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LA DISCENTIO AD INFEROS NELLA TRADIZIONE LETTERARIA
La CATABASI nella letteratura classica
Tre sono le tappe fondamentali che si riferiscono alla discesa agli inferi nella bibliografia greca:
OMERO, Odissea
L'avventuroso viaggio di ritorno degli eroi greci dalla guerra di Troia, costituì un motivo per varie leggende, ma solo quello di Odisseo è rimasto famoso e oggetto di una tradizione letteraria, proprio poiché narrato in forma ampia e unitaria nell'Odissea.
Il poema è composto in 24 Libri, può essere suddiviso in tre parti: i primi quattro Libri costituiscono la Telemachia (viaggio di Telemaco in cerca del padre); I libri dal V al XII narrano le peripezie accadute ad Odisseo presso i Faeci; infine nei libri dal XIII al XXIV è narrato il ritorno dell'eroe in patria e la vendetta contro i pretendenti.
In questa trattazione si esaminerà la seconda parte del racconto in cui, fra le altre avventure, è raccontato il viaggio negli inferi dell'eroe.
Capitato nella terra dei Lestrigoni, Odisseo era arrivato presso la maga Circe e, dopo aver liberato i suoi compagni e scampato all'incantesimo della maga grazie all'aiuto d'Ermete, soggiornò con i suoi uomini nella stupenda dimora della donna cibandosi con abbondanti carni e bevendo dolce vino, per giorni e stagioni. I suoi uomini, però, non si erano dimenticati lo scopo del loro viaggio e il desiderio di tornare in patria e riabbracciare i propri familiari era ancora forte in ognuno di loro, a tal punto che quasi tutte le sere imploravano il comandante di convincere la maga a lasciarli partire. Una sera Circe, coricata nel letto con Odisseo, ascoltò le sue preghiere, ma prima di andarsene sarebbe dovuto andare alla casa d'Ade e di Persefone, per conoscere da Tiresia il suo destino. Odisseo, udite queste parole, non poté fare a meno di piangere, ma la sua prima preoccupazione fu di chiedere chi l'accompagnasse in questo viaggio (il bisogno di porre una guida per affrontare il cammino negli inferi è sentito anche da Dante, il quale pone un illustre personaggio, modello e maestro sia nella vita sia nella letteratura, oltre che fondamentale aiutante nell'impresa). Omero, però, pur riconoscendo il bisogno di un accompagnatore per Ulisse, non affida questo compito ad un personaggio in particolare: l'eroe greco è guidato e assistito dagli dei e dai suoi compagni.
La nave d'Ulisse fu guidata da venti favorevoli nel luogo indicato da Circe, ivi l'eroe compì tutti i gesti rituali e propiziatori consigliatigli dalla maga, le anime degli abitanti degli inferi lo circondavano, fra queste riconobbe quella del suo compagno appena morto Elpenore, il quale commosso, lo implorò di ricordarsi di lui e di offrirgli una giusta sepoltura (questo è il primo incontro che fa Odisseo: il tema del ritrovamento di un amico o di un conoscente è un topos utilizzato anche da altri autori ed è una tappa sempre presente nei racconti di viaggi nell'Aldilà).
Finalmente arrivò Tiresia, atteso dall'eroe, che avrebbe dovuto predire gli avvenimenti del suo ritorno ad Itaca, il saggio descrisse le prossime avventure del figlio di Laerte, mettendolo in guardia da possibili vendette degli dei, ma infine predicendogli una vecchiaia e una morte serena. La predizione del futuro da parte di un saggio, o comunque di un abitante degli inferi, è forse la parte più importante e fondamentale per le sorti dell'eroe in questo tipo di viaggio. L'autore, come ha fatto anche Dante, per inserire un episodio del genere deve avere già in mente lo svolgimento del suo racconto o, come nel caso dell'autore fiorentino, narrare fatti già accaduti nella vita reale ma ancora lontani nel racconto.
Fra le anime Ulisse riconosce la madre, che solo dopo aver bevuto il sangue sacrificato può parlargli e chiedergli con tono amorevole e preoccupato, tipico di una madre, che cosa l'avesse condotto lì in quel posto così infimo e tenebroso. Ulisse racconta brevemente le sue peripezie e subito interroga la madre sulla di lei morte e sulla vita che conducono i suoi familiari ad Itaca.
Dopo la madre, l'eroe di Itaca incontrò numerose donne, spose o figlie di nobili e ad una ad una le interrogò; anche lui volta per volta è interrogato; è Alcinoo re dei Feaci che loda la sua onestà e coraggio e lo invita a raccontargli delle sue avventure fino all'alba, quando fra le tante anime si distinguono per bellezza e grandezza le figure di Patroclo, del Pelide Achille (che domanda ad Odisseo sul padre e sul figlio), d'Antioco e d'Aiace. Ancora fra gli altri si distingue la figura di Minosse che, come nella Divina Commedia, ha il ruolo di giudice infernale. Anche in questo prototipo d'inferno i morti (solo alcuni, però) scontano delle pene, inflitte dagli dei per vendicarsi di torti subiti. Ulisse voleva restare ancora per incontrare ed interrogare altri grandi uomini dell'antichità, ma il radunarsi e le grida d'alcune anime lo spaventarono, aveva paura che Persefone mandasse la testa della Gorgone (un terribile mostro). Subito tornò alla nave, comandò ai compagni di salpare e l'imbarcazione e, prima con i remi poi con venti favorevoli, risalì il fiume Oceano.
VIRGILIO, Eneide
Nel libro VI dell'Eneide Virgilio, descrivendo il regno dell'oltretomba, fornisce un'efficace e significativa rappresentazione dell'aldilà così com'era immaginato nella sua epoca. Egli descrive l'ingresso degli Inferi presso il lago Averno, luogo inquietante e surreale. Il viaggio per il regno dei morti porta Enea nelle viscere della terra dove si addentra nelle tenebre e nei regni deserti di Dite. Giunto colà, insieme con la Sibilla che lo accompagna nel vestibolo, gli appaiono i mali che affliggono l'umanità e una serie di mostri spaventosi. Nella palude Stigia, Caronte, il nocchiero infernale, li traghetta di là dal fiume Acheronte, solo dopo aver visto il ramo d'oro. Subito incontrano Cerbero, cane con tre teste, che tenta di impedire loro il passaggio: la Sibilla lo placa con una focaccia soporifera. Proseguendo nel loro cammino giungono nell'Antinferno, custodito da Minosse, giudice infernale, dove si trovano i neonati, coloro che sono stati ingiustamente condannati e i suicidi. Attraversano poi i 'campi del pianto' (dove sono i morti per amore, tra cui Didone). Arrivano così ai campi più remoti, dove si trovano gli uomini illustri in guerra ed infine ai piedi di un'immensa città, circondata da tre cerchi di mura e cinta dal Flegetonte, con le sue acque di fuoco. La città è il Tartaro, di cui è custode Radamanto assistito dalla furia Tisifone, in cui sono puniti i Giganti, i Titani e i Lapiti. Sulla porta della reggia di Dite, il dio degli Inferi, Enea affigge il ramo d'oro. Abbandonato il Tartaro giungono infine ai Campi Elisi, luminosi e sereni, dove sono le ombre dei giusti. Nelle grandi e verdeggianti pianure si aggirano felici eroi, sacerdoti, poeti, artisti e tutti coloro che si sono adoperati per il bene dell'umanità. Qui Enea incontra il padre Anchise che spiega al figlio che le anime che si trovano poco lontano, sulle sponde del fiume Lete, il fiume dell'oblio, sono quelle destinate a reincarnarsi. Anchise spiega la teoria dell'anima universale e fa una rassegna dei grandi Romani futuri, in cui le ombre si reincarneranno. Dopo la rassegna predice al figlio il destino che lo attende nel Lazio.
Per far uscire Enea dagli Inferi e da una porta diversa da quella in cui era entrato, Virgilio si serve di un espediente di cui si era servito anche Omero nell'Odissea (canto XX). Scrive Virgilio (Eneide, VI, vv. 893-898):
Due sono le porte del Sonno, delle quali l'una
Si dice di corno, di dove le vere ombre
Possono uscire agevolmente; splendente l'altra e di candido
Avorio, ma i Mani ne esprimono al cielo ingannevoli sogni.
Ivi Anchise, parlando, accompagna il figlio
E insieme la Sibilla, e li fa uscire dalla porta eburnea.
Enea esce dunque dalla porta d'avorio, quella dei sogni falsi, a significare forse che quanto aveva visto era solo una visione oppure che, non essendo un'ombra ma un uomo, col peso del suo corpo, poteva uscire solo da quella porta. Virgilio per descrivere l'aldilà si serve di uno schema che presuppone una relazione verticale, la coppia oppositiva alto/basso (Terra/Inferi), giacché Enea scende nelle viscere della terra ed una relazione orizzontale buio/luce (Tartaro/Campi Elisi). Nella Divina Commedia Dante nel descrivere il suo viaggio allegorico, riprende lo schema dell'oltretomba virgiliano con alcune significative variazioni: l'opposizione Verticale diviene tripartita nella relazione Cielo/Terra/ Inferi mentre la dimensione orizzontale scompare per dare luogo ai tre regni (Inferno/Purgatorio/Paradiso).
Publio Ovidio Nasone è un poeta latino, giunto giovanissimo a Roma, che studiò ivi la retorica, ma che passò presto alla poesia. Stette in contatto con i maggiori letterati del tempo, frequentò la corte d'Augusto, conducendo una vita brillante. Esercitò magistrature minori, dopo un viaggio d'istruzione in Grecia, Egitto e Asia e una permanenza in Sicilia. Ricordiamo tra le sue opere gli Amores, un canzoniere amoroso in distici elegiaci; le Heroides, raccolta di poesie leggere e galanti; Medea, commedia assai lodata nell'antichità; l'Ars Amatoria, che lo rese celebre e il beniamino della società raffinata romana; il Remedia amoris, poemetto in distici; il Medicamen faciei, carme in distici.
Intorno al 3 d.C. Ovidio si dedicò ad opere di più vasto respiro: le Metamorfosi e i Fasti.
Composta in esametri, è un vasto poema in quindici libri, in cui si narrano miti che hanno, come conclusione la metamorfosi dei protagonisti.
Scritto con tecnica ellenistica, la ricca serie di racconti è contesta e stretta insieme, non senza pesantezza e monotonia.
Il finale del poema canta la storia di Roma e si lega agli atteggiamenti di propaganda augustea, che ancor più interamente si dispiegano nei Fasti.
Durante il suo matrimonio con Orfeo, Euridice mentre camminava per i prati, accompagnata dal coro delle Naiadi, morì, ferita al tallone dal morso di una serpe.
Orfeo, dunque, dopo averla pianta sulla terra, osò scendere per la porta Tenaria fino allo Stige, attraversò la folla delle anime e giunse al Dio dei morti e, accompagnandosi con la cetra, spiegò che aveva tentato di sopportare il dolore e di dimenticare, ma l'amore aveva trionfato e l'aveva portato fin lì per supplicarlo a riconsegnargli la sua dolce sposa morta prematuramente. Il suo canto melodico e disperato commosse tutte le anime abitanti gli inferi (la ruota d'Issione si fermò vinta dallo stupore, deposero le urne le nipoti di Belo, per la prima volta s'inumidirono di pianto le guance delle Furie), Euridice avanzò lentamente verso di lui, egli l'avrebbe riavuta solo se uscendo dalla valle infernale, non si sarebbe voltato a guardarla. Affrontarono il difficile e tenebroso sentiero, attraverso profondi silenzi e il buio; ma all'orlo della superficie terrestre, Orfeo temendo che la sposa si perdesse e ansioso di vederla, volse a lei gli occhi: ma quella all'istante ricadde, vani gli sforzi di afferrarla e stringerla: ormai era morta per la seconda volta. La fanciulla non si lamentò della sua triste sorte, nessuno si dispiacerebbe di essere troppo amato. Orfeo, però, era sconvolto ed a lungo pregò gli dei di dargli un'altra possibilità, ma Caronte si rifiutò. Trascorsero anni e molte donne ardevano dal desiderio di essere amate dal cantore, ma lui, sia per il dolore patito, sia per il giuramento dato, mai si avvicinò ad una di queste.
I visitatori degli inferi
Precede, alla illustrazione dei "visitatori", una breve introduzione sull'Ade, luogo comune visto proprio come l'inferno.
Il nome ADE è di origine greca: è composto dalla radice "id", che significa VEDERE, preceduta dall'"a" privativo"; significa quindi "posto dove non si può vedere", LUOGO DEL BUIO. Il termine ha anche significato metaforico, con cui si intende semplicemente come il luogo in cui si ritrovano tutte le anime dopo la morte. Sin dalla notte dei tempi gli uomini hanno immaginato l'oltretomba, come un luogo sotterraneo e buio, dove non arriva la luce solare. E' così anche per l'Ade greco e latino, per certi versi tra loro molto simili, ma con percorsi differenti.
L'oltretomba è appunto uno spazio tenebroso all'interno della terra, posto all'estremo occidente dell'Oceano, con un'entrata e un vestibolo. Generalmente nei testi mitologici è presente la cosiddetta KATABASIS (discesa) di alcuni eroi negli Inferi come viaggio iniziatico per conoscere il futuro della propria vita o quello del popolo di appartenenza, come nel caso sovracitato di Ulisse in Omero e di Enea in Virgilio.
L'Ade fu, in età classica, meglio determinato e popolato da esseri di varia specie, si riteneva, inoltre, di poterlo raggiungere dalla terra attraverso profondi baratri: le caverne presso il Tenaro, quelle di Ermione e di Colono presso Atene, e quelle presso Cuma in Italia.
Gli antichi immaginavano Ade, re degli Inferi, detto anche Plutone, figlio di Crono e Rea, quindi fratello di Zeus e di Poseidone, come un dio cupo e triste, sempre chiuso nei suoi oscuri regni dai quali uscì solo per rapire Persefone, la bella figlia di Demetra. Zeus concesse a Ade il dominio del regno sotterraneo e lo fece padrone e signore non solo delle ricchezze che si celano sotto terra, ma anche delle ombre dei morti. Tutti i defunti, fossero o non fossero stati in vita buoni, onesti e generosi, si rifugiavano nella casa di Ade giungendovi attraverso una voragine aperta nel terreno. Vicino alla regione che li avrebbe ospitati scorrevano lenti e minacciosi, tre grandi fiumi: il Cocito, lo Stige e l'Acheronte.
Custode degli Inferi era Cerbero, un cane che, secondo alcuni, aveva due teste e un serpente per coda, secondo altri la coda era di cane, le teste erano tre e circondate da tanti serpenti velenosi. Questi stava sulla porta per impedire che, una volta entrati, i morti fuggissero via da quella triste dimora senza sole.
Gli unici privilegiati che, tuttavia, nella mitologia antica, discesero agli Inferi non furono soltanto Enea e Ulisse; come loro altri personaggi hanno avuto questa possibilità: si ricorda infatti la "discesa" di Teseo e di Piritoo, la triste storia di Orfeo ed Euridice, L'eroe greco Protesilao, la peggiore delle fatiche di Ercole, la vicenda di Alcesti e Admeto, i due gemelli Castore e Polluce ed Enkidu all'interno dell'epopea di Gilgamesh.
La leggenda di quest'ultimo si distacca molto dall'ambientazione della mitologia greca. E' stata composta infatti da 2500 a 2000 anni prima di Cristo e le fonti di questo poema sono sicuramente le storie di origine sumerica relative proprio a Gilgamesh, il leggendario re di Uruk che, insieme ad il suo compagno Enkidu ricercò, per tutta la sua vita ed invano, l'immortalità della propria fama. In questo contesto Enkidu entrò nella "Grande Dimora" attraverso un cancello per recuperare il pukku e il mikku di Gilgamesh, oggetti dalla natura incerta. Facendo tutto ciò, però, ruppe una serie di tabù degli Inferi, tra cui l'indossare vestiti puliti e sandali e il portare addosso un'arma o arnesi che facessero rumore. Dopo la morte di Enkidu, Gilgamesh, incapace di accettare la fine di tutto, si reca da Utnapishtim, che lo consola palandogli di una pianta della vita. Un serpente, però, mangia la pianta prima che lui possa farne uso e l'eroe torna in patria, accettando, sia pur riluttante, la prospettiva della morte.
Ciò che differenzia maggiormente questa leggenda dai rimanenti miti greci e latini è la concezione e la descrizione degli Inferi: qui vengono infatti visti come un luogo silenzioso, caratterizzato, però, da una serie di severe e (all'apparenza) superficiali regole che non devono essere assolutamente trasgredite. In questo genere di letteratura, inoltre, gli Inferi sono visti come un particolare ambiente in cui vengono anche custoditi alcuni strani oggetti di natura non identificabile, mentre nella letteratura antica greca la parola "Ade" è soltanto sinonimo di luogo ultraterreno in cui le anime proseguono la loro esistenza dopo la morte. Una famosa leggenda greca è, Appunto, quella di Castore e Polluce, due gemelli figli di Leda, fratelli di Clitennestra, conosciuti come Dioscuri, cioè "figli di Zeus". In molti racconti, soltanto Polluce era considerato immortale, essendo stato concepito quando Zeus aveva assunto le sembianze di un cigno per sedurre Leda. Castore era invece considerato un mortale, figlio di Tindaro. Castore era straordinariamente abile nel domare e guidare cavalli, mentre Polluce era il pugilatore più valente di tutti. In una terribile battaglia, però, Castore fu mortalmente ferito da Idas che fu fulminato da Zeus. Essendo i due fratelli inseparabili Polluce implorò lo stesso Zeus di far morire anche lui o di dare l'immortalità anche al fratello. Zeus decise quindi di ricongiungerli permettendogli di stare insieme per sempre, metà del tempo agli Inferi e metà con gli dei sul monte Olimpo. Secondo la leggenda, i Dioscuri furono trasformati da Zeus nella costellazione dei gemelli.
La configurazione degli Inferi, però, che si avvicina di più a quella dell'inferno dantesco, anche per la presenza dell'entità mostruosa chiamata Cerbero, è quella relativa al mito di Ercole (di cui possiamo ammirare una rappresentazione in un medaglione, nella foto qui a fianco) .
Costui era un semidio, figlio di Zeus e di Alcmena. Ercole era noto per la forza e il coraggio e per le imprese che lo resero un eroe. In quanto simbolo vivente dell'infedeltà del suo sposo Giove, Era provava un tale odio verso Ercole che gli causò un attacco di pazzia durante il quale uccise moglie e figli. Per l'orrore e il rimorso di ciò che aveva fatto, Ercole avrebbe voluto togliersi la vita, ma l'oracolo di Delfi gli assicurò che si sarebbe purificato diventando il servitore di Euristeo, re di Micene, il quale, indotto da Era, gli impose, come espiazione dei suoi mali, il compimento di dodici difficili e pericolose imprese. Di queste la dodicesima, la più ardua di tutte, fu quella di portare Cerbero fuori dagli oscuri Inferi. Questo era un mostruoso cane con tre teste e coda di drago che faceva la guardia all'ingresso dell'Ade, mondo sotterraneo. Il mostro consentiva a tutti gli spiriti di varcare la soglia, ma non avrebbe permesso a nessuno di andarsene. Ade, dio dei morti, diede ad Ercole il permesso di prendere la bestia, a patto di non usare armi; Ercole dopo sforzi sovrumani riuscì a catturare Cerbero ed a condurlo da Euristeo, riportandolo poi da Ade.
Collegata al mito di Ercole è certamente la leggenda dell'eroico Teseo, figlio del re ateniese di Egeo e di Etra. Teseo trascorse l'infanzia presso il nonno materno, rientrando ad Atene solo dopo aver superato una serie di terribili prove, anche grazie all'aiuto di alcuni magici doni di sua madre (calzari e spada). La sua più celebre impresa è la spedizione contro il Minotauro, cui gli ateniesi dovevano pagare un tributo annuale di sette giovani e sette fanciulle. In seguito partecipò alla spedizione degli Argonauti per la conquista del vello d'oro ed alla lotta contro i centauri e contro le Amazzoni. Secondo il racconto mitologico, Teseo scese nell'Averno con Piritoo per rapire Proserpina, regina degli Inferi. Piritoo fu divorati da Cerbero, mentre Teseo fu tenuto prigioniero finché Ercole, disceso nell'Averno, lo liberò. Innanzitutto all'entrata degli Inferi era provvisto di calzature e di un bastone (clava), oggetti che erano consegnati ai morti per il loro viaggio nell'aldilà. Teseo incontrò diversi personaggi all'entrata del regno dei morti (come ad esempio Scirone) e vicino a loro anche un albero di fronte alla capanna della vecchia Ecate.
La morte nella vicenda di Teseo è compagna sempre presente nelle sue imprese, è una presenza però non lugubre o portatrice di angoscia, non è mai realmente minacciosa, perché segna le tappe del rituale iniziatico, da cui l'eroe deve uscire vittorioso, cioè deve completare il rito.
Tutte le opere precedentemente riportate sono, però, soltanto leggende antiche. La "descentio ad inferos" è stata, invece, anche trattata da personaggi religiosi importanti come Nicolao e San Paolo. Nel vangelo apocrifo di Nicolao, colui che discende agli Inferi è lo stesso Gesù.
La scoperta più entusiasmante, per chi legge i vangeli apocrifi, ossia "segreti", "tenuti nascosti", che la chiesa ha escluso dal suo canone è che l'immagine di Gesù, da loro trasmessa, non trasfigurata dal mito e dalle sovrastrutture dogmatiche, è proprio quella che più sazia la nostra sete di giustizia, di pace e di amore. Gesù non è negli apocrifi la vittima espiatoria delle nostre colpe ancestrali, né il figlio di Dio, che vuole essere adorato, ma l'uomo che si è proposto come esempio per insegnarci a vivere con serenità, con la coscienza tranquilla che non si lascia corrompere e contaminare dal male. I più antichi apocrifi erano i vangeli appartenenti a comunità giudaiche, sparse fin dagli albori del cristianesimo in Palestina e in Siria. La voce di questi primi cristiani è stata soffocata. Dei loro vangeli non rimane che qualche citazione, talora distorta e malevolmente interpretata, negli scritti posteriori dei Padri della Chiesa.
Le frequenti affermazioni del Nuovo testamento secondo le quali Gesù "è risuscitato dai morti" presuppongono che, preliminarmente alla Resurrezione, egli abbia dimorato nel soggiorno dei morti. E' il senso primo che la predicazione apostolica ha dato alla discesa di Gesù agli Inferi: Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovano prigionieri.
S. Paolo, invece, adotta lo schema temporale che sta alla base della speculazione apocalittica ebraica e che prevede due ere: l'Era Antica, dominata da Satana e dai suoi eserciti, e la Nuova Era, che Dio inaugurerà nel futuro. Secondo Paolo, con l'invio di Cristo, tuttavia, Dio ha già dato inizio alla Nuova Era. Tale evento non ha però ancora del tutto cancellato l'Era Antica, così che il potere del peccato e della morte contrastano strenuamente il cambiamento. Con la croce, segno del sacrificio di Cristo, Dio ha inferto un colpo decisivo per la libertà dell'uomo, benché apparentemente proprio con quel tragico evento il potere dell'Era Antica sembrava avere guadagnato una decisiva vittoria. Paolo imputava la crocifissione ai 'dominatori del mondo', espressione riferita sia alle autorità politiche sia ai poteri demoniaci che ispiravano l'operato di quelle (Corinzi 1 2:8). Per i 'dominatori', tuttavia, non era certo stata una vittoria, perché crocifiggendo il 'Signore della gloria' avevano firmato la propria condanna (Corinzi 1 2:6).Così, secondo Paolo, la croce, vista nella sua vera luce, rivela lo straordinario potere di Dio, un potere che diviene perfetto nella debolezza. Dio affermò la sua gloria resuscitando Cristo, inviando lo Spirito Santo e ponendo la Chiesa a fondamento della Nuova Era.
Le visioni del medioevo
Il tardo medioevo (secoli XIV-XV-XVI) fu investito da una serie di catastrofi (come l'epidemia di peste del 1348 oltre che a guerre e carestie) che portarono ad un ribaltamento sociale e alla perdita non soltanto di precedenti valori (come quelli cortesi), ma anche del clima quasi idilliaco di felicità, caratteristico della letteratura del Duecento. Nel Trecento le disgrazie, viste come punizioni divine per gli uomini, "spinsero" l'umanità verso il macabro, dunque verso immagini che suscitarono immediatamente terrore. Questa tendenza colpì immediatamente l'arte figurativa e quell'oratoria. Nel primo caso le rappresentazioni furono polifunzionali: dovevano rappresentare il travaglio interiore del poeta, dovevano essere un documento della situazione che si sta vivendo e dovevano essere un monito per i fedeli. Quest'ultimo aspetto, ben radicato nel "Trionfo della morte" (foto a fianco) collocato nel camposanto di Pisa, è quello più usuale. In campo oratorio inoltre, la tematica fu ripresa da Jacopo Passivanti. L'analisi della morte da parte dell'uomo era un semplice mezzo usato dalla Chiesa per minacciare pene terribili ai peccatori e per esortarli a ben comportarsi. Questi fattori fecero sì che nel Medioevo il timore per la morte, ed ancor più per gl'inferi, fosse grandissimo. La visione più completa e spaventosa, più generale e, paradossalmente, più realistica, è "La divina commedia" di Dante Alighieri. Questi, pur "raggirato" dalla Chiesa, ma estremamente legato ad essa, realizzò la sua opera con due principali intenti: la purificazione spirituale propria, dell'umanità e un monito per i fedeli. Dante compie una vera e propria "descentio ad inferos" non funzionale solo a se stessa, ma come prima tappa del cammino d'avvicinamento a Dio ed alla salvezza. Il poeta fiorentino, influenzato dal tomismo e dai "mezzi punitivi", da lui carpiti dall'aristotelismo, nella conformazione ambientale, intraprende, per la salvezza dell'umanità, in prima persona non stato un cammino d'auto-esaltazione, ma anche d'avvertimento. La sua "fatica" è bivalente: serve per farsi perdonare per aver quasi abbandonato Dio, per colpa del suo amore per Beatrice, per la politica e per tutti gli altri motivi riscontrabili nella sua opera ed a stimolare gli uomini a ben agire, per non perdersi com'egli face in una "selva oscura". In conclusione, nel Medioevo l'Inferno non è temuto tanto per la realtà che esso suscita nella mente, quanto per com'esso è stato spaventosamente presentato. Per cui, in questo periodo, non si può veramente parlare di "visioni" degli Inferi, poiché tutte quelle presentate sono state influenzate in modo da avere una loro rappresentazione ancor più drammatica rispetto a quella concepibile dell'immaginario collettivo.
La descentio ad inferos come metafora letteraria
Nella letteratura post Dantesca, il tema della discesa agli inferi non è stato abbandonato, ma più e più volte ripreso sia in chiave drammatica sia in chiave comica basti ricordare i seguenti:
F. Rabelais, Gargantua et Pantagruel, 1. II, cap. XXX
A Rimbaud, Une saison à l'Enfers
E. Pound, The Cantos, c. II
F. O'Brian, The third policemen
Nella letteratura italiana, inoltre, gli autori che meglio hanno espresso la catabasi come metafora letteraria, furono Manzoni e Primo Levi.
PRIMO LEVI, Se questo è un uomo
"Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l'autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi.
Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell'acqua nei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c'è un rubinetto: sopra un cartello, dice che è proibito bere perché l'acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, «essi» sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera e c'è un rubinetto, e Wassertrinken verboten. lo bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l'acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude.
Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia."
Primo Levi, nel suo romanzo, ha sottolineato come un campo di sterminio per ebrei potesse essere il vero inferno da tutti temuto ancor più della morte. Già, non è necessario morire per trovare i luoghi infernali, per smarrire se medesimi. "Si immagini ora un uomo a cui, insieme con il persone amate, vengono tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente ciò che possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso"; e In quell'inferno "Era così faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo".
"Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorranno conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di far sí che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.". Non siamo, dunque, di fronte ad uno dei tanti letterati che, pur riferendosi a vicende vissute personalmente, finiscono sempre per trasfigurarle, ma ad uno scrittore che, almeno nella sua prima produzione, intende solo lasciar parlare "gli orrori" dimostrando che l'inferno poteva essere visitato senza scendere entro le viscere della terra. Primo Levi, attraverso questa esperienza "demoniaca", ci ha messo davanti agli occhi il limite estremo dove può giungere l'uomo nel ruolo di carnefice e in quello di vittima. L'eliminazione pianificata della dignità dell'uomo, le violenze fisiche, ma soprattutto quelle psicologiche che tendono ad annientare ogni forma comunicativa, le inutili denudazioni pubbliche, i rituali macabri, non sono che "l'espressione sensibile della follia geometrica" del lager, di quella "risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente".
ALESSANDRO MANZONI, Promessi sposi
Nel romanzo dello scrittore lombardo, la metafora della discesa agli inferi può essere rilevata nell'avventura di Renzo a Milano durante la peste ed in particolare durante l'arrivo al lazzaretto (capitoli XXXIV-XXXV).
Se, però, lo spettacolo della peste a Milano lo aveva lasciato soltanto come spettatore, durante l'approdo al lazzaretto diventa protagonista. La degradazione è totale e il cammino di Renzo alla ricerca di Lucia si presenta come una vera e propria discesa agli inferi. Lo spettacolo che gli si para innanzi all'entrata del lazzaretto stesso è terrificante: "Lungo i due lati che si presentano a chi guardi da quel punto, era tutto un brulichìo; erano ammalati che andavano, in compagnie, al lazzeretto; altri che sedevano o giacevano sulle sponde del fossato che lo costeggia; sia che le forze non fosser loro bastate per condursi fin dentro al ricovero, sia che, usciti di là per disperazione, le forze fosser loro ugualmente mancate per andar più avanti. Altri meschini erravano sbandati, come stupidi, e non pochi fuor di se affatto; uno stava tutto infervorato a raccontar le sue immaginazioni a un disgraziato che giaceva oppresso dal male; un altro dava nelle smanie; un altro guardava in qua e in là con un visino ridente, come se assistesse a un lieto spettacolo". La desolazione della scena, dominata da uomini che non hanno più nulla di umano, neppure la voce ("La cantilena infernale, mista al tintinnio dè campanelli") tende a contrastare il silenzio di morte delle strade cittadine deserte.
L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione; e, a mano a mano che il protagonista si addentra nel lazzaretto, si insinua lievissima la speranza di un ritorno alla vita.
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