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Il canto trentatreesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nell'Empireo, la sede di tutti i beati; siamo a mezzanotte del 14 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 31 marzo 1300.
Si tratta dell'ultimo canto del Paradiso e quindi dell'intero poema, che si chiude, dopo una preghiera alla Vergine, con la visione di Dio, della Trinità e dell'Incarnazione.
La preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine Maria apre il canto, introdotta dall'ultimo verso del canto precedente «e cominciò questa santa orazione», e si connota così come un'orazione, sia nel senso appunto di preghiera, sia in quello etimologico di discorso oratorio, per il tono alto e solenne, per l'incisività eloquente. Essa si può dividere in due parti: la prima è un canto di lode (vv. 1-21), la seconda la vera e propria orazione (vv. 22-39); si apre con una serie di ossimori e di antitesi, cioè accostamenti di parole e concetti dal significato opposto, a sottolineare come gli elementi della divinità travalichino le possibilità di comprensione dell'intelletto umano:
San Bernardo, cosciente dell'efficacia della sua opera di
intercessione , prega
San Bernardo di Chiaravalle, autore di numerose opere teologiche, non è sicuramente stato scelto a caso da Dante come suo intercessore: egli fu il più importante esponente del pensiero mistico del XII secolo, e soprattutto fu colui che più di ogni altro contribuì all'affermazione del culto di Maria Vergine: il santo aveva esaltato la sua funzione mediatrice tra Dio e l'umanità, valorizzata dall'esperienza della maternità. (Tuttavia si possono riconoscere altre influenze su questa preghiera, ad esempio la struttura dell'Ave Maria, divisa in lode e richiesta di intercessione).
Dante, che si avvicinava («appropinquava», con latinismo) al culmine di tutti i suoi desideri, sentiva in sé crescere il desiderio fino al culmine: san Bernardo gli accennava sorridendo di guardare in su, ma già egli aveva spontaneamente fatto ciò che voleva, mentre la sua vista si faceva sempre più limpida entrando nella contemplazione della Luce che è vera di per sé, per sua stessa essenza.
Da qui in poi inizia la suprema visione di Dio, intrecciata a dichiarazioni di impossibilità di rendere tale visione a parole o anche solo di pensarla e ricordarla, da paragoni e riflessioni di carattere più teorico e psicologico: il tema dell'ineffabilità, della limitatezza della comprensione umana e dei suoi mezzi linguistici per tali esperienze provate da Dante in Paradiso, percorre tutta la cantica, trovando qui ovviamente il suo punto d'arrivo estremo.
Tre immagini esprimono questo cedimento della memoria:
Su queste immagini si innesta l'invocazione a Dio, necessaria per affrontare un tema tanto complesso e difficile da trascrivere, e l'inizio della narrazione vera e propria, che non si avvia con una descrizione concreta ma con un'annotazione psicologica sullo stato d'animo del poeta. Solo dopo questa lunga preparazione viene introdotta la visione di Dio, e dell'unità dell'universo in Dio, nel quale sono racchiuse tutte le sostanze, tutti gli accidenti e il «lor costume», termini filosofici medievali per indicare le sostanze ciò che sussiste di per sé, gli accidenti i modi di essere variabili e contigenti, che esistono in relazione alle sostanze, e il loro rapporto, le proprietà reciproche di sostanze e accidenti. Ma per esprimere tutto ciò Dante sente ancora la memoria mancargli, e la dimenticanza di quell'unico punto è maggiore dei venticinque secoli che ci separano dalla prima nave, quando per la prima volta Nettuno meravigliato ammirò l'ombra di Argo.
Così con un'altra suggestiva immagine e con un'ulteriore annotazione psicologica si chiude la prima parte della visione, mentre una nuova spiegazione e un'altra affermazione di ineffabilità (questa volta esemplificata con l'incapacità di parlare di un bambino ancora infante) introducono alla seconda visione - che è seconda solo per Dante, dal momento che essa gli si mostra via via che il proprio sguardo si fa più capace di intenderla, ma è sempre compresente nell'unicità della visione di Dio -, quella della Trinità, vista come tre cerchi di uguale grandezza e diverso colore, del quale il secondo (il Figlio) riflette il primo (il Padre) e il terzo (lo Spirito Santo) spira da entrambi. Segue un'altra esclamazione di Dante: 'Oh quanto è insufficiente il dire e come è inadeguato al mio pensiero! E questo stesso (mio pensiero), rispetto a quello che io vidi, e cosa tale che non basta a poter dire è poco (è ancora meno di poco)!'. Nell'ulteriore esclamazione estatica del poeta: 'O Luce eterna che sola in te risiedi, sola ti comprendi e da te sei compresa, e comprendendoti ti ami e arridi!' abbiamo un ribadire del concetto di Dio unico e trino, in quanto Dio in sé stesso solo risiede, e in quanto comprende è il Padre, in quanto è compreso è il Figlio, mentre l'amore che spira da esso, da sé stesso, è lo Spirito Santo. Questa velata spiegazione è funzionale all'ulteriore visione che ha Dante, il quale focalizzandosi su uno di quei tre cerchi, sul Figlio, vede in esso un'immagine dello stesso colore che assume forma umana: è l'Incarnazione, visione incomprensibile con facoltà umana. Mentre tenta invano di capirla, viene illuminato dalla Grazia di Dio che folgorandolo gli permette di comprendere finalmente: ma quest'ultimo punto è davvero totalmente indicibile, e il poema si chiude così con l'espressione del poeta il cui desiderio di conoscenza è stato placato nell'armonia universale di Dio.
Per sottolineare l'impossibilità della facoltà umana di comprendere la visione divina, Dante propone un esplicito riferimento al problema della quadratura del cerchio, ovvero della impossibile determinazione, con l'uso esclusivo della riga e del compasso, di un quadrato avente la stessa area di un cerchio assegnato. (Versi 133/138)
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