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Abbiamo già avuto modo di trattare due autori, Pascoli e D'Annunzio, a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento. Tratteremo ora il primo Novecento e in particolare la seconda generazione di poeti decadenti, che ha subito l'influenza di Pascoli e D'Annunzio.
Dopo le amarezze della repressione del 1898, proprio con l'ondata reazionaria di fine secolo, il Novecento si apre in un clima apparentemente più disteso.
I primi cinquant'anni del nostro secolo vedono grandi mutamenti in tutti i campi e la crisi di ideologie e istituzioni secolari, il sorgere di nuove idee, forze e istituti che nel complesso hanno conferito una nuova fisionomia alla civiltà.
In Italia, con il nuovo ministero Giolitti si ristabiliscono i diritti di associazione e di libertà di stampa tanto a giungere addirittura a parlare di diritto di sciopero.
Una politica largamente liberale si raggiunge soprattutto quando Giolitti prende in mano le sorti del governo, che tiene, tranne qualche breve intervallo, fin quasi alla vigilia della prima guerra mondiale.
Uno dei principali intenti di Giolitti è quello di favorire l'elevazione delle classi popolari, attuando una legislazione sociale che regola il lavoro delle donne e dei bambini, stabilisce la responsabilità degli imprenditori per gli infortuni sul lavoro, istituisce le Casse di previdenza; egli attua in sintesi riforme tali da appagare i bisogni più urgenti delle masse.
Comprendendo pienamente il fatto che lo sviluppo industriale avrebbe conferito maggior peso alle forze lavoratrici, rendendo più consapevole la loro coscienza sociale, tenta di fare in modo che i problemi si risolvano entro lo Stato onde evitare ogni eventualità di una rivoluzione contro di esso: di qui la legislazione sociale e la ricerca di un'alleanza con il socialismo riformista.
I miglioramenti salariali, acquisiti dalle masse popolari, aumentano la capacità di acquisto, che si traduce nell'aumento del benessere e del tenore di vita generale.
La fiducia nelle classi popolari è comprovata, nel 1911, dalla nuova legge elettorale con il suffragio universale: gli elettori sono portati a da 3 milioni a 8 circa.
Giolitti invita alla collaborazione le due forze rimaste estranee al risorgimento ed ostili allo Stato da esso uscito: socialisti e cattolici, forze ormai avviate a riscuotere sempre maggiori consensi.
Il fallimento di tale intento avrà poi gravi ripercussioni nel primo dopoguerra.
Pur avendo dato frutti apprezzabili, la politica giolittiana non raggiunge i suoi scopi finali per alcuni limiti (il clientelismo, l'aver favorito il Nord industrializzato non occupandosi abbastanza del Sud), ma anche per il mutamento del quadro politico italiano (sindacalismo rivoluzionario, massimalismo socialista, nazionalismo), delle tendenze economiche (con i liberisti contrari all'intervento dello stato nell'economia), nonché della stessa cultura: lo scoppio della prima guerra mondiale con la partecipazione dell'Italia al conflitto, segna la sconfitta di Giolitti e la vittoria dell'irrazionalismo.
A livello mondiale, lo sviluppo dell'imperialismo e del capitalismo creano tensioni e rivalità tra le nazioni europee (tra Russia ed Austria, tra Inghilterra e Germania), determinando, prima, la divisione tra due gruppi contraposti (Triplice Intesa e Triplice Alleanza) e provocando poi lo scoppio della prima guerra mondiale (1914-18), propiziata dal trionfo delle tendenze irrazionalistiche e dal cieco attivismo, avvivata dalla contrapposizione di ideologie progressiste ed ideologie reazionarie.
Dopo di essa, l'Europa non conoscerà più la pace per trent'anni, fino alla fine della seconda guerra mondiale (1939-45): è questo un periodo che sconvolge gli assetti politici del nostro continente, insieme a quelli sociali ed economici; che conosce l'insorgere di ideologie totalitarie e razziste; che vede prodursi eventi straordinari: la fine dell'eurocentrismo, la rivoluzione comunista in Russia e la costruzione del socialismo in un solo paese; il progressivo e sempre più vasto ingresso delle masse lavoratrici in campo politico; l'avvio del processo di decolonizzazione; la crisi del capitalismo, culminata nella crisi del '29 negli Stati Uniti che induce molti paesi europei all'autarchia.
Fatti così turbinosi e sconvolgenti hanno ripercussioni anche sulla cultura dei vari Paesi, cultura che conosce quindi vicende travagliate e nuovi sviluppi.
Gli intellettuali, dal canto loro, scelgono un diverso atteggiamento: alcuni si allineano al Potere e, conformisticamente, escogitano giustificazioni per avallare la repressione; altri, e sono i meno, scelgono di battersi in nome dei diritti conculcati della ragione e della coscienza, pronti ad affrontare, per questo, anche l'esilio e la reclusione.
Le tensioni sempre più aspre create dalla politica imperialistica e coloniale tra le grandi potenze europee; le contraddizioni insite nel sistema capitalistico, fonti di conflitti sociali spesso accesi e violenti; il successo dell'ideologia marxista che favorisce la maturazione nel proletariato di una coscienza di classe sempre più solida, il clima politico e sociale nell'insieme fanno sì che si vada approfondendo, soprattutto tra le giovani generazioni, una crescente insoddisfazione per la cultura positivista, che giunge al rifiuto consapevole di ogni forma di razionalismo.
Viene meno l'ottimismo positivista, la fiducia nel progresso inarrestabile dell'umanità e subentra, per contro, un pessimismo che sfocia spesso nell'attesa di qualche imminente catastrofe o sciagura (pessimismo per altro accentuato dalle due guerre mondiali), di cui si trova traccia nelle principali opere dell'epoca (Pirandello, Kafka, Mann, Svevo ecc..)
Arte e filosofia convergono i loro interessi ora sull'uomo, sulla centralità dell'uomo come soggetto, insorgendo contro l'accentuata trasformazione tecnologica e il dominio conoscitivo della scienza.
Tornano in primo piano i problemi dell'interiorità, del destino, della funzione dell'uomo nel mondo, mondo in cui l'uomo si muove spinto da recondite sollecitazioni che sfuggono a ogni regolamentazione: si passa in sintesi dal razionalismo all'irrazionalismo, fenomeno che concerne in generale tutta la cultura del primo Novecento, che si concretizza in quella vasta corrente denominata "Decadentismo", di cui abbiamo già trattato, e che aveva inoltre trovato precedenti nelle correnti filosofiche dell'irrazionale sorte negli ultimi decenni dell'Ottocento (intuizionismo di Bergson, superomismo di Nietzsche per citarne solo alcuni).
In realtà, il sopravvento dell'irrazionalismo è in stretta relazione con la crisi di quegli ideali che avevano costituito il vanto dell'espansione e del primato della borghesia, la quale ormai cominciava a perdere slancio e fiducia nei propri miti anche per le ragioni su esposte.
Nella società industriale gli scrittori si sentono emarginati, il contrasto tra uomo e società, in particolare intellettuale e società si inasprisce sempre di più; allora il poeta invano ricerca la propria funzione, un nuovo rapporto con il pubblico; anziché adoperarsi per offrire soluzioni alle contraddizioni socio-culturali del tempo gli scrittori si sottraggono all'impegno rifugiandosi nell'irrazionalismo e nell'attivismo (D'Annunzio e Futuristi), ora invece si schierano con la borghesia meno evoluta nella ricerca di soluzioni autoritarie (si pensi al caso Dreyfus in Francia, o all'ondata reazionaria di fine secolo in Italia)
Il primo quindicennio del Novecento è un periodo di vivi fermenti non solo in ambito letterario, ma anche in ambito politico: il - sia pur tardo - processo di industrializzazione e il conseguente accentuarsi dei conflitti di classe, il progressivo formarsi di un'opinione pubblica nazionale, la maggiore conoscenza delle esperienze culturali straniere, sollecitata dal decadentismo, sono alla base di questa particolare 'vivacità' del periodo, vivacità che trova nelle riviste canali e strumenti di espressione particolarmente efficaci.
Varie riviste, che operarono a Firenze, esercitarono un notevole influsso sulla cultura italiana. La loro funzione fu essenzialmente quella di rinnovare la cultura e di trasformare anche, in qualche modo, il costume nazionale.
Il Leonardo, fondato nel 1903 da Papini e Prezzolini, partendo da posizioni dannunziane e nietzschiane, approdò alla filosofia del pragmatismo ed affermò l'esigenza di una letteratura viva ed aderente alla realtà.
Pubblicata con varia periodicità dal 1903 al 1907, si distingue per le suggestioni dannunziane che accoglie, per le sprezzanti posizioni antidemocratiche e antisocialiste, per la polemica contro il positivismo. Al «Leonardo» - come dichiarava il direttore sul primo numero - aveva dato vita «un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale [] pagani ed individualisti, amanti della bellezza e dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e delle vita piena, nemici di ogni forma dì pecorismo nazareno e servitù plebea».
Di chiarezza ideologica, al di fuori del superomismo pagano anticristiano («pecorismo nazareno») e antidemocratico («servitù plebea») la rivista ne ebbe poca, ma probabilmente fu questo a permetterle di ospitare voci che, in direzioni disparate, cercavano la novità, e di allargare, con interessi verso le manifestazioni straniere, gli orizzonti culturali dell'Italia giolittiana.
Ad essa va il merito di aver fatto conoscere in Italia opere e filosofi altrimenti sconosciuti (il misticismo di Novalis, l'intuizionismo di Bergson, la filosofia dell'azione di Blondel).
Quando però cominciò ad avere un orientamento prevalentemente filosofico, Antonio Borgese, di soli vent'anni, si staccò dal gruppo per creare nel 1904 la rivista Hermes.
Priva però della capacità e della vitalità culturale del Leonardo, come della definita funzione politica del Regno, comunque che anche Hermes si colloca nell'ambito delle suggestioni dannunziane (delle quali proprio il direttore, Borgese, avrebbe fatto un'inclemente demistificazione nel suo Rubé del 1921). I suoi collaboratori si autodefiniscono «imperialisti» e sulle sue pagine viene vaticinato «un prossimo risorgimento di tutte le attività nazionali; tanto intellettuali quanto fantastiche, così politiche come industriali ed economiche».
È comunque Il Regno la rivista, fondata da Enrico Corradini alla fine del 1903, espressione dei più accesi spiriti nazionalistici e antidemocratici; è sulle sue pagine che si comincia a parlare di «missione africana» dell'Italia, e della Francia come della «rivale naturale» nel Mediterraneo, ed è in essa che si insiste sulla concezione di uno Stato come strumento per la realizzazione dei «migliori».
In altre parole, l'esaltazione della forte personalità la mitologia individualistica - alle quali avevano contribuito il decadentismo, l'interpretazione 'sociale' delle teorie di Darwin, Nietzsche e parecchi altri fattori - ora non sono concepite come antagonistiche nei riguardi dello Stato, e trovano invece in uno Stato autoritario al servizio dei migliori lo strumento per meglio realizzarsi ed espandersi.
È chiaro che da una prospettiva simile gli obiettivi polemici sono
il socialismo, i principi democratici e persino certe posizioni di cattolici
avanzati, come ad esempio don Romolo Murri, nei riguardi dei quali Papini -
con una posizione autenticamente 'forcaiola' - scriveva: «Essi vanno
rodendo quello che c'era di più saldo nel popolo non ancora impestato: il
rispetto dell'autorità, del
prete e del padrone».
La più importante rivista del periodo è però La Voce che Giuseppe Prezzolini fonda nel dicembre del 1908 (durerà silo al 1916).
Definire sinteticamente la fisionomia non è facile, anche perché essa ebbe varie fasi, cioè direttori e orientamenti diversi.
Anche da questi rapidi accenni risulta evidente l'eterogeneità di posizioni e di interessi di questa che è tuttavia la più importante rivista del periodo: «è una verità, come è stato detto, affermare che sulle colonne della 'Voce' si trovarono fianco a fianco i nomi dei futuri persecutori e dei futuri perseguitati, uniti ancora in quella prima confusa elaborazione di motivi culturali novecenteschi».
Carattere decisamente politico ebbe invece, l'Unità, fondata da Salvemini,
nel 1912 dopo il suo dissenso con i vociani sull'impresa libica (e pubblicata
sino al 1920): concreta e pragmatica come la personalità del direttore
d'altronde), «divenne in breve il cenacolo di quanti rifuggendo dalla moda del
dannunzianesimo e dalle astrattezze idealistiche intendevano approfondire lo
studio della realtà che li circondava».
Da segnalare il fatto che la rivista si pone su posizioni interventiste, in occasione del primo conflitto mondiale, per ragioni però del tutto diverse rispetto alle posizioni di altri interventisti: la partecipazione dell'Italia alla guerra è considerata favorevolmente in quanto la Germania è giudicata pericolosa per la sua politica imperialistica e quindi da "ridimensionare".
Eterogenea nei suoi interessi, volutamente eccessiva, iconoclastica, 'futurista' fu Lacerba, fondata da Papini e Ardengo Soffici nel 1913 (durerà fino al 1915); in essa parecchi autori (tra cui Palazzeschi) espressero il loro momento più vistosamente futurista e Papini esibì il suo ribellismo (famigerato l'articolo Vogliamo la guerra!). Gobetti a questo proposito parlerà di «letteratura canagliesca».
Fu particolarmente attiva sulle posizioni interventiste, al punto che all'entrata dell'Italia in guerra, nel 1915, la rivista fu sciolta, avendo assolto al suo compito.
In un saggio del 1911 su tre poeti, e precisamente Marino Moretti, Fausto Martini, Carlo Chiaves, Giuseppe Antonio Borgese definiva « crepuscolare » la loro poesia; ed al fine di precisare il valore da attribuirsi al termine usato nei loro confronti, affermava che la nostra grande "giornata lirica", iniziata da Parini, si andava con essi spegnendo "in un mite e lunghissimo crepuscolo".
L'immagine ebbe fortuna, perché sembrò che si prestasse bene ad indicare un particolare atteggiamento della poesia italiana nel primi anni del secolo, dettato dalla crisi spirituale del tempo, testimoniata da quei poeti che non vollero e non seppero allacciare alcun rapporto concreto e costruttivo con la realtà sociale, che rifiutarono ogni aggancio con la tradizione culturale.
Questi poeti, ripiegando su se stessi a compiangersi d'esser nati, in attesa della morte, cantarono gli aspetti più banali ed insignificanti del quotidiano, avvolgendo uomini e cose in una nuvola di malinconia, prediligendo sentimenti intimi ed imprecisi, l'ostentazione della mediocrità dei temi, la prosaicità dell'espressione.
Privi di fede e di speranza, i crepuscolari si rifugiarono nel grigiore delle cose comuni, quasi col pudore di chi vuol nascondersi agli occhi degli altri per non farsi veder piangere.
Da un'iniziale connotazione negativa, il termine andò quindi a designare quell'esperienza letteraria che conclude, esaurendone la crisi, la tradizione dei maestri del tardo Ottocento, aprendo le vie ad una nuova tematica e a nuovi moduli espressivi, che segnano l'inizio della poetica del Novecento.
I crepuscolari, seconda generazione di poeti decadenti, muovono da Pascoli, per l'amore verso le umili cose, per il simbolismo, in parte per la poetica del fanciullino.
Per loro, tuttavia, le piccole cose non sono quelle della natura, ma gli oggetti degli interni borghesi ("le piccole cose di cattivo gusto": l'orologio, il quadro, la conchiglia, le vecchie case decadenti ecc.), caricati di un simbolismo che rimanda spesso al tema della morte.
Da D'Annunzio riprendono lo stile prezioso e raffinato del Poema paradisiaco.
Tra di loro annoveriamo Marino Moretti, Corrado Govoni, Fausto Maria Martini, ma le voci più autentiche e significative sono quelle di Sergio Corazzini e Guido Gozzano
Sergio Corazzini nacque a Roma nel 1887 e visse un'infanzia assai triste e in assoluta povertà per il fallimento del padre. Poco più che adolescente fu costretto ad impiegarsi in una compagnia di assicurazioni per far fronte alle più indispensabili necessità della vita, vedendo così crollare ad uno ad uno tutti i sogni dell'infanzia. Ammalatosi di tisi, morì a soli venti anni.
Dalla sua unica raccolta di poesia, citiamo la prima ed ultima strofa di "Desolazione del povero poeta sentimentale":
Perché tu
mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: io non ho che lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
Oh, io sono veramente
malato!
E muoio un poco ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.
Si intravede in tali versi una tematica ricorrente anche in Gozzano: il rifiuto del ruolo di poeta, per la ricerca di semplicità, di genuinità e autenticità.
Guido Gozzano nacque ad Aglié, in provincia di Torino, nel 1883. Abbandonati gli studi di giurisprudenza, si dedicò interamente alla letteratura e pubblicò due raccolte di versi, "La via del rifugio" (1907) e "I Colloqui" (1911).
L'opera sua più importante, però, è il libro in prosa che descrive il suo viaggio in India, ove era andato nella speranza di guarire dalla tisi: "Verso la cuna del mondo". Morì a soli trentatré anni, lasciando ancora da pubblicare due raccolte di novelle ("L'ultima traccia" e "L'altare del passato") e due raccolte di fiabe ("La principessa si sposa" e "I tre talismani").
"La sua - afferma Pazzaglia - potrebbe essere chiamata poesia dell'assenza, della vita mancata, d'una stanca aridità, conseguita al crollo dei miti fastosi romantici o dannunziani e approfondita da quel suo sentirsi morire giorno per giorno. Egli resta perplesso davanti all'assurdità della vita e del suo stesso io ed esprime il suo tormento ora abbandonandosi ad un cinismo spinto fino alla crudeltà, ora insistendo sulla propria disperata aridità sentimentale".
Peculiare alla poesia del Gozzano è quella vena sottile ironica con cui tenta celare la sua profonda desolazione a causa di una esistenza che gli appare inaccettabile e che egli non sa in alcun modo ravvivare, l'incapacità di aderire alla vita. Da tale consapevolezza anche il rifiuto del ruolo di poeta, in quanto l'intellettuale vive una vita fittizia, l'arte, e non è capace di vivere autenticamente, pur avendone il desiderio. Di qui anche l'esaltazione della vita provinciale, delle persone semplici, come la signorina Felicita, dell'infanzia (di cui testimoniano le sue numerose fiabe per bambini, come, ad esempio, I due talismani , La principessa si sposa ).
Se leggano, a conferma di quanto detto finora, i seguenti versi tratti da La signorina Felicita ovvero la Felicità (VI)
Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l'aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte
Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d'essere un poeta!
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t'han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi E non mediti Nietzsche
Mi piaci. Mi faresti più felice
d'un'intellettuale gemebonda
Tu ignori questo male che s'apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.
Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista
Ed io non voglio più essere io!
La vita di provincia è dal poeta incorniciata in immagini in cui figure e vicende sono situate in una visione atemporale; dalla capacità rappresentativa di cose vecchie e polverose, di cattivo gusto, di paesaggi, di figure femminili graziose, sono testimonianza le più note composizioni, tra cui ricordiamo L'amica di Nonna Speranza, e la già ricordata La signorina Felicità.
Il motivo più profondo della poesia di Gozzano è l'angoscia della morte, angoscia che gli fa prediligere, per la sua atemporalità simbolica, il mondo dei pappagalli impagliati, delle noci di cocco, delle conchiglie .
Per la presenza nella sua poesia di quel distacco dalla materia trattata, per l'impasto verbale tra l'aulico e il prosaico, egli apre la via alla migliore poesia del Novecento.
I Futuristi si collocano agli antipodi dei crepuscolari. Sempre nell'ambito della seconda generazione di poeti decadenti, si può affermare che essi proseguano il filone inaugurato da D'Annunzio.
Il movimento nasce ufficialmente il 20 febbraio del 1909, con la pubblicazione su Le Figarò di Parigi del Manifesto e fondazione del Futurismo che vede come autore il caposcuola, Filippo Tommaso Martinetti.
Nato sulla scia del Dannunzianesimo, il Futurismo si inserisce nella cosiddetta età giolittiana, periodo di importantissime riforme e di ammodernamento della società italiana, ma anche di spinte imperialistiche a cui l'Italia giolittiana non può restare estranea.
Dopo le necessarie trattative diplomatiche, il Primo Ministro dello Stato Giovanni Giolitti si risolve ad attuare l'occupazione della Libia, soprattutto per soddisfare il fervido movimento interventista e nazionalista raccoltosi attorno alla rivista Il Regno.
Al dibattito delle riviste fiorentine, che incarnano ideologie e movimenti irrazionalistici dovuti alla caduta del Positivismo e al subentrare del Decadentismo, hanno parte attiva gli stessi futuristi con la rivista Lacerba che vede come fondatori Papini e Soffici, ma che pubblicò gli scritti e i manifesti dei futuristi, dei quali ricordiamo Martinetti, Boccioni, Carrà, Rossolo, Balla e Severini; è da ricordare che l'ultima battaglia de Lacerba fu a favore dell'interventismo e della mobilitazione alla prima Guerra Mondiale e che, dopo lo scoppio di quest'ultima, Lacerba chiuse perché raggiunse il suo obiettivo, appunto la guerra "unica igiene del mondo".
Anche i futuristi rifiutano la tradizione ed il conformismo borghese, ma in nome di un dinamismo vitale che doveva rispecchiare la nascente civiltà tecnologica e industriale.
Affascinati soprattutto dalla velocità imposta dalle macchine al ritmo della vita, essi esaltarono il rischio, l'avventura, il vigore, il fascino dell'ignoto da scoprire, ed affermarono che sulla Terra non poteva esserci posto per i deboli e per gli inetti: ecco perché definirono la guerra la "sola igiene del mondo", perché essa spazza via le scorie dell'umanità e seleziona i forti da destinare ad una vita sempre più fiera e veloce.
A differenza dei crepuscolari che vissero appartati e quasi incogniti a se stessi, i Futuristi si raccolsero in una vera e propria "scuola", stilarono un ben preciso programma, organizzarono una ben nutrita pubblicità intorno alle loro idee, servendosi di riviste ("Lacerba"), ma soprattutto di incontri-dibattiti che effettuavano periodicamente nei teatri con tono volutamente provocatorio nei confronti del pubblico.
Fondatore e caposcuola del Futurismo è il già menzionato Filippo Tommaso Marinetti
Nato ad Alessandria d'Egitto nel 1876, studiò a Parigi e lì iniziò l'attività letteraria componendo poesie in lingua francese. Nel 1909 pubblicò su "Le Figaro" il "Manifesto del Futurismo"[1]. Trasferitosi definitivamente in Italia, pubblicò il "Manifesto tecnico della letteratura futurista" (1912), cui fece seguire altri manifesti aggiuntivi.
Acceso sostenitore della guerra, fece parte degli interventisti all'epoca della prima guerra mondiale e poi seguì ciecamente il Mussolini, che lo nominò Accademico d'Italia. Restò fedele al Duce anche dopo la sua caduta, seguendolo nella Repubblica di Salò. Morì nel 1944.
Fra le sue numerose opere ricordiamo: "Mafarka il futurista" (romanzo, 1910), "Zang Tumb Tumb" (parole in libertà, 1914), "Spagna veloce e toro futurista" (1931), "La grande Milano tradizionale e futurista" (postumo) e "Una sensibilità italiana nata in Egitto" (postumo).
Ma cosa proclamava il primo manifesto futurista del 1909?
Esso vede come parole d'ordine la distruzione dei musei, delle biblioteche, delle Accademie, esaltando al contrario l'amor del pericolo, il coraggio, l'audacia, la ribellione, anteponendo alla bellezza dell'arte classica (codificata nella famosa statua ellenistica la Vittoria di Samotracia) la macchina, la velocità, la guerra "unica igiene del mondo".
Quindi un pensiero che riprende anche temi cari a D'Annunzio, ma li supera in una concezione più moderna ed anticlassica.
Martinetti passa decisamente alla celebrazione della città, della vita moderna caratterizzata dal trionfo dell'energia, della violenza, della volontà capitalistico-imperialista, della bellezza della lotta e del rischio, del dominio tecnologico sulla natura.
Il Futurismo, quindi, è la glorificazione di questo futuro, già cominciato.
Vale la pena riportare il testo integrale del "Manifesto del Futurismo", pubblicato su "Le Figaro" nel 1909:
Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.
Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia
La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità penosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta attraversa la Terra, lanciate a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
Bisogna che il poeta si prodighi con ardore, sfarzo e magnificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.
Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere conseguita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a protrarsi davanti all'uomo.
Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli ! Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare misteriose porte dell' impossibile? Il tempo e lo spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violenti lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorni fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, le locomotive dell'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.
E' dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il Futurismo, perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologi, di ciceroni e d'antiquarii.
Tali linee generali trovano riscontro nei vari manifesti programmatici, dal Manifesto tecnico della letteratura futurista al Manifesto dei pittori futuristi a cui naturalmente seguirà il Manifesto tecnico della pittura futurista.
Il Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912, firmato da Marinetti, propone una nuova poetica fondata sulla negazione della tradizione e dei languori sentimentali dell'arte del passato.
Propone inoltre la distruzione della sintassi e le parole in libertà (simultaneità fra impressione ed espressione, estremizzazione della parola autonoma tipica della poetica decadente); i sostantivi vanno disposti a caso, con il verbo all'infinito, gli aggettivi, gli avverbi e la punteggiatura vanno aboliti per una immaginazione senza fili ove le immagini si snodano secondo una analogia spontanea, non più secondo fili sintattici.
Forse si può affermare che, in questo senso, riescono meglio la pittura o il cinematografo a realizzare lo sforzo futurista della libertà espressiva e della contemporaneità delle immagini; infine vi è l'introduzione di tre nuovi elementi: peso, rumore, odore.
Riportiamo la parte più interessante del testo originale:
1. Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
2. Si deve usare il verbo all'infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all'io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all'infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l'elasticità dell'intuizione che la percepisce.
3. Si deve abolire l'aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L'aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è incompatibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.
4. Si deve abolire l'avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l'una all'altra le parole. L'avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
5. Ogni sostantivo deve avere il
suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione, dal
sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera,
donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto.
Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza del mondo, la
percezione per analogia diventa sempre più naturale per l'uomo. Bisogna dunque
sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna
fondere direttamente l'oggetto coll'immagine che esso evoca, dando l'immagine
in iscorcio mediante una sola parola essenziale.
6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo, che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s'impiegheranno i segni della matematica: +--x: = > <, e i segni musicali.
7. Gli scrittori si sono abbandonati finora all'analogia immediata. Hanno paragonato per esempio l'animale all'uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press'a poco, a una specie di fotografia. Hanno paragonato per esempio un fox-terrier a un piccolissimo puro-sangue. Altri, più avanzati, potrebbero paragonare quello stesso fox-terrier trepidante, a una piccola macchina Morse. Io lo paragono, invece, a un'acqua ribollente. V'è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi.
L'analogia non è altro che l'amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico e polimorfo, può abbracciare la vita della materia.
Quando, nella mia Battaglia di
Tripoli, ho paragonato una trincea irta di baionette a un'orchestra, una
mitragliatrice a una donna fatale, ho introdotto intuitivamente una gran parte
dell'universo in un breve episodio di battaglia africana.
Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia, come
diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia
deve essere un seguito ininterrotto d'immagini nuove, senza di che non è altro
che anemia e clorosi.
Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo esse conservano la loro forza di stupefazione. Bisogna - dicono - risparmiare la meraviglia del lettore. Eh! via! Curiamoci, piuttosto, della fatale corrosione del tempo, che distrugge non solo il valore espressivo di un capolavoro, ma anche la sua forza di stupefazione. Le nostre orecchie troppe volte entusiaste non hanno forse già distrutto Beethoven e Wagner? Bisogna dunque abolire nella lingua ciò che essa contiene in fatto d'immagini stereotipate, di metafore scolorite, e cioè quasi tutto.
8. Non vi sono categorie d'immagini, nobili o grossolane, eleganti o volgari, eccentriche o naturali. L'intuizione che le percepisce non ha né preferenze né partiti-presi. Lo stile analogico è dunque padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita.
9. Per dare i movimenti successivi d'un oggetto bisogna dare la catena delle analogie che esso evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola essenziale. Ecco un esempio espressivo di una catena di analogie ancora mascherate e appesantite dalla sintassi tradizionale. «Eh sì! voi siete, piccola mitragliatrice, una donna affascinante, e sinistra, e divina, al volante di un'invisibile centocavalli, che rugge con scoppi d'impazienza. Oh! certo, fra poco balzerete nel circuito della morte, verso il capitombolo fracassante o la vittoria! Volete che io vi faccia dei madrigali pieni di grazia e di colore? A vostra scelta, signora Voi somigliate, per me, a un tribuno proteso, la cui lingua eloquente, instancabile, colpisce al cuore gli uditori in cerchio, commossi Siete in questo momento, un trapano onnipotente, che fora in tondo il cranio troppo duro di questa notte ostinata Siete, anche, un laminatoio, un tornio elettrico, e che altro? Un gran cannello ossidrico che brucia, cesella e fonde a poco a poco le punte metalliche delle ultime stelle!» (Battaglia di Tripoli.)
In certi casi bisognerà unire le
immagini a due a due, come le palle incatenate, che schiantano, nel loro volo
tutto un gruppo d'alberi. Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più
fuggevole e di più inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette
reti d'immagini o analogie, che verranno lanciate nel mare misterioso dei
fenomeni. Salvo la forma a festoni tradizionale, questo periodo del mio Mafarka
il futurista è un esempio di una simile fitta rete d'immagini:
«Tutta l'acre dolcezza della gioventù scomparsa gli saliva su per la gola, come
dai cortili delle scuole salgono le grida allegre dei fanciulli verso i vecchi
maestri affacciati al parapetto delle terrazze da cui si vedono fuggire sul
mare i bastimenti». Ed ecco ancora tre reti d'immagini:
«Intorno al pozzo della Bumeliana, sotto gli olivi folti, tre cammelli comodamente accovacciati nella sabbia si gargarizzavano dalla contentezza, come vecchie grondaie di pietra, mescolando il ciac-ciac dei loro sputacchi ai tonfi regolari della pompa a vapore che dà da bere alla città. Stridori e dissonanze futuriste, nell'orchestra profonda delle trincee dai pertugi sinuosi e dalle cantine sonore, fra l'andirivieni delle baionette, archi di violini che la rossa bacchetta del tramonto infiamma di entusiasmo E il tramonto-direttore d'orchestra, che con un gesto ampio raccoglie i flauti sparsi degli uccelli negli alberi, e le arpe lamentevoli degli insetti, e lo scricchiolio dei rami, e lo stridio delle pietre. È lui che ferma a un tratto i timpani delle gamelle e dei fucili cozzanti, per lasciar cantare a voce spiegata sull'orchestra degli strumenti in sordina, tutte le stelle dalle vesti d'oro, ritte, aperte le braccia, sulla ribalta del cielo. Ed ecco una gran dama allo spettacolo Vastamente scollacciato, il deserto infatti mette in mostra il suo seno immenso dalle curve liquefatte tutte verniciate di belletti rosei sotto le gemme crollanti della prodiga notte». (Battaglia di Tripoli.)
10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell'intelligenza cauta e guardinga, bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine.
11. Distruggere nella letteratura
l'«io», cioè tutta la psicologia. L'uomo completamente avariato dalla
biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose,
non offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella
letteratura, e sostituirlo finalmente colla materia, di cui si deve afferrare
l'essenza a colpi d'intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i fisici né
i chimici.
Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi la
respirazione, la sensibilità e gl'istinti dei metalli, delle pietre, del legno,
ecc. Sostituire la psicologia dell'uomo, ormai esaurita, con l'ossessione
lirica della materia.
Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma indovinate
piuttosto i suoi differenti impulsi direttivi, le sue forze di compressione, di
dilatazione, di coesione e di disgregazione, le sue torme di molecole in massa
o i suoi turbini di elettroni. Non si tratta di rendere i drammi della materia
umanizzata. È la solidità di una lastra d'acciaio, che c'interessa per se
stessa cioè l'alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole o dei suoi
elettroni, che si oppongono, per esempio, alla penetrazione di un obice. Il
calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante, per noi, del
sorriso o delle lagrime di una donna.
Noi vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore, nuovo animale istintivo del quale conosceremo l'istinto generale allorché avremo conosciuti gl'istinti delle diverse forze che lo compongono.
Per comprendere concretamente l'attuazione di tali principi, sarà utile un esempio di "parole in libertà" tratto da "ZangTumb Tumb" (Assedio di Adrianopoli) dello stesso Marinetti:
«Ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrrrare spazio con un accordo ZZZANG TUMB TUM ammutinamento di cento echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all'infiiiiiinito del centro di quel zzzang tumb spiaccicato (ampiezza 50 Kmq.) balzare scoppi tagli pugni batterie tiro rapido Violenza ferocia re-go-la-ri-tà questo basso grave scandere strani folli agitatissimi acuti della battaglia».
Aderirono al Futurismo, sia pure per poco, Giovanni Papini, Ardengo Soffici e Aldo Palazzeschi.
Le cose più interessanti, tuttavia, analizzando il movimento, furono realizzate, forse, nel campo delle arti figurative.
Ricordiamo l'architettura di Antonio Sant'Elia, e soprattutto i cinque firmatari definitivi del Manifesto della pittura futurista: Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini e, non meno importanti, Fortunato Depero, Enrico Prampolini ed altri.
Questi artisti affrontano, ognuno con metodi e soluzioni originali, i temi della velocità e del movimento; essi non intendono limitarsi ad una semplice riproduzione naturalistica della realtà, ma vogliono tentare di rappresentarla in movimento e di raffigurare, inoltre, il dinamismo universale, cioè l'energia, il moto interno proprio della materia, attraverso l'uso di colori forti, pennellate frammentarie, la scomposizione di piani, linee, volumi, la caotica sovrapposizione e il vorticoso intreccio di figure, oggetti, automobili, strade, edifici.
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