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Luigi Pirandello: figlio del Caos




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Luigi Pirandello: figlio del Caos

Figlio del Caos

Garibaldi e i Mille sono passati come una ventata sulla Sicilia assopita nel ricordo della sua antica civiltà e nella desolazione della sua cronica miseria. Alle piaghe che da secoli affliggono l'isola si è aggiunta, nel 1866-67, una grave epidemia di colera che ha causato 53.000 morti. Non saranno per caso i "piemontesi", novelli untori, a diffondere il morbo per diradare la popolazione? O addirittura per annientare la razza? A Catania e a Girgenti (l'odierna Agrigento) la plebaglia dà la caccia ai funzionari "nordici", sospettati come "fautori del cholera".  In questo contesto Stefano Pirandello decide di trasferire la moglie non più giovanissima e in avanzato stato di gravidanza a Porto Empedocle. I pochi chilometri che separano Girgenti dalla modesta casetta di campagna, non lontana dal mare, basteranno a salvare la madre e il nascituro dal colera. Il padre invece rimarrà spavaldamente in città, sprezzante del pericolo. Si ammalerà, ma sarà lui a vincerla. Il figlio, Luigi, nasce la notte del 28 giugno 1867, lontano dal padre e da tutti: non si trova neppure una donna che gli faccia da levatrice. Il piccolo Luigi apre così gli occhi alla luce accecante del Sud, che la polvere di zolfo delle zolfare e dei depositi, dove i "pani" si accatastano, fa pesante e giallastra. L'aria ha il sapore un poco acre e pungente che dicono sia quello dell'inferno. Sarà quell'aria a generare il sorriso diabolico che Pirandello si vorrà attribuire? È nato in una campagna che vien chiamata Caos, forse -come dice lui stesso- dalla forma dialettale Càvusu, corruzione del termine greco Kaos. E Luigi Pirandello sembrerà compiacersene quando, giovanotto, scriverà ad un amico: "Io sono figlio del Caos, e non allegoricamente ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos". Luigi cresce al tepore dell'affetto materno. Il padre, rude e impetuoso, non ha indulgenza per le debolezze del figlio gracilino e timoroso. Aveva fatto le schioppetate nelle file di Garibaldi nel 1860 -don Stefano- per le strade di Palermo, poi a Milazzo e sul Volturno. Due anni dopo aveva combattuto sull'Aspromonte. Aveva pure imparato a non aver paura nemmeno della mafia, che anche allora dominava e taglieggiava. Poco dopo la nascita del figlio Luigi, schiaffeggiò un certo Cola Camizzi, il "padrino" della mafia di Girgenti, che offriva "protezione" alla sua maniera. Camizzi gli sparò contro, ferendolo a un braccio e al petto; Stefano gli scaricò addosso sei colpi di pistola, mancandolo. Venne portato a casa sanguinante, ma fiero. I reciproci rapporti rimarranno sempre di affetti senza espansione, di amore senza slancio da parte del padre; di chiuso rispetto, di fredda soggezione da parte del figlio. Influiranno, non c'è dubbio, sulla psiche di Pirandello e sulla sua vita artistica. Il senso della morte e del disfacimento che incombe su molta parte dell'opera di Pirandello ha forse le radici nella vana ricerca che, da bambino, egli fece di un affetto che gli servisse da difesa e che non sgorgasse soltanto dall'amore istintivo della madre.


Nel primo periodo della sua vita fu colpito da penose vicende familiari (contrasti d'interesse fra il padre e il suocero, gravi rovesci finanziari del primo, smarrimento della ragione da parte della moglie, dominata da una forma ossessiva di gelosia), le quali concorsero a determinare la concezione pessimistica dell'esistenza che caratterizzò l'opera dello scrittore.

L'imprevedibile e il paradossale

Nei suoi primi romanzi, l'Esclusa e il Turno, la lezione verista è evidente nell'ambientazione siciliana e nel modo in cui questa condiziona il comportamento ed il carattere dei protagonisti. Tuttavia queste due opere non hanno nulla a che fare con l'intento verista di rappresentare oggettivamente la realtà: l'interesse dell'autore è rivolto al ribaltamento della logica, all'imprevedibilità dei fatti, ai risvolti paradossali e grotteschi delle vicende umane. I personaggi pirandelliani, infatti, sono sempre posti in situazioni paradossali, svelando così la contraddittorietà dell'esistenza umana. Egli lacera le norme del buonsenso e si compiace di condurre la successione dei fatti a conseguenze imprevedibili: nelle sue storie, infatti, gli esiti non sono mai prevedibili.

Il crollo delle certezze e il relativismo

Pirandello si forma nella cultura positivista, di cui assimila  un materialismo di fondo. Tuttavia egli non acquisisce una fiducia incondizionata nel progresso e nella scienza, da lui avvertita come potenza demistificatrice, capace di corrodere miti e credenze. Di fronte alla crisi dei valori positivo Pirandello indirizza il suo interesse verso pensatori in cui è marcata la dissoluzione delle certezze e delle convenzioni ideologiche, come Schopenhauer e Nietzsche. Egli si trova dunque a fare i conti con la crisi delle ideologie e dei valori culturali ottocenteschi, a partire da quelli positivi in cui si è formato. Il malessere intellettuale che affligge Pirandello, tuttavia, non è solo privato, ma generazionale. Infatti, nel saggio Arte e coscienza d'oggi pubblicato nel 1893 l'autore descrive la crisi della sua generazione, affetta da una "spossatezza morale" per aver perso ogni punto di riferimento. "Crollare le vecchie norme" scrive Pirandello "non ancor sorte o bene stabilite le nuove; è naturale che il concetto della relatività d'ogni cosa sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perder la capacità di giudizio".

La crisi dei valori ottocenteschi culmina per Pirandello nella scoperta della relatività d'ogni cosa e nell'incapacità di elaborare nuovi valori da sostituire ai vecchi. Nella vita e nel suo flusso eterno, Pirandello avverte disordine, caos e disgregazione.  Pirandello giunge così a disgregare l'immagine unitaria della realtà e ciò comporta un radicale relativismo conoscitivo: ogni individuo crede di possedere la verità, ma non è che irretito dall'illusorietà delle convenzioni sociali e dal formalismo. Le nozioni di verità e di realtà, dunque, si frantumano, in quanto ognuno possiede la sua verità, che nasce del suo modo soggettivo di vedere le cose. Da ciò deriva un'inevitabile incomunicabilità tra gli uomini e un senso di profonda solitudine. Poiché la verità è inconoscibile, qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all'inaccessibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare l'inadeguatezza degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà. L'arte, espressione del dubbio sistematico, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e i falsi miti costruiti dagli scrittori del decadentismo, a cominciare da D'Annunzio.

La scomposizione dell'io

Dal relativismo consegue la scomposizione della personalità: come è disgregata l'immagine unitaria della realtà, così si dissolve l'immagine unitaria dell'io. In questo senso ha esercitato una grande influenza sul pensiero di Pirandello l'opera di Binet, Alterations de la personnalité, nella quale l'autore indaga la compresenza di livelli diversi della vita psichica, consci e inconsci. Egli sostiene dunque la pluralità dell'io, in cui possono convivere varie e diverse personalità. Pirandello oltre a liquidare il principio positivista di una realtà oggettiva, dissolve anche l'idea romantica della verità soggettiva. Il soggetto è destituito di ogni potere conoscitivo: non è in grado di conoscere la verità nemmeno su se stesso. L'interiorità non è più vista come unicità e armonia, non è più luogo dell'identità e dell'integrità, è vista piuttosto come compresenza di spinte contrarie e a volte opposte, addirittura di diverse personalità, dunque come scissione, contraddizione, conflitto e caos.

Il problema dell'identità

La crisi delle certezze e la disgregazione dell'io trova piena espressione nel problema riguardante l'identità dell'uomo. L'individuo, al suo interno, manca di unità e compattezza, si sfalda e si disgrega in frammenti incoerenti. Tuttavia, secondo lo scrittore, ciascuno di noi tende a fissarsi e irrigidirsi in una forma che vorrebbe presentarsi come unitaria, organica e compatta. Inoltre, tutti coloro che ci osservano ci attribuiscono una forma diversa da quella in cui noi stessi ci riconosciamo e la società, con le sue regole e istituzioni, ci impone una 'maschera'. Di conseguenza, ognuno tende a deformare la realtà secondo la propria visione del mondo e l'immagine di ciascuno cambia con il mutare della prospettiva. Infatti, se l'universo è una realtà dominata dal caso, allora l'uomo stesso è una realtà cangiante, che muta in ogni situazione sociale. Solo l'ipocrisia delle istituzioni, delle ideologie e delle regole che l'uomo stesso si è dato tiene uniti questi frammenti in un'apparenza, dietro la quale tuttavia scorre inarrestabile la vita. L'uomo, a dispetto dei suoi sforzi, non riesce a penetrare fino in fondo nel labirinto delle apparenze, né a conoscere ciò che è racchiuso in quelle forme di cui egli è prigioniero: per questo si dibatte, impotente, nella loro trappola ed è costretto a subire quelle leggi che sente false, ma che rappresentano la sua unica possibile identità. Dunque il personaggio pirandelliano, davanti all'esistenza di più verità e all'impossibilità di stabilirne una assoluta, perde la propria identità certa ed è avvolto in un caos indecifrabile. Il suo dramma è quello di non poter vivere la propria identità e addirittura di non averne una.

Il fu Mattia Pascal

Il protagonista del romanzo pirandelliano, Mattia Pascal, rinuncia all'identità che la società gli ha attribuito per crearsene una nuova, che però non gli è possibile vivere. Tuttavia quando decide di tornare alla sua vecchia vita scopre che per la società, che lo considera morto, egli non è più nessuno.

Questa mutata concezione della realtà si riflette anche nelle strutture narrative che caratterizzano il romanzo del novecento. Mentre la stagione verista e quella romantica tentavano di porre un ordine alla varietà infinita del fenomenico, nel romanzo novecentesco quella stessa complessità non mira né ad una sintesi né a un'unità. Naufragata, infatti, la possibilità di comunicare una verità solida e stabile, l'unica soluzione possibile resta l'incompiutezza. Nello stesso fu Mattia Pascal manca una parola definitiva, una conclusione chiara e compiuta. Una delle cause che spinge i narratori novecenteschi a non voler tirare le fila della storia è la coscienza di vivere in un'età caotica e disgregata, priva di valori univoci e indiscutibili. La percezione della realtà è mutata radicalmente: l'esistenzialismo, la teoria della relatività, la psicanalisi hanno privato l'individuo di una meta sicura, rendendolo incapace di distinguere tra verità e menzogna.

Il verismo pretendeva di procedere con la logica deterministica e ineluttabile di un teorema, con i personaggi condizionati dall'ambiente. Proprio contro il determinismo del positivismo e del verismo muove il saggio pirandelliano sull'Umorismo: infatti, considerando soltanto il milieu, la race e il moment di cui parlava Taine, si rischia di perdere di vista i singoli individui. Il fu Mattia Pascal, invece, già nel titolo porta alla ribalta un individuo, chiamato per nome e per cognome a sottolineare la sua unicità. Il romanzo pirandelliano vuole essere una protesta contro il determinismo e la rigidità, contro la presunzione che ogni effetto possa essere spiegato con una e una sola causa. Sono presenti nel romanzo molti elementi di questa poetica antinaturalista, basta pensare ad esempio alla parodia della legge dell'ereditarietà. Infatti, mentre il padre di Mattia era avveduto, accorto, sagace nell'investire e nell'arricchirsi, il figlio è uno scioperato, un inetto. L'unico tratto che accomuna padre e figlio è la passione per il gioco, per ironia il fattore più irrazionale, meno legato alle leggi biologiche dell'ereditarietà. Da questo punto di vista il gioco d'azzardo simboleggia la vanità di ogni determinismo: il puro caso viene elevato a legge e le vincite e perdite non ubbidiscono a nessuna logica. Mattia sorride con sdegno e commiserazione di fronte  ad un opuscolo esposto nella vetrina di una bottega di Montecarlo che promette una Méthode pour gagner à la roulette. Il commento disincantato del protagonista esprime il discredito dell'autore per ogni razionalità:

"vi seggono, di solito, certi disgraziati, cui la passione del giuoco ha sconvolto il cervello nel modo più singolare. Stanno lì a studiare il così detto equilibrio delle probabilità, e meditano seriamente i colpi da tentare, tutta un'architettura di giuoco, consultando appunto su le vicende de' numeri: vogliono insomma estrarre la logica dal caso, come dire sangue delle pietre; e son sicurissimi che, oggi o domani, vi riusciranno" (Pirandello, il fu Mattia Pascal, Einaudi, p.65).

Un altro motivo antinaturalistico è la condizione estraniata di Mattia rispetto alla società. La società lo esclude dal suo senso, giudicandolo pazzo: "Mattia, l'ho sempre detto io, Mattia, matto. Matto! Matto! Matto!", gli grida il fratello. Complementare alla pazzia è poi il riso apparentemente immotivato, incomprensibili per le persone "normali". 

Mattia Pascal è un personaggio "intrinsecamente e programmaticamente contradditorio, diviso schizofrenico, con una personalità molteplice nelle sue risonanze" (Andrea Battistini, La crisi del personaggio nel fu Mattia Pascal). Da questo punto di vista è molto eloquente il suo strabismo, estrinsecazione fisica di una personalità asimmetrica.

Nello stesso romanzo l'autore spiega, per bocca di Anselmo Paleari, come la narrativa verista e romantica non sia oggi più possibile. Commentando la rappresentazione dell'Elettra di Sofocle nel teatrino delle marionette Anselmo Paleari riflette sulla conseguenza che potrebbe derivare se "nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino" (Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Einaudi, p. 164). Il risultato di quello strappo, afferma il signor Paleari, sarebbe che Oreste diventerebbe Amleto. Copernico -con la sua teoria eliocentrica- ha negato alla Terra il ruolo centrale che per secoli essa aveva occupato, riducendola a "un'invisibile trottolina [] un granellino di sabbia impazzito". L'uomo dunque non si trova più al centro dell'Universo, non è altro che un puntino insignificante nell'immensità sterminata di ciò che lo circonda, un "vermuccio" per usare le parole dell'autore. Le condizioni dell'esistere sono mutate così radicalmente che le forme tradizionali di letteratura non hanno più senso, rese anacronistiche dal loro stesso impianto composto e armonico, che

si scontra con la caoticità del reale. Non è più possibile l'esistenza di un eroe risoluto, sostituito ora da un antieroe, un inetto. Un'immagine di letteratura più adeguata alla vita, disordinata e senza senso, è semmai quella della biblioteca Boccamazza, dove i libri messi alla rinfusa, accozzati in modo scompaginato, riflette molto meglio di un racconto ordinato e logico il carattere della realtà.

Non va poi trascurata l'avvertenza sugli scrupoli della fantasia, posta in appendice, nella quale Pirandello chiede di rientrare nei canoni della verosimiglianza, sottolineando come le vicende paradossali narrate nel suo romanzo non siano del tutto inverosimili. Infatti, qualche anno dopo la pubblicazione del romanzo pirandelliano, il caso vuole che una vicenda di cronaca analoga a quella di Mattia Pascal finisca davvero sul giornale. Pirandello coglie allora l'occasione al volo e inserisce a una ristampa del suo romanzo, edita nel 1921, uno scritto, l'avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in cui parla di quel fatto di cronaca come di una prova a favore della sua idea della vita quale imprevedibile e assurda messinscena. Egli usa così quell'episodio reale come dimostrazione che la vita disprezza ogni verosimiglianza, ma segue piuttosto delle leggi caotiche e imprevedibili. Se la vita stessa è di per sé inverosimile, ne consegue che il vero realismo non è quello dei veristi, ma l'eccentricità della sua storia, che parla di un vivo costretto a essere morto. Pirandello è, infatti, interessato ad analizzare e scomporre la realtà per mostrarne l'assurdità e i risvolti paradossali, la mancanza di ogni certezza e di ogni senso. Infine la descrizione del protagonista, presentato in modo quasi deforme, simboleggia la connessione che intercorre tra esteriorità e interiorità. La disgregazione dell'io si manifesta così anche sotto forma della disarmonia nelle fattezze fisiche.

Infine, muta profondamente la prospettiva, in quanto la realtà non è più fotografata dall'esterno, ma descritta secondo quello che vedono gli occhi strabici di Mattia, che colora in modo marcatamente individualistico ogni esperienza. Il narratore onnisciente deve così cedere il passo al narratore-protagonista, che giudica gli altri dal suo angolato punto di vista. La realtà, infatti, non è più una e oggettiva, ma può essere conosciuta solo soggettivamente. Il narratore mostra così il suo punto di vista, di cui il lettore deve diffidare.

L'assurdità della vita è rispecchiata anche dalla trama, che risulta discontinua e digressiva con fratture di tono e contenuto. Singolare è anche lo stile di Pirandello, dominato da una paratassi grigia e discontinua che accentua la frantumazione del racconto attraverso giustapposizioni, simili a fotogrammi avvicinati con un ritmo nervoso. Il lessico è trasandato e giornalistico, prossimo al parlato, ma con improvvise esplosioni di termini rari e preziosi, come lampi che staccano dal grigiore.



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