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Il poeta di fronte all'universo




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Il poeta di fronte all'universo











L'esito della conoscenza scientifica non è quello di soffocare l'originale senso di mistero e di meraviglia che il genio dell'artista esprime in modo immediato. Al contrario, la scienza consente di approfondire l'esperienza della bellezza del mondo. Le scoperte scientifiche rinnovano la vertigine che l'essere umano prova di fronte alla vastità del reale. Al tempo stesso esse permettono di cogliere legami sempre più stretti e inaspettati tra la nostra esistenza e la struttura e la storia della realtà fisica, in ogni suo aspetto.

Letteratura italiana

G. Leopardi, "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia".






































 


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l'ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e piú e piú s'affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch'arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu vòlto: abisso orrido, immenso, ov'ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale è la vita mortale.


















































  Nasce l'uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell'esser nato. Poi che crescendo viene, l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core, e consolarlo dell'umano stato: altro ufficio piú grato non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, perché da noi si dura? Intatta luna, tale è lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sí pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir dalla terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera, a chi giovi l'ardore, e che procacci il verno co' suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, che son celate al semplice pastore. spesso quand'io ti miro star cosí muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano, al ciel confina; ovver con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? che fa l'aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? Cosí meco ragiono: e della stanza smisurata e superba, e dell'innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d'ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male.






















































  O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno quasi libera vai; ch'ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma piú perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, tu se' queta e contenta; e gran parte dell'anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, e un fastidio m'ingombra la mente, ed uno spron quasi mi punge sí che, sedendo, piú che mai son lunge da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. se tu parlar sapessi, io chiederei: - Dimmi: perché giacendo a bell'agio, ozioso, s'appaga ogni animale; me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, piú felice sarei, dolce mia greggia, piú felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dí natale

Il "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" è l'espressione di uno sguardo verso l'alto da parte del poeta alla ricerca del senso della vita umana e cosmica. Il Canto si struttura in sei strofe, in ognuna delle quali il poeta si riferisce ad un ambito particolare dell'esistenza, fino ad una massima estensione del campo nei versi 84-89, dove il pastore (e quindi lo stesso Leopardi, per la tecnica dello straneamento) rivolge lo sguardo all'intero cielo stellato e si chiede, senza ottenere alcuna risposta, il motivo di una tale bellezza ("A che tante facelle?"), e la funzione delle stelle, dell'"aria infinita e del profondo infinito seren", si interroga sul significato dell'"immensa solitudine" in cui riversa la sua vita e infine, al termine di questi pregnanti versi, si interroga sul suo io e sulla sua esistenza ("ed io, che sono?"). La prima strofa presenta un campo più ristretto: il poeta si rivolge alla luna cercando inizialmente di impostare un parallelismo tra la condizione dell'uomo-pastore ("che sorge in sul primo albore; move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera; altro mai non ispera.") e quella della luna ("somiglia alla tua vita la vita del pastore"), che però verrà subito smentito con gli ultimi versi della strofa, in cui il contrasto tra il corso immortale della luna e il vagar breve del pastore è particolarmente evidenziato. È come se il pastore, nel suggestivo paesaggio notturno, credesse che la luna, in quanto in una posizione superiore rispetto all'uomo, potesse capire dall'alto il motivo della vita umana, costituita in maggior parte da dolore e noia. Particolarmente indicativa della concezione della vita umana come unicamente costituita da inutili sofferenze è la seconda strofa, che contiene il racconto da parte del poeta di come la vita dell'uomo si svolga sulla terra. L'uomo è paragonato ad un "vecchierel bianco", che "con gravissimo fascio sulle spalle, per sassi acuti, ed alta rena e fratte, corre via, anela senza posa o ristoro; infin ch'arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov'ei precipitando, il tutto obblia". L'uomo, dopo una vita di stenti, sofferenze, dolore per la ricerca di un senso che ultimamente sfugge arriva alla fine del suo percorso senza aver raggiunto il suo scopo, e non gli resta altro che sprofondare nell'abisso orrido e immenso che rappresenta il non-senso della sua vita. La terza strofa risale invece al dolore che accompagna la nascita dell'uomo, affermando che la sola funzione dei genitori è quella di "consolarlo dell'umano stato"; pone poi nuove domande sul motivo dell'attaccamento dell'uomo alla vita, se essa è unicamente sofferenza (la vita della luna invece non è totale sofferenza: essa è intatta, ovvero non toccata dal dolore, che è proprio dello stato mortale; "ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale": il contrasto tra la condizione del pastore e quella della luna si inacutisce). La quarta strofa contiene il nodo ideologico del canto di cui ho parlato all'inizio di questa presentazione; la luna viene fortemente chiamata in causa (con la forte insistenza del pronome di seconda persona). Il pastore si interroga sul sapere della luna, su quanto l'astro conosce del senso dell'essere, giungendo alla constatazione del proprio limitato ma terribile sapere, che si risolve solo nelle parole che concludono la strofa: "a me la vita è male", e per questa pessimistica concezione del valore della vita umana arriva ad invidiare la condizione inconsapevole della vita della sua gregge. Emblematica è l'ultima breve strofa, in cui Leopardi esprime l'utopico desiderio di raggiungere la felicità volando sulle nubi per "noverar le stelle ad una ad una": ma la fuga dai limiti dell'essere umano è un'illusione, è impossibile, irrealizzabile. La conclusione quindi è del tutto tragica: "è funesto a chi nasce il dì natale". 


La cosmologia nel paradiso di Dante

Differenti furono i motivi che spinsero Dante, nel quattordicesimo secolo, a rivolgere lo sguardo verso lo spazio infinito, con i suoi corpi luminosi, i suoi ritmi e la sua struttura. Nella Commedia le meraviglie del cosmo sulla cui bellezza si interroga Leopardi sono però funzionali ad esprimere la grandezza di Dio che le ha create, rendendone possibile la contemplazione.


Il primo di questi motivi è di tipo diretto ed esperienziale, in quanto dipende dalla sensazione di purezza che il poeta prova di fronte al cielo. Senza l'esperienza fisica di questo stupore originario l'autore non avrebbe potuto descrivere il cielo con una così grande accuratezza. Si tratta di esperienze pre-scientifiche: il cielo è prima di tutto uno spettacolo bellissimo. Esempi di questo possono essere:

o      Paradiso XXIII, 25-27

Quale nei plenilunii sereni

Trivia ride tra le ninfe etterne

che dipingon lo ciel per tutti i seni


In questa terzina il poeta descrive un plenilunio terso e sereno: la luna sfolgora nel cielo puntellato di stelle.

o      Paradiso XV, 13-18

Quale per li seren tranquilli e puri

Discorre ad ora ad or sùbito foco,

movendo li occhi che stavan sicuri,

e pare stella che tramuti loco,

se non che da la parte ond'è s'accende

nulla sen perde, ed esso dura poco:[.].


Qui Dante descrive invece una pioggia di meteoriti in un cielo lucido.

o      Paradiso XIV, versi 99-102

Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;

sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo.


o      Paradiso XXIV, versi 10-12

Così Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, a volte, a guisa di comete.


Lo stupore per il cielo stellato non resta tuttavia un fatto personale e pertanto occasionale, ma costituisce un dato strutturale di tutta la Commedia. La condizione generale dell'universo e, al centro di esso, la posizione della Terra non sono, infatti, dati da assumere scientificamente secondo lo sviluppo delle conoscenze del tempo: hanno un significato che va oltre la semplice astronomia. Nell'ultima parte del canto XXII Dante, fermatosi nel cielo delle Stelle fisse, offre una splendida raffigurazione vertiginosa del viaggio compiuto fino a quel momento: i sette cieli vengono nominati tutti, ma l'attenzione di Dante si appunta soprattutto sulla costellazione dei Gemelli, sotto la quale è nato, e sulla Terra. Essa risulta essere piccola, insignificante al confronto con il sistema grandioso dei cieli. La rassegna dei cieli e dei pianeti è costruita con le immagini del mito: l'elenco acquista così solennità rappresentando l'accresciuta sicurezza del pellegrino che riconosce familiarmente le componenti del cosmo. Ora Dante sa bene che non una ragione materiale come la maggiore o minore densità, ma una causa metafisica (l'irradiarsi della luce di Dio nell'Universo) crea l'effetto dei segni bui sulla faccia lunare visibile dalla Terra.

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante;

e quel consiglio per migliore approbo
che l'ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.

Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell' ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.

L'aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com' si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.

Quindi m'apparve il temperar di Giove
tra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;

e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.

L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom' io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli a le foci;

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.


Oltre al significato strutturale, le stelle e gli altri elementi cosmici rivestono un valore metaforico particolare nel Paradiso: "sole", "lume", "luci" e simili sono, infatti, anche metafore per "anime" e "beati", in quanto luminose presenze che si fanno incontro al pellegrino: le loro coreografie sono spesso paragonate a danze di costellazioni (canto X, 64-75).

Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti:

così cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l'aere è pregno,
sì che ritenga il fil che fa la zona.

Ne la corte del cielo, ond' io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
tanto che non si posson trar del regno;

e 'l canto di quei lumi era di quelle;
chi non s'impenna sì che là sù voli,
dal muto aspetti quindi le novelle.

Infatti chi, come Dante, dedicava molto tempo alle osservazioni notturne, aveva la sensazione che l'Universo danzasse attorno a lui, che le stelle non si muovessero soltanto in obbedienza ai loro moti meccanicamente ripetuti, ma anche seguendo coreografie improvvisate e irripetibili. Nel canto XXI Dante personaggio si trova di fronte ad una cascata di stelle lungo una scalinata d'oro, e si chiede se le stelle visibili dalla Terra traggano la luce proprio da lì.

Dentro al cristallo che 'l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,

di color d'oro in che raggio traluce
vid' io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.

Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

Ancora, per dire che S. Pietro divenne rosso per l'ira santa provocata in lui dallo spettacolo del tradimento della Chiesa, Dante ricorre ad un'immagine elaborata: il volto di Pietro diviene come diverrebbe il pianeta Giove se prendesse la colorazione di Marte (canto XXVII, 4-7; 10-15).

Ciò ch'io vedeva mi sembiava un riso
de l'universo; per che mia ebbrezza
intrava per l'udire e per lo viso.


Dinanzi a li occhi miei le quattro face
stavano accese, e quella che pria venne
incominciò a farsi più vivace,

e tal ne la sembianza sua divenne,
qual diverrebbe Iove, s'elli e Marte
fossero augelli e cambiassersi penne.

Anche la bellezza di S. Bernardo (canto XXXII, versi 106-108) viene paragonata ad un elemento cosmico: è come quella di Venere al mattino, reso luminoso dal Sole che tra poco sorgerà. Il Sole di Bernardo è Maria, la Madonna:

Così ricorsi ancora a la dottrina
di colui ch'abbelliva di Maria,
come del sole stella mattutina.

Nel canto XV, versi 13-20, l'anima beata di Cacciaguida che scende dalla croce dei beati è paragonata ad una stella cadente per la sua luminosità intensa ma effimera.

Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,

e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond' e' s'accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:

tale dal corno che 'n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;

Uomo del suo tempo, Dante non dimentica infine che il rapporto con le stelle indica, nella tradizione e nel linguaggio popolare, il rapporto col destino. Infatti, nonostante la vita travagliata che dovette condurre, Dante ritiene di essere nato in una condizione favorevole. Quando si accorge di entrare nel cielo delle Stelle Fisse (canto XXII) proprio nella costellazione dei Gemelli (versi 112-123) esplode in un grido di felicità.

O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e s'ascondeva vosco
quelli ch'è padre d'ogne mortal vita,
quand' io senti' di prima l'aere tosco;

e poi, quando mi fu grazia largita
d'entrar ne l'alta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita.

A voi divotamente ora sospira
l'anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira.

Gli elementi che compongono la volta celeste sono centrali e trasversali a tutta la Commedia, in particolar modo all'ultima cantica, il Paradiso. È noto infatti come le tre cantiche si chiudano sulla parola "stelle" e che, al medesimo "stelle" si leghino sia la prima apparizione di Beatrice nella Commedia (Inferno, II, 55), sia l'inizio del viaggio di Dante (Inf, I, 37-40). La conclusione dell'opera è in questo senso particolarmente significativa: propone un'armonica e amorosa fusione fra il rappresentante dell'umanità, Dante, e gli astri, l'abbraccio dell'intero creato.



















Letteratura inglese

J. Keats, "Bright Star"













John Keats belongs to the second generation of romantic poets. Like in so many of his poems, Keats is in "Bright Star" grappling with the paradox of the desire for permanence and a world of timelessness and eternity, represented by the star, while living in a world of time and flux. The paradox is resolved by the end of the poem: joy and fulfilment are to be found here; he needs no more. As Leopardi wrote in his poem "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia", Keats tries to identify himself with the star (he wishes to be as eternal as the star, which never changes), but he isn't able to do that: he expresses his desire for an ideal (to be as steadfast as a star) which cannot be achieved by a human being in this world of change or mutability, as he comes to realize at the end of the poem. The poet expresses this impossibility by asserting a negative ("not") in line 2, and in lines 2-8 he rejects qualities of the star's steadfastness. Even the religious imagery is associated with coldness and solitude; moreover, the star is cut off from the beauties of nature on earth. Once the poet eliminates the non-human qualities of the star, he is left with just the quality of steadfastness. He can now define steadfastness in terms of human life on earth, in the world of love and movement.The speaker seems to express the paradox of having love and immortality: unfortunately these two desires don't go together. To love he must be human, and therefore not an unchanging thing like the star. He seems to reveal an awareness of this in the final line of the poem. He wishes to live ever in love, but to be in love means to be human, which means that the speaker and the love he feels will change and eventually die. The only other possibility he can imagine is to "swoon to death". This can be interpreted to mean that he wishes to die at a moment when he is experiencing the ecstasy of love. The same topic of eternity and of reaching immortelity is discussed for example in his famous "Ode on a gracian urn", in which he tries to explain how art can participate in reaching immortality. The urn represents art, and so beauty. The ode celebrates the immortality of the urn, seen as a perfect work of art, and the immortality to be acquired through art. 


 















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