarto, la quale, a guisa di una bolla di sapone punta da uno spillo, si affloscia, cadendo, com'è naturale, nel più pieno ridicolo.


Fonte: F. Puglisi, L'estetica del riso, ne «I Promessi Sposi», CEDAM, Padova 1951.



25. Donna Prassede


Si pensi al primo incontro con la coppia dalto affare nel capitolo XXV. Lepisodio si svolge fra i due ritratti morali di donna Prassede, allinizio, e di don Ferrante, alla fine. Questa posizione dei due ritratti, al principio e in fondo allepisodio, riflette subito, in maniera simbolica, le rispettive posizioni delluomo e della donna nel ménage della «coppia dalto affare». Don Ferrante non compare se non alla fine, in qualità, «nelloccasioni dimportanza», di segretario al servizio di donna Prassede, confinato a comandare sullumbratile mondo dellortografia «chera una delle molte cose che aveva studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa». Domina dunque subito il ritratto di donna Prassede: «Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene.». Un aspetto virtuoso che, attraverso una serie di precisazioni limitanti («Per fare il bene, bisogna conoscerlo.»), si riduce alla fine ad una deformazione, a un vizio, alla caricatura insomma della santità («Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto»): una caricatura che culminerà in quello «sbaglio grosso», nello scambio cioè di proporzioni fra il «cielo» e «il suo cervello» («.tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, chera di prender per cielo il suo cervello»). Accanto alla santità ingenua e inconsapevole di Lucia e a quella solenne e naturale di Federigo, accanto alla santità conquistata faticosamente dal giorno della lontana conversione di fra Cristoforo e a quella del recente convertito rappresentata dallInnominato, e ancora, accanto alla vocazione sonnolenta di don Abbondio e alla vocazione corrotta di Gertrude, non poteva mancare nel romanzo questa variante della attitudine religiosa, rappresentata dalla santità malintesa e fatta caricatura di donna Prassede. La gentildonna non appena si trova davanti Agnese e Lucia, interroga e consiglia: «il tutto con una certa superiorità quasi innata», e sia pure «corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta premura, condita di tanta spiritualità», dal linguaggio insomma e dal contegno della santità, non ipocritamente assunti ma sinceramente sentiti come esige appunto quella mescolanza che è in lei di buone inclinazioni e di idee sbagliate. Ma il carattere di donna Prassede si rivela in tutta la sua presuntuosa sicurezza e nel suo opprimente zelo nellintenzione, tenuta segreta (in coerenza a una delle sue massime principali), di far del bene a Lucia anche in un altro modo, oltre che in quello di ospitarla, e cioè «di raddrizzare un cervello, di metter sulla buona strada che naveva gran bisogno». Di questo carattere di donna Prassede è imbevuta laria che si respira nella sua casa. [.]


Lucia, che nella casa del sarto era apparsa in atteggiamento di accorato abbandono con la madre, nella casa di donna Prassede invece, anche quando, insieme alla madre (non «subito» come questa, ma «poco dopo»), si sentirà sollevata «dal rispetto opprimente» di «quella signorile presenza», offrirà un volto su cui donna Prassede non mancherà di leggere con disappunto i segni di una volontà e di un pensiero non facilmente domabili. Il volto di Lucia, osservato da donna Prassede (che vi trova «molto da ridire»), rappresenta una delle realtà più vitali nella composizione del personaggio: «Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quellarrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri. Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto».


Aggiungendosi al primo ritratto, rivolto soprattutto allesterno, del capitolo II, questo nuovo ritratto, che si carica di tutta la vita interiore di Lucia (che ormai il lettore ha imparato a conoscere), viene ad assumere un valore speciale, di penetrante verità, di sintesi di una vita interiore fatta di umiltà e di semplicità, ma insieme di chiarezza di principi e di fermezza di volontà, guidata dalla spontaneità ma nello stesso tempo frenata dal dominio di sé. Insomma tutto lopposto della santità caricaturale di donna Prassede, che, come uno specchio difettoso, riflette la santità autentica di Lucia, deformandola: sicché nel ritratto di Lucia osservato da donna Prassede si potrebbe dire che si incontrino i due personaggi opposti, i due diversi caratteri, la vera e la falsa santità.


Fonte: G. Getto, Tempo creaturale e provvidenziale nei Promessi Sposi, in «Lettere Italiane», I, 1963.



26. Don Abbondio tra commedia e dramma


Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in Federigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell'ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane.


Ora io non nego, don Abbondio è un coniglio. Ma noi sappiamo che Don Rodrigo, se minacciava, non minacciava invano, sappiamo che pur di spuntare limpiego egli era veramente capace di tutto. ()

Pauroso, sissignori, don Abbondio; e il De Sanctis ha dettato alcune pagine meravigliose esaminando il sentimento della paura nel povero curato; ma non ha tenuto conto di questo, perbacco: che il pauroso è ridicolo, è comico, quando si crea rischi e pericoli immaginari: ma quando un pauroso ha veramente ragione d'aver paura, quando vediamo preso, impigliato in un contrasto terribile, uno che per natura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti, anche i più lievi, e che in quel contrasto terribile per suo dovere sacrosanto dovrebbe starci, questo pauroso non è più comico soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come Fra Cristoforo, che va ad affrontare il nemico nel suo stesso palazzotto! Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere; ma questo dovere, dalla nequizia altrui, è reso difficilissimo, e però quel coraggio è tutt'altro che facile; per compierlo ci vorrebbe un eroe. Al posto d'un eroe troviamo don Abbondio. Noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui, cioè se in astratto consideriamo il ministero del sacerdote. Avremmo certamente ammirato un sacerdote eroe che, al posto di don Abbondio, non avesse tenuto conto della minaccia e del pericolo e avesse adempiuto il dovere del suo ministero. Ma non possiamo non compatire don Abbondio, che non è l'eroe che ci sarebbe voluto al suo posto, che non solo non ha il grandissimo coraggio che ci voleva; ma non ne ha né punto né poco; e il coraggio, uno non se lo può dare!


Un osservatore superficiale terrà conto del riso che nasce dalla comicità esteriore degli atti, dei gesti, delle frasi reticenti ecc. di don Abbondio, e lo chiamerà ridicolo senz'altro, o una figura semplicemente comica. Ma chi non si contenta di queste superficialità e sa veder più a fondo, sente che il riso qui scaturisce da ben altro, e non è soltanto quello della comicità.

Don Abbondio è quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe voluto. Ma il poeta non si sdegna di questa realtà che trova, perché, pur avendo, come abbiamo detto, un ideale altissimo della missione del sacerdote su la terra, ha pure in sé, la riflessione che gli suggerisce che quest'ideale non si incarna se non per rarissima eccezione, e però lo obbliga a limitare quell'ideale, come osserva il De Sanctis. Ma questa limitazione dell'ideale che cos'è? è l'effetto appunto della riflessione che, esercitandosi su quest'ideale, ha suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don Abbondio è appunto questo sentimento del contrario oggettivato e vivente; e però non è comico soltanto, ma schiettamente e profondamente umoristico.


Bonarietà? Simpatica indulgenza? Andiamo adagio: lasciamo star codeste considerazioni, che sono in fondo estranee e superficiali, e che, a volerle approfondire, c'è il rischio che ci facciano anche qui scoprire il contrario. Vogliamo vederlo? Sì, ha compatimento il Manzoni per questo pover'uomo di don Abbondio; ma è un compatimento, signori miei, che nello stesso tempo ne fa strazio, necessariamente. Infatti, solo a patto di riderne e di far rider di lui, egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene anche a ridere amaramente di questa povera natura umana inferma di tante debolezze; e quanto più le considerazioni pietose si stringono a proteggere il povero curato, tanto più attorno a lui s'allarga il discredito del valore umano. Il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza. E che ne segue? Ne segue che se, per sua stessa virtù, questo particolare divien generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto più si stringe e determina in don Abbondio, tanto più si allarga e quasi vapora in una tristezza infinita, ne segue, dicevamo, che a voler considerare da questo lato la rappresentazione del curato manzoniano, noi non sappiamo più riderne. Quella pietà, in fondo, è spietata: la simpatica indulgenza non è così bonaria come sembra a tutta prima.


Fonte: L. Pirandello, L'umorismo, in Saggi, Mondadori, Milano 1939.



27. Don Ferrante


Don Ferrante era apparso nel capitolo XXV quasi come un'ombra al seguito di donna Prassede, in funzione di segretario. Ora invece la sua personalità si arricchisce di qualche nuova determinazione, di uno spirito di indipendenza che ancora non conoscevamo («Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né d'ubbidire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora; ma lui servo, no»), e quella stessa sua funzione di segretario ci viene prospettata tra limitazioni e precisazioni che non sospettavamo («E se, pregato, le prestava a un'occorrenza l'uffizio della penna, era perché ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere»). Ed è proprio questo aspetto nuovo (che del resto non contraddice ma completa il profilo abbozzato del capitolo XXV), è questo attrito (che sfuma, dopo gli inutili tentativi autoritari e attivistici da parte di donna Prassede, in quei brontolii, in quel titolo di «letterato» nel quale, insieme con la stizza, c'entrava anche un po' di compiacenza), quel che rende più animata la coppia e giova insieme a segnare il passaggio dall'atmosfera tempestosa dello zelo e delle guerre di donna Prassede al clima di silenzio dello studio di don Ferrante (dove per altro, come si vedrà soprattutto per la polemica sulla peste, anche la guerra può penetrare, una guerra tutta di argomenti e parole): «Don Ferrante passava di grand'ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabili, poco meno di trecento volumi» []


I libri entrano a far parte della vita di don Ferrante, sono la sua vita stessa. E se il sarto con i suoi pochi libri passa nel villaggio «per un uomo di talento e di scienza», don Ferrante in mezzo ai suoi trecento volumi, può dirsi, senza limitazione di ambiente, un «addottrinato» in molte scienze e addirittura «professore» nella scienza cavalleresca. L'ironia operante in tutto il capitolo non manca di investire questa figura e la biblioteca in mezzo a cui si muove. La biblioteca ambrosiana ci presenta allineati tutti quei volumi e quei manoscritti in cui si raccoglie la cultura di secoli: ed i volumi non sono aperti, ma sono presentati nel loro insieme come il frutto della magnificenza e della sapienza di un uomo che non era soltanto un letterato. La biblioteca di don Ferrante invece è vista nelle varie materie che la compongono, nei diversi volumi che rappresentano quelle materie: i volumi sono osservati, i nomi degli autori e i titoli sono letti, le loro pagine sono sfogliate; e ne vien fuori l'immagine di una cultura particolare, della parte deteriore della cultura di un secolo, con accanto, quale interprete, don Ferrante, che è soltanto un letterato, tutto lettura e scrittura, tutto libri. Eppure da questo ironico quadro non manca di sprigionarsi un fascino segreto, il fascino di un ambiente raccolto, arredato di libri, immerso nel silenzio, segnato dal trascorrere di lunghe ore di studio. []


Fonte: G. Getto, Tempo creaturale e provvidenziale nei Promessi Sposi, in «Lettere Italiane», I, 1963.



28. La città del dolore


La seconda volta che la città compare nei Promessi Sposi è in una luce esattamente opposta a quella della prima venuta di Renzo, fra i tumulti e gli assalti ai forni e le grida di abbondanza e pane. È la città punita e sconvolta della carestia, quella in cui si muovono folle non più violente e curiose, ma macilente, affamate, rese umili dalla miseria, abbandonate per le vie, fino a morire agli angoli delle strade su miserabili giacigli di paglia. La descrizione di Milano è quella di una città della miseria e della fame e della morte: del disordine, insomma, che colpisce a fondo la natura con la carestia e i mezzi inadeguati o addirittura controproducenti a combatterla, manifestandosi, appunto, là dove, come in città, più, nel capovolgimento di ogni razionalità e verità, si è da essa lontani.


La fame e la miseria vengono a rilevare il vero volto del mondo capovolto della città: rivoltando le condizioni sociali e gli atteggiamenti consueti, finiscono a unificare la città in un unico, squallido paesaggio di povertà e di umiliazione. La città viene ad avere in sé la sua punizione: da luogo di prepotenza, di arbitrio, di violenza, di ingiustizia, di sopraffazione, di guadagno, si trasforma nel luogo della morte. La carestia viene a comporre un'immagine di uguaglianza di fame e di sofferenza: di una falsa uguaglianza, tuttavia, da cui traspaiono le condizioni sociali e le professioni precedenti la miseria o la penuria, cioè il carattere di costrizione da cui queste derivano, quindi la violenza della natura ostile e della follia degli uomini in guerra che ne sono le cause. Padroni, servitori, bravi, operai costituiscono la folla miserabile della città in agonia: tutto il sistema sociale su cui si regge la città è in crisi, e nulla più in essa vale o ha senso di quello che, prima della carestia, ne costituiva il vanto o la sostanza. L'equilibrio della città appare allora in tutta la sua precarietà. Il sistema si dissolve rapidamente, e proprio la domanda del mercante di Gorgonzola viene ad avere un'ironica e, al tempo stesso, tragica risposta dalla realtà: i poveri non possono vivere senza i ricchi che li facciano lavorare o che li mantengano al loro servizio, ma neppure i ricchi arrivano a salvarsi quando il flagello naturale e storico, la carestia e la guerra, intervengano a mettere in crisi il sistema sociale ed economico. La folla in tumulto, soddisfatta del pane sottratto ai forni, quella che, in condizioni normali, serve i potenti o fornisce loro gli oggetti del loro lusso o si fa strumento delle loro violenze e prepotenze, diviene la folla affamata e lamentosa della carestia.


Nella città la miseria si fa subito estrema, irrimediabile: la Milano miserabile della carestia viene, allora, a proporsi ancora una volta come la prefigurazione della grande città nel periodo di crisi economica, di disoccupazione, di mancanza di lavoro, di scadimento conseguente di tutto il livello di vita. Il Manzoni propone, in altre parole, una descrizione che è profetica più che storica: è una visione del futuro, un'immagine della sorte della città, sottoposta al rischio continuo della crisi sociale ed economica, cioè alla degradazione totale, nella quale finiscono coinvolti tutti, perfino i più agiati.


Le metropoli industriali dell'ottocento conoscono situazioni di crisi non diverse da quella che il Manzoni descrive nella Milano della prima metà del seicento: e il discorso, allora, è, nel fondo, rivolto proprio a questa contemporaneità nella funzione profetica che la carestia del XVII secolo viene ad assumere. Milano appare come il luogo della pena, dei lamenti, dei pianti, appunto come un girone infernale.


Fonte: G. Bàrberi Squarotti, Il romanzo contro la storia, Vita e Pensiero, Milano 1980.



29. La comica paura di don Abbondio


Della paura di don Abbondio, rimasta sino ad ora priva di un qualsiasi termine di paragone, non s'è potuto misurare quel tanto d'eccessivo, d'infondato e perciò di ridicolo che l'ha caratterizzata. «Gli è perché le ho viste io quelle facce ha potuto rispondere al Cardinale Borromeo le ho sentite io quelle parole».

Era necessario pertanto, indispensabile collocare don Abbondio in una situazione nella quale la sua paura fosse messa a confronto con quella degli altri per farne risaltare tutta la comicità.


Qui don Abbondio risulta inferiore non diciamo all'Innominato e ai suoi bravi che, impavidi, si preparano a tener fronte ai Lanzichinecchi; non diciamo al sarto, che sereno continua ad occuparsi delle sue letture, ma a Perpetua e ad Agnese. La sua governante non è questa volta fuori causa, è in ballo anche lei, eppure non assume l'atteggiamento di don Abbondio. «Risoluto di fuggire scrive il Manzoni risoluto prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili e pericoli spaventosi». Dinanzi ad un pericolo, qual è quello derivante dal sopraggiungere dei Lanzichenecchi, gli abitanti di Olate, quelli del vicinato, sistemata alla meglio la propria roba, cercano uno scampo qualunque su quei monti per i quali, si giudica, non si troveranno a passare i soldati nemici. E don Abbondio? Non trova nemmeno il coraggio di fuggire. E ciò per il fatto che egli e qui sta il motivo della sua comicità crea sempre, al posto o al disopra di un pericolo reale, un pericolo immaginario. I soldati sono lontani; nessuno, nemmeno quelli che vanno curvi sotto il peso dei loro fardelli e si tirano dietro, carichi anch'essi, moglie e bambini temono di essere lungo la strada sopraggiunti dai Lanzichenecchi; don Abbondio invece, che non ha alcuno cui badare, che ha nelle mani soltanto il breviario, teme che le sue gambe non resistano abbastanza, che i nemici lo raggiungano per via.


Nei pericoli è meglio come lo incoraggia Perpetua essere in molti, ma don Abbondio teme anche di trovarsi in compagnia di molti altri: «Non capite le risponde che radunarsi tanta gente in un luogo è lo stesso che volerci tirare i soldati per forza?».

La vista di un buon numero di armati lungo la valle incoraggia Agnese, ma don Abbondio ha paura come gli rimprovera Perpetua in tono canzonatorio persino di essere difeso: «Ma cosa vuol fare si lamenta vuol fare la guerra?». Nel castello dell'Innominato, una volta lontani dal pericolo, i ricoverati si riuniscono, formano dei gruppi, conversano tra loro, alcuni di essi scendono anche nella valle per le provviste, altri trovano il modo di trascorrere quei giorni persino in allegria.


E don Abbondio? Se ne sta in disparte, con la paura che non lo abbandona mai, che gli tiene ognora compagnia, a meditare su quei casi tristi. E se qualche volta si allontana, e solo di qualche centinaio di metri dal castello, lo fa per cercare una qualche buca, un qualche nascondiglio per andarvisi a nascondere in caso d'un serra-serra. Il demonio che è stato presente a don Abbondio in tutte le situazioni nelle quali s'è venuto a trovare, che gli ha ingigantito la potenza di don Rodrigo, che lo ha spinto a pigliare una decisione di fronte a Renzo e a Lucia, che gli ha fatto pigliare per un precipizio quello che era un semplice rialzo, che gli ha impedito di scorgere la conversione dell'Innominato, di comprendere la gioia del Cardinale, recita qui la sua ultima parte, col mostrare l'infondatezza o l'eccessività da cui nasce la paura del curato e col mettere in rilievo perciò, in maniera inequivocabile, la comicità tutto propria di don Abbondio.


Fonte: F. Puglisi, L'estetica del riso, ne «I Promessi Sposi», CEDAM, Padova 1951.



30. Il passaggio dell'esercito tra epica e ironia


La rassegna dell'esercito imperiale che attraversa la Lombardia verso Mantova. () è la ripetizione della tipica formula della rassegna dell'esercito che i poemi epici, a cominciare dall'Iliade, ripetono come pubblica prosopopea degli eroi delle imprese che verranno rappresentate e cantate: ma sottilmente rivoltata dal punto di vista delle vittime, che pensano al passaggio dei reggimenti esclusivamente dal punto di vista di chi attende una liberazione che appare sempre come troppo lenta, mentre «indiavolatamente» i vari reparti saccheggiano, uccidono, distruggono, torturano, spogliano il paese, in più, poi, lasciandogli la peste come estremo dono.


L'inciso «quando piacque al cielo» propone più chiaramente l'irrisione del punto di vista antiepico nella struttura epica del catalogo dell'esercito: è il sospiro di sollievo dopo che il passaggio (la rassegna) è giunta alla fine, ed è, al tempo stesso, della gente comune che si è rifugiata presso l'innominato e che storpia a modo suo i nomi dei condottieri, discutendo della loro maggiore o minore «diabolicità», e del narratore, che, metalinguisticamente, capovolge il respiro del poeta epico, compiaciuto dei nomi grandiosi che ha evocato e di cui si avvarrà nella rappresentazione eroica, per rivedere tutta l'elencazione di condottieri e di reggimenti come quella dei saccheggiatori la cui rassegna è vista esclusivamente in funzione della partenza definitiva dal paese. Se una pagina di struttura epica il narratore assume nel romanzo, è soltanto per capovolgerne il senso nel sollievo della liberazione da tutti quei cavalli e fanti e da tutti quei nomi celebri di generali. Non ammirazione e non spavento sono i filtri che traducono presso il popolo il passaggio dell'esercito imperiale, ma la pazienza e la sopportazione del flagello, insieme con l'attesa che tutto finisca, e finalmente il paese sia liberato da tanti condottieri illustri e da tanti soldati distintisi nella guerra dei trent'anni. È una corrosione radicale dell'epicità: ottenuta proprio usando dalla prospettiva dell'antistoria della gente comune e di condizione subalterna le forme del poema epico.


Fonte: G. Bàrberi Squarotti, Il romanzo contro la storia, Vita e Pensiero, Milano 1980.



31. La «trufferia di parole»


Dopo i fatti di san Martino, nel romanzo bisognerà aspettare i giorni della peste, perché si scateni, nello spazio cittadino, un'altra «babilonia di discorsi». Questa volta non ci sono tuttavia più di due vocabolari contrapposti: ma un'unica, concorde, volontà di censura. «Sulle piazze, nelle botteghe, nelle case annota Manzoni , chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo». Così è nelle vie, e così è nel chiuso dei palazzi, dove i medici, «facendo eco alla voce del popolo», «deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de' pochi», tenendo in serbo «nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso».


Lo sguardo di Manzoni si fa qui severo, la condanna della manipolazione della parola diventa esplicita. E quando i «medici opposti alla opinione del contagio» si trovano costretti a dare «un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza», e inventano (per non voler «confessare ciò che avevan deriso») la denominazione di «febbri maligne, di febbri pestilenti», Manzoni denuncia subito questa «miserabile transazione, anzi trufferia di parole», che figura di «riconoscere la verità», senza commenta «lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per mezzo del contatto». La condanna si fa qui chiara, come in rarissimi casi accade in Manzoni. L'analisi della vicenda delle parole diviene minuziosa, pedantesca, spietata in questa sua pedanteria: «In principio dunque, non peste, assolutamente no per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro». E questa analisi scaturisce a quella conclusiva, solenne, considerazione sul «parlare» dell'uomo (una coraggiosa innovazione questa rispetto al Fermo e Lucia, come tutta l'attenzione dedicata in questo capitolo XXXI al problema della parola), che si smorza in un finale movimento di accorata commiserazione, quasi di smarrita (e pericolosa) rassegnazione per le sorti della parola: «Non è, credo, necessario d'esser molto versato nella storia dell'idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d'una tal sorte, e d'una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali attaccare accessòri d'un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d'osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire». La peste «è anche stata una scopa», dirà don Abbondio, liberato finalmente dall'ossessione di don Rodrigo: il flagello della peste, anche nell'economia narrativa del romanzo (dei temi, dei problemi, dell'ideologia che propone) si configurerà in effetti come un benefico flagello, quasi fosse un provvidenziale lavacro. Dinnanzi alla strage della peste, quando essa ormai si è mostrata in tutta la sua potenza distruttrice, si zittiscono anche i «discorsi del mondo», cessa il cicaleccio, cade finalmente il mito della parola e torna a trionfare il silenzio sul mondo.


Fonte: G. De Rienzo, L'avventura della parola nei Promessi Sposi, Bonacci, Roma 1980.



32. Sulla «Storia della colonna infame»


L'ombra di due processi si agita perennemente nel sottofondo dell'ispirazione manzoniana, quello di Gertrude e quello degli untori. Il primo investiva il problema dell'educazione famigliare, il secondo l'amministrazione della giustizia e i mezzi da essa impiegati. Nel primo c'è all'origine il sesso, l'eros, che non si può sopprimere ma solo educare, nel secondo c'è il problema della propagazione del male. Da una parte il convento, dall'altra la tortura. Nel contrasto in cui egli venne a trovarsi, trascinato da storie particolari che giudicava necessarie e che prendevano sempre più spazio nello svolgimento del romanzo, questi due episodi furono i più tormentati nella tormentatissima storia dei Promessi Sposi.


Egli non intendeva rinunciare ad affrontare, secondo il suo punto di vista, il grande tema del processo agli untori. Se non avesse fatto sapere per quali ragioni egli non credeva, a differenza del Mascardi, dell'Achillini, del Lampugnano, del Tadino, del Nani, del Giannone e dello stesso cardinale Federigo, alla realtà e alla responsabilità degli untori, la stessa tragedia della peste avrebbe perduto il suo significato.

Decise così nella prima redazione del romanzo che la storia degli untori avrebbe dovuto occupare il progettato capitolo quinto del tomo quarto. E si mise al lavoro. Sarebbe stata ancora una digressione. Ma questa volta non si trattava di raccontare la vita di personaggi oscuri, prima ch'essi apparissero sulla scena. Si trattava di ragionare, di discutere, di aggiungere documenti a documenti, di dimostrare ov'era la verità e ove veniva contrabbandato il falso, ricavato con i mezzi più illeciti. Non poteva passar sotto silenzio i giudizi degli altri su quella vicenda: sarebbe stato omettere «una parte troppo essenziale di quel tempo disastroso».


Ma, scritti alcuni fogli, dové convincersi che la «storia» principale veniva a tal punto brutalmente interrotta che sarebbe stato difficile, terminata la digressione, riprenderla al punto in cui l'aveva lasciata. Egli si era messo su una strada secondaria, ma del tutto diversa dalle altre che aveva battuto, e questa volta, proprio per salvare le ragioni della storia, avrebbe assistito al sacrificio delle ragioni del romanzo.

La Storia della colonna infame, nel rapporto che andava assumendo con l'insieme, subiva nella sua forma le sorti cui tutto il romanzo fu sottoposto, dalla prima redazione all'edizione del 1840. Per ciò che ci riguarda, si assisté nell'edizione del 1827 alla totale soppressione dell'episodio, e poi alla sua ripresa, con mutamenti, liberata da molte digressioni. Abbandonando chissà dopo quante incertezze il suo Fermo e Lucia, egli affrontò un cammino del tutto diverso da quello libero e avventuroso che aveva seguito nella prima stesura. L'accusa di sterilità d'invenzione era una delle più temibili che potessero aver luogo nella repubblica delle lettere. Ma, fingendo di trascrivere una storia nei modi in cui era accaduta, egli godeva della libertà di considerare gli avvenimenti reali come non costretti nelle norme «artificiali prescritte dall'invenzione».


Senza inventare, seguendo passo passo gli atti del processo, Manzoni s'inseriva così nella grande corrente processuale e inquisitoriale del romanzo moderno, da Stendhal a Dostoevskij. Era un processo intentato non contro un solo accusato (come Calas o Sirven, falsamente imputati di parricidio, o Raskolnikov, il personaggio di Delitto e castigo) ma contro tutta una collettività. Non era diretto soltanto verso i giudici, investiti della sacra, necessaria autorità di decidere, ma anche verso i cittadini, anime morte di cui si può fare quel che si vuole. Ed è bello che il «timido» Manzoni, proprio nel momento in cui stava per chiudere il suo romanzo, portando fino alle ultime conseguenze il procedimento della digressione, contro tutti coloro che correvano come pecorelle dietro le storture della legge e lanciavano maledizioni alle vittime, riassumesse nella figura dello scrittore quella del giudice. Grazie a queste ultime pagine lo «scrittore» assume una grandezza che forse non aveva mai raggiunta nel romanzo. Diveniva l'accusatore degli uomini e di un mondo e di un'epoca, in cui anche un morbo, flagello della natura, era oggetto di inaudite crudeltà, nella disperata ricerca della colpa.


Fonte: G. Macchia, Tra don Giovanni e don Rodrigo, Adelphi, Milano 1993.



Il tradimento del Griso


Il tradimento che il Griso compie nei confronti di don Rodrigo ripete significativamente quello di Giuda: il bravo si fa, infatti, guida dei monatti che vengono a prendere il padrone ammalato per portarlo nel lazzaretto a morire; opera il tradimento per denaro; proprio per causa del denaro viene a essere subito punito e muore disperato e solo, senza possibilità neppure di quella speranza di pentimento che ha don Rodrigo:

«Mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de' brividi gli s'abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da' compagni, andò in mano de' monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttaron sur un carro; sul quale spirò, prima d'arrivare al lazzaretto, dov'era stato portato il suo padrone». Il Griso muore sul carro, subito: non può essere equiparato, lui che è un traditore, neppure al prepotente e oppressore e persecutore che è don Rodrigo. Non è pensabile che possa avere la stessa sorte del padrone che ha tradito. La sua sorte è quella stessa di Giuda: la morte senza luce. Don Rodrigo, che si è preso la peste negli stravizi per dimenticare la peste, dove ha appena pronunciato l'elogio funebre del conte Attilio, morto da poco, ha avuto, nella notte, il sogno angoscioso della chiesa piena di folla (proprio l'opposto della chiesa dove il Manzoni si rifugia per sfuggire alla folla cittadina e dove trova il primo impulso della conversione: ma opposta è, appunto, la condizione di don Rodrigo, del prepotente che cerca con gli stravizi di esorcizzare il terrore della peste e della morte) e di padre Cristoforo che, dal pulpito, lo fissa, poi alza «la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto»: cioè, ha avuto una premonizione, un estremo avvertimento di Dio, un annuncio della sua sorte di malato in cui già opera la peste, in qualche modo un segno di distinzione, che, dopo, può ben dar ragione anche della domanda che su di lui fa padre Cristoforo, se l'incoscienza della malattia sia giustizia o misericordia di Dio.


Proprio nel momento estremo, nel terrore della morte, don Rodrigo diventa vittima del tradimento del Griso: passa, cioè, dall'altra parte, da quella degli ingannati, dei traditi, di coloro che patiscono l'ingiustizia. Per questo per lui potranno esserci ancora il lazzaretto e la preghiera di padre Cristoforo e, soprattutto, di chi ha perseguitato, di Renzo. Per il Griso, traditore del padrone che ha servito nelle opere di male, non c'è che la giustizia: come, del resto, il narratore stesso, intervenendo nella narrazione in un'altra occasione molto precedente, aveva preannunciato: «Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi, anche in questo mondo. Va' a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un'altra prova, e più notabile di questa». Di giustizia, appunto, si parla per il Griso: ironicamente, di quella che gli fa il padrone, riconoscendo che si è comportato con coraggio e con abilità nel fallito tentativo di rapire Lucia, molto seriamente nell'allusione a quella giustizia di Dio che lo porterà a morire solo e spogliato di tutto sul carro dei monatti, dopo essere caduto subito nell'incoscienza della malattia, in fretta, senza possibilità di pentimento.


Fonte: G. Bàrberi Squarotti, Il romanzo contro la storia, Vita e Pensiero, Milano 1980.



La madre di Cecilia


Proseguendo il cammino, Renzo arriva alla crociata di strade che si chiama il carrobio di porta Nuova, all'incrocio di via Croce-rossa con la attuale via Manzoni, in una delle parti, in quel tempo più squallide e desolate e abbandonate con in più l'orrore e lo schifo delle tracce e degli avanzi della recente abitazione.

Dappertutto, infatti, si vedevano cenci e fasce, sporche ed infette; e si incontravano corpi di morti lasciati là dove erano caduti, o addirittura, là, gettati dalle finestre, giacché era ormai spenta ogni cura di pietà, e sprezzato ogni riguardo sociale.


Dappertutto, non più il rumor lieto delle botteghe e delle carrozze, ma il tetro frastuono dei funebri carri; non più i gridi festosi dei venditori o il chiacchierìo cordiale dei passeggeri, ma i lamenti dei poveri, il rammarichìo degli infermi, gli urli dei frenetici, le grida dei monatti.

Rari i passanti: appestati che si strascicavan con pena o che cadevano per le strade, sfiniti; oppure sani, ma strani, nell'aspetto o nel comportamento, con vesti dimesse, con barbe e capelli lunghi ed arruffati, guardinghi, sospettosi, attenti alle precauzioni più singolari e più ridicole e più illusorie contro il contagio, e ripugnanti da ogni rapporto con gli altri sopravvissuti.


Andava notata questa progressione della brutalità perché per contrasto efficacissimamente preparato e svolto, si delinea ora un'altra scena di pietà e di carità, anche questa ritratta con studiata progressione di intensità rispetto alle altre, quella della povera donna nella casuccia isolata, e quella del prete nella strada solitaria.

È una scena che il Manzoni, prima di descriverla, annuncia nel suo aspetto di singolare pietà, e nel suo effetto immediato su Renzo, che quasi senza volerlo interrompe il suo cammino verso via Montenapoleone e si ferma a contemplare, stupito e commosso.


Così, prepara anche il lettore, e lo dispone pure alla commozione, ancor prima ch'egli sappia perché.

Tra l'episodio chiassosissimo della brutalità e questo compostissimo della pietà, il periodo che annuncia e prepara, segna come una pausa, che serve a interrompere e a disperdere lo scomposto vociar dei monatti, e introduce e concilia la mesta e soave musicalità della nuova scena e il nuovo e diverso sentimento che ne deriva.

Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci


È una pagina squisitamente musicale: di una musica mesta e dolce insieme che si alza su, tra il silenzio fondo e cupo abituale e l'urtante e sguaiato vociare che di un tratto interrompe quel tenebroso silenzio; una scena di sublime soavità e di più che umana elevatezza spirituale che si apre tra gli orrori e le bassezze men che umane, che d'ordinario hanno il sopravvento.

Perciò, la presentazione di questa donna, ancor giovane e bella, di questa madre, tutta dolore e tutta speranza, è solenne e soave insieme: come una bellezza che illanguidisce fino allo spegnersi su la terra, ma per lasciarvi ogni peso di caduca materia, per andare a rifulgere, al di là della terra, di luce non caduca.


Perciò, la descrizione è tutta sfumature: un annunciare per poi ridurre, un colorire per poi attenuare, un fermare i tratti esteriori per trasfigurarli entro un alone di squisita spiritualità.

Giovane è la donna, anche se di giovinezza avanzata; ma, dice subito il Manzoni, non trascorsa, quindi ancora viva, quindi ancora nel tempo che doveva e poteva essere del suo maturo rigoglio.

E pare che propria sia di una giovinezza avanzata, ma non trascorsa, la profonda consapevolezza del dolore; e che solo alla bellezza pura possa essere affidato questo trepido messaggio di bontà.


Né l'atteggiamento della donna si discosta o contrasta con la presentazione dell'aspetto: i suoi occhi sono senza lacrime, ma perché, tutte, le aveva versate, e ne portava indelebile il segno.

Ora, però, il pianto non altera più l'aspetto del volto, che appare ricomposto, perché composta è l'anima, anche se manifesto è il patimento segreto: c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo.


Come a dire, un'anima grande, perché sorretta da una consapevole fede, perché avvivata da una consapevole speranza.


Fonte: A. Chiari, Rileggendo il Manzoni, Ed. dall'Ateneo, Roma 1967.



35. Sublimità nella vicenda di Renzo


La sublimità antifrastica della vicenda di Renzo è proprio nel progressivo passaggio attraverso le ingiustizie, le persecuzioni, i soprusi, le angosce, per un esito di purificazione definitiva e assoluta, che è il culmine a cui l'uomo possa giungere: e vi giunge, appunto, Renzo, il filatore di seta, proprio nel centro del dolore e dell'orrore, dopo aver visitato la città dei morti, dopo essere stato costretto a saltare sul carro carico di cadaveri, sotto la protezione demoniaca dei monatti, dopo aver assistito allo spettacolo dei malati, resi insensati e folli dalla peste, e soprattutto alla cieca corsa di quello salito sul cavallo abbandonato per un istante. La sublimità della vicenda e la sublimazione dell'eroe si attuano nella forma del capovolgimento, dell'antifrasi: nella fuga, nella città morta, fra cadaveri, nell'osteria, nel lazzaretto. Ma l'esito è la conquista del più alto grado di perfezione cristiana. Padre Cristoforo, che si fa frate per espiare il delitto commesso contro un prepotente e un assassino, non può giungere tanto in alto: il sacrificio della vita è l'estremo modo dell'espiazione (il dare la vita per il prossimo), mentre Renzo che non ha ucciso nessuno e soltanto ha manifestato nell'ira la volontà della vendetta, lui che appartiene alla «gente di nessuno», al popolo oppresso e oggetto di persecuzioni e ingiustizie, proprio per questo suo distacco da ogni aspetto o modo o forma del potere politico o economico (come non accadeva certo a Lodovico, il ricco e ambizioso borghese), può arrivare al culmine dell'esperienza morale del cristiano (e dell'uomo in genere).


Se il narratore fuori campo si riserva lo spazio dell'osservazione, del commento, della precisazione morale intorno al comportamento dei personaggi e alle situazioni in cui vengono a trovarsi, cioè il linguaggio preciso e lucido del sublime etico, di fronte alla rivelazione del «comico» dei signori e dei potenti e della volgarità della storia sta la fondamentale invenzione manzoniana del sublime antifrastico ovvero dei compiti e delle vicende esemplari affidate ai personaggi popolari, di povera o misera condizione, addirittura «senza padrone», come dice don Rodrigo. È, quindi, giusto che intorno a Lucia e a Renzo ruoti l'intera storia del mondo fra il momento in cui don Rodrigo fa la famosa scommessa con il conte Attilio e il momento in cui i due promessi possono finalmente sistemarsi in terra veneziana. È finalmente significativo che l'ultima vicenda di don Rodrigo si abbia sotto il segno dell'incoscienza (la bevuta per ricordare il cugino morto di peste), del tradimento (da parte del Griso), dell'avidità di danaro (che porta il Griso a toccare gli abiti e la borsa del padrone, prendendosi così la peste), della spogliazione di ogni bene (da parte dei monatti). È la conclusione, appunto, di una storia di prepotenza volgare e abietta, di una livida commedia di foia, di puntiglio, di malvagità: don Rodrigo è grande soltanto, allora, di fronte alle parole di padre Cristoforo e al perdono di Renzo, nell'incoscienza, nella miseria, sul mucchio di paglia fetida, proprio perché è l'occasione per il raggiungimento, da parte del povero filatore di seta da lui perseguitato, della perfezione morale. È un incontro che sigla davvero il senso della struttura rappresentativa del romanzo manzoniano, il momento in cui stanno a fronte il sublime antifrastico di Renzo, arrivato alla totale purificazione morale, e don Rodrigo, che è ridotto nella più completa miseria fisica, nell'incoscienza, nell'agonia più abbandonata e miserabile (cioè, il perseguitato che perdona di fronte al persecutore vinto dalla mano di Dio e ridotto alla condizione capovolta della miseria più estrema).


Ecco: meglio che in qualsiasi altro momento del romanzo si comprende, allora, l'invenzione stilistica del Manzoni, per il quale il livello dello stile è conseguenza della posizione e della dignità morale, non di fattori di classe o di condizione sociale.


Fonte: G. Bàrberi Squarotti, Il romanzo contro la storia, Vita e Pensiero, Milano 1980.



36. L'ostinazione di Lucia


Lucia vive nel suo ostinato riserbo. Ma sa essere, se il pensiero lo comanda, inflessibile ed invincibile nella propria dialettica. E la prova più alta della sua eloquenza, la dà nel colloquio d'amore con Renzo nel lazzaretto. Renzo è esplicito, gioca a carte scoperte: se tenta vie traverse, registra vittorie di un attimo, che contano ben poco. Lucia invece si difende: se è chiamata tuttavia a riflettere e rispondere, reagisce con forza. Il discorso tra i due cade su fra Cristoforo, che è ammalato di peste. È «qui» dice Renzo «e poco lontano»; quindi, con un pizzico di malizia, tenta un colpo: «poco più che da casa vostra a casa mia se vi ricordate». Lucia ricorda, perciò, colpita, invoca la Vergine. Renzo, soddisfatto, registra il proprio successo: «Bene, poco più».


Tenta allora un passo più difficile. Fra Cristoforo gli ha fatto vedere don Rodrigo morente («quel meschino»), ha parlato della redenzione possibile della sua anima, e ha detto, grosso modo, di un'attesa di Dio: dell'attesa, per redimerla, delle preghiere di Renzo e Lucia. Fra Cristoforo, quando scruta i disegni di Dio, è sempre un poco contorto e formula pensieri che sono complessi. Renzo, per tentare di riavere il cuore restio di Lucia, semplifica a proprio vantaggio quei pensieri. Dio vuole, dice «che noi preghiamo insieme per lui». «Insieme» sottolinea, in attesa. Ma Lucia è pronta, accorta, persino beffarda: «Sì, sì; lo pregheremo», risponde «ognuno dove il Signore ci terrà: le orazioni le sa mettere insieme Lui».


La dialettica di Lucia è parente di quella di fra Cristoforo: è dialettica di quelle sottili, acuta e sicura nel penetrare i misteri della volontà di Dio. Renzo tenta di far capire qualche cosa, con giri larghi di parole, sulla riparazione al male terreno di don Rodrigo. Lucia non si perde nelle perifrasi, ostinata sa ribattere sapiente e precisa: «No, Renzo, no: il Signore non vuole che facciamo del male, per far Lui misericordia. Lasciate fare a Lui, per questo: noi, il nostro dovere è di pregarlo». Tanto basta; la tensione si allenta, Renzo rinuncia ai suoi sottintesi banali e si arrende.


Lucia, nella propria cocciuta rinunzia, appare davvero imprendibile. La dichiarazione d'amore di lui è palese: ma la risposta diretta di lei (voluta da Renzo) non può più venire. Rimane tuttavia qualche battito forte di cuore, perché, nonostante la fermezza del proprio pensiero, Lucia si sente in pericolo. «Finitela, finitela; non mi fate morire Non sarebbe un buon momento» dice a Renzo, disperata; «Non venite più qui, a farmi del male, a tentarmi» gli dice, spaventata, atterrita, all'idea del «peccato».


Si leggeva nel Fermo che il ricordo di Renzo, per Lucia, all'indomani del voto, diventava una «tentazione», anzi «quasi un delitto». Questo senso acuto del peccato, nella stesura definitiva del romanzo, è più generale. Si trova, per esempio, nella notte degl'imbrogli, nel «rimorso segreto» di Lucia di tacere con padre Cristoforo sull'affare del matrimonio segreto. Si ritrova, di nuovo, nella «difficoltà per la povera giovane», con Gertrude, di «dire una bugia». Ma, se il cuore è coinvolto, la paura è molto più forte: l'esperienza del male (quello reale o quello possibile) diventa davvero notte dell'anima, un labirinto oscuro nel quale Lucia si smarrisce, come Manzoni spiegava, nel Fermo, con una metafora chiara.


Lo spavento del peccato per Lucia diventa appunto, dopo la notte nel castello, la stessa esperienza subita del male.

L'incontro con Renzo nel lazzaretto, dove la paura di cedere del cuore si alterna con la forte volontà d'imporre il proprio pensiero, rappresenta ugualmente, in maniera molto visibile, il profondo sgomento di Lucia: né è l'unico momento, del resto, ma soltanto il momento culminante di un itinerario a lungo percorso nel romanzo.


Fonte: G. De Rienzo, Per amore di Lucia, Rusconi, Milano 1985.



37. La nuova allegria di Renzo


La peste attraverso la quale ci conduce il Manzoni è un incubo a cui succede un'immensa incontenibile esplosione di felicità: la felicità di essere superstiti da un immane flagello, che vuol dire il gusto di vivere, centuplicato.

La grande sinfonia della vita comincia quando Renzo esce dal lazzaretto. E, come sempre, il Manzoni ama prospettare nell'atmosfera lo stato d'animo del personaggio; l'incubo spaventoso di Milano quando Renzo sta per entrarvi è anche incubo del cielo: «il tempo era chiuso, l'aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia».


C'è qualcosa di profondamente malato anche nel cielo; c'è in esso l'angoscia immota che travaglia i cuori e i corpi umani. Renzo, sotto questo cielo plumbeo e sinistro, cerca invano Lucia, trova invece fra Cristoforo pallido e smunto e vede, condottovi da lui, don Rodrigo moribondo; poi, sulle sue indicazioni, torna a cercare affannosamente, disperatamente Lucia e, quando ha già perso ogni speranza, la trova, già in convalescenza: ha con lei un penoso colloquio, torna in cerca di padre Cristoforo, la conduce alla capanna dove ella viene sciolta dal voto; poi con lui lascia la sua promessa e infine si licenzia dal degno cappuccino. Segue un breve commiato in cui si sente l'apprensione del giovane per la sorte del suo benefattore.


«Oh caro padre! ci rivedremo? ci rivedremo?».

Ma già l'intenerimento è sopraffatto dalla gioia e dalla fretta che qui ne è l'effetto: due «occhiate di compassione» al lazzaretto, una destra e una a sinistra, anche queste «in fretta» e cioè per pura convenienza; come poteva ormai commuoversi, con l'anima da una parte assuefatta a quegli spettacoli e dall'altra tutta piena di gioia e d'impazienza? Eccolo in cerca della viottola sotto le mura, per avviarsi al paese; proprio a questo punto comincia a piovere.


Quale smagliante azzurro ha mai allietato un'anima più intimamente di questo acquazzone? Qui non c'è solo un cuore che canta l'inno della vita, qui c'è tutta la natura che ne accompagna il canto con la sua orchestra; il viaggio notturno di Renzo sotto la pioggia, da Milano al paese, è la pagina della più intera felicità, che alcun nostro libro contenga. Che cosa sono in quel suo animo di buon ragazzone tutte le cose mostruose e orribili per le quali è passato e che ha viste con i propri occhi? Che cos'è Milano con la sua peste, con le sue interminabili file di carri carichi di cadaveri, con i suoi monatti, con il suo lazzaretto? Nulla: sono cose ormai fuori dell'atmosfera dei suoi sentimenti; o meglio ci stanno ancora, ma puramente come stimolanti della sua felicità, cioè per renderla più saporita «trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! E l'ho trovata viva! concludeva». Proprio a questo punto il Manzoni soggiunge che lo disturbavano ancora «l'incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste». Le preoccupazioni per Agnese sono ammissibili, qualche fugace sospiro all'indirizzo di fra Cristoforo lo posso ammettere, ma quanto alla peste non credo potesse più inquietarlo in nessun modo: essa lo aveva servito fin troppo bene; già prima di partire da Bergamo, l'aveva giudicata una bellissima occasione, da non ritrovarne più «una simile» per lui che aveva sulle spalle quel po' di cattura; se era così spregiudicato allora, figuriamoci ora, che proprio la peste aveva tolto e stava togliendo dalle spese certa gente e gli restituiva sana e salva la sua Lucia. Aveva altro per la testa, in quel viaggio, che le malinconie: «e le nozze, e il metter su casa; e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita». Ecco ciò che lo teneva occupato sotto la pioggia; «e tutta la vita», questa è la somma di tutto: c'era ormai davanti a lui una vita intera da godere.


Fonte: E. Zanette, Il gusto della vita nei «Promessi Sposi», in «Convivium», VIII, 1936.



38. La riconciliazione con la parola


Nell'ultima pagina dei Promessi sposi si conosce un Renzo in pace. Dopo tanto vagare agitato per il mondo, Renzo appare finalmente placato: sposo felice di Lucia, padre di una folta nidiata di figli, può ben permettersi qualche sfoggio retorico, può atteggiarsi a «moralista», come ogni uomo arrivato. Ed eccolo persino petulante a metter in mostra la propria sapienza un poco pedante, ad ostentare la propria saggezza: a «raccontare le sue avventure», ad enumerare «le gran cose» che «aveva imparate, per governarsi meglio l'avvenire». A ben guardare, tuttavia, non è che Renzo abbia davvero imparato gran che: a «non mettersi ne' tumulti», a «non alzar troppo il gomito», anche senza l'avventura milanese, poteva consigliarlo soltanto una modesta predica di don Abbondio; e in quanto al «non tenere in mano il martello delle porte, quando c'è lì d'intorno gente che ha la testa calda», o al non attaccarsi «un qualunque campanello al piede, prima d'aver pensato quel che possa nascere», bisognerebbe che scoppiasse un'altra peste, perché questa esperienza possa davvero giovargli. Renzo dice d'aver appreso «cent'altre cose». Ma, forse, è soltanto un modo di dire. In realtà si ha l'impressione che di una sola lezione abbia fatto capitale sicuro: «ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo».


Renzo ritorna con la mente a Ferrer e ad Ambrogio Fusella, pensa al mercante ed al notaio criminale: ripercorre insomma il suo viaggio travagliato nel mondo del possibile, ha ancora ben viva nella memoria la sua faticosa esperienza di apprendista della parola. Renzo è un giovane esuberante, forse testardo, certo caparbio, persino un po' superbo, difficile comunque a trattare; su di lui giusto è, in fondo, il giudizio del suo curato: « anche costui è una testa: un agnello se nessuno lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli». Renzo non modifica tanto facilmente questo suo carattere, non accetta, a cuor sereno, d'essere contraddetto: sappiamo che nel paese di Bortolo, quasi alla conclusione del suo ciclo d'avventure, pur dopo tante peripezie attraversate, pur dopo tanta conoscenza acquisita degli uomini, riesce a rendersi «disgustoso», finisce per entrare «in guerra con quasi tutta la popolazione».


Renzo non è soltanto esuberante, è anche intraprendente, intelligente (non per nulla ha saputo trasformarsi da contadino in imprenditore), e la sua intelligenza si misura soprattutto nella consapevolezza che raggiunge dei propri limiti e nel desiderio di superarli. Così, in ordine alla parola, al termine del proprio apprendistato, sa ridurre il proprio ruolo nel mondo del possibile a questa posizione di difesa (impara, in sostanza, l'arte del silenzio): anche se non rinuncia poi, in prospettiva, ad un ruolo più ambizioso: per i suoi figli infatti «volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c'era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro». Ha osservato giustamente Italo Calvino che nell'universo di questo personaggio «la parola scritta si presenta sotto duplice volto», come «strumento di potere» e come «strumento d'informazione», e che questa parola, quando è strumento di potere, «è anche sistematicamente avversa» a Renzo: «è la parola scritta di cui detiene l'uso il dottor Azzeccagarbugli, è la carta, penna, calamaio con cui l'oste della Luna Piena cerca di registrare le generalità degli avventori, o peggio ancora la carta-penna-calamaio invisibile con cui Ambrogio Fusella riesce a metterlo in trappola». Quando il giovane montanaro, divenuto ormai industriale, ripercorre il cammino della sua travagliata vita passata e ripensa non soltanto all'oste, allo spadaio e al dottore, ma anche al latino di don Abbondio e forse, persino, alle lettere di fra Cristoforo, quando ripensa insomma alla «birberia» della parola scritta, non sembra tollerare per i suoi figli sopraffazioni: li vuole agguerriti, li sogna magari anche «dottori», preparati a pagare comunque il suo riscatto.


I figli di Renzo impareranno dunque a leggere e scrivere; ed è probabile che il padre farà impartire loro anche lezioni di latino. Solo in questo modo Renzo potrà liberarsi di quell'ossessione (quasi un incubo) che lo ha tormentato tanto a lungo; solo così potrà finalmente tentare di attraversare quella barriera insuperabile costituita dal latino e dalla parola scritta: perché Renzo sente fortissimo il fascino del mistero, tanto più, quanto più questo mistero è per lui impenetrabile.


Fonte: G. De Rienzo, L'avventura della parola nei Promessi Sposi, Bonacci, Roma 1980.





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Appunti su: https:wwwappuntimaniacomumanisticheletteratura-italianopromessi-sposi34php, che senso ha la luce nella notte degli inganni dei promessi sposi, cosa significa il vortice attrasse lo spettatore nei promessi sposi, Renzo impara a conoscere meglio se e la realta che lo circonda vivendo molte esperienze in diversi s, capitolo 23 promessi sposi analisi commistione tra stile sublime e contrario,



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