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L'ERMETISMO
Il termine 'Ermetismo' (che deriva da Ermete, il dio greco al quale erano stati attribuiti dei testi religiosi di ardua interpretazione) fu usato per la prima volta in sede letteraria, dal critico Francesco Flora nella seconda metà degli anni Trenta: riferendosi alla poesia contemporanea, ma soprattutto alla liriche di Giuseppe Ungaretti, aveva affermato che l'espressione poetica si presentava a suo avviso, alquanto oscura e 'criptica', ciò dovuto essenzialmente ad un certo abuso della tecnica dell'analogia (similitudine condensata). La parola 'Ermetismo' però ben presto, perdendo la connotazione negativa iniziale, passò a significare un orientamento, nella poesia italiana abbastanza diffuso nel ventennio tra le due guerre.
Caratterizzato da una poesia oscura e di difficile decifrazione («ermetica» appunto), l'ermetismo si sviluppa in Italia attraverso tre generazioni:
I generazione: G. Ungaretti, E. Montale.
II generazione: S. Quasimodo, L. De Libero, L. Sinisgalli, A. Gatto.
III generazione: M. Luzi, C. Bo, O. Macrì, V. Sereni.
Benché i poeti ermetici abbiano visto in Ungaretti, soprattutto, e in Montale, degli insostituibili autori di riferimento, tuttavia questi due grandi poeti, per la complessità dell'ispirazione e per la particolarità dell'espressione poetica, sono considerati dalla moderna critica letteraria, dei 'lirici nuovi', con un'inconfondibile fisionomia che verrebbe inevitabilmente offesa se costretta entro una rigida catalogazione. Pertanto la loro opera resta a testimonianza del travaglio spirituale dell'uomo nel primo Novecento. Dell'esistenza di una vera e propria 'scuola ermetica', con suoi ben precisi caratteri, si può parlare solo intorno alla metà degli anni Trenta, con i poeti della 'seconda generazione ermetica'. Questi poeti ebbero i loro punti d'incontro e di discussione a Firenze. Si sviluppò pure un orientamento critico ermetico, soprattutto intorno all'opera di Carlo Bo, che sulla rivista Frontespizio, pubblicò nel 1938 l'articolo Letteratura come vita, ritenuto il manifesto del nuovo movimento poetico. I poeti ermetici ebbero in comune il fatto di ispirarsi alla 'lirica pura' di Ungaretti e ai simbolisti francesi Mallarmè, Rimbaud e Valéry. Comuni erano la ricerca di un linguaggio poetico scarno e sintetico, che ricorreva frequentemente all'analogia come forma principale d'espressione, e la tendenza ad un'essenzialità lirica che fosse capace di rendere la penosa condizione esistenziale dell'uomo, il senso di solitudine e di smarrimento dinanzi al mistero della vita, che nessuno è capace di scoprire. Perciò la loro poesia non nasce da una moda, ma da una esigenza profondamente sentita.
GIUSEPPE UNGARETTI E LA 'POESIA PURA'
Nel periodo compreso fra le due guerre mondiali si assiste in Italia all'affermarsi di una 'poesia nuova' per l'ispirazione e per il linguaggio, una poesia che nasceva dalla stanchezza per le espressioni poetiche che fino ad allora si erano manifestate. Si sosteneva infatti un rinnovamento profondo del linguaggio poetico, certo non fine a se stesso, ma a specchio dello stato d'animo dell'uomo sconvolto dalla Grande Guerra.
La poesia nuova si configurava come 'poesia pura' perché mirava a cogliere l'essenza del vivere, che si rivelava purtroppo come dolore, sofferenza, solitudine. I 'nuovi poeti' puntarono ad 'auscultare' la coscienza, ma per far questo era necessario liberare la parola poetica sia dai toni magniloquenti e solenni sia da quelli colloquiali e dimessi. Pertanto la parola poetica liberata da ogni ornamento letterario, doveva farsi 'pura' o, meglio, 'nuda','scarna'.
Solo così la parola poetica avrebbe potuto esprimere l'angoscia, la disperazione, la desolazione, ma anche la speranza dell'uomo. Essa, così ridotta all'essenzialità, diventava lo strumento adatto ad esprimere l'essenza dell'esistenza, la quale per Ungaretti, era la 'pena di vivere'.
Aspetti particolari della 'poesia pura' sono stati l'autobiografismo e la tendenza al frammento. Il primo nasceva dalla tendenza del poeta a ripiegare su se stesso per ascoltare la propria coscienza, mentre la tendenza al frammento, quindi alla produzione di componimenti brevi, scaturiva dalla scelta di liberare la poesia dalla inutile discorsività per raccoglierla intorno a pochi nuclei poetici degni di significato. La 'poesia pura' è pertanto poesia di parole 'nude', è una poesia che non vuole avere finalità didascaliche, etiche o politiche. Il poeta ermetico ricorre alla tecnica dell'analogia ( una similitudine senza il come) che rende il linguaggio ancora più scarno.
GIUSEPPE UNGARETTI: VITA E OPERE
Nato nel 1888 ad Alessandria d'Egitto dove il padre lavorava allo scavo del canale di Suez, trascorre in questa città la prima giovinezza, i suoi primi ventiquattro anni. L'Egitto, la cui importanza strategica era stata accresciuta in quegli anni dall'apertura di tale canale, era un ambiente internazionale: nei porti era normale sentire le parlate più diverse, dall'arabo allo spagnolo, dall'inglese all'italiano, alle lingue orientali. Questa internazionalità consente a Ungaretti di formarsi in condizioni di estrema apertura a tutte le correnti di pensiero europee, in particolare a quelle francesi. Ma dell'Egitto lo influenza soprattutto il paesaggio, in particolare il deserto che gli dà il senso dell'immensità degli spazi ma anche quello della morte e della fragilità dell'uomo: Alessandria, per esempio, è una città che viene continuamente disfatta dal vento e dalla sabbia.
Gli anni passati in Francia invece, fra il 1912 e l'inizio della prima guerra mondiale sono decisivi per le sue scelte culturali. L'architettura francese gli appare come la testimonianza onnipresente e ineliminabile della civiltà del passato. Qui egli incontra artisti quali ad esempio Picasso e Modigliani. Il terzo tempo della biografia ungarettiana coincide con l'esperienza drammatica della prima guerra mondiale alla quale egli partecipa come soldato semplice dopo essere stato, come tanti altri intellettuali del suo tempo, un convinto interventista. Ma il poeta si sente ben presto profondamente deluso e dolorosamente segnato da questa esperienza. La guerra di trincea infatti non dà spazio ad azioni grandi ed eroiche, ma porta a una situazione di anonimato oltre che a una degradazione fisica dovuta alla lotta giornaliera contro la sporcizia, i pidocchi, la fame, gli agenti atmosferici.
Inoltre si aggiungono l'angoscia della morte costantemente in agguato e la quotidiana constatazione dell'inutilità, stupidità e atrocità del conflitto. Nascono da queste esperienze le prime e più significative raccolte ungarettiane, Il porto sepolto e Allegria di naufragi, confluite poi nell'Allegria. In esse il poeta opera una vera e propria «rivoluzione espressiva»: spezza il verso riducendolo a pochissime sillabe, ricerca la parola essenziale e scarna, elimina la punteggiatura. Da Parigi si trasferisce a Roma. Sono gli anni del fascismo e del «ritorno all'ordine» in letteratura. Alle esperienze innovatrici della prima esperienza ungarettiana segue il ritorno a una poesia più tradizionale. Testimonianza di questa svolta è Sentimento del tempo. Nel 1936 si trasferisce in Brasile dove ricopre la cattedra di letteratura italiana all'Università di San Paolo. Qui è colpito da un grave lutto: la morte del figlio Antonietto di soli nove anni. Da questo dolore privato e dal dolore universale causato dalle stragi della seconda guerra mondiale nasce un' altra raccolta, Il dolore.
Tornato in Italia, Ungaretti ottiene la cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l'Università di Roma. Ungaretti, che gli amici familiarmente chiamano Ungà, è ormai considerato un maestro ed egli stesso si compiace di recitare la parte del «poeta» leggendo spesso in televisione le sue liriche e divenendo così uno degli scrittori più noti al pubblico. Scrive altre raccolte poetiche: La terra promessa, Un grido e paesaggi, Il taccuino del vecchio. Nel 1969 riunisce tutta la sua produzione nella raccolta Vita di un uomo.
Muore a Milano nel 1970.
L'ALLEGRIA
Questa raccolta nasce dalla fusione di due precedenti raccolte: Il porto sepolto e Allegria di naufragi. Si tratta di liriche brevi, fatte di intuizioni fulminee, ispirate alla guerra e contrassegnate
da una profonda componente autobiografica. Le liriche del Porto sepolto sono tutte composte al fronte, nelle trincee del Carso, sugli spazi bianchi di cartoline, lettere giornali. Questi foglietti su cui scriveva le sue sensazioni non erano destinati alla pubblicazione, ma erano sfoghi della sua coscienza.
I versi di questa raccolta sono ispirati dalla memoria e dalla guerra. Di fronte all'orrore della guerra, la reazione del poeta è duplice: da un lato lo assalgono dolore e angoscia, dall'altro prova il bisogno di reagire alla morte e lo fa attaccandosi sempre più alla vita, sentendosi vicino ai suoi compagni di sventura.
Anche Allegria di naufragi è costituita da liriche composte in tempo di guerra; qui però non vi sono riferimenti diretti agli eventi bellici, prevale piuttosto un desiderio di calma e di abbandono, il bisogno di evadere dalla vita del fronte verso un mondo sereno raffigurato nelle immagini di un paesino coperto di neve o dal caldo del focolare. Il titolo della raccolta allude alla capacità del poeta di reagire al dolore traendo da esso la forza di riprendere il percorso, di continuare a vivere con coraggio. A questo atteggiamento dignitoso e virile il poeta dà il nome di allegria.
LA POETICA UNGARETTIANA
Sul piano espressivo Ungaretti opera nei confronti della tradizione una radicale rottura che nasce da una necessità morale.
Di fronte al dolore generato dalla guerra, egli sente che, per esprimere ciò che prova, non può adoperare il raffinato e solenne codice della poesia tradizionale. Adotta pertanto un lessico povero, aspro, essenziale e crudo; una parola che, isolata com'è nello spazio bianco, sembra emergere dal silenzio carica di significato. Il verso viene frantumato: dagli endecasillabi e dai settenari si passa a. versicoli brevissimi di tre e persino due o una sillaba. Il poeta tende dunque alla scarnificazione della parola, egli 'scava nella parola' e questo scavare nella parola è come uno scavare nella coscienza.
Inoltre Ungaretti riduce il periodo a proposizioni minime ed elimina i segni di interpunzione che vengono sostituiti dagli «a capo». Si viene pertanto a creare una perfetta corrispondenza fra metrica e sintassi per cui ogni periodo coincide con una strofa e questa inizia con la lettera maiuscola sottintendendo il punto fermo. Decisamente contrario alle rime, Ungaretti preferisce utilizzare anafore (ripetizione della stessa parola all'inizio del verso) e analogie.
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde
di questa poesia
mi resta
quel nulla
d'inesauribile segreto
Il titolo della poesia, che è anche quello della raccolta, deriva da un lontano ricordo. Negli anni della sua adolescenza ad Alessandria, Ungaretti aveva sentito parlare da due amici, entrambi ingegneri francesi, di un porto sommerso, anteriore all'epoca di Alessandro Magno, la cui esistenza dimostrava che in quei luoghi era esistita una città fiorente prima ancora che vi giungesse il conquistatore macedone che avrebbe fondato Alessandria. Quel porto custodito in fondo al mare è per Ungaretti il simbolo della poesia che egli vede come qualcosa di misterioso a cui il poeta giunge a fatica scendendo in se stesso. Quindi riemerge portando alla luce i suoi canti, ossia traducendo l'oscurità di quel mistero nella parola poetica di cui fa dono agli altri uomini. Una volta compiuta questa missione, a lui resta qualcosa di impalpabile: la consapevolezza che la poesia è un segreto inesauribile che può essere intuito solo parzialmente dal poeta. Questa intuizione è nulla a confronto con il mistero senza confini, ma rappresenta l'essenza stessa della vita. Nel delineare l'immagine del poeta che scende negli abissi per riportare alla luce i suoi canti, Ungaretti si è ispirato al tema dell'eroe mitico (Orfeo, Ulisse, Enea, Dante) che compie il viaggio nell'oltretomba, in un luogo sotterraneo da dove ritorna con un messaggio da comunicare agli uomini. Anche poeti moderni quali Baudelaire, Rimbaud, Mallarmè hanno visto la poesia come un viaggio in luoghi misteriosi, alla ricerca della parola poetica e dell'essenza delle cose. Come si può notare, la lirica, secondo una consuetudine presente in tutti i componimenti dell'Allegria, è accompagnata dall'indicazione del luogo e della data di composizione. I luoghi sono le varie postazioni delle trincee sparse sull'altopiano carsico e le date ricordano i pochi momenti di quiete strappati alla violenza dei combattimenti. Il primo elemento da sottolineare nel testo è il rapporto inscindibile che c'è tra il titolo e la lirica. I versi sono infatti una spiegazione e uno sviluppo di quanto è sinteticamente espresso nel titolo.
Il vi del primo verso per esempio non ci consentirebbe di capire in quale luogo arriva il poeta se mancasse il titolo.
I segni di interpunzione sono sostituiti dagli a capo, dallo spazio bianco che separa le due strofe e dall'uso delle maiuscole, come se ci fosse il punto. La sintassi è semplice: un unico soggetto, tre verbi alla terza persona, una sola inversione (Vi arriva il poea: prima il verbo e poi il soggetto). Le azioni sono al presente e alludono a un triplice movimento: dall'alto verso il basso (Vi arriva), dal basso verso l'alto (torna alla luce)e in direzione orizzontale (li disperde).
San Martino del Carso Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1926
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto neppure tanto
Ma nel cuore nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
In questa lirica, che appartiene alla raccolta Il porto sepolto, assistiamo alla umanizzazione di un paese. Il poeta osserva lo scempio che la guerra ha provocato in questo paese, un villaggio del quale non è rimasto in piedi che qualche brandello di muro (metafora: richiama l'immagine di corpi mutilati, straziati), e immediatamente pensa a tanti compagni dei quali non sono rimasti neppure brandelli. Ma il loro ricordo è sempre vivo nel suo cuore che è simile a un cimitero nel quale nessuna croce manca. È il cuore del poeta il paese più straziato perché la morte di ciascun compagno è come un'amputazione del proprio essere.
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